Patriottismo e comunismo

(«il comunista»; N° 90-91; Giugno 2004)

 

La vicenda dei militari italiani morti a Nassiriya (1) il 12 novembre 2003 durante l’attacco alla postazione italiana da parte di milizie irakene che si oppongono con le armi all’occupazione militare straniera, prima, e soprattutto la vicenda dell’esecuzione lo scorso 14 aprile di uno dei quattro mercenari italiani presi in ostaggio da miliziani di gruppi legati ad al Qaeda (2) poi, sono state utilizzate come leit motiv dal potere borghese per lanciare una campagna di patriottismo che ha lo scopo principale di giustificare la presenza e la permanenza in Iraq delle truppe d’occupazione italiane, e per scopo secondario di rendere il proletariato italiano complice dell’avventurismo militaresco della classe borghese dominante.

La classe dominante borghese non ha mai smesso di alimentare il patriottismo, quel sentimento di identità nazionale e di amalgama sociale attraverso il quale la borghesia ha sempre cercato di far passare fra le masse lavoratrici l’idea che nella patria si confondano tutti i suoi abitanti senza distinzione di classe, senza interessi antagonistici, come se tutti i componenti della società nazionale fossero interessati alla pari ad immedesimarsi in un valore (la patria, appunto) per la difesa del quale è giustificato e doveroso mettere a repentaglio anche la propria vita. Dove sta l’inganno?

L’inganno sta nel feticcio dell’uguaglianza borghese; come di fronte al mercato la borghesia pretende che ogni individuo abbia le stesse possibilità di successo, mistificando il fatto che nel mercato vince chi ha più denaro (dunque chi ha rubato di più, nel campo dello sfruttamento diretto di lavoro salariato, o nel campo della speculazione bancaria e finanziaria, o nel campo del commercio, o nel campo della corruzione politica o in qualsiasi altro campo di attività umana svolta nella società borghese), così di fronte alla morale, ai valori ideologici, la borghesia pretende che ogni individuo – al di là della sua condizione sociale materiale – sia naturalmente proteso a difendere un valore che di per sé viene concepito come superiore, un valore che unisce tutti, nel quale tutti si devono riconoscere.

L’ideologia borghese, attraverso il concetto di patria, tenta di unire ciò che la materialissima divisione in classi della società capitalistica contrappone e rende antagonista; tenta di nobilitare, attraverso un sentimento, il patriottismo, che pesca dalla sua storia rivoluzionaria, la situazione di gravi e profonde ingiustizie sociali di cui è intrisa la sua società. Nel passaggio storico rivoluzionario nel quale la borghesia, con le classi proletarie e contadine, spezzò il potere feudale e precapitalistico aprendo così il periodo di progresso e di sviluppo del modo di produzione capitalistico nel mondo, un traguardo vitale era rappresentato dalla formazione del mercato nazionale con tutto quel che comportava a livello di distruzione dei numerosissimi intralci burocratici, sociali e politici che impedivano la libera circolazione delle merci, la libera circolazione delle persone, la libera impresa capitalistica quindi il libero e vasto sfruttamento di lavoro salariato. Per ottenere tutto questo, che lo stesso primo sviluppo dell’economia borghese poneva all’ordine del giorno della storia, era indispensabile impossessarsi del potere centrale – là dove la struttura politica e amministrativa precedente lo aveva già eretto – o impiantare ex novo un potere centrale abbattendo la persistenza di piccoli e limitati poteri in cui un territorio, in generale omogeneo per cultura storia e lingua, era suddiviso. Lo Stato moderno, borghese, con la sua forza centralizzatrice e coercitiva, ha svolto il ruolo di distruttore degli intralci alla formazione del mercato nazionale e di propulsore dello sviluppo economico nazionale del capitalismo. Il capitalismo, però, porta con sé congenitamente la concorrenza che si sviluppa, appunto, nel mercato e che dal mercato nazionale, attraverso lo sviluppo del capitalismo stesso, si diffonde nel mercato internazionale.

La patria borghese, nel processo di sviluppo capitalistico, da obiettivo rivoluzionario (formazione dello Stato moderno, del mercato nazionale) si trasforma in funzione riformatrice attraverso la quale si consolida il capitalismo (si sviluppa il mercato nazionale, progredisce l’economia capitalistica che strappa sempre più forze all’agricoltura creando un numeroso proletariato, e si creano le condizioni perché il capitalismo nazionale aggredisca con più forza il mercato internazionale attraverso la colonizzazione di vasti territori ricchi di materie prime e attraverso le esportazioni). I capitalismi nazionali più forti si dotano di Stati forti, in grado di imporre e difendere, con la forza militare, gli interessi capitalistici delle nazioni più potenti in tutto il mondo.

Nell’epoca dello sviluppo riformistico del capitalismo (la cosiddetta epoca di sviluppo “pacifico” in Europa e in America del Nord, mentre su tutto il resto del mondo i capitalismi nazionali scatenano ogni genere di guerra di conquista e di rapina), nei paesi industrialmente più sviluppati la patria ha storicamente perso ogni valore rivoluzionario per il quale il proletariato aveva una ragione storica di combattere contro le vecchie classi aristocratiche e feudali. La borghesia, ormai installatasi al potere saldamente, nella sua politica estera e nella sua politica sociale interna mostra in modo sempre più evidente che la «difesa della patria» coincide con la difesa dei suoi interessi di classe dominante, i suoi interessi di accumulazione capitalistica e di profitto, i suoi interessi di espansione internazionale. La chiamata alla difesa della patria con cui le borghesie nazionali (che aggrediscono altre borghesie nazionali, o vengono aggredite, per ragioni esclusivamente di lotta di concorrenza e di spartizione dei mercati) si rivolgono al proletariato e al contadiname povero, rivela nei fatti il più mastodontico inganno verso le classi lavoratrici.

Ma è un inganno che ha basi materiali. Il modo di produzione capitalistico si sviluppa attraverso l’organizzazione della produzione per aziende, ossia per unità produttive di cui i capitalisti hanno la proprietà; i capitalisti di una nazione trasferiscono allo Stato nazionale il compito di difendere i loro interessi comuni, che “in patria” sono amministrati attraverso una regolamentazione degli scambi e del lavoro, e che all’estero sono amministrati attraverso trattati e accordi bilaterali o multilaterali con i diversi Stati. Lo Stato borghese è il potere concentrato della classe dominante, è il suo Comitato d’Affari. Nella misura in cui il capitalismo nazionale accresce la sua forza proletarizza masse sempre più vaste di popolazione; il proletario, il senza riserve, per sopravvivere è costretto (ne ha bisogno) a vendere la sua forza lavoro ai capitalisti, perciò il suo interesse immediato, quotidiano, appare condivisibile con quello del capitalista che per sviluppare i propri profitti è costretto (ne ha bisogno) di impiegare lavoratori salariati. L’economia aziendale, che è la base del capitalismo, si sviluppa portando nel mercato prodotti che battono la concorrenza, allarga la sua sfera produttiva e quindi tende ad aumentare la massa di lavoratori salariati che impiega (aumenta l’occupazione!, dicono i riformisti); questo fatto è alla base della teoria della conciliazione degli interessi fra proletari e capitalisti, della teoria riformista che pretende di superare i contrasti di classe attraverso la difesa della salute economica delle aziende nazionali. Estendendo la visione aziendista ad una visione più ampia si giunge a concepire l’economia nazionale come il bene supremo da salvaguardare, il bene comune a tutti (proletari, contadini, capitalisti) per il quale ognuno è chiamato a sacrificare un po’ del suo interesse personale, del suo «egoismo» (la stessa chiesa cattolica dice ammonisce i capitalisti di essere meno ingordi). La patria così coincide con l’economia nazionale, i confini della patria coincidono con i confini entro i quali l’economia nazionale è difendibile, e allo Stato nazionale si assegna il ruolo di arbitro al di sopra delle parti, degli egoismi aziendali o personali, depositario delle leggi di fronte alle quali “tutti sono uguali”. Così è nata la democrazia moderna, il più articolato e sofisticato castello di inganni e di falsità.
 

Gli operai non hanno patria
 

Da quando è stato scritto e diffuso il Manifesto del Partito Comunista, di Marx ed Engels, è chiaro per ogni comunista che «gli operai non hanno patria». E’ lo stesso sviluppo dell’industria capitalistica, è lo stesso sviluppo del capitalismo che travalica i confini nazionali, tanto cari ai borghesi ma solo per ragioni di accaparramento di profitti in lotta con i borghesi di altri paesi. Il mercato capitalistico è naturalmente mondiale, non può essere confinato in una sola parte di territorio. Il fatto che il capitalismo sia un modo di produzione universale ma che siano le borghesie nazionali a farsi concorrenza e guerra per accaparrarsi quote diverse e più importanti del mercato mondiale va spiegato con la contraddizione fondamentale della società borghese: la produzione è sociale, il capitale è una potenza sociale; ma la società capitalistica è fondata sull’appropriazione privata della produzione sociale, del capitale, insomma della ricchezza sociale, e in questo sta il contrasto di fondo con lo sviluppo sociale dell’economia.

Gli operai, ossia i lavoratori salariati, creano il capitale, «cioè quella proprietà che sfrutta il lavoro salariato, che può moltiplicarsi solo a condizione di generare nuovo lavoro salariato, per sfruttarlo di nuovo» (3). Essi creano quindi, insieme al capitale, le condizioni materiali del proprio sfruttamento. E con esse creano le basi materiali dell’ideologia riformista che accetta l’appropriazione privata della ricchezza sociale come principio e come legge, e accetta quindi l’impianto ideologico di difesa di quell’appropriazione privata, «patria comune» e «difesa della patria comprese».

Lo sviluppo capitalistico, con la sua fame insaziabile di plusvalore, allargando i «confini» del mercato al pianeta ha allargato di fatto anche il bacino di prelevamento della forza lavoro necessaria a moltiplicare il capitale, come si afferma nel Manifesto del 1848. Il capitalismo, affermando e sviluppando la proprietà privata borghese, dunque l’appropriazione privata dei prodotti e della ricchezza sociale, ha nei fatti distrutto le istituzioni su cui le vecchie società precapitalistiche fondavano la loro presa sulle masse popolari: la famiglia, le comuni contadine, i confini delle contee o dei regni. Dal punto di vista ideale la borghesia eredita il “valore ideologico” della famiglia, ma dal punto di vista materiale la famiglia nel capitalismo, per la stragrande maggioranza della popolazione, viene distrutta: con la proletarizzazione della maggioranza della popolazione, con la necessità da parte dei proletari di andare a lavorare dove è accettata e pagata la loro forza lavoro, e con la necessità di procurarsi da vivere gettando nel lavoro salariato non solo i maschi adulti ma tutti i membri della famiglia, dunque donne e figli compresi; e sempre più spesso, alle condizioni di estrema miseria e di fame, alle donne, alle ragazze e ai ragazzi viene offerta, come “via d’uscita” la prostituzione. La famiglia proletaria viene lacerata, divisa, e i suoi membri sparpagliati non solo in aziende diverse, ma in città e paesi diversi e anche molto lontani gli uni dagli altri. L’emigrazione forzata o “volontaria” e “clandestina” fa ormai parte integrante della vita dei proletari di tutti i paesi. Questo ogni proletario non solo delle vecchie generazioni ma anche delle generazioni attuali lo vive sulla propria pelle. La famiglia borghese, da parte sua, si basa sul guadagno privato; «una famiglia completamente sviluppata esiste soltanto per la borghesia: ma essa ha il suo complemento nella coatta mancanza di famiglia del proletario e nella prostituzione pubblica» (Manifesto, cit. p. 152). Dio, patria e famiglia, era il vecchio slogan che i borghesi rivoluzionari avevano lanciato per “unire” sotto un’unica bandiera tutte le classi sottoposte al potere feudale. Ma nessuno dei tre simboli corrisponde alla realtà della società borghese capitalistica. Il dio che conta, per i capitalisti, è il Denaro, il Capitale; la patria che conta è quel territorio economico nel quale, di volta in volta, sviluppare i propri profitti; la famiglia che conta è quell’associazione di capitalisti che, di volta in volta, assicura i benefici dei propri investimenti e delle proprie speculazioni. Niente di mistico, ma tutto volgarmente mercantile.

Quale patria, allora, per i proletari?
 

Il proletariato ha una «sua» patria?

 

Il proletariato non ha patria, perché non ha alcun interesse allo sfruttamento del lavoro salariato da parte del capitale, perché non ha alcun interesse a difendere un mercato nazionale dall’aggressione di capitalismi stranieri, perché non ha alcun interesse a difendere i profitti del capitalismo nazionale, perché non ha alcun interesse all’oppressione capitalistica di popoli e proletariati di altri paesi. La «patria» per la classe proletaria, se per ragioni di propaganda e di tattica comunista nella rivoluzione e nella difesa del potere rivoluzionario conquistato si dovesse utilizzare questo termine (vero e proprio accidente storico per i comunisti), può corrispondere soltanto al territorio controllato dalla rivoluzione proletaria vittoriosa, territorio che può essere più piccolo o più vasto di quello disegnato dai confini borghesi, a seconda dell’andamento della lotta rivoluzionaria. Come all’epoca della Rivoluzione socialista in Russia quando nel febbraio del 1918 il potere bolscevico guidato da Lenin, di fronte alle minacce di continuazione della guerra del militarismo tedesco contro la giovane Repubblica dei Soviet, nel ribadire con forza la volontà di concludere le trattative di pace separata con la Germania nonostante le condizioni particolarmente pesanti che la borghesia tedesca aveva posto alla Russia rivoluzionaria, lanciò al proletariato e al contadiname povero russo e al proletariato internazionale il grido di difesa rivoluzionaria: la patria socialista è in pericolo! (4) La «patria socialista» equivaleva alla dittatura proletaria, al potere del proletariato in Russia, alla vittoria rivoluzionaria appena raggiunta in Russia, primo bastione della rivoluzione internazionale del proletariato. Minacciato dall’aggressione dell’esercito tedesco, il potere bolscevico non poteva contare ancora sulla formazione del nuovo esercito rosso, mentre il vecchio esercito zarista stava andando completamente in pezzi e gran parte dei proletari e dei contadini soldati avevano smobilitato grazie al movimento rivoluzionario e alla rivoluzione vittoriosa; esso doveva trattare la pace con la Germania, a qualsiasi condizione (come ribadiva Lenin), e consolidarsi per avere così il tempo di rafforzare il potere e formare il nuovo esercito proletario in grado di difendere in modo molto più efficace il potere rivoluzionario conquistato. Andò esattamente così, pur tra molti contrasti in seno al Comitato centrale bolscevico; la pace di Brest-Litovsk fu firmata e il potere bolscevico ebbe la forza di resistere e di formare il nuovo esercito rosso, la famosa Armata Rossa al comando di Trotsky, armata che riuscì a sostenere l’attacco contemporaneo degli eserciti dei paesi imperialisti e degli eserciti bianchi degli ex generali zaristi che tentarono per tre anni di rovesciare il potere rivoluzionario, ma non ci riuscirono: l’esercito proletario vinse e si predispose a sostenere i movimenti rivoluzionari che il proletariato europeo, in Ungheria, in Polonia e nella stessa Germania stava sviluppando.

Vi è contraddizione fra la tesi del Manifesto del 1848: gli operai non hanno patria, e il decreto La patria socialista è in pericolo, approvato a Mosca il 21 febbraio 1918 dal Consiglio dei commissari del popolo (ossia il governo del potere proletario e rivoluzionario), e che Lenin redasse di suo pugno dopo la rottura delle trattative di pace a Brest-Litovsk e la ripresa dell’offensiva militare da parte dell’esercito tedesco? Sì, ma è contraddizione dialettica.

La lotta rivoluzionaria, la lotta che il governo rivoluzionario del proletariato russo fu costretto a condurre per la difesa della propria vittoria sulla borghesia e sulle classi preborghesi, e per la continuazione della lotta rivoluzionaria del proletariato in tutti gli altri paesi dove il potere non era ancora stato conquistato, aveva la necessità di utilizzare in determinati frangenti mezzi, parole, simboli della vecchia società; non va infatti dimenticato che la rivoluzione proletaria in Russia aveva mobilitato e doveva continuare a mobilitare milioni e milioni di contadini poveri, alleati del proletariato nella rivoluzione antizarista e antiborghese e pronti a sacrifici anche molto pesanti nella misura in cui il nuovo potere fosse riuscito a farla finita con la guerra, a distribuire le terre da coltivare e ad apportare in agricoltura innovazioni tecniche in grado di aumentare la produttività dei terreni e del lavoro dei contadini. La patria, per i contadini poveri russi, era quella che avrebbe soddisfatto quegli obiettivi; la patria «socialista» era quella che i proletari dirigevano attraverso il loro partito di classe, il partito bolscevico, e che soddisfaceva anche le esigenze delle vaste masse contadine russe.

Dal punto di vista della propaganda comunista era all’epoca più che giustificato lanciare la parola d’ordine di difesa della «patria socialista» rispetto al pericolo imminente di sconfitta militare sotto l’attacco di eserciti più organizzati e forti; era una parola d’ordine di lotta, di guerra di difesa rivoluzionaria, non certo di aggressione nei confronti di altri paesi e, soprattutto, non era indirizzata a giustificare alleanze nella guerra imperialistica di rapina. Era, al contrario, lanciata per difendere l’unico potere politico in grado di combattere in modo coerente e deciso gli Stati borghesi e imperialisti che quella guerra di rapina avevano scatenato.
 

Gli obiettivi generali della lotta proletaria non sono il semplice prolungamento degli obiettivi immediati, ma il loro superamento
 

I comunisti sono per l’abolizione del lavoro salariato, dunque del modo di produzione capitalistico; ma sanno che per raggiungere la società senza classi, quindi senza lavoro salariato e capitale, è necessario attraversare un lungo periodo storico di lotta rivoluzionaria attraverso la quale le forze rivoluzionarie proletarie organizzate e guidate dal partito comunista devono conquistare il potere politico nei paesi capitalisticamente più importanti per avere a disposizione la forza economica e materiale in grado di vincere la guerra rivoluzionaria contro le forze della reazione borghese e passare finalmente alla trasformazione economica della società. Ma il proletariato, per essere in grado di porsi sul terreno della rivoluzione deve essere preventivamente preparato sia dal punto di vista teorico e politico sia dal punto di vista pratico e di materiale difesa quotidiana. Il campo teorico e politico è di competenza del partito di classe, il campo pratico e di materiale difesa quotidiana è di competenza del proletariato e delle sue associazioni a carattere economico e immediato; la lotta di classe che spinge il proletariato a lottare contro i propri padroni e la propria borghesia è la linfa della sua vitalità organizzativa e di solidarietà.

Senza lotta di classe non vi è efficace lotta di difesa materiale quotidiana dagli attacchi alle condizioni di vita e di lavoro che i capitalisti portano sistematicamente al proletariato, in ispecie in periodi di crisi economica. La lotta per il salario, per la sua difesa e per il suo aumento contraddice la lotta per l’abolizione del lavoro salariato? Sì, ma è una contraddizione dialettica, nel senso che se il proletariato non si esercita ad associarsi e lottare unito sul terreno della difesa immediata delle condizioni di vita e di lavoro, dunque per il salario, non è in grado di condurre una lotta per obiettivi ben più generali e meno immediati, come sono gli obiettivi rivoluzionari di conquista del potere e della trasformazione della società attuale divisa in classi in società senza classi. Sono la lotta, l’unificazione dei proletari nella lotta di classe, la solidarietà di classe che sgorga dalla lotta dei proletari per obiettivi immediati comuni, i fattori più importanti per il futuro di classe del proletariato. A questa condizione la lotta in difesa del salario, e per il suo aumento, come per la diminuzione della giornata lavorativa o qualsiasi altro obiettivo immediato che accomuna tutti i proletari in quanto lavoratori salariati, è la leva perché il proletariato riesca , nello sviluppo della sua lotta di difesa delle condizioni di vita e di lavoro, ad alzarsi al livello della lotta politica più generale con la quale porsi obiettivi non più soltanto immediati ma generali e futuri. Sarà la stessa risposta della classe dominante borghese alla lotta classista del proletariato a spingere i proletari ad accettare un livello di lotta più alto, più generale. Ma perché questo salto di qualità avvenga, il proletariato deve prima riconquistare il terreno della lotta classista immediata, il suo terreno di lotta specifico, di difesa esclusiva degli interessi proletari immediati: quel terreno è la scuola di guerra (Lenin) del proletariato, il terreno in cui il proletariato fa i passi indispensabili per riconoscersi come classe con interessi comuni per cui lottare e da difendere.

I proletari sono per la pace? Sicuramente. La guerra è imposta dalle classi dominanti borghesi, perché ad un certo punto dello sviluppo dei loro interessi e dei loro affari la lotta di concorrenza non riesce più ad essere contenuta nell’alveo dei contrasti “pacifici”, travalica i suoi limiti e si trasforma in guerra guerreggiata. La guerra borghese non è fatta dai borghesi, i borghesi la dirigono, la pianificano, ne studiano le strategie e i piani di battaglia, costruiscono alleanze e organizzano tutte le risorse finanziarie, economiche, sociali e umane a loro disposizione in funzione della guerra.

Ma la guerra la fanno i proletari, ossia la stragrande maggioranza della popolazione; o meglio, i proletari vengono costretti a fare la guerra per conto dei borghesi. E nelle guerre moderne, in cui la guerra non si fa e non si vince più sui confini degli Stati belligeranti (ogni “patria” viene bellamente sorvolata da aerei e da missili che ormai possono essere scagliati da un continente all’altro senza spostare un solo soldato dal “proprio” territorio), ma si vince attraverso il massimo di distruzione provocata agli Stati nemici, l’intero proletariato viene mobilitato per la guerra nei fatti, sia quella parte che viene inviata nei diversi fronti di guerra che quella parte che non viene “mandata al fronte” ma è reclutata nello sforzo bellico “in patria”; ogni proletario non in divisa può essere raggiunto dalle bombe degli eserciti “avversari”, sganciate dall’aviazione “nemica”, lanciate dai sottomarini o dalla marina militare dei “nemici”. Come ha dimostrato l’America nella seconda guerra mondiale, e come è dimostrato dalle centinaia di guerre che hanno punteggiato tutti gli anni che ci separano dalla fine del secondo macello imperialistico mondiale, le truppe invadono i territori “nemici” dopo che cospicui bombardamenti hanno provveduto a distruggere non solo postazioni militari “nemiche” ma tutto ciò che può fiaccare il morale e la resistenza dei “nemici”, quindi soprattutto le città, i villaggi, le abitazioni civili, le infrastrutture, i trasporti, le vie di comunicazione. Nella guerra borghese moderna non esiste più una netta separazione tra obiettivi “militari” e obiettivi “civili”: tutto diventa o può diventare obiettivo “militare”. Il fronte di guerra, perciò, si sposta continuamente, segue in pratica la direzione dei proiettili, delle bombe, dei missili.

Finché esisterà il capitalismo, l’ecatombe di morti che l’umanità ha conosciuto nelle guerre precedenti, comprese le guerre mondiali, e il loro orrore, sono destinati a diventare la regola. La pace che ogni proletario in cuor proprio vuole non è un bene che la società capitalistica può garantire, come non può garantire il benessere, il lavoro e l’armonia sociale per tutti. Ciò che il capitalismo può garantire è la miseria crescente, il sistematico depredamento delle risorse energetiche e ambientali, il continuo indebolimento delle difese sociali rispetto alle catastrofi «naturali», cicli di crisi economiche sempre più ravvicinati, il sistematico ricorso alla guerra guerreggiata, i suoi orrori e i suoi milioni di morti. Il capitalismo non ha più nulla di progressista da dare all’umanità ormai da tempo, sopravvive a se stesso non avendo alcuna capacità di risolvere le proprie contraddizioni e le proprie crisi se non creando i presupposti per contraddizioni sempre più profonde e crisi sempre più catastrofiche. La pace che il capitalismo offre all’umanità è la pace dei morti, è quell’intervallo di tempo – come ricordava Lenin – che passa fra una guerra e l’altra. In quale «patria» il proletariato, e con esso la stragrande maggioranza dei popoli, potrà mai trovare la pace?

 

Il pacifismo, veleno piccoloborghese
 

Tra le superstizioni che la borghesia alimenta coscientemente c’è il pacifismo, la teoria della non-violenza. Il potere di classe più violento che la storia dell’umanità ha conosciuto, il potere borghese appunto, è quello che ha sviluppato alla massima potenza gli strumenti di guerra, di oppressione, di distruzione, di morte. Dal cannone alla bomba atomica, alle bombe chimiche, alle famose armi di «distruzione di massa»: la ricerca, le innovazioni tecniche e tecnologiche dall’uso e per l’uso militare, ecco il progresso borghese dell’industrializzazione. Progresso inesorabile, ma al servizio della difesa e del mantenimento del potere borghese sull’intera società, del potere degli appropriatori privati della ricchezza sociale sulla stragrande maggioranza di espropriati di tutto, della stessa vita. Ed è questo potere borghese lo stesso che idealizza la pace, che fa sfilare in parata le proprie forze armate rivendicando la pace nel mondo, che organizza la guerra contro altri poteri esistenti, egualmente borghese, per imporre la pace, la democrazia, il progresso!

Il pacifismo, pur nelle sue mille varianti, considera la guerra come se fosse una malattia, o come se fosse il risultato di trame fra profittatori guerrafondai. Ma la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, con mezzi specificamente militari, affermava non un comunista ma un generale prussiano, Karl von Clausewitz, all’inizio del 1800. E la guerra borghese, nella fase imperialista, è la continuazione della politica di rapina, di brigantaggio, di dominazione caratteristica di ogni borghesia al potere, aldilà della effettiva possibilità di vincere il “nemico” o i “nemici” che di volta in volta si presentano nella lotta di concorrenza nel mercato mondiale. Se la lotta di concorrenza sul mercato internazionale è la regola, è la situazione naturale per i capitalisti, e dunque per gli Stati borghesi che ne difendono gli interessi privati, la guerra fa parte anch’essa della situazione naturale del capitalismo, sia guerra commerciale, finanziaria, diplomatica o guerreggiata. Diventa guerreggiata quando la politica non riesce più a difendere gli interessi privati dei capitalisti del tale o tal altro paese coi mezzi diplomatici, commerciali, finanziari, economici. La pace borghese, perciò, non è altro che il periodo in cui la politica dei mezzi diplomatici, economici, commerciali, finanziari cerca di difendere a sufficienza gli interessi privati dei capitalisti in reciproca concorrenza. Il pacifismo, da parte sua, pretende di fermare il tempo, di impedire con atti non militari ad eserciti di diplomatici, capi d’azienda, governanti, strateghi della finanza, che la loro lotta di concorrenza per la spartizione del mercato mondiale sfoci in lotta tra eserciti armati. Il pacifismo non è solo un’illusione, è un’ideologia che falsa la realtà della società capitalistica e le sue leggi di sviluppo. E’ una superstizione politica che si sposa perfettamente con la superstizione religiosa con la quale si crede che un’entità sovrannaturale, per pietà verso gli uomini, toglierà loro prima della fine del mondo il germe della violenza, manifestando questo atto di fede nelle chiese, nelle processioni e nei raduni dei credenti; alla stessa maniera i pacifisti esprimono il loro atto di fede negli «uomini di buona volontà», nelle «coscienze» e in quel «senso di umanità» che albergherebbe in ogni individuo attraverso le loro processioni, le loro manifestazioni di protesta, i loro convegni, le loro chiese. Mai i movimenti pacifisti, anche se rappresentati da mobilitazioni di centinaia di migliaia di persone, sono riusciti ad impedire di per sé la guerra; essi, tutt’al più, fanno da contorno ad una guerra che finisce perché la propria borghesia è stata sconfitta e comunque per le stesse ragioni per cui è iniziata: ragioni economiche, commerciali, finanziarie, politiche dunque anche militari.

Ma il pacifismo ha anche uno scopo più direttamente sociale: deviare la protesta per il malessere sociale dal solco della lotta di classe sul terreno dell’interclassismo, il terreno in cui i proletari avrebbero interessi comuni con quella parte di borghesi che si dimostrano contrari alla guerra, contrari alla violenza se quest’ultima non è esercitata direttamente dallo Stato. Il riformismo di un tempo aborriva la violenza – e quindi la rivoluzione – ed amava profondamente l’interclassismo che rappresentava non soltanto il punto di partenza ideologico ma anche il punto d’arrivo della lotta operaia. Il pacifismo è un elemento dell’ideologia borghese, per essere più precisi dell’ideologia piccoloborghese, ossia di quell’ideologia che si fonda sul modo di produzione capitalistico e sulle sue leggi economiche e sociali, dunque sullo sfruttamento del lavoro salariato e dell’appropriazione privata delle ricchezze sociali, ma che vorrebbe una spartizione diversa del plusvalore; insomma: si continui a sfruttare il proletariato, si continui ad accumulare profitto da parte degli appropriatori privati della ricchezza sociale, ma si distribuisca una quota un po’ più grande anche alle altre classi sociali, nella fattispecie alla piccola borghesia; un po’ più di democrazia e un po’ più di denaro nelle tasche piccoloborghesi. L’orrore per la guerra non deriva, per i piccoloborghesi, dai corpi straziati dalle bombe, ma dalla paura di perdere la loro piccola proprietà, il loro negozio, il loro conto in banca, la loro casa, il loro pezzo di terra. E’ per questo che il loro pacifismo si trasforma, ad un certo punto, in interventismo, in appoggio alla guerra; quando la situazione di guerra si presenta, calpestando bellamente il loro pacifismo, allora il problema è: «da che parte della guerra stare»; e la piccola borghesia sta sempre dalla parte di quelli che danno a vedere di poter concederle qualche privilegio sociale ed economico, costasse pure rinnegare le idee professate fino al giorno prima e passare senza tanti scrupoli dalla parte opposta.
 

Contro la guerra imperialista, rivoluzione proletaria
 

Per avere la pace bisognerà fare la guerra, ma non la guerra borghese, che è sempre ormai solo di rapina. Bisognerà fare la guerra rivoluzionaria, quella guerra civile che i comunisti chiamano rivoluzione proletaria e che si pone l’obiettivo di abbattere il potere politico borghese per avviare, finalmente, quella trasformazione economica della società per cui il nuovo modo di produzione non avrà più per scopo la produzione di merci per il mercato ma la produzione di beni atti a soddisfare i bisogni della specie umana. Nella società comunista, ossia nella società senza classi in cui la specie umana vivrà in armonia con se stessa e con la natura e progredirà nella conoscenza della natura e dell’universo come mai l’uomo ha potuto finora, parole come pace, guerra, classi, antagonismo, miseria, fame, patria, non avranno più alcun senso perché le condizioni sociali ed economiche nella società comunista non genereranno sfruttamento dell’uomo sull’uomo, non genereranno contrasti fra classi che non esistono più, non vi saranno eserciti armati e Stati che li organizzano semplicemente perché non vi saranno più antagonismi sociali, antagonismi fra classi contrapposte.

Ma fino a quando la rivoluzione proletaria non avrà avuto ragione dei poteri borghesi dominanti, fino a quando la dittatura di classe del proletariato non avrà estirpato dalla società le condizioni politiche ed economiche del capitalismo, quindi dello sfruttamento del lavoro salariato da parte del capitale, vincendo la dittatura capitalistica e la sua resistenza, il proletariato, e con esso il partito proletario comunista, avrà a che fare con una lotta che è necessariamente di classe, con una guerra che è necessariamente di classe, con una dittatura e quindi con uno Stato che necessariamente sono di classe. La patria che il proletariato, e con esso la stragrande maggioranza degli uomini che abitano la terra, potrà riconoscere come propria e, verso la quale, avrà senso sacrificare anche la vita per difenderla, sarà rappresentata dalla dittatura proletaria, che non è altro che il proletariato fattosi classe dominante, nel lungo periodo di guerre e di rivoluzioni che intercorre fra la conquista vittoriosa del potere politico in uno o più paesi del mondo alla completa vittoria sulle forze della controrivoluzione borghese. La «patria socialista» di Lenin non è un territorio che corrisponde ad un mercato nazionale, ma il territorio che il proletariato vittorioso conquista al nemico di classe liberandolo dall’oppressione borghese e nel quale organizza sia la difesa del potere conquistato sia il sostegno alla lotta rivoluzionaria dei proletariati fratelli degli altri paesi, unici veri alleati del proletariato rivoluzionario vittorioso; è un bastione di una lotta rivoluzionaria che per teatro ha il mondo e per obiettivo ha l’abbattimento del potere borghese in tutto il mondo. Se si dovrà ancora usare una terminologia di questo tipo, come la usò Lenin nel 1918, la «patria socialista» dovrà essere sistematicamente difesa dalle aggressioni militari ed economiche dei poteri borghesi ancora in piedi, aggressioni inevitabili poiché la presenza della dittatura del proletariato vittoriosa anche solo in un paese è un pericolo per la borghesia internazionale. Non è un caso che contro la giovanissima dittatura proletaria in Russia tutti i poteri borghesi del mondo (sebbene in guerra tra loro per la spartizione del mercato mondiale) si allearono per abbatterla. Successe già con la Comune di Parigi nel 1871, e succederà ancora domani con la prossima Comune rivoluzionaria.

Ma i tempi della rivoluzione proletaria purtroppo non stanno ancora maturando, mentre invece si avvicinano i tempi di acute crisi economiche e sociali che i poteri borghesi stentano sempre più a controllare.

Durante il fascismo e durante la seconda guerra mondiale, turlupinando per l’ennesima volta il proletariato, la forma più recente e moderna di opportunismo che passò sotto il nome di stalinismo fece passare la lotta contro il nazi-fascismo come se fosse un atto di patriottismo degno di un secondo risorgimento, per cui bisognava salutare l’alleanza con gli imperialismi degli Stati democratici come l’unica via per liberarsi della barbarie e della guerra. La lotta per la «democrazia» contro la «tirannia» giustificava, secondo lo stalinismo, la partecipazione piena del proletariato alla guerra di rapina borghese schierandosi da una parte piuttosto che dall’altra dei fronti del brigantaggio imperialistico. La «patria», allora, secondo la propaganda borghese e la stessa propaganda stalinista doveva essere liberata dalla tirannia e riconsegnata alla democrazia, e in questo passaggio il proletariato avrebbe ritrovato libertà, benessere, pace e i popoli del mondo avrebbero trovato la fine di ogni guerra e di ogni oppressione. Ma sotto il fascismo come sotto il regime democratico, continuava a regnare la dittatura del capitale. Ed è a questa dittatura che il proletariato è stato per l’ennesima volta consegnato. Le galere democratiche non sono più vuote di quelle fasciste, anzi; la brutalità della guerra borghese di rapina non è terminata con la fine del secondo macello imperialistico mondiale, ma è continuata in tutte le parti del mondo; la democrazia non ha salvato dalle cariche e dai proiettili della sua polizia i lavoratori in sciopero, come non ha protetto la popolazione dalle stragi nere (Piazza Fontana, Piazza della Loggia, l’Italicus, la stazione di Bologna). Il dio Capitale e le sue esigenze di valorizzazione sono legge fondamentale nella società borghese, e le fazioni borghesi che si contendono il controllo dei poteri politici per vincere la concorrenza interna alla loro patria sono disposte a qualsiasi azione pur di prevalere; non si tratta solo di corruzione, e di affari sporchi, si tratta anche di mafie, di stragi, di eliminazione fisica di coloro che interferiscono pericolosamente negli affari. La patria borghese è la patria dell’affarismo, della corruzione, della spietata concorrenza, della delinquenza, del sopruso, dell’assassinio, della strage.
 

Propaganda del patriota e dell’eroe
 

E’ per questa patria che la classe borghese dominante chiama a raccolta le forze sociali. Prima invia truppe militari d’occupazione all’estero, ad esempio in Iraq, partecipando alla suddivisione del bottino della ricostruzione e della normalizzazione di un paese appositamente distrutto da una guerra di rapina nella quale si contano solo i morti dei contingenti d’occupazione disinteressandosi completamente delle migliaia di morti irakeni. Poi acconsente la corsa ai facili guadagni da parte di compagnie di mercenari che approfittano della situazione di caos e di insicurezza per farsi un gruzzolo. Poi alcuni mercenari vengono catturati dai “nemici”, vengono filmati e la videocassetta fa il giro del mondo col proposito da parte dei sequestratori di imporre al nostro governo il ritiro delle truppe. Uno di questi mercenari viene ucciso; ma prima di morire pare abbia gridato in faccia al suo boia: ti faccio vedere come muore un italiano!

E’ bastato questo per far diventare i mercenari sequestrati dei patrioti e il mercenario ucciso un eroe. La campagna di patriottismo ha preso così uno slancio imprevisto. L’orgoglio nazionale dell’Italia è salvo. Non siamo lì in missione di guerra, ma in missione di pace, insiste il nostro governo. Ma in Iraq la guerra non è finita il primo maggio dello scorso anno, come pretese il superpresidente americano Bush dalla tolda dell’ammiraglia della flotta da guerra nel Golfo Persico; la guerra di rapina continua, e la resistenza alla guerra anglo-americana da parte di guerriglieri di organizzazioni diverse soprattutto nella regione centrale di Bagdad, nel cosiddetto triangolo sunnita a nord di Bagdad e nella regione sud a Nassiriya e Bassora; a nord, nella regione curda, dopo che gli americani hanno dato agli alleati curdi il compito di controllare il loro territorio, sembra che la guerriglia di resistenza sia cessata.

Il mercenario ucciso a Falluja viene elevato ad eroe e viene additato come esempio di patriottismo. I quattro elicotteristi dell’esercito che nel marzo scorso si sono rifiutati di volare nella missione in Iraq perché ritenevano insicuri gli elicotteri a disposizione, sono stati invece additati come ammutinati, cattivo esempio per i soldati e una macchia per le Forze Armate italiane. In questo caso, molto semplicemente, i vertici militari si sono preoccupati di isolare e di punire i due ufficiali e i due sottoufficiali che si sono rifiutati di andare in missione con elicotteri non adatti alla missione per i cui i militari dovevano volare (5). E’ chiaro che il loro rifiuto poteva influenzare molti altri soldati. Il patriottismo, che i militari hanno interpretato come «senso di responsabilità» verso la propria vita e la vita di altri soldati che avrebbero trasportato, richiedeva invece che, in quanto soldati, dovevano semplicemente obbedire anche se potevano perdere la vita; in fondo fa parte del «rischio» che in quanto militari di carriera sanno di dover correre… Ma questa vicenda va vista anche da un altro punto di vista: la classe dominante italiana nella sua fregola di partecipare ad un bottino credendo di dover tutto sommato spendere poco, ha inviato 3000 soldati in Iraq non equipaggiati per sostenere azioni di guerra, ma equipaggiati per operazioni al massimo di polizia. La realtà è ben diversa, ed è tanto diversa che dopo la strage di soldati italiani a Nassiriya, dopo il rifiuto di volare dei 4 elicotteristi e dopo gli altri attacchi alle postazioni italiane in cui c’è scappato un altro morto, il governo ha deciso di inviare in Iraq carri armati e artiglieria pesante. Il patriottismo borghese, come volevasi dimostrare, corre sulla bocca dei cannoni.
 

Contro ogni impresa imperialista della propria borghesia, anche se ammantata da «missione di pace»
 

Contro le campagne di patriottismo e di nazionalismo della borghesia i comunisti, per quanto la loro voce sia poco diffusa, devono svolgere la propria propaganda denunciando non solo l’inganno che si nasconde dietro i concetti di patria e di patriottismo, ma svelando gli interessi reali che muovono la borghesia ogni volta che utilizza il sentimento di appartenenza ad una patria che significa esclusivamente la sua libertà di sfruttare il proletariato e di continuare a sfruttarlo sotto ogni cielo.

Ritiro immediato delle truppe d’occupazione dall’Iraq. Sì, è una rivendicazione che come minimo deve fare ogni proletario che non voglia passare per complice della propria borghesia imperialista e per oppressore di altri popoli e di proletari di altri paesi. Tanto più lo devono rivendicare i comunisti.

Non basta, però, chiedere il ritiro immediato delle truppe d’occupazione dall’Iraq; si deve chiedere il ritiro delle truppe italiane da qualsiasi altro paese in cui la borghesia nostrana ha inviato i soldati a proteggere i propri affari e i propri interessi. Afghanistan, Kossovo, Bosnia, Macedonia, Albania, Etiopia, Eritrea ecc. Sotto l’egida dell’ONU o no, i contingenti militari inviati nei vari paesi rispondono sempre ad interessi economici, politici e militari della borghesia nazionale dominante. Questi contingenti militari, al di là delle intenzioni borghesi dichiarate – che naturalmente sono sempre pacifiche – partecipano a guerre di rapina, ad occupazione di altri paesi, all’oppressione di altri popoli e di altri proletariati. E anche quando, attraverso i contingenti militari, vengono distribuiti un po’ di medicinali e di cibo, questo viene fatto per giustificare l’invio di truppe come «missione di pace», quando invece il loro compito vero è di rappresentare, armi alla mano, gli interessi della nostra borghesia nazionale. E se ci scappa qualche morto vuol dire che al tavolo della spartizione del bottino le richieste della borghesia italiana verso le borghesie degli altri paesi più forti avranno un po’ più di peso!

Ma perché le rivendicazioni di ritiro delle truppe dai paesi in cui sono state inviate abbiano effettivamente una possibilità di incidere sulla politica della classe dominante, non basta gridarle dalle manifestazioni. Esse vanno sostenute con azioni di lotta che per il proletariato sono principalmente azioni di sciopero, fino allo sciopero generale, come nell’indicazione della sinistra del Partito socialista italiano nel 1911 di fronte alla guerra che la borghesia italiana aveva scatenato contro la Turchia per le proprie conquiste coloniali in Africa, e in Libia in particolare. Azioni di sciopero che, per non esaurirsi in episodi di lotta senza prospettive, vanno inquadrate in un programma di lotta rivoluzionario, in un programma di lotta che prevede lo sbocco necessario della lotta di classe, la rivoluzione proletaria per la conquista del potere politico. «Né un uomo né un soldo» fu il grido lanciato dal battagliero Andrea Costa al congresso socialista del 1900 a proposito delle spedizioni in Africa per le conquiste coloniali e in Cina contro la rivolta dei Boxer; era l’epoca in cui le donne proletarie si sdraiavano sui binari dei treni militari per impedirne la partenza. Oggi, i parlamentari dei partiti cosiddetti di sinistra, si trastullano con meschine manovre di corridoio e con dispettose astensioni dal voto quando i crediti di guerra comunque per maggioranza passano indenni; essi sono lontani anni luce anche solo dai riformisti alla Turati che all’epoca della guerra in Libia si opposero decisamente alla guerra. Ma il riformismo di allora aveva a che fare con un fiero movimento proletario che si levò vigorosamente contro le imprese nazionaliste del giovane imperialismo italiano, e quindi per avere ascolto presso le masse proletarie doveva mostrarsi in ogni caso «contro» la guerra; salvo poi, nel 1914, alla vigilia del primo macello imperialista mondiale, cedere alle lusinghe nazionaliste delle proprie borghesie. Oggi, il movimento proletario non è nelle condizioni di reagire con vigore alle imprese militari e nazionaliste di un imperialismo che non cede mai alla tentazione di partecipare a guerre e imprese di rapina dalle quali trarre vantaggi economici e politici immediati e futuri, alla faccia dei principi sanciti nella propria democraticissima Costituzione repubblicana circa il fatto di non usare i mezzi militari nelle controversie internazionali.

Oggi il proletariato, mancando di associazioni proprie, indipendenti dalle istituzioni borghesi e capaci di rappresentare e organizzare gli interessi di classe del proletariato sul terreno immediato come su quello più generale, è prigioniero della politica collaborazionista che le forze dell’opportunismo attuano su tutti i livelli. Tale situazione pone i proletari nell’incapacità di organizzare e indirizzare la propria forza per obiettivi che rispondano effettivamente alla difesa dei loro interessi classisti, sul terreno delle condizioni immediate di vita e di lavoro come sul terreno sociale e politico più generale. La classe dominante borghese è perfettamente cosciente di questa debolezza del proletariato, e sa bene che questa debolezza l’ha ottenuta e la ottiene grazie all’opera sistematica, costante, in profondità delle forze della collaborazione interclassista che, facendo dipendere ogni anche elementare difesa immediata delle condizioni proletarie dal buon andamento dell’economia nazionale, dalla competitività delle merci italiane, dalla pace sociale, insomma dallo sviluppo del capitalismo, dimostrano di essere patrioti di prima grandezza. Non si può certo negare ai Fassino, agli Occhetto, ai D’Alema, agli Epifani o ai Cofferati la fierezza di essere italiani, l’avere inciso nei loro cuori l’amor di patria! Quella fierezza e quell’amore glieli lasciamo tutti!

I proletari hanno ben altro di cui andar fieri. Nella storia di ieri e in quella di domani del movimento proletario c’è l’internazionalismo, c’è la lotta a fondo, e perciò rivoluzionaria, contro lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, c’è la prospettiva di una società in cui il brigantaggio capitalista sarà definitivamente morto e sepolto perché morta e sepolta sarà la società capitalistica che lo genera. Gli opportunisti di tutte le risme amano profondamente questa società, solo che la vogliono meno orrida, meno contrastata, meno spigolosa; la amano come il servo ama il padrone, un servo che ha rinunciato del tutto ad emanciparsi e che quindi meschinamente si adatta alla situazione in cambio di privilegi di cui godere per se stesso e per i propri famigli. Nella miseria della loro vita quotidiana tentano costantemente di accaparrare una piccola quota in più nella spartizione borghese del plusvalore estorto al lavoro salariato: in cambio offrono i loro servizi di collaborazionismo svolgendo la funzione sociale di pompieri nei confronti delle lotte operaie, deviando le spinte proletarie di ribellione alle condizioni di schiavi salariati verso i rigagnoli del «confronto democratico», del «dibattito», della «rappresentanza» che va a discutere, per far loro accettare la durissima legge della concorrenza capitalistica. Le tensioni della concorrenza mercantile di cui i capitalisti soffrono nei rapporti fra capitalisti, vengono inesorabilmente trasferite nei rapporti fra capitale e lavoro come elementi di compensazione; la concorrenza fra lavoratori aumenta la possibilità dei capitalisti di attaccare le loro condizioni di vita e di lavoro abbattendo il salario medio mentre aumenta il tasso di sfruttamento di ogni singolo lavoratore impiegato. E’ questa una spirale che nel capitalismo non si può fermare, tanto è vero che più si sviluppa capitalismo, più aumentano le crisi e le tensioni economiche e sociali nel mondo, più aumentano i fattori di contrasto e di guerra, e per le grandi masse proletarie vi è solo il peggioramento progressivo della propria esistenza.

 

Rompere con l’interclassismo
 

I proletari non usciranno da questa spirale se non rompendo in modo deciso e netto con i metodi, i mezzi e la politica dell’opportunismo, del collaborazionismo. In mancanza di questa rottura, che significa rompere con la pace sociale e con la conciliazione di interessi che sono invece antagonisti, i proletari non riusciranno a riconquistare il terreno dell’indipendenza di classe, della lotta in difesa esclusiva dei propri interessi, della solidarietà proletaria che travalica ogni confine, caro alla borghesia, di categoria, di sesso, di età, di nazionalità. Senza questa rottura sociale il proletariato continuerà a restare prigioniero delle illusioni piccoloborghesi sulla democrazia borghese, sull’uguaglianza di fronte alla legge borghese, sulla possibilità di modificare la propria vita, il proprio futuro e il futuro dei propri figli affidandosi alle istituzioni borghesi che invece sono erette allo scopo di difendere gli interessi borghesi e, in funzione di politica interna, nelle loro vestigia falsamente al di sopra delle classi, di propagandare fra le masse la convinzione che al di fuori di quanto offrono questa società e il potere delle classi dominanti borghesi non ci sia nulla se non la barbarie, l’inciviltà, il terrorismo, la dittatura, la tirannia.

La spedizione di guerra in Iraq è stata giustificata perché laggiù si andava a combattere il terrorismo internazionale, una dittatura che avrebbe utilizzato terribili armi di «distruzione di massa» contro la «comunità delle democrazie occidentali», una tirannia che aveva affamato il proprio popolo. La caduta del regime di Saddam Hussein, certamente dittatoriale, tirannesco e terrorista soprattutto con la propria popolazione, e in particolare la distruzione di un intero paese da parte di un esercito mille volte più potente, rispondono in realtà – e i borghesi non riescono a nasconderlo – a grossi interessi capitalistici di ordine economico legati al petrolio e di ordine strategico legati al controllo di un territorio, il Vicino e Medio Oriente appunto, ritenuto da tutte le potenze imperialiste del mondo come vitale per gli equilibri mondiali. L’imperialismo italiano si è associato all’impresa bellica anglo-americana nel tentativo di trarre vantaggi diretti e immediati; più impaziente dell’imperialismo francese, russo e tedesco, quello italiano è corso al servizio dell’imperialismo anglo-americano per poter rimettere piede là dove aveva cominciato negli anni ’80 del secolo scorso e da dove dovette ritirarsi a causa dell’embargo con cui l’Iraq fu colpito dopo la prima guerra del Golfo. Per la ricostruzione dell’Iraq gli americani e gli inglesi assegnano la maggior parte degli appalti alle aziende dei propri paesi perché hanno materialmente fatto la guerra, e perché detengono il potere dittatoriale in Iraq da un anno a questa parte, da quando il paese è stato invaso militarmente dalle loro truppe e da quelle degli altri paesi coalizzati; ma esistono i subappalti e a questi vi concorrono finora ben 345 aziende italiane, fra grandi, piccole e medie industrie, (6); fra le grandi vi sono Eni, Fiat engeneering, Iveco, Merloni, Ansaldo, Pirelli cavi. In ballo vi sono complessivamente 18,6 miliardi di dollari. Piatto ricco mi ci ficco, sostiene un detto dei giocatori di poker; e l’Italia ci si è ficcata.

Azioni di sciopero, dicevamo più sopra, per premere sulla borghesia italiana e ottenere il ritiro delle truppe dall’Iraq e dagli altri paesi in cui sono state inviate; azioni di sciopero partendo, ad esempio, dalle aziende che sono in gara per la cosiddetta ricostruzione dell’Iraq, o dalle aziende che riforniscono equipaggiamento, viveri e logistica alle truppe inviate nei vari paesi. Questo sarebbe il modo proletario per rispondere anche politicamente, sul terreno immediato, alle imprese militare dell’imperialismo di casa. Le manifestazioni pacifiste, che non sono mancate fin dalla dichiarazione unilaterale di guerra all’Iraq da parte degli Usa e della Gran Bretagna, sono vere e proprie processioni, e non ci si può attendere nulla di più proprio perché ciò che anima i gruppi e le associazioni che le organizzano è quel sentimento parareligioso con cui ci si rivolge alle «coscienze» degli uomini illudendosi di potere cambiare i rapporti di forza fra poteri borghesi e masse proletarie per questa via. Non sono pochi i proletari che partecipano alle manifestazioni pacifiste, condividendo con la piccola borghesia le stesse illusioni sulla possibilità di far cambiare alla classe dominante borghese decisioni che ha preso nel pieno rispetto dei suoi interessi imperialistici. L’insistenza con cui il governo attuale conferma il mantenimento delle truppe italiane in Iraq per un tempo molto più ampio che non il 30 giugno di quest’anno allorquando dovrebbe insediarsi un nuovo governo irakeno, cosiddetto «indipendente» e «sovrano», è una ulteriore conferma che l’impresa militare in Iraq – come quella in Afghanistan e negli altri paesi in cui sono stati inviati soldati italiani – è parte integrante della difesa degli interessi imperialistici dell’Italia.

Contro gli interessi imperialistici della classe dominante italiana può lottare efficacemente solo il proletariato, ma alla condizione di lottare sul terreno di classe. Il patriottismo che la borghesia chiede al proletariato in zona di guerra è legato a doppio filo con il collaborazionismo in patria. L’interclassismo, la conciliazione degli interessi fra le classi, la concertazione che perfino il nuovo presidente della Confindustria ha richiamato come “nuovo” modo di far politica, sono gli elementi di una complicità fra borghesi e proletari a tutto svantaggio dei proletari; come d’altra parte è sempre stato. E’ durante il periodo di pace che la borghesia prepara la guerra; la pace borghese è il terreno nel quale maturano i fattori di contrasto che portano, raggiunto un livello di contrasti imperialistici insopportabile per uno degli schieramenti contrapposti, alla guerra guerreggiata. Nel capitalismo questo è un percorso inevitabile. E’ nel periodo di pace che la borghesia sperimenta l’efficacia del collaborazionismo sindacale e politico: se il proletariato rinuncia a lottare, in periodo di pace, sul terreno dello scontro di classe per difendere i suoi interessi immediati, tanto più rinuncerà a farlo in periodo di guerra, quando la forza di coercizione dello Stato borghese, giustificata dallo stato di guerra, viene messa in campo in tutta la sua potenza.
 

Il partito di classe non è un optional
 

Noi comunisti, consci dell’abisso in cui è caduto il proletariato, sappiamo per esperienza storica che le forze sociali del proletariato e delle masse sfruttate del mondo possono essere rimesse in movimento all’improvviso, quando dei punti di equilibrio sociale saltano e la classe dominante non è in grado di recuperare velocemente la situazione. E’ il movimento che crea movimento, sono le masse proletarie, spinte da potenti forze materiali di intolleranza alle condizioni di vita, che mettono in marcia la controtendenza, la tendenza cioè a rompere con la pace sociale e con la conciliazione interclassista per riconquistare il terreno dello scontro aperto, dichiarato, di classi contrapposte. Da comunisti sappiamo che non saranno la cospirazione, o l’organizzazione di atti terroristici che colpiscono simboli e personaggi della classe dominante, o la propaganda casa per casa presso gli operai nell’illusione di convincerli della bontà del comunismo, i fattori di ripresa della lotta di classe e rivoluzionaria del proletariato. Gli antagonismi sociali non sono contenibili per troppo tempo, e come una caldaia in cui si accumula una grande quantità di vapore tale che le valvole di sfogo non sono più sufficienti a controllarne la tenuta, ad un certo punto scoppia, così la società borghese in cui si sono accumulati contrasti e tensioni non più contenibili da politiche di collaborazionismo e di ricerca del consenso, ad un certo punto entra in crisi facendo scoppiare i contrasti sociali che nel periodo precedente si sono accumulati. Sono fatti materiali relativi a forze materiali che cozzano fra di loro e pongono obiettivamente le classi di fronte ad una lotta per la vita o per la morte.

I comunisti, grazie alla teoria marxista sanno leggere la storia, sanno che la lotta di classe – come la rivoluzione – non la si fa ma la si dirige; il che vuol dire che sono le masse proletarie che fanno la lotta di classe, che fanno la rivoluzione, perché la forza materiale di classe è rappresentata da loro e non da altri. Ma l’orientamento, l’indirizzo delle energie sprigionate dalla lotta di classe e dalla rivoluzione non è spontaneo, non è automatico. L’orientamento delle energie di classe è dato dal partito di classe, da quell’organo che per compito ha esattamente la guida della lotta di classe del proletariato portata fino in fondo, dunque fino all’assalto rivoluzionario del potere borghese e all’instaurazione della dittatura proletaria una volta abbattuta la dittatura borghese.

Lo sviluppo del capitalismo, tanto più nel suo ultimo stadio che è l’imperialismo, ossia il dominio del capitale monopolistico e finanziario sull’intera società, porta inevitabilmente verso la guerra imperialista. I comunisti sanno che il proletariato, se conquista il terreno della lotta di classe e sviluppa il suo movimento di classe prima dello scoppio della guerra imperialista, ha la possibilità di fermare la guerra ma solo con la rivoluzione, ossia con la guerra di classe per la conquista del potere politico. In questa prospettiva, preparando e formando il partito di classe prima della crisi di guerra, è possibile che il movimento di classe proletario sia guidato con efficacia e successo verso la rivoluzione. E’ avvenuto con il partito bolscevico in Russia nel 1917; può avvenire domani in Germania, in Italia, in Cina, in Francia o ancora in Russia, e sarebbe fin dal primo momento decisivo se avvenisse negli Usa. Il comunismo non ha nazionalità, non è confinato in un territorio, è la teoria della rivoluzione del proletariato internazionale, nasce come risposta alla mondializzazione del capitalismo, alla globalizzazione dello sfruttamento del lavoro salariato, all’internazionalizzazione dei contrasti inter-statali e inter-imperialistici. Il partito comunista, quindi, non può essere italiano, francese, tedesco, statunitense, spagnolo, russo, cinese, serbo, algerino o indiano: è fin dal principio internazionale o, se si vuole riprendere un termine usato da Zinoviev in uno dei suoi primi interventi alla Terza Internazionale, mondiale.
 


 

1) Il contingente militare italiano inviato in Iraq, sotto il comando inglese, è stato collocato a Nassiriya, nel sud del paese. A marzo di quest’anno si contavano 2.981 militari italiani impegnati in Iraq, tra carabinieri e soldati dell’esercito, in una missione militare che è stata denominata “Antica Babilonia”. La mattina del 12 novembre scorso, due autobombe riescono a penetrare nella base che ospita i carabinieri e si fanno esplodere. Muoiono 12 carabinieri, 5 militari dell’esercito e 2 civili che lavoravano nella base; i feriti sono 21.

2) Al Qaeda è il gruppo armato del miliardario saudita, ex collaboratore della Cia, Osama Bin Laden, che ha rivendicato l’attacco con aerei civili alle Torri Gemelle di New York l’11 settembre 2001, e molti altri attacchi terroristici anche in Arabia Saudita, oltre alla strage di lavoratori nelle stazioni di Madrid l’11 marzo scorso.

3) Vedi K. Marx e F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, Giulio Einaudi Editore, Torino 1962, p. 149, nel capitolo “Proletari e comunisti”.

4) Cfr, Lenin, La patria socialista è in pericolo!, in Opere, vol. XXVII, pp. 20-21. Per meglio comprendere il contesto in cui fu lanciato questo grido di allarme e la difesa della “patria socialista” è bene rifarsi ai diversi articoli che riguardano la vicenda legata alla pace di Brest-Litovsk, con tutti i dibattiti all’interno del comitato centrale del partito bolscevico, le diverse posizioni e l’indirizzo generale che Lenin diede all’intera vicenda, sia nel vol. XXVI che nel vol. XXVII delle Opere.

5) Vedi il Corriere della sera, 6.3.2004. Vi si può leggere: «In gergo militare si chiama “messa a terra”. Per i piloti è una sanzione gravissima. Ed è proprio la punizione inflitta, al termine dell’inchiesta disciplinare, agli elicotteristi dell’Esercito che hanno rifiutato di partecipare ad “Antica Babilonia” (…) La Procura militare indaga per ammutinamento. La loro carriera appare ormai finita. Lo sapevano i quattro militari che il rischio era questo. Ma sapevano anche che in pericolo c’era la loro vita e non se la sono sentita di salire a bordo». Il loro compito sarebbe stato «di pattugliamento e di scorta ai convogli, di evacuazione medica e di trasporto delle truppe. Giorno e notte devono essere sempre due elicotteri in stato di allerta». E i dispositivi di difesa degli elicotteri? «I dispositivi di sicurezza degli elicotteri non garantiscono l’incolumità di chi si trova a bordo. I sistemi di protezione non sono adeguati soprattutto per quel che riguarda il sistema antimissile che si attiva manualmente (…) Se tredici Chinook americani sono stati abbattuti nonostante fossero dotati del sistema automatico di protezione dai missili terra-aria, vuol dire che anche quegli elicotteri oggi sono diventati vulnerabili. I cecchini irakeni l’hanno imparato bene: basta sparare un missile da nord e un altro da sud in contemporanea ed ecco che il radar di bordo non è più sufficiente. Ne intercetta uno, ma l’altro missile inesorabilmente va a segno». Gli elicotteri dell’Aeronautica sono dotati dei sistemi antimissile come gli americani, anche se non è una protezione sicura al cento per cento; gli elicotteri dell’Esercito invece non sono proprio dotati di sistema automatico.

6) Vedi Italia Oggi, 4.6.2004. L’elenco delle 345 aziende italiane che concorrono ai subappalti per la ricostruzione in Iraq è stato consegnato da Confindustria al governo americano alla vigilia della visita di Bush a Roma. Certo che, in questo caso, ha fatto comodo ai padroni di queste aziende che il governo Berlusconi abbia continuato a ribadire che l’Italia è l’alleato più fidato degli Usa e che resta loro a fianco anche dopo il fatidico 30 giugno.

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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