Un terribile tsunami nel sud est asiatico ha provocato centinaia di migliaia di vittime

Il  vero  colpevole  è il capitalismo che,  con la sua cieca  e spasmodica ricerca di profitto in un ineguale sviluppo economico mondiale, piega la scienza agli esclusivi interessi di profitto e cancella la memoria della tradizionale conoscenza  dei  territori  e  dell’ambiente,  deforestando e costruendo artificiali mondi del divertimento e dell’evasione in cui infilare i sudditi del dio capitale che tentano di staccarsi dall’abbrutimento quotidiano

(«il comunista»; N° 93-94; Febbraio 2004)

 

 

Al largo di Sumatre, in Indonesia, il 26 dicembre scorso, u potente terremoto nei fondali dell’Oceano Indiano provoca un maremoto di grande violenza. Questo tsunami investe prima di tutto l’isola di Sumatra, e subito dopo le coste del sud ovest della Thailandia e della Birmania (oggi Myanmar), le coste orientali dello Sri Lanka e dell’India meridionale, le isole Nicobare e Andamane che vengono quasi completamente sommerse, e poi gli atolli delle Maldive a migliaia di miglia di distanza e, nelle ore successive, galoppando senza ostacoli, si spinge fino alle coste africane della Somalia. Nel movimento delle sue onde “anomale”, che viaggiano a 600-700 km orari, tutte le isole degli arcipelaghi che si trovano fra l’Indonesia e la Somalia vengono colpite, compresa l’isola di Diego Garcia e le Seicelle. Qualche ora, ed è una catastrofe.tc "Al largo di Sumatre, in Indonesia, il 26 dicembre scorso, u potente terremoto nei fondali dell’Oceano Indiano provoca un maremoto di grande violenza. Questo tsunami investe prima di tutto l’isola di Sumatra, e subito dopo le coste del sud ovest della Thailandia e della Birmania (oggi Myanmar), le coste orientali dello Sri Lanka e dell’India meridionale, le isole Nicobare e Andamane che vengono quasi completamente sommerse, e poi gli atolli delle Maldive a migliaia di miglia di distanza e, nelle ore successive, galoppando senza ostacoli, si spinge fino alle coste africane della Somalia. Nel movimento delle sue onde “anomale”, che viaggiano a 600-700 km orari, tutte le isole degli arcipelaghi che si trovano fra l’Indonesia e la Somalia vengono colpite, compresa l’isola di Diego Garcia e le Seicelle. Qualche ora, ed è una catastrofe."

Ci vuole qualche giorno per rendersi conto che le vittime non sono poche decine di migliaia, come all’inizio ufficialmente dichiarato dai vari governi, ma qualche centinaio di migliaia (solo in Indonesia cifre ufficiose parlano addirittura di 400.000 morti!).

Quanti esseri umani si sarebbero potuti salvare dallo tsunami?

LA STRAGRANDE MAGGIORANZA!

 

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Scienza capitalistica e maligna

 

Nell’era del progresso tecnologico avanzatissimo non mancano le strumentazioni in grado di identificare rapidamente la potenza dei terremoti e i loro probabili effetti nello spazio e nel tempo; nell’epoca in cui migliaia di satelliti controllano ogni centimetro del nostro pianeta (certo, per motivi militari, innanzitutto, e per motivi commerciali), nell’epoca in cui la velocità delle comunicazioni è pari alla velocità della luce, un’ecatombe come quella del 26 dicembre non dovrebbe essere nemmeno ipotizzabile. E invece, sotto il dominio universale del capitalismo, una catastrofe segue l’altra.

Secondo quanto raccontato dai giornali, i rilevatori americani e giapponesi hanno immediatamente percepito la potenza del terremoto sottomarino, e le autorità preposte hanno immediatamente compreso quali potevano essere le conseguenze. Infatti, nelle basi militari americana e britannica nell’isola Diego Garcia – dove la terra è al massimo 6 metri sul livello del mare –, in pieno Oceano Indiano, non vi sono state vittime. Per l’ennesima volta, ognuno per sé…

Il termine tsunami, coniato in Giappone, e non per caso, significa «onda nel porto», ossia onda “anomala” che può provocare disastri a cose e uomini. Tutti i sismologi del mondo sanno ormai che un terremoto sottomarino provoca sicuramente delle onde anomale, le cui caratteristiche sono quelle di presentarsi vicino alle coste improvvisamente, a grande velocità, con altezze notevoli, spostando enormi masse d’acqua, e producendo – prima di abbattersi con tutta la loro violenza – un gigantesco risucchio.

Nonostante questa conoscenza, la catastrofe nei paesi del Sud Est asiatico non è stata evitata. Il perché non va cercato nella fatalità, nei disguidi tecnici, nelle eventuali incomprensioni linguistiche o nella superficialità dei burocrati. Il perché va cercato nelle leggi del mercato per le quali ogni conoscenza, ogni informazione, ogni dato statistico, ogni strumentazione, ogni impianto, ogni organizzazione, ogni attività sono sottoposti a ben precisi costi e rispondono a proprietà private ben precise; ad ogni costo, d’altra parte, in regime capitalistico deve corrispondere un ricavo, un guadagno. Gli Stati ricchi, gli imperialismi più potenti sono tecnicamente e tecnologicamente più attrezzati di ogni altro Stato; ciò non li mette al riparo dalle possibili catastrofi naturali, ma dà loro certamente più possibilità di limitare i danni alle proprie strutture, ai propri uomini, alle proprie proprietà, ai propri capitali. Anche se, ma anche questa è una legge del capitale, da ogni disastro, da ogni catastrofe, chi ci guadagna davvero è sempre Sua Maestà il Capitale che in questo modo ha una possibilità ulteriore di essere investito per la ricostruzione, come succede dopo ogni distruzione di guerra.

Non c’è mese che passi che non vi siano da qualche parte nel mondo disastri provocati da alluvioni, o frane, o smottamenti, o esondazioni, o uragani, o terremoti, o eruzioni, o, come in questo caso, maremoti. Non c’è giorno che passi che non vi siano morti per infortuni sul lavoro, per incidenti stradali, ferroviari, marittimi o aerei; non c’è giorno che passi che non vi siano morti a causa di conflitti armati e di guerre. La violenza più bruta e cieca permea tutta la vita quotidiana di questa società: la violenza della società del capitale, la violenza della natura, abbinate in un abbraccio mortale.

I giornali parlarono di più di 800.000 morti nella terribile mattanza di qualche anno fa – fomentata da imperialismi europei in contrasto fra di loro – in Ruanda e Burundi, fra Hutu e Tutsi; altro che tsunami!, e più dei morti italiani nella prima guerra mondiale che, con i suoi 600.000 morti, appariva all’epoca come qualcosa di inimmaginabile e non più ripetibile. In Ruanda, in Burundi non c’erano villaggi turistici frequentati da europei o americani, non c’era quell’obbrobrio chiamato «turismo sessuale» come per la Thailandia; quindi non se ne è saputo praticamente più nulla! Come per il terremoto del 1976 in Cina che fece più di 700.000 morti. La borghesia pilota l’informazione dove gli interessi dei capitali sono più forti e più immediati, mentre nasconde le notizie che danneggiano l’immagine dei poteri politici o che non hanno la caratteristica di essere utilizzate all’immediato per fare soldi.

Le mete turistiche per piccolo borghesi e borghesi benestanti, ma anche per quella fascia di aristocrazia operaia che tende ad avvicinare il suo tenore di vita e il suo “stile di vita” a quello piccolo borghese, rappresentate ad esempio dalle località colpite dallo tsunami del dicembre scorso fanno molto più notizia – fanno girare soldi per i tour operator, acquistare giornali e riviste, ascoltare tv e radio, dunque fanno audience! – di quanto potessero fare Goma o il Lago Kiwu nell’Africa Nera. Laggiù nel Sud est asiatico, le mete turistiche a prezzi abbordabili anche da un metalmeccanico dell’opulento Occidente, italiano o svedese che sia, sono obiettivi in un certo senso da turismo “di massa”; mentre nell’Africa Nera il Lago Kiwu o il Lago Tanganica… non interessa quasi nessuno.

I morti europei del 26 dicembre diventano così i morti più importanti, e più importanti di tutte le centinaia di migliaia di vittime indigene. Così, l’orrenda e stomachevole distinzione di censo ridiventa l’ago della bilancia: l’attuale corsa agli «aiuti» ai paesi colpiti dal maremoto – «aiuti» sempre molto oculati e soprattutto inseriti in linee di interesse alla «ricostruzione» affinché sia ricostituita la macchina di profitto rappresentata dal turismo – non è che la dimostrazione, se mai ce ne fosse stato ancora bisogno, della propensione del capitalismo a cibarsi costantemente di lavoro vivo. Prima, sfruttando bestialmente masse gigantesche di proletari e contadini diseredati dei paesi a capitalismo arretrato nella costruzione di “paradisi di vacanza” per possidenti e benestanti; poi, a catastrofe avvenuta, sfruttando al massimo il caos e il bisogno di sopravvivere delle popolazioni locali, per ricostruire quei maledetti “paradisi” attraverso i quali ribadire la moderna schiavitù del lavoro salariato e del mercato capitalistico.

Le scienze naturali moderne hanno portato all’uomo la conoscenza, sebbene parziale, dei fenomeni naturali, buttando le basi per una conoscenza più approfondita della natura, conoscenza che il capitalismo non avrà mai la possibilità reale di sviluppare a beneficio della specie umana e dello stesso ambiente naturale. Lo sviluppo del capitalismo non poteva che piegare la conoscenza scientifica alle esigenze specifiche del suo modo di produzione, esigenze che a loro volta si sviluppano su linee di forza attraverso le quali i grandi centri di potere economico, e quindi politico e militare, dettano i pro e i contro tra Stati, paesi, nazionalità. Quanto più la legge del profitto prevale su tutta la vita sociale degli uomini, tanto più le leggi naturali vengono nascoste e dimenticate. Le “risorse finanziarie” e le “risorse umane” vengono sistematicamente dirottate sul business, su tutto quel che può essere trasformato in denaro e che può valorizzare il capitale investito: il “resto” non conta!

Le foreste di mangrovie che, nei paesi del sud est asiatico, contribuivano ad attenuare gli effetti devastanti di tifoni, uragani e maremoti sono state distrutte per far posto agli allevamenti di gamberetti – come da richiesta del mercato –; i litorali un tempo liberi alle mareggiate sono stati occupati imperiosamente da alberghi, piscine, campi da tennis, strade affinché l’industria turistica – di lusso e non di lusso – in mano in genere alle multinazionali producesse profitti a montagne. Si è costruito là dove non di sarebbe mai dovuto costruire, ma la concorrenza nel settore turistico è tale per cui l’offerta ai consumatori deve essere sempre più appetibile, e dove la bellezza del posto si coniuga con le comodità, i comfort, e i tempi brevi. Tra gli altri lo afferma anche uno specialista svizzero che ha vissuto per molto tempo in Thailandia e in Indonesia: «se questo fenomeno naturale ha preso la forma di un cataclisma, è perché gli uomini si sono insediati oggi in luoghi in cui non dovrebbero vivere» (Bangkok Post, citato da «Courrier International» del 6.1.2005). E di rincalzo, un esperto dell’ONU, citato da «Le Monde» dell’8 gennaio scorso, sostiene che non vi sono catastrofi naturali, ma soltanto catastrofi sociali.

Gli è che il mare si è ripreso quel che gli è stato tolto…

E tanto dipende la vita di ogni essere umano dal mercato, dal lavoro salariato, dallo sfruttamento capitalistico di ogni possibile risorsa, che gli stessi abitanti dei luoghi, in cui la tradizione e la capacità di “sentire” i movimenti della natura delle vecchie generazioni sono andate via via perdendosi, non hanno più la memoria dei fenomeni naturali che generazioni antiche avevano finito per conoscere e coi quali convivere. Non è un caso che alcuni gruppi di aborigeni che vivevano ai bordi del mare – come casualmente documentato da qualche giornale – siano riusciti a salvarsi senza perdere nessuno, semplicemente spostandosi in tempo verso le colline. E non è un caso – salvo animali domestici come cani, gatti e capre, corrotti anch’essi dalla vita quotidiana mercantile e morti insieme agli uomini – che di animali selvatici, tigri, elefanti, scimmie, ecc. non si siano trovate carcasse. Al tempo del capitalismo più sviluppato, i “selvatici” riescono ancora a mantenere con la natura un rapporto molto più stretto e dialetticamente organico di quanto non riesca il civilissimo uomo del capitale.

 

Catastrofe non della miseria o del sottosviluppo, ma del capitalismo in quanto tale

 

Secondo tutti i media del mondo, la causa principale della catastrofe sarebbe da cercare nella mancanza di sistemi di previsione e di allerta che questi paesi, così poveri, non si possono permettere. Bisogna però sapere che in questa regione del mondo, dove i tifoni sono la regola, a dispetto della povertà dei paesi che si affacciano nell’Oceano Indiano, esiste un sistema internazionale di allarme in caso di tifone che funziona perfettamente per avvisare le navi (naturalmente le navi commerciali e le grandi flotte per la pesca d’alto mare; ma che ne è dei piccoli battelli dei singoli pescatori?).

Scorrendo il susseguirsi dei fatti, si sa che l’informazione sul rischio di tsunami c’era ed è stata inviata alle diverse autorità competenti. Certo, nei luoghi prossimi all’epicentro del terremoto i sistemi d’allarme non avrebbero potuto far molto (ma in quei luoghi non si sarebbe dovuto costruire e inurbare decine di migliaia di persone!) data l’improvvisa apparizione delle onde anomale e la loro velocità di spostamento. Ma in tutti gli altri luoghi il tempo a disposizione c’era, ma non è stato usato per salvare vite umane.

La stampa in Malesia si è indignata per il fatto che a Penang, prestigiosa zona balneare del paese, le direzioni dei grandi hotel, avvisate del terremoto che stava avvenendo in Indonesia, hanno fatto evacuare i loro clienti per timore dello tsunami. Ma nessuno si è preoccupato di avvertire i turisti locali presenti nelle spiagge pubbliche: le sole vittime sono state fra questi turisti locali mentre tutti i ricchi turisti (non solo stranieri) degli hotel si sono salvati («Courrier International», 6.1.2005).

In India, la stampa ha segnalato gravi «disfunzioni» nella trasmissione (o della non trasmissione) delle informazioni possedute dai centri meteo, criticando la lentezza leggendaria della burocrazia indiana. Tuttavia, voci sostengono che le autorità hanno potuto mettere al riparo del naviglio nei porti commerciali; è una notizia non certa, mentre è sicuro che le autorità hanno cercato di allertare una base militare in costruzione sulla costa nello Stato del Tamil Nadu (che ha per capitale Madras), senza peraltro riuscirvi a causa della mancanza di telefoni satellitari in quella base. Nessuno sforzo, al contrario, è stato fatto per avvisare le popolazioni delle zone interessate. La lentezza burocratica concerne soprattutto la sorte delle masse povere e proletarie…

In Thailandia, i servizi meteo, al corrente del terremoto in Indonesia, hanno rinunciato coscientemente a lanciare l’allarme tsunami in piena stagione turistica (un responsabile ha affermato di aver avvisato le televisioni, ma queste non si sono premurate di diffondere l’informazione). In precedenza, alcuni responsabili di questo servizio sono stati licenziati perché l’allarme si dimostrò falso, scatenando le ire delle aziende turistiche. E’ evidente che gli interessi del comparto turistico sono determinanti nell’utilizzo delle informazioni relative al meteo e a tutto ciò che può sconvolgere il regolare flusso degli affari.

In Kenya, la notizia è stata diffusa a Mombasa cosicché i turisti hanno potuto abbandonare in tempo le spiagge; la notizia non è invece arrivata alla popolazione che vive sulla costa e dove in effetti vi sono state delle vittime (poche, visto che la zona non è densamente popolata e che la forza dello tsunami ormai si era indebolita).

Va detto che questi paesi – nonostante i loro debiti ammontino, per tutti gli 11 paesi colpiti, ad oltre 350 miliardi di dollari (secondo i dati della Banca Mondiale), l’Indonesia da sola per 131 miliardi, l’India per 83, la Thailandia per oltre 58 – non sono capitalisticamente così arretrati, sebbene il loro sviluppo non raggiunga il livello del Giappone o degli Stati Uniti. L’India è una potenza nucleare, possiede un programma spaziale, investe pesantemente nello sviluppo della marina da guerra; insomma è il secondo gigante dell’Asia! Li ha i mezzi per investire su installazioni e tecnologie fra le più sofisticate. La Thailandia è una delle «tigri» dell’Asia; se il turismo – e soprattutto il turismo sessuale – è stato per qualche decennio uno dei motori del suo sviluppo economico, oggi questo paese ha un’economia diversificata (industrie farmaceutiche, dell’automobile, ecc.). E soprattutto, i grandi gruppi del turismo mondiale sono oggi fra i più importanti investitori in questo paese: è il capitalismo internazionale ultra-sviluppato che ha costruito le marine e gli hotel a 5 stelle a Phuket!

Tutto ciò dimostra che il problema non è l’assenza di strumenti tecnici all’avanguardia (i sistemi di previsione e di allerta) e non è la povertà economica tout court, ma la natura di classe di questi Stati. Questi paesi sono paesi capitalistici, e quindi la sorte delle popolazioni e soprattutto delle masse proletarie è del tutto secondaria rispetto agli interessi del capitale, alla redditività degli investimenti, alla produzione di profitto capitalistico.

Se dalla Thailandia o dall’Indonesia passiamo all’Italia, alla Francia, ai paesi dell’opulento Occidente, ci si potrebbe far l’idea che qui da noi, a fronte di una situazione come quella successa nel sud est asiatico, l’impiego dei formidabili apparati scientifici e tecnologici del capitalismo sviluppato eviterebbe che si facessero tante vittime. In realtà, e basta guardare all’Italia, nonostante il potenziale tecnico a disposizione una qualsiasi alluvione, una frana, uno smottamento, un’eruzione o un terremoto, l’ingrossamento improvviso di un fiume o di un torrente, è certo che provocano non solo danni materiali ma vittime! E cosa dire delle pendici del Vesuvio, abitatissime, quando la montagna esploderà? Pompei ed Ercolano, al confronto, non erano state nulla!

Quanto sono rispettate le regole antisismiche nelle costruzioni? Quanto sono rispettate le distanze dalle coste, e dove sono le necessarie vie di fuga? Quali i sistemi di allerta, quali le esercitazioni preparatorie, quali i mezzi di trasporto predisposti, e in quali luoghi rifugiare centinaia di migliaia di abitanti? Il capitalismo è sensibile soltanto alla voce risparmio dei costi, perché quel risparmio corrisponde a quote di profitto più ampie. Nel 1908, uno tsunami nel Mar Tirreno si scaglio contro le coste calabresi e siciliane, e quando si ritirò Messina e Reggio Calabria non esistevano quasi più: le cronache parlano di 150.000 morti, una delle tragedie più terribili del secolo scorso. Se dovesse ripresentarsi una situazione simile sulle coste del Portogallo, o della Spagna, sulle coste della Turchia o ancora dell’Italia, è certo che i morti non si riuscirà più a contarli, come succede oggi in Indonesia. Il capitalismo non si assume i costi delle misure di prevenzione, non lo ha mai fatto e mai lo farà, né nei paesi supersviluppati, né nei paesi a capitalismo giovane o arretrato.

 

Campagne di ingannevole solidarietà

 

In Europa, in particolare, alla catastrofe di questo tsunami è stato dato, come dicevamo più sopra, un risalto eccezionale perché molti europei ci hanno lasciato la buccia. Ma questo risalto eccezionale è servito, in verità, ad altri scopi, primo fra tutti quello di rilanciare l’inganno democratico del «tutti uniti per aiutare chi ha più bisogno», attraverso una formidabile campagna di «solidarietà» con i «colpiti dallo tsunami». Approfittando della forte emozione che quelle morti e quei disastri hanno provocato, grandi media televisivi e di stampa, grandi banche, governi, chiese, associazioni “umanitarie” a partire dalla Croce Rossa per seguire con la Caritas e mille altre anche “di sinistra”, si sono buttati a pesce in una fitta serie di campagne per la raccolta di denaro e di prodotti in un virtuale e universale abbraccio umanitario nel quale si riconoscessero capitalisti e lavoratori salariati, preti e disoccupati, bottegai e delinquenti, politicanti e mezzani, insomma il popolo!

Uno degli obiettivi di queste campagne di falsa solidarietà, taciuto ovviamente, era quello di far dimenticare ai proletari, ai contadini diseredati, agli emarginati di questa società, le differenze di classe, differenze che fanno sì che gli schiavi salariati che muoiono negli incidenti di fabbrica, nel respirare amianto, cvm e qualsiasi altra sostanza nociva utilizzata senza protezioni adeguate nei cicli produttivi capitalistici, negli stenti di una sopravvivenza di miseria e di violenza, restino gli schiavi salariati che erano, mentre i capitalisti, i loro lacché, i loro dirigenti d’azienda, i loro business man, insieme alla massa di piccoli padroni e bottegai che forma il consistente strato di piccola borghesia che caratterizza l’opulenza sfruttatrice della società capitalistica avanzata, continuino a incamerare profitti, continuino a vivere da parassiti sullo sfruttamento del lavoro salariato, sul sudore e sulla morte di milioni di proletari non solo dei paesi industrializzati ma anche dei paesi meno avanzati. A dimostrazione che la globalizzazione, come amano definire quel che già Marx chiamava mercato capitalistico internazionale con conseguente divisione internazionale del lavoro, non è altro che l’universalizzazione dell’oppressione capitalistica sull’intera specie umana, dalla quale oppressione non ci sono programmi ecologisti, convegni internazionali sul clima o sulla povertà, riforme politiche o “strutturali” che possano proteggere. Il capitalismo opprime anche quando aiuta, non solo quando distrugge!

La prospettiva che il capitalismo offre all’uomo è una società in cui le differenze di classe si acutizzano, in cui la forbice fra paesi industrializzati e paesi a capitalismo arretrato si allarga sempre più, in cui all’oppressione economica fondamentale che il capitale esercita sul lavoro salariato si aggiungono oppressioni sempre più pesanti e allargate sul terreno della differenza fra i sessi, fra le età, fra le razze, fra le nazionalità, fra le religioni. La vita economica e sociale degli uomini è sempre più prigioniera della voracità capitalistica in termini di profitto, ma sempre più lacerata dalla “lotta” che il capitalismo conduce contro la sua stessa principale legge economica destinata ad acutizzare al massimo le sue contraddizioni: la caduta tendenziale del saggio di profitto.

La distruzione di masse ingenti di beni è una manna per il capitalismo sviluppato; ben vengano le guerre, ben vengano gli uragani, i terremoti, le eruzioni, i maremoti. Quanti morti? Milioni, decine di milioni? Il capitale ha la sua morale: pazienza!, si paghino i danni materiali e morali, e si continui a macinar profitto! Ricostruire, parola magica: rimettere la macchina produttiva dei paesi colpiti dal cataclisma in condizioni di sfruttare al meglio il lavoro salariato, ai costi più bassi possibile! E nella ricostruzione vi sono già gli elementi della prossima catastrofe! Aiuti, altra parola magica: ripesare i rapporti di forza fra Stati “debitori” e Stati “creditori”, e sfruttare al meglio da parte dei più forti la situazione di debolezza derivante dai danni subiti e dalla necessità di ottenere all’immediato degli “aiuti” per far ripartire anche in loco la macchina dello sfruttamento capitalistico del lavoro salariato!

Da qualsiasi angolazione la si consideri, la catastrofe per il capitalismo è sempre un affare! Questa è una delle ragioni principali per la quale il capitalismo non svilupperà mai e poi mai un sistema di prevenzione adeguato ed efficace rispetto ai potenziali danni provenienti sia dalla sua attività economica e sociale sia da eventi effettivamente naturali. Ragioni di costi non lo permettono, ragioni di contabilità capitalistica! E per quanto i borghesi cosiddetti “progressisti” o “illuminati” si diano da fare per mitigare gli effetti catastrofici – sia socialmente che economicamente – dell’economia e della conduzione politica della società borghese, proponendo in continuazione infinite modifiche riformatrici ai diversi livelli, il sistema economico capitalistico dimostra caparbiamente di essere irriformabile, di essere sempre fondamentalmente uguale a se stesso nonostante lo sviluppo della tecnologia e delle scienze.

La soluzione dei mali del capitalismo, come la storia del suo sviluppo dimostra da più di 150 anni, non sta nel riformare uno o più aspetti del suo sistema economico o dei suoi regimi politici. Il capitalismo sopravvive a se stesso, distruggendo la vita dell’uomo e della natura. L’uomo potrà sopravvivere al capitalismo e riconciliarsi con la natura alla condizione di distruggere il capitalismo, dalle fondamenta, nel suo modo di produzione sul quale si è eretto in tutta la sua potenza e in tutta la sua oppressione.

Ecco perché i comunisti prospettano come futuro non solo del proletariato in quanto classe salariata, ma dell’intera specie umana, il comunismo, ossia una società in cui lo scopo fondamentale non è soddisfare le esigenze di mercato, ma le esigenze dei bisogni materiali e spirituali della vita sociale dell’uomo. Per raggiungere il comunismo, che non è l’utopistica società degli eguali ma la società degli uomini capaci di vivere armonicamente in un insieme organico che comprende tutte le differenze fra gli individui integrandole nella loro vita sociale e in armonia col mondo naturale, sono storicamente necessari alcuni svolti nei quali le classi sociali fondamentali – proletariato e borghesia – si scontrino. Questi scontri, questa lotta per la vita o per la morte, perché sia storicamente proficui devono svolgersi in condizioni di alta maturazione delle contraddizioni economiche, sociali e politiche. Allora, da tali scontri, che altro non sono che la lotta di classe portata fino in fondo (fino alla rivoluzione per la conquista del potere politico, all’instaurazione della dittatura proletaria esercitata dal partito di classe, alla guerra rivoluzionaria contro i residui capitalistici e borghesi, alla trasformazione economica della società da capitalismo a comunismo), ne potrà uscire la soluzione storica, la distruzione del capitalismo a partire dalla sua sovrastruttura politica per finire con la sua struttura economica. I comunisti, nell’oggi, lavorano e combattono per quel domani.

 

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Al fine di fissare i diversi aspetti che la vicenda dello tsunami nel sud est asiatico ha messo così tragicamente in evidenza, svolgiamo qui di seguito alcuni punti.

 

La catastrofe era annunciata da tempo. La zona è conosciuta dai sismologi di tutto il mondo come una zona a rischio terremoti sottomarini, e quindi di tsunami, tanto che qualche anno fa si poteva leggere nei giornali che ci si doveva sbrigare a visitare le Maldive, visto che si prevedeva la loro scomparsa nell’Oceano; oggi alcuni scienziati ne prevedono la scomparsa intorno al 2030. Ciò nonostante, le magnifiche spiagge delle isole e dei paesi del sud est asiatico sono state attrezzate per il turismo sia di lusso che di massa (in specie europeo, australiano e americano, ma poi anche giapponese e cinese), facendo – secondo la logica del capitalismo “giovane” e d’assalto – tutto ciò che era necessario per ottenere in tempi brevi e a costi contenuti il massimo di profitto (costruzione di hotel e bungalow lungo le coste e sulle spiagge, eliminazione delle foreste di mangrovie, sfruttamento bestiale dei proletariati locali sradicati dalle città e dalle campagne dell’interno per gettarli nel vortice del turismo internazionale, ecc.), risparmiando su qualsiasi impianto di prevenzione e di avvertimento rispetto alle conseguenze di terremoti e maremoti. E naturalmente senza attrezzare le varie località – che d’altra parte si prevedeva sarebbero state frequentate da migliaia e migliaia di turisti – di alcun sistema di prevenzione antisismico e, addirittura, in tantissimi casi, antincendio e dei sistemi di allarme generale attraverso sirene, luoghi di raduno ecc.

I sistemi scientifici odierni sono in grado di registrare i movimenti dei terremoti prevedendone le conseguenze e in buona sostanza la loro potenza; per l’Oceano Pacifico – ovviamente dopo aver dovuto contare migliaia di vittime per tsunami avvenuti in precedenza – esiste un sistema di monitoraggio, e di avvertimento delle popolazioni delle coste che possono essere colpite, tanto che nelle Hawaii e in Giappone le conseguenze dei terremoti negli ultimi anni non fanno molte vittime [ma non è ancora successa la catastrofe annunciata da tempo per la California, dato che la faglia di Sant’Andrea potrebbe presentare prima o poi una situazione simile a quella del 26 dicembre al largo di Sumatra, ma è appunta conosciuta dagli scienziati, e non è detto che la supermoderna America sia davvero in grado di evitare alla popolazione della California un’ecatombe; la logica del capitalismo – denaro facile e veloce – è uno dei maggiori ostacoli all’uso intelligente dei mezzi di prevenzione che lo sviluppo tecnologico comunque produce]. Quanto ai paesi del sud est asiatico, congenitamente poveri e ad economia arretrata o “povera”, la risorsa capitalistica del turismo assomiglia molto alle risorse delle materie prime: spiagge, fondali marini, coste e paesaggi splendidi – dunque terra e acqua, materie prime per l’appunto – trattate come miniere di lusso; ma prima o poi le miniere crollano o esplodono provocando morti e feriti, e le catastrofi minerarie sono causate 99 volte su 100 a causa dei risparmi che le aziende minerarie attuano nelle indagine geologiche, nei materiali, negli impianti mentre non risparmiano assolutamente il lavoro vivo dei salariati.

 

Ignoranza criminale. E’ tale la ricerca spasmodica di profitto che la cultura e le stesse conoscenze ambientali delle popolazioni indigene sono state spazzate via per far posto al cemento, alle piscine, ai centri commerciali, ai locali notturni, all’organizzazione massificata e frenetica dell’evasione, del divertimento, e del sesso. Si è così perduta la conoscenza dell’ambiente in cui si vive e, quindi, non si è in grado di utilizzare in modo efficace la tecnologia moderna per proteggere l’attività e la vita umana; in Giappone, ad es., hanno messo a punto dei sistemi di barriere che, in presenza di uno tsunami, si alzano di fronte all’imbocco dei porti per evitare che l’onda anomala entri nel porto e distrugga tutto quel che trova sul suo percorso. I giornali non dicono nulla su sistemi simili a difesa delle colture, delle abitazioni, dei ripari per gli animali. Lo tsunami, oltre ad aver provocato le centinaia di migliaia di vittime, ha nello stesso tempo distrutto la possibilità di riutilizzare in tempi brevi la terra per l’agricoltura, e salinizzando le fonti d’acqua dolce che ha trovato nella sua corsa verso l’interno, ha messo a repentaglio la vita di intere comunità umane. Gli animali selvatici si sono salvati, alcune tribù di indigeni si sono salvate: semplicemente interpretando correttamente i segnali che la natura stava inviando attraverso le scosse del terremoto sottomarino, e scappando velocemente verso l’interno e le alture, dove ovviamente le alture ci sono: animali selvatici e tribù indigene non sono attrezzati con stazioni sismiche, impianti di allerta, sirene, telefonini e quant’altro. La loro “conoscenza” dell’ambiente in cui vivono, o sopravvivono, è stata sufficiente per salvarli. La “conoscenza” della moderna società borghese non ha impedito a centinaia di migliaia di persone di morire nel modo più stupido e tragico.

 

La presenza di turisti europei, americani, australiani, giapponesi ecc. Va messo in evidenza che di questa tragedia ne siamo stati informati subito e dettagliatamente, con aggiornamenti continui, grazie al fatto che in quei luoghi la presenza di turisti europei, americani, australiani, giapponesi ecc. è massiccia; si parla di decine di migliaia in questo periodo dell’anno. Nei giornali, alla radio e nei telegiornali, non si è fatto altro che parlare delle vittime e dei dispersi dei paesi europei, lasciando sempre in secondo o terzo piano le notizie che riguardavano le vittime locali. Et pour cause! Anche in queste situazioni viene a galla la “scala di priorità” borghese secondo la quale chi è ricco, chi ha i soldi è più importante di qualsiasi altro; e difatti, anche negli interventi immediati (aerei, elicotteri, auto, ospedali ecc.) è stata data priorità alla salvezza dei turisti, anche da parte delle autorità locali che hanno risposto anche in questo modo al richiamo del profitto: il turismo è fondato sulla quantità di frequentatori dotati di soldi da spendere, dunque se i frequentatori con più soldi sono europei o americani viene loro data la precedenza nei soccorsi perché sono in grado di pagare e nella speranza che prima o poi tornino a spendere i loro soldi in quei luoghi!

 

I danni materiali. Come spesso succede in questi casi, le autorità non sanno (ammesso che sia loro intenzione saperlo davvero) quanti morti ci sono effettivamente stati e quanti i feriti, ma sono in grado rapidamente di valutare con una certa precisione l’entità dei danni materiali. Già il 29 dicembre si poteva leggere, ad esempio su «Il Sole 24 Ore», quotidiano della Confindustria italiana, che la Munich Re, il più grande gruppo di riassicurazioni del mondo, ha stimato che i danni causati dal maremoto sono superiori a 10 miliardi di euro. Ma - senti senti - «gli analisti del settore ritengono che il costo dello tsunami sarà inferiore a quello degli uragani che hanno recentemente devastato le coste degli Stati Uniti perché nel Sud est asiatico siamo in presenza di minori coperture assicurative e densità industriale» ! Laggiù hanno risparmiato anche sulle assicurazioni. A conferma del fatto che quel che sta a cuore alla borghesia sono i capitali investiti e da investire, e quindi i danni che ogni capitalista ha subito e che le assicurazioni dovranno, se adeguatamente pagate anzitempo, in qualche misura pagare. Ogni governo sa quanti miliardi di dollari o di euro necessitano per ripristinare quel che è stato distrutto, e a tale scopo si muove per ottenere a livello internazionale i capitali necessari perché la propria economia non vada completamente distrutta. E come succede sempre in presenza di catastrofi come questa, i capitalisti che muovono i propri capitali per investirli nella ricostruzione fanno anch’essi calcoli ben precisi: di profitti altissimi, vista l’emergenza e la necessità vitale di ripristino delle strade, degli acquedotti, delle costruzioni, delle linee elettriche e telefoniche, delle ferrovie, ecc. Ogni catastrofe vale per il capitale come un’occasione d’oro per succulenti profitti.

 

Solidarietà meschina, piccoloborghese. Di fronte alla tragedia consumatasi nei paradisi della villeggiatura ambita in particolare dagli europei (sia per vacanza al caldo e al sole, in tutta comodità, sia per l’osceno turismo sessuale), sono scattate le campagne di solidarietà: televisioni, giornali, associazioni di ogni tipo si sono tuffati a pesce a chiedere soldi ai singoli cittadini; le società telefoniche in prima fila, con un metodo già sperimentato in altre occasioni (per raccogliere fondi per la “lotta contro i tumori” o altre malattie, ecc.): spedire un sms del valore di 1 euro, e così ogni persona, ogni individuo potrà “contribuire” alla “ripresa della normalità” in quei paesi così tragicamente colpiti. Chi invia soldi alle banche, chi attraverso le compagnie telefoniche, chi alle associazioni umanitarie come “Medici senza frontiere” o “Emergency”, chi alla Croce Rossa, alla Caritas, chi alle tv o ai giornali che si sono inseriti per mediare il flusso di denaro che – vista la tragica ecatombe – tutti prevedevano molto cospicuo. E così è stato. Ma il metodo di chiamare i “cittadini” , gli “uomini di buona volontà”, anche i più derelitti a versare un soldo per dare un aiuto “concreto” a popolazioni così colpite e così lontane, è metodo meschino, caratteristico della mentalità piccolo borghese attraverso il quale ci si mette a posto la “coscienza” e si crede di aver fatto, individualmente certo, quel che era possibile fare.

A parte il fatto del denaro raccolto, e della sua effettiva collocazione e utilizzazione – di scandali se ne sono avuti sempre, non ultimo quello dell’Unicef che utilizza la gran parte del denaro raccolto per sostenere se stessa – per cui è scontato che di tutte le somme in vario modo raccolte “in solidarietà” una quota assolutamente minima raggiungerà effettivamente coloro che ne hanno davvero bisogno visto che hanno perso tutto (meno le catene della schiavitù salariale!). Resta il fatto che con le campagne di solidarietà di questo tipo si continua a diffondere l’idea che l’unica cosa da fare in occasione di catastrofi “naturali” sia quella di delegare interamente alle autorità, alle istituzioni, alle organizzazioni riconosciute dalle autorità, l’attività di intervento; cioè si delegano esattamente le stesse autorità e istituzioni che sono in realtà tra i principali responsabili delle conseguenze catastrofiche degli eventi naturali, proprio perché non hanno sviluppato e attuato tutte quelle misure preventive necessarie a limitare al minimo assoluto le conseguenze mortali e i danni materiali che quegli eventi naturali possono comportare.

L’interesse capitalistico, e privato, che muove i capitalisti, le autorità e le istituzioni del capitalismo, non scompare nel momento della tragedia; semmai prende altre sembianze, quelle ad esempio del pietismo, dell’emozione, dell’umanitarismo con le quali nasconde il suo vero volto affaristico. Passata l’emozione del momento, e il ricordo vivo della tragedia, passata la rabbia della gente comune e dei proletari di fronte ad una situazione di pericolo che poteva essere prevista e adeguatamente affrontata evitando l’ecatombe di morti, tornerà in superficie il maledetto clima sociale della frenetica corsa al profitto, dello sfruttamento su vasta scala ingigantito oltretutto dalla debolezza in cui sono precipitati milioni di proletari a causa del maremoto.

I borghesi, i piccoloborghesi e l’aristocrazia operaia dei paesi ricchi d’Europa e d’America potranno così tornare ad organizzare le loro vacanze nelle splendide spiagge dei tropici nei paesi del sud est asiatico, con tutti i comfort che fanno parte della “bella vita” che la società opulenta del capitalismo avanzato propone ad ogni piè sospinto. Non importa se i proletari di quei paesi sono massacrati di lavoro e sfruttati come bestie per garantire ai vacanzieri danarosi quella “bella vita” , quella “bella vacanza”; non importa se la sopravvivenza quotidiana di quei lavoratori salariati è fatta di capanne in cui abitare, scarso cibo per nutrirsi, ospedali inesistenti o inavvicinabili per i loro costi; non importa se quei proletari vivono nella miseria o muoiono di stenti. L’importante, per loro, è che quei posti “incontaminati” in cui passare una vacanza tornino ad essere agibili, comodi da raggiungere e possibilmente un po’ più sicuri. Eccola la mentalità piccoloborghese che spinge a versare l’obolo perché il loro piccolo e meschino mondo dell’evasione torni ad essere a “portata di mano”.

 

I proletari in Europa, nei paesi ricchi, e la solidarietà con i maremotati del sud est asiatico. Come hanno reagito a questa catastrofe? Nei fatti come i piccoloborghesi, anche se le intenzioni e lo spirito di solidarietà partono da un sincero sentimento di solidarietà con i colpiti dal maremoto. Gli sms da 1 euro, piuttosto che soldi versati in conti correnti bancari propagandati dalle televisioni e dai giornali, sono stati l’atto “concreto” con cui anche i proletari hanno “partecipato” alla campagna di raccolta fondi per le popolazioni colpite dal maremoto in Asia. A Milano, ad esempio, gli autoferrotranvieri hanno addirittura destinato una giornata del loro salario alle vittime del maremoto.

Certo che in assenza di lotta di classe, è ben difficile che i proletari agiscano in modo diverso. In realtà, il terreno sul quale il proletariato dovrebbe muoversi, anche in occasioni tragiche come queste, è il terreno della lotta di classe, ossia di lotta contro lo sfruttamento del lavoro salariato che è alla base di ogni catastrofe cosiddetta “naturale”, che si tratti delle conseguenze di terremoti o di disastri ferroviari, di aerei che precipitano o di navi che affondano. Certo, questa lotta può apparire come non immediatamente utile per i colpiti dal maremoto, ma è caratteristica dell’ideologia dell’immediatismo la deviazione delle forze proletarie dal terreno dello lotta di classe al terreno della collaborazione di classe. Versare denari nella raccolta di fondi organizzata dalla borghesia è un modo di attuare una collaborazione di classe, e di giustificare un regime politico e un sistema economico che sono alla base di ogni catastrofe, di ogni incidente sul lavoro, di ogni guerra. Ad es. il proletariato dei paesi ricchi, lottando sul suo terreno di classe affinché i lavoratori immigrati abbiano la piena libertà di venire nei nostri paesi e siano trattati a livello salariale e normativo esattamente come i proletari del luogo: uguale lavoro, uguale mansione, uguale salario, dunque pari diritti ma rivendicati e difesi con la lotta classista nella quale si sviluppa la vera solidarietà di classe fra proletari, dimostrerebbe non solo qual è la vera ed efficace solidarietà fra proletari, ma sarebbe da esempio per gli stessi fratelli di classe dei paesi economicamente più arretrati, inducendoli a lottare anch’essi contro la propria borghesia per difendere le proprie condizioni di vita e di lavoro.

Ogni solidarietà generale e generica rafforza la collaborazione interclassista, quindi il dominio capitalista e borghese sulla società; le classi dominanti borghesi, responsabili in realtà di ogni conseguenza mortale derivata dal loro sistema economico volto esclusivamente al profitto capitalistico, usano le campagne di “solidarietà” verso le vittime di tragedie di vario tipo (alluvioni, terremoti, carestie, maremoti, incendi, epidemie, ecc.) come se queste tragedie non fossero provocate per la stragrande maggioranza dei casi, e soprattutto per le dimensioni gigantesche che assumono, esattamente dal sistema economico e sociale capitalistico per cui tutte le attività, tutte le energie, tutte le risorse, vengono rivolte alla produzione e riproduzione di capitale, alla ricerca di profitti capitalistici.

I proletari hanno tutto da perdere dal coinvolgimento nelle campagne di “solidarietà” di questo tipo; campagne che annunciano, nei fatti, le campagne di solidarietà nazionale, di unione sacra sotto le bandiere della patria in presenza di crisi di guerra guerreggiata. I proletari hanno invece tutto da guadagnare rompendo con l’abbraccio soffocante dell’umanitarismo piccoloborghese, riproponendosi, invece, come forza agente sul terreno della lotta di classe in esclusiva difesa degli interessi proletari, che sono antiborghesi, anticollaborazionisti, anticapitalistici.

 

Gli «aiuti». L’invio presso le popolazioni colpite di risorse, mezzi, attrezzature, uomini, cibo, medicinali, ospedali da campo, bungalow e tutto ciò che può servire per affrontare sia all’immediato che in un periodo successivo sufficientemente lungo la situazione, sotto il regime borghese, è e sarà sempre condizionato dall’affarismo, dagli interessi economici legati ai profitti derivanti dalle ricostruzioni, e dagli interessi politici e di alleanza che i diversi Stati borghesi avanzano costantemente e che di fronte a catastrofi di questo genere ammantano normalmente con atteggiamenti umanitaristici e di falso disinteresse. I soldi raccolti nelle campagne di “solidarietà” di questo tipo vengono gestiti secondo la contabilità borghese, dunque devono essere investiti e produrre un profitto, o comunque un vantaggio politico e di immagine grazie al quale gli affari possono riprendere più velocemente, con meno ostacoli e senza “sensi di colpa”. Come nel caso dei famosi debiti dei paesi colpiti e che qualche riformista radicale chiedeva che venissero cancellati: la decisione “mondiale” è stata di congelarli fino a quando la macchina dei profitti derivanti dal turismo non ricomincerà a girare a pieno regime…

 

Manca la lotta di classe. Gli è che attualmente i proletari in Europa e nei paesi capitalisti ricchi non sono in grado nemmeno di difendere in modo efficace il proprio salario, o di lottare in modo unitario al disopra delle categorie, tanto meno sono in grado di lottare in difesa dei proletari immigrati. Presi, oltretutto, nel vortice dell’emozione per le tragedie provocate da catastrofi che di “naturale” spesso hanno ben poco e paralizzati da una specie di fatalismo che l’ideologia borghese diffonde a piene mani, i proletari non hanno la forza di imporre le proprie esigenze e la propria visione dei rapporti sociali e di classe, quindi non sono ancora in grado di impegnare le classi borghesi sul terreno della aperta lotta fra le classi attraverso la quale obbligare i padroni, e lo Stato centrale che li rappresenta e ne difende gli interessi, ad attuare misure di sicurezza e di prevenzione in ogni attività industriale, agricola o di servizio che sia.

Più i proletari, di qualsiasi paese, si piegano alle esigenze di profitto dei capitalisti – si tratti di costruire alberghi a cinque stelle nei “paradisi delle vacanze” nell’Oceano Indiano, o scintillanti centri commerciali, o nuove abitazioni, o allevamenti di gamberetti, o mezzi di trasporto, o qualsiasi altra attività capitalistica – senza offrire una adeguata resistenza alla pressione schiavistica del capitalismo, più i capitalisti hanno “le mani libere” nel risparmiare al massimo nei materiali da costruzione, nel distruggere ambienti naturali, nell’inquinare, nel devastare la vita ambientale e la vita umana. Solo una società che produce, distribuisce e vive in funzione della soddisfazione dei bisogni della vita sociale degli uomini, e non in funzione del profitto e del mercato, è in grado di intervenire sulla natura con l’applicazione effettiva ed estensiva della conoscenza scientifica e dei risultati delle moderne tecniche e tecnologie in modo che la vita umana – che materialmente fa parte della natura in generale – si armonizzi con le forze della natura, pur volendole dominare.

 

“Fare qualcosa” per aiutare le popolazioni colpite dal maremoto, è il ritornello con il quale la propaganda borghese getta sui singoli una responsabilità che in realtà è tutta e sola del capitalismo, della società borghese, e quindi della classe borghese che trae tutti i vantaggi dalle catastrofi. Il capitalismo, l’abbiamo detto e dimostrato molte volte nei lavori di partito (vedi in particolare il volume Drammi gialli e sinistri della moderna decadenza sociale) è l’economia della sciagura:

«Il capitale moderno, avendo bisogno di consumatori perché ha bisogno di produrre sempre di più, ha tutto l’interesse ad inutilizzare al più presto possibile i prodotti del lavoro morto per imporne la rinnovazione con lavoro vivo, il solo dal quale ”succhia” profitti. Ecco perché va a nozze quando la guerra viene, ed ecco perché si è così bene allenato alla prassi della catastrofe» (Omicidio dei morti, 1951). La borghesia affronta le catastrofi con lo scopo di ricavarne del profitto; salvare vite e cose diventa secondario, poiché l’interesse è di produrre di nuovo e di più, quindi è di sfruttare lavoro vivo per ottenerne maggiore sopralavoro (pluslavoro, tempo di lavoro non pagato) dal quale solo estrae plusvalore, e dunque i suoi profitti. Partecipare alla raccolta di fondi organizzata – guarda caso - in men che non si dica da ormai lubrificati canali propagandistici (anch’essi così bene allenati alla prassi della catastrofe) corrisponde a quel “fare qualcosa”, perché all’immediato altro sembra non si possa fare, per aiutare popolazioni maremotate così lontane; e anche molti proletari, qui nei paesi ricchi, influenzati dalla mentalità piccoloborghese dell’umanitarismo, assumono questi atti come un’azione positiva di solidarietà umana. Di fatto, essi sono spinti a sostituire atti e azioni di classe con atti e azioni di carattere umanitario, pacifista, legalitariamente benvisti dalle istituzioni e dai padroni: il sistema di sfruttamento del lavoro salariato – che è alla base della immane ecatombe di morti nel maremoto in Asia, come in ogni altra catastrofe – in questo modo non viene nemmeno scalfito, la macchina che macina profitto capitalistico non si ferma! E’ una manna per ogni capitalista, perché oltretutto si riconferma che ciò che è più importante al mondo è che il sistema di sfruttamento capitalistico non si fermi, e …pazienza per i morti, per i quali ormai non c’è più niente da fare…

Ai vivi, il capitalismo, ha già pensato – in questo caso il capitale non si fa “sorprendere” – perché ai sopravvissuti non fa altro che offrire le condizioni di vita e di lavoro che esistevano prima della catastrofe, ossia le condizioni di misera e di estenuante sopravvivenza nella schiavitù salariale; caso mai, approfittando della estrema debolezza in cui sono precipitate vaste masse di proletari e di contadini diseredati, le condizioni di vita e di lavoro saranno ancor più bestiali e intollerabili, a contorno delle quali i ladri di bambini – immediatamente all’opera quando ancora il fango tiene prigionieri migliaia di cadaveri e i soccorsi non sono arrivati ancora dappertutto – dimostrano come ciò che importa al borghese è mettere le mani prima possibile, e prima di altri borghesi concorrenti, su tutto ciò che può dare profitto, e i bambini sono nello stesso tempo facilmente resi schiavi e messi al lavoro per un tozzo di pane o dei corpi che contengono organi da mercificare!

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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