Autoferrotranvieri

Emblematico esempio di rottura della disciplina collaborazionista e della pace sociale

(«il comunista»; N° 89; Febbraio 2004)

 

E’ la prima lotta, quella degli autoferrotranvieri, a carattere nazionale, con caratteristiche classiste sebbene elementari, dopo tanto tempo.

Sono sostanzialmente tre le caratteristiche classiste elementari di questa lotta:

1) la rottura della pace sociale e della disciplina collaborazionista in merito all’autoregolamentazione degli scioperi;

2) la solidarietà fra proletari dei diversi depositi dei mezzi pubblici e delle diverse città a sostegno dei metodi anche duri e cosiddetti “illegali” di condurre la lotta; e la solidarietà, anche se solo dichiarata a parole, di proletari di altre categorie (ad es. i metalmeccanici a Milano);

3) la spinta all’organizzazione della lotta al di fuori delle solite deleghe ai collaborazionisti (utilizzo soprattutto delle assemblee nei posti di lavoro nelle quali si prendono le decisioni di volta in volta).

In questa lotta, ovviamente, era ed è presente l’influenza – anche organizzativa – dei sindacati confederali e del sindacalismo cosiddetto di base. Ciò significa che alcune caratteristiche immediatiste e opportuniste tipiche del sindacalismo tricolore erano e sono presenti anche in questa lotta. Ad es. la separazione fra gli “organizzatori” della lotta intransigente e i sindacalisti che sono andati al tavolo delle trattative (col governo, con le aziende del trasporto pubblico, con gli enti locali), fa parte di questa influenza negativa; come il lancio da parte dei confederali di un referendum per ottenere dai lavoratori della categoria il sì o il no all’accordo che la triplice sindacale ha firmato col governo a livello nazionale sugli 81 euro lordi di aumento mensile e di 970 euro lordi (tra l’altro erogabili in tre rate!) come una tantum a copertura degli arretrati; o come la separazione della trattativa fra parte nazionale, quella appunto già sottoscritta dai confederali, e parte locale come eventuale integrazione di quella nazionale, come è avvenuto ad esempio a Milano. D’altra parte, la stessa importanza assunta in questa lotta dalle assemblee dei lavoratori può essere deviata nel solco del sindacalismo tricolore, e in parte è avvenuto proprio attraverso il sindacalismo di base che ha continuato a mescolare indicazioni di sciopero rispettose dell’auto-regolamentazione e delle famose fasce orarie protette al sostegno della spinta allo sciopero ad oltranza che proveniva fortemente dalla base.

La combattività espressa in questa lotta ha basi materiali precise: condizioni salariali e lavorative via via peggiorate negli ultimi anni (diminuzione delle pause, aumento dei ritmi e della produttività, aumento della fatica e dello stress per i conducenti), un accordo contrattuale scaduto da due anni e non applicato in nessuna città dalle aziende del trasporto pubblico, ben 7 scioperi nazionali condotti dal sindacalismo tricolore ma del tutto inefficaci. Non va sottovalutata, inoltre, la tradizione di lotta della categoria. In questa categoria esiste anche una lunga tradizione di sindacalizzazione che ha prodotto, negli anni in cui la triplice sindacale ufficiale ha iniziato a perdere consensi e tesserati, la formazione – talvolta in forma consistente – del cosiddetto sindacalismo di base che andava raccogliendo frange di lavoratori più combattivi.

Questa lotta, per di più, appunto dopo 7 scioperi nazionali senza risultati, ha avuto una spinta spontanea tale che ha costretto sia il sindacalismo tricolore ufficiale di Cgil/Cisl/Uil, sia il sindacalismo “di base” tipo Cobas, Cisal ecc., a forzare in qualche modo la trattativa con il governo e con le aziende del trasporto pubblico per ottenere un risultato che fosse presentabile ai lavoratori; dunque per non perdere consenso fra i lavoratori (e perdere tessere, e un domani i tfr per i fondi pensione) e per non perdere “potere contrattuale” verso le controparti aziendali e governative. E’ solo dopo gli scioperi ad oltranza (infischiandosene anche delle precettazioni prefettizie) iniziati a Milano il 1° dicembre scorso, e diffusisi in tante altre città successivamente, che Cgil/Cisl/Uil vengono letteralmente spinte a trattare col governo. Ma la Triplice sindacale, come è sua abitudine, conduce la trattativa allo scopo di spezzare la lotta e far rientrare le agitazioni nelle famose regole e compatibilità; perciò, il 20 dicembre, firma un accordo “nazionale” che ritiene più che sufficiente a domare gli autoferrotranvieri in lotta (i famosi 81 euro – al posto dei 106 dovuti – da subito e 970 euro di una tantum per gli arretrati – al posto dei 2.900 euro chiesti dai lavoratori), e rilancia la trattativa a livello locale per le eventuali o possibili “integrazioni” rispetto ai famosi 106 euro di cui sopra. Ma questi lavoratori non si fermano, iscritti o no ai sindacati confederali o al sindacalismo di base: spingono per continuare la lotta, fino alla piena soddisfazione delle loro richieste (forti, in un certo senso, del fatto che non stanno chiedendo un “aumento”, ma solo quanto è dovuto secondo accordi sindacali già firmati e recepiti dagli accordi del 1993 sul recupero dell’inflazione programmata!). Gli scioperi sono ripresi nelle più diverse forme: ad oltranza per 2 giorni a Milano (il 12 e 13 gennaio), per 1 giorno a Monza, Brescia e Bergamo,per quel che abbiamo saputo attraverso informazioni via radio, e in altre città nei limiti dell’autoregolamentazione, in altre città ancora “rispettando il codice della strada” e dunque rallentando di molto le corse dei mezzi pubblici.

Attraverso una serie di interviste radiofoniche (Radio Popolare Network) è emerso un fatto: non dappertutto ma in diverse città (Milano compresa) sembra che gli scioperi ad oltranza – quindi in rottura con la disciplina sindacale e legale – una volta constatata nei diversi depositi la forte spinta dei conducenti a lottare anche contro le regole, siano stati in qualche modo coperti e organizzati dai delegati sindacali interni alla categoria, appartenenti non soltanto alle sigle del sindacalismo di base ma anche alla Triplice. Ciò non ha impedito ad altri delegati sindacali, soprattutto della Triplice, di fare il loro mestiere di disorganizzatori e di continuare a propagandare che la lotta doveva essere svolta nei limiti delle regole per non mettersi nelle condizioni di avere contro la “cittadinanza” e gli altri lavoratori che usano i mezzi pubblici per andare a lavorare, rischiando sanzioni anche pesanti. Mentre i vertici sindacali provinciali, regionali e nazionali continuavano a ribadire la posizione nettamente contraria alle forme di lotta dure adottate dai lavoratori.

Nei fatti, questa lotta ha in qualche modo messo in evidenza una crisi di un certo spessore nel sindacalismo tricolore: delegati sindacali confederali interni ai depositi che non se la sentono di non appoggiare e aiutare la lotta ad oltranza, delegati sindacali confederali esterni ai depositi che tentano invece di riportare la lotta nei binari della autoregolamentazione; e delegati sindacali del Sin-Cobas che accettano più apertamente il metodo della lotta ad oltranza – quando la spinta della base è molto forte – ma pronti a rientrare nei metodi del rispetto delle fasce orarie protette per non rischiare di andare contro la precettazione e conseguenti sanzioni. Il tutto condito dalla proposta della Triplice di andare ad un referendum tra gli autoferrotranvieri perché si pronuncino uno per uno sull’accettazione o meno dell’accordo del 20 dicembre 2003. Insomma, come si voleva dimostrare, i collaborazionisti – se non sono già sicuri di “vincere” – hanno costantemente paura di affrontare le assemblee dei lavoratori.

Il metodo dello sciopero improvviso e ad oltranza non fa parte della cultura e dei metodi del collaborazionismo, sia quello ormai “tradizionale” di Cgil/Cisl/Uil sia quello “alternativo” dei Cobas. Se questo metodo è stato usato è solo per la forte spinta della base, della loro spontanea ma nello stesso tempo cosciente accettazione dei rischi di queste forme di lotta. E’ un’ulteriore dimostrazione del materialismo marxista: sono le condizioni materiali di vita e di lavoro, la loro insopportabilità oltre un certo limite, che spingono i salariati a scendere in lotta con mezzi e metodi più efficaci – dunque più duri – di quelli fino ad allora usati ma rivelatisi del tutti inefficaci.

Il livello organizzativo di lotte di questo tipo – vista la disabitudine ad utilizzare forme di lotta classiste in cui il sindacalismo tricolore ha precipitato i proletari di tutte le categorie – è necessariamente “primitivo” (dunque non ci si può aspettare che già oggi da queste lotte sorgano organismi sindacali di classe sufficientemente maturi e duraturi), ma corrisponde evidentemente a quel processo – lungo, tortuoso, arduo e caratterizzato da spinte in avanti e da rinculi – di riorganizzazione classista cui il proletariato storicamente tende e al quale il partito di classe è chiamato a dare il suo indispensabile contributo. Va ribadito, infatti, che l’associazionismo economico immediato del proletariato potrà riorganizzarsi sul terreno di classe e acquisire carattere classista duraturo solo alla condizione che le sue avanguardie recepiscano le indicazioni classiste espresse dal partito; alla condizione che le sue avanguardie facciano proprie le lezioni classiste che solo il partito politico del proletariato può tirare dalla storia del movimento operaio. Per questo il partito di classe non può esimersi dall’intervenire praticamente nelle lotte operaie e negli spiragli che le lotte operaie materialmente aprono all’azione di classe del partito; per questo l’intervento del partito di classe non può limitarsi a lanciare indicazioni generiche sulla necessità della riorganizzazione classista del proletariato, ma deve prendersi la responsabilità di indicare obiettivi, metodi e mezzi di lotta coerenti con l’esclusiva difesa delle condizioni di vita e di lavoro proletarie e con la prospettiva della riorganizzazione classista del proletariato, partendo dalle lotte reali e dal livello in cui il proletariato muove effettivamente i suoi passi. Essere un passo avanti al proletariato, senza farsi trascinare nell’immediatismo e nell’intermedismo: questo è il compito del partito comunista, e in questo sta tutta la difficoltà della tattica del partito.

 

Una lezione anche per il partito

 

Perché nel volantino di partito non ci siamo limitati ad esprimere la piena solidarietà agli autoferrotranvieri nella loro lotta ad oltranza, ma abbiamo messo in risalto in particolare mezzi e metodi perché da questa lotta si traggano lezioni utili non solo per questa stessa lotta ma anche per altre lotte future di questa e di tutte le altre categorie operaie?

Perché è compito del partito portare alla lotta operaia indicazioni anche di carattere organizzativo coerenti con la prospettiva della riorganizzazione classista sul terreno immediato. Le difficoltà tattiche del partito di classe sono determinate dai limiti obiettivi della lotta immediata, e dal grado di maturazione della lotta classista sul terreno della lotta immediata. L’esperienza e le lezioni dal passato del movimento comunista aiutano il partito di classe a tracciare le indicazioni sul terreno della lotta immediata, ma non vi è certezza matematica – situazione per situazione – che queste indicazioni siano pienamente recepite dai proletari che lottano. E’ la lotta immediata stessa, in una certa misura, nel suo sviluppo e nel suo svolgimento, che porta e porterà il proletariato a porsi obiettivi e problemi organizzativi di più ampio respiro, e quindi a recepire con più chiarezza le indicazioni classiste del partito. Ma il partito stesso, grazie allo sviluppo della lotta a carattere classista, sarà in grado di inquadrare meglio gli ambiti anche organizzativi del rafforzamento e dell’allargamento stesso della lotta immediata. Da questo punto di vista, se da un lato è il partito che “istruisce” il proletariato in lotta, dall’altro lato è la lotta di classe del proletariato che “istruisce” il partito.

Mentre l’esperienza di lotta dei proletari è molto condizionata dalla partecipazione fisica immediata alla lotta stessa da parte di ogni singolo proletario – soprattutto in mancanza di organizzazioni sindacali classiste – l’esperienza del partito non è mai limitata alla partecipazione o meno dei suoi singoli militanti a questa o a quella lotta operaia. L’esperienza del partito affonda le sue radici in tutto il corso delle battaglie di classe del movimento comunista, nello spazio e nel tempo, aldilà dei limiti personali, geografici e di periodo storico. Il problema vero è quello di trarre dalla storia delle lotte operaie e del movimento comunista le lezioni marxiste, adottando una tattica e una prassi non solo formalmente coerenti con i principi e il programma politico generale del partito, ma concretamente efficaci e capaci di distinguere l’azione del partito agli occhi di tutti proletari dall’azione di tutte le altre formazioni politiche. Nel nostro opuscolo Sulla lotta immediata e sugli organismi proletari indipendenti, abbiamo rimesso in piedi, in generale, la nostra tattica in campo immediato e sindacale.

Nel volantino che pubblichiamo a fianco, abbiamo voluto mettere in evidenza anche un aspetto dell’organizzazione della lotta operaia, e della sua riorganizzazione classista, che da moltissimo tempo viene dato per “acquisito” dagli stessi operai, nel senso che all’organizzazione della lotta “ci deve pensare” il sindacato: l’organizzazione diretta della lotta, attraverso mezzi, luoghi e metodi che la stessa organizzazione del lavoro, cui sono sottoposti i lavoratori, in qualche modo offre. Si tratta dell’assemblea dei lavoratori, e dei delegati di assemblea, in contrapposizione ai metodi usati da decenni dai sindacati tricolore con i quali hanno esautorato completamente le assemblee dei lavoratori trattando questi ultimi come semplici automi ai quali si chiede di votare (magari per referendum) decisioni già prese nelle stanze della burocrazia sindacale.

Per la ripresa della lotta di classe, estesa duratura e capace di riproporre i grandi obiettivi della lotta proletaria anche a livello storico (la questione del potere politico), il proletariato non potrà saltare a piè pari la fase della sua riorganizzazione classista sul terreno immediato, riorganizzazione che non potrà avvenire che utilizzando – non dobbiamo avere alcun timore nel dirlo – anche meccanismi democratici.

Alcuni credono che questo passaggio debba essere saltato (“battaglia comunista” sostiene l’inutilità, anzi la dannosità del sindacato operaio, visto che è destinato ad essere prima o poi manovrato dal collaborazionismo, e la CCI pure) sostenendo che il proletariato potrà maturare la sua capacità di lotta sul terreno politico e rivoluzionario senza alcuna precedente “scuola di guerra” (per riprendere Lenin sulla lotta tradeunionista), giungendo direttamente alla lotta rivoluzionaria col solo ausilio della spinta elementare e materiale a “cambiare le condizioni in cui vive” o in cui “muore”, e della propaganda da parte dei comunisti che ribadiscono la “necessità storica” di superare la società divisa in classi. Credono così di aver “fatto fuori” la democrazia borghese, e non si accorgono di essere precipitati nel codismo più bieco, accettando nei fatti e concretamente la democrazia che a livello ideale viene rifiutata.

Altri credono che il proletariato sia in grado materialmente di farsi guidare dai comunisti nella lotta immediata, e quindi anche nella lotta politica e rivoluzionaria di domani, solo in virtù della “presa di coscienza” da parte sua della bontà del programma dei comunisti (era la posizione di “lotta comunista”, ma lo è anche del nuovo “programma comunista”), cedendo così all’idealismo secondo cui appare sufficiente la propaganda politica generale del partito per ottenere la necessaria fiducia da parte dei proletari perché si facciano guidare non dagli opportunisti ma dai comunisti rivoluzionari. Ci sono poi quelli che usano (nel senso strumentale del termine) l’intervento nelle lotte immediate per ottenere posizioni di predominanza politica con l’intento di fare proselitismo fra i proletari attraverso i più diversi espedienti organizzativi e tattici (come nel caso dell’Oci), non curandosi minimamente che i proletari che partecipano alle lotte stiano facendo effettivamente dei passi avanti sul terreno degli obiettivi di classe e dei metodi e mezzi classisti di lotta.

I comunisti rivoluzionari potranno influenzare e guidare i proletari alla lotta sul terreno di classe alla condizione di essere riconosciuti concretamente come i proletari più coscienti, decisi e capaci: coscienti delle esigenze reali del proletariato rispetto alle sue condizioni di vita e di lavoro, decisi a perseguirle e difenderle con i mezzi della lotta classista, capaci di durare nel tempo anche quando la lotta è terminata o sconfitta e di riprendere le redini della lotta per riconquistare quel che si è perso o conquistare quel che non si è mai fino allora ottenuto.

I comunisti rivoluzionari possono rappresentare la parte più avanzata del proletariato nella misura in cui traggono dal proprio programma politico generale e dalle linee tattiche e organizzative che concretamente lo definiscono, tutte quelle indicazioni pratiche perché il proletariato faccia effettivamente i passi necessari per rompere con la pace sociale e il collaborazionismo sindacale e politico e perché questa rottura sia reale e duratura.

Il movimento proletario, da solo, senza l’intervento del partito, può giungere storicamente al livello di lotta anche dura – come dimostrato dalla sua stessa storia – e a porsi obiettivamente nelle condizioni di scontro decisivo con la borghesia, ma non riesce da solo a preparare in modo efficace, e coerente con le finalità storiche, la rivoluzione e il dopo rivoluzione. Questo è un dato storico, incontrovertibile, come dimostrato dalla rivoluzione proletaria vittoriosa in Russia, ma anche dai tentativi rivoluzionari sconfitti, come in Germania o in Ungheria negli anni Venti del secolo scorso. E’ da questa certezza teorica – la necessità del partito di classe per la ripresa della lotta di classe e per il suo salto di qualità in lotta rivoluzionaria – che facciamo discendere le linee tattiche che contengono le indicazioni pratiche di intervento del partito nelle lotte operaie, senza velleitarismi (non sono i volantini o i giornali di partito che spostano le masse proletarie dall’influenza dell’opportunismo all’influenza dei comunisti) e senza espedientismi (il partito non è un costruttore di sindacati o di organismi immediati da riempire poi di proletari).

Ciò non toglie che i comunisti, oggi e domani, si debbano confrontare con mezzi e metodi democratici di lotta. L’importante è intendersi sui termini.

Noi siamo antidemocratici per principio in quanto gli obiettivi storici della rivoluzione proletaria, incompatibili con la società borghese, prevedono la soppressione del potere politico col quale la borghesia democratica (quando è al potere) opprime il proletariato o (quando è stata sconfitta dalla rivoluzione proletaria) può risorgere e tornare a sconfiggere nuovamente il proletariato rivoluzionario; e lo siamo nella prassi di partito escludendo l’uso di mezzi e metodi democratici che contrastano (come la storia del movimento comunista internazionale dimostra ampiamente) con l’attività di partito volta alle finalità rivoluzionarie.

Il terreno della lotta politica nel quale il partito agisce in quanto soggetto politico ben definito non ammette contraddizioni fra teoria e programma politico; non si può dunque perorare la causa della democrazia borghese mentre si propaganda la rivoluzione proletaria e la dittatura di classe del proletariato. Ma una cosa è il partito di classe, il partito comunista rivoluzionario, che rappresenta nell’oggi capitalistico la lotta per la futura società senza classi; un’altra cosa è il movimento proletario, il movimento delle masse proletarie spinte in questa società capitalistica materialisticamente verso lo scontro sociale che evidenzia l’antagonismo fra le classi, masse proletarie che agiscono dialetticamente sia in quanto classe per il capitale, sia in quanto classe per sé, ossia classe proiettata storicamente a lottare per il superamento di ogni società divisa in classi, di ogni sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

Il terreno della lotta immediata evidenzia, al contrario, una contraddizione reale fra le esigenze immediate di vita e di lavoro e le esigenze in prospettiva della lotta proletaria. Su questo terreno gli obiettivi sono necessariamente parziali, e dunque teoricamente compatibili con la società borghese, dunque con la democrazia; perciò anche i mezzi e i metodi che si utilizzano per conseguire quegli obiettivi parziali sono normalmente compatibili con la democrazia borghese. La democrazia borghese prevede la rappresentanza, maggioranze e minoranze, ed ammette anche l’uso della forza; certo, entro certi limiti, con determinati livelli di tolleranza e sempre comunque a fronte di eventuali sanzioni (amministrative o penali).

Il proletariato, nella sua lotta immediata, in un regime democratico, calca un terreno che prevede una serie interminabile di mezzi e di metodi democratici; il collaborazionismo sindacale, e politico, tende ad utilizzarli tutti perché in questo modo riesce ad imbrigliare meglio le masse proletarie nelle maglie di una fitta rete di compatibilità che fa sì “vedere oltre” ma che in realtà trattiene, imprigiona, impedisce di “andare oltre”.

Il proletariato, nella sua lotta immediata di difesa, può davvero non utilizzare obiettivi, mezzi e metodi democratici? No, il proletariato nella sua lotta immediata è obbligato a passare attraverso i meccanismi democratici, attraverso decisioni prese a maggioranza, attraverso assemblee nelle quali quelle decisioni vengono discusse e stabilite, attraverso delegati e organismi proletari che rispondano in modo efficace alla effettiva difesa delle condizioni di vita e di lavoro proletarie. Ma non tutti i meccanismi democratici sono efficaci per la lotta operaia classista e per l’organizzazione della lotta operaia. Qui sta il vero problema per il partito di classe.

L’associazionismo economico del proletariato può essere negato, tollerato o ammesso e istituzionalizzato dal potere politico borghese, a seconda del periodo storico e del regime esistente; ma per le sue caratteristiche di fondo è del tutto compatibile con la democrazia borghese, e nonostante questo esso può costituire un’arma decisiva per la lotta di classe proletaria. Naturalmente a condizione che i sindacati operai siano diretti sotto l’influenza diretta del partito di classe, o da proletari comunisti, militanti di partito. Ma il partito non pretenderà mai che il sindacato proletario perché sia effettivamente di classe sia costituito solo da comunisti; al sindacato di classe – ossia a quella associazione a carattere economico che raggruppa i proletari in quanto proletari aldilà delle idee politiche o religiose che albergano nella loro testa – devono poter partecipare le masse più vaste del proletariato, accomunate da condizioni materiali di vita e di lavoro e dalla spinta a difendere le proprie condizioni proletarie con mezzi e metodi adatti agli esclusivi interessi immediati del proletariato; e questo solo fatto determina obiettivamente una caratteristica democratica dell’organizzazione sindacale dalla quale non è possibile prescindere.

Il partito deve saper distinguere non solo le grandi rivendicazioni della lotta proletaria ma anche gli obiettivi parziali più modesti: la diminuzione drastica della giornata di lavoro per tutti i proletari a parità di salario, è una grande rivendicazione proletaria, come d’altra parte lo è l’aumento di salario più alto per le categorie peggio pagate, o il salario di disoccupazione ai disoccupati. Ma il livello di lotta richiesto per farsi carico di rivendicazioni di questo tipo, e per ottenerle, è un livello molto alto che contempla la presenza di forti sindacati di classe e una forte influenza del partito comunista nelle masse proletarie. Se il partito si limitasse a propagandare queste grandi rivendicazioni (di per sé immediate e non rivoluzionarie) aspettando che il proletariato le riconosca come sue e si organizzi per conquistarle, sarebbe un partito che si impedisce di sviluppare nel proletariato l’influenza indispensabile per guidarlo nella lotta di classe e rivoluzionaria.

L’assenza di sindacati classisti, e dunque di un livello di lotta classista apprezzabile da parte del proletariato, pone il proletariato in una situazione di estrema arretratezza rispetto alla sua capacità di lottare sul solo terreno tradeunionistico, di difesa elementare delle sue condizioni di vita e di lavoro. E pone lo stesso partito comunista nella condizione di allacciare il contatto con la classe operaia ad un livello della lotta di difesa immediata molto arretrato.

Ciò significa che il partito, se vuole indicare ai proletari più combattivi il cammino anche organizzativo per imboccare la ripresa della lotta classista ampia e duratura, deve non solo riproporre ai proletari obiettivi elementari di difesa economica ma anche i mezzi e i metodi di lotta per ottenere quegli obiettivi. Nello stesso tempo, visto che la società non è neutra e il collaborazionismo sindacale e politico lavorano a pieno ritmo da decenni per strappare “dalla mente e dal cuore dei proletari” anche il minimo ricordo delle tradizioni classiste di lotta, al partito tocca di indicare ai proletari quali sono i primi passi perché la riorganizzazione classista sul terreno della lotta immediata veda la luce. A meno di concepire la ripresa della lotta di classe come un percorso nel quale il partito comunista non ha alcuna funzione specifica, il partito non può esimersi dal calpestare il terreno della lotta immediata a fianco dei proletari che lottano e prendersi la responsabilità di dare loro le necessarie indicazioni classiste. Il partito comunista, se non lo fa, lascia coscientemente campo interamente libero al collaborazionismo tricolore o alle più diverse reazioni immediatiste fino alla reazione disperata del lottarmatismo. Ciò significa calpestare il terreno della democrazia? Sì, il partito lo sa bene e suo compito è di distinguere fra quei mezzi, quei metodi e quegli obiettivi che – nonostante la loro caratteristica di parzialità e di democrazia – facciano fare un passo avanti alla lotta proletaria di classe dal punto in cui essa deve risalire.

Data l’assenza di sindacati di classe, sono assenti pure i luoghi che un tempo erano destinati a riunire i proletari e a coinvolgerli nella lotta di classe. Le Camere del Lavoro sono da moltissimo tempo luoghi dove si organizza e si rafforza il collaborazionismo, non la lotta di classe. I proletari non hanno più luoghi dove riunirsi per organizzare la propria lotta, dove riconoscere gli interessi comuni e verificare la volontà di lottare uniti. E’ per questa ragione che l’Assemblea dei lavoratori nei luoghi di lavoro, o nei luoghi in cui la riunione di lavoratori sia possibile (l’aula di una scuola, un cinema, una palestra, un campo o un bosco), diventa e può diventare il luogo in cui i proletari riprendono in mano le sorti della loro lotta di difesa, organizzandola.

Gli autoferrotranvieri a Milano e nelle altre città hanno usato le assemblee nei depositi – là dove era forte la tensione e la volontà di lotta – per decidere a maggioranza le forme di lotta, e quando continuare o sospendere quelle forme e quella lotta. Dando l’indicazione di eleggere delegati diretti delle assemblee, abbiamo voluto sottolineare la necessità da parte dei lavoratori di controllare con propri delegati di fiducia quel che dicevano, trattavano ed eventualmente concordavano i sindacalisti della Triplice col governo e con le altre istituzioni. La massa dei lavoratori ha bisogno di eleggere suoi delegati di fiducia, perché sono questi che devono poi andare a rappresentare le istanze dei lavoratori e a trattare con le “controparti”. Certo, i delegati delle assemblee possono essere anch’essi corrotti dai padroni e dalle istituzioni borghesi, come lo sono i sindacalisti collaborazionisti; è un rischio che i lavoratori sanno per esperienza di correre, ma non hanno molte scelte. La spinta di lotta e la lotta dura possono far emergere nuove forze, più sane, più affidabili, più sicure, ed è su queste nuove forze che i proletari devono puntare. Ed anche il partito di classe punta su queste nuove forze, le famose “scintille di coscienza di classe” (Lenin) che la lotta classista può sprigionare e ad un certo punto sprigiona effettivamente. Se fossimo scettici su questa evoluzione materiale e nello stesso tempo dialettica della lotta proletaria dovremmo dire addio a tutta la teoria marxista.

 

Il sindacalismo tricolore non può trasformarsi in sindacalismo di classe

 

I sindacati ufficiali della triplice e i sindacati “di base” tipo Cobas non sono organizzazioni classiste; non sono perciò affidabili rispetto alla effettiva difesa delle condizioni di vita e di lavoro proletarie, e alla effettiva difesa della lotta operaia – in particolare se dura e in rottura con le regole borghesi – e delle forme che questa lotta prende a dispetto di ogni vincolo di autoregolamentazione e di cosiddetta legalità. Ciò non toglie che milioni di proletari siano ancora tesserati nei sindacati ufficiali della triplice (dai quali comunque si aspettano qualche cosa) e tesserati nei sindacati “di base” legalmente riconosciuti (dai quali si aspettano una difesa più efficace di quella offerta dai sindacati della triplice).

Ma al lato pratico, di fronte alla lotta dura e in rottura con le regole dettate dagli accordi tra collaborazionismo e istituzioni, tutti i sindacati oggi esistenti tendono ad imprigionare i proletari in quelle maledette regole e, soprattutto, a far dipendere l’ottenimento di un qualsiasi obiettivo immediato dalle stramaledette compatibilità con l’economia nazionale e con le economie aziendali (non è certo un caso che i CUB e le RDB siano contrari, quanto i confederali, che le aziende municipalizzate vengano privatizzate, e per la difesa del “pubblico” chiamino alla lotta i proletari). Il rischio di sanzioni pesanti per aver infranto la legge da parte degli autoferrotranvieri in sciopero ad oltranza e improvviso è molto reale. Ma nessuno dei sindacati esistenti, “di base” o no, ha messo in modo chiaro e deciso nella piattaforma di trattativa la rivendicazione di escludere ogni sanzione nei confronti dei proletari che hanno scioperato. Non si tratta, infatti, solo di ottenere denari che devono essere erogati secondo gli accordi sindacali esistenti – dunque non si tratta della classica e pur necessaria rivendicazione di aumento di salario – per i quali i lavoratori si sono visti costretti a forme di lotta più dure rispetto a ben 7 scioperi nazionali rispettosi delle regole tenuti nell’arco di due anni. Si tratta di difendere le stesse condizioni di lotta degli autoferrotranvieri. E, per quanto ne sappiamo, non c’è stato nessun gruppo politico cosiddetto “rivoluzionario” che abbia posto questa rivendicazione con la stessa forza con cui abbiamo fatto noi. La scure delle sanzioni pecuniarie (se non penali) cadrà sulla testa di molti scioperanti (solo a Milano si parla di 3000 conducenti). Cosa faranno i sindacalisti “più combattivi”? Chiederanno agli altri operai e ai “cittadini” delle sottoscrizioni per aiutare gli scioperanti a pagare le salatissime multe? Di lotta, però, non ne hanno parlato.

Alla formazione di nuovi organismi di lotta, classisti, si giungerà attraverso vie senza dubbio tortuose; ma non sarà certo attraverso l’adesione all’attuale sindacalismo “di base” (Cobas, Slai Cobas, RdB e quant’altro).

Secondo i fiorentini de “il partito comunista” (vedi loro volantino del 22 dicembre 2003 sullo sciopero degli autoferrotranvieri, intitolato “Un esempio per tutti i lavoratori”), mentre denunciano la collaborazione del sindacalismo confederale (che chiamano “sindacalismo di regime”), esaltano il sindacalismo “di base”. Scrivono infatti: “Lo sciopero nazionale degli autoferrotranvieri indetto dal sindacalismo di base per il 9 gennaio sarà un nuovo passo avanti per costituire un’organizzazione che difenda senza compromessi gli interessi dei lavoratori, che sono contrapposti a quelli del padronato. E’ questa la strada verso la ricostituzione di una organizzazione sindacale di classe che, superando le differenze tra le varie categorie, le divisioni tra settore pubblico e privato, unisca la gran parte dei lavoratori in un unico, solidale fronte di lotta”.

Il vecchio errore si ripresenta sulla scena. Ieri, 1970-1973, l’indicazione dei fiorentini era: contro l’unificazione sindacale tra Cgil Cisl e Uil per salvare la Cgil considerata erroneamente “sindacato di classe” per il quale si trattava solo di cacciare i vertici corrotti. Oggi, essi vanno a trovare un’altra scorciatoia per la “ricostituzione di una organizzazione sindacale di classe”, ossia il sindacalismo di base dei Cub, Cobas ecc. L’errore sta nell’illudersi che organizzazioni opportuniste e congenitamente collaborazioniste possano modificare la propria natura e la propria attitudine in virtù della spinta di lotta dei proletari. Non vi è ancora, qui, l’indicazione di uscire dai sindacati della Triplice per aderire ai sindacati di base, ma presto o tardi arriveranno a dire anche questo. Salvo poi, in presenza di altre organizzazioni sindacali “più a sinistra”, stigmatizzare un domani anche i Cobas fra … il sindacalismo di regime.

La questione della riorganizzazione classista dell’associazionismo economico da parte dei proletari è una questione ardua e molto complicata. E non la si può semplificare tracciando per i proletari un percorso facile: i Cobas esistono, sono più a sinistra della Cgil e meno coinvolti nella corruzione con i potentati industriali e le istituzioni, dunque vale la pena andare coi Cobas abbandonando Cgil Cisl e Uil. Insomma i Cobas rappresenterebbero, per i fiorentini del «partito comunista», il passaggio verso la costituzione di “un’organizzazione che difenda senza compromessi gli interessi dei lavoratori”.

Oggi i Cobas, per ragioni di bottega e nulla più, hanno attitudini simili a quelle della Cisl degli anni 1967-1970, quando la Cisl appariva più dura e più decisa della Cgil rispetto alle rivendicazioni salariali e allo sciopero: la Cisl non aveva praticamente personale sindacalista proprio all’interno delle fabbriche, ed era l’epoca in cui nascevano i Cub (Comitati unitari di base) e i Consigli di fabbrica contro le Commissioni Interne ormai corrotte marce. La Cisl aprì le porte agli estremisti, ai “rivoluzionari”, ai capi e capetti dei Cub e dei CdF che la Cgil non voleva, e si costruì una rete di sindacalisti nelle fabbriche grazie a loro. E’ cambiata la Cisl? No, ma cambiarono i “rivoluzionari” diventando galoppini ben pagati (faticando zero al lavoro) che contribuirono a trasformare i Cub e i CdF da organismi della base e di lotta extra-sindacali in organi interni alla fabbrica del collaborazionismo sindacale.

La strada della riorganizzazione classista del proletariato sul terreno della lotta immediata è più lunga di quello che può apparire, e soprattutto più difficile. Ma una cosa è certa: perché i proletari comprendano che devono lottare in un altro modo da come sono stati condotti a fare finora, è necessario che le spinte materiali di intolleranza alle condizioni di vita e di lavoro li portino a rompere la pace sociale e a rompere la disciplina del collaborazionismo. Grazie a queste rotture (che a loro volta aprono spiragli per l’azione del partito) i proletari si renderanno conto che avranno bisogno di organismi di classe, più affidabili, in grado di rispondere finalmente ad un fondamentale principio: difendere esclusivamente i loro interessi immediati. Allora, e solo allora, nascerà quella coscienza tradunionista, di cui parla Lenin, che fa capire ai proletari che l’importante nella lotta immediata è soprattutto la solidarietà fra proletari, la comunanza di interessi classisti, perché le rivendicazioni salariali e normative andranno continuamente ribadite e riconquistate. Allora, il terreno della lotta immediata, sviluppandosi in termini di antagonismo di classe, porrà inevitabilmente la questione del salto di qualità, la questione politica del potere, perché il potere borghese – con la sua pressione e la sua oppressione – sarà finalmente recepito come l’ostacolo principale all’emancipazione proletaria.

Il partito che noi oggi rappresentiamo a livello di necessità storica e di continuità teorica e politica, sebbene embrionale, ha il compito di attuare una prassi interna del tutto coerente e in linea con le posizioni politiche, tattiche e organizzative generali, ed ha allo stesso tempo il compito di agire, là dove ne ha la possibilità anche minima, verso il proletariato e nelle sue lotte come quell’organismo politico senza il quale il proletariato faticherebbe immensamente per trovare la strada della ripresa della lotta classista e rivoluzionaria.

 

Partito comunista internazionale

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