Sulla tragedia delle foibe

(«il comunista»; N° 95; Maggio 2005)

 

 

L’eliminazione degli avversari, dei nemici, degli oppositori, facendoli precipitare nelle profonde voragini carsiche note come foibe (1), è stata un metodo che la propaganda di destra ha sempre addossato solo ai partigiani slavi e all’esercito jugoslavo di Tito che avrebbero avuto l’esclusiva di questa particolare brutalità nella guerra contro il fascismo e il nazismo. Nelle foibe ci sarebbero finiti molti più civili che militari, molti più innocenti che fascisti o collaboratori dei nazisti. Ma le vicende legate alle foibe sono più complesse di quel che la destra italiana, a partire dalla propaganda della Repubblica di Salò, ha sostenuto finora.

Questo tipo di propaganda, che fra i giuliano-dalmati, scappati dall’Istria e dalla Dalmazia dall’8 settembre 1943 in poi, ha avuto sempre un grande susccesso, si è sempre basata su fatti veri. In effetti, dall’8 settembre del 1943, firmato l’armistizio da Badoglio con gli Alleati e iniziata la sistematica occupazione militare tedesca di tutto il territorio italiano, comprese quindi Istria, Dalmazia, isole ioniche da Corfù a Cefalonia e isole egee, le formazioni partigiane slovene e croate aumentarono la loro attività militare contro l’occupazione dell’esercito tedesco e contro gli italiani, fascisti dichiarati o meno, precipitati nell’improvviso vuoto di potere civile e militare e nel disorientamento dopo il 25 luglio e soprattutto dopo l’8 settembre. Tra le varie attività militari, le organizzazioni partigiane titine inserirono anche l’eliminazione di quelli che venivano considerati o erano effettivamente dei fascisti o loro collaboratori per mezzo dell’infoibamento, fossero prima fucilati o no. Gli infoibati di nazionalità italiana, secondo lo storico Sabbatucci dell’Università La Sapienza di Roma, nell’autunno del 1943 e nel maggio-giugno del 1945, sarebbero stati tra gli 8mila e i 10mila.

 

L’IMPERIALISMO ITALIANO ALL’OPERA

 

Ma per trovare le prime tracce dell’uso delle foibe come sistematici inghiottitoi di uomini, come luoghi di sepoltura, bisogna andare più indietro nel tempo. E’ del 1927, dunque in piena «era fascista», ad opera del ministro dei Lavori Pubblici, Giuseppe Cobolli Gigli, un opuscolo intitolato Il fascismo e gli allogeni (2) in cui si teorizzava la pulizia etnica di territori che venivano considerati appartenenti alla civiltà romana e italiana, deportando le popolazioni autoctone slovene e croate sostituendole con coloni provenienti da altre parti del Regno d’Italia. In questo opuscolo si sostenva che la voragine profonda scavata dal torrente Foiba che si inabissa a Pisino - paese costruito sul bordo di questa voragine - (3) era «degno posto di sepoltura per chi, nella provincia, minaccia con audaci pretese le caratteristiche nazionali dell’Istria».

E tanto per non essere frainteso, riportava anche una canzonetta dialettale in voga fra gli squadristi di Pisino, nella quale si diceva:

A Pola xe l’Arena/ la Foiba xe a Pisin: /che i buta zo in quel fondo / chi ga certo morbin.  (A Pola c’è l’Arena/ a Pisino c’è la Foiba:/ in quell’abisso vien gettato/ chi ha certi pruriti).

Furono gli stessi storici fascisti (come l’istriano G.A.Chiurco) che osannarono le azioni dello squadrismo importato in Istria da Trieste, e ne documentarono i misfatti: assassinii di antifascisti italiani, distruzione delle Camere del Lavoro, incendio delle Case del popolo, spedizioni assassine nei villaggi croati e sloveni ammazzando ed incendiando. Misfatti che furono la premessa al pugno di ferro del regime fascista contro ogni manifestazione, simbolo, organizzazione sociale o culturale slovena e croata, fino all’italianizzazione forzata (1927) dei cognomi.

Tutta questa opera di oppressione e repressione che il fascismo attuò fin dal 1919 in questi territori di confine non poteva non far sedimentare nel tempo rabbia e spirito di vendetta. Soltanto in strati proletari, triestini ma anche istriani e dalmati, si radicarono le tradizioni dell’ internazionalismo, tanto che per lungo tempo non esistevano attriti di carattere nazionalistico che invece, nel tempo, si formarono sotto la spinta colonizzatrice, e razzista, della borghesia italiana, da una parte, e della borghesia croata e slovena dall’altra.

Il quotidiano triestino Il Piccolo, del 5 novembre 2001, riporta il testo della testimonianza di un ebreo scampato all’ infoibamento:

«Nel luglio del 1940 (...) sono stato chiamato al lavoro «coatto», in quanto ebreo, e sono stato destinato alle cave di bauxite, la cui sede principale era a S. Domenica d’Albona. Quello che ho veduto in quel periodo, sino al 1941 - poi sono stato trasferito a Verteneglio - ha dell’incredibile. La crudeltà dei fascisti italiani contro chi parlava il croato, invece che l’italiano, o chi si opponeva a cambiare il proprio cognome croato o sloveno, con altro italiano, era tale che di notte prendevano di forza dalle loro abitazioni gli uomini, giovani e vecchi, e, con sistemi incredibili, li trascinavano sino a Vignes, Chersano e altre località limitrofe, ove c’erano delle foibe, e lì, dopo un colpo di pistola alla nuca, li gettavano nel baratro. Quando queste cavità erano riempite, ho veduto diversi camion, di giorno e di sera, con del calcestruzzo prelevato da un deposito di materiali da costruzione sito alla base di Albona, che si dirigevano verso quei siti e dopo poco tempo ritornavano vuoti. Allora io abitavo in una casa sita nella piazza di Santa Domenica d’Albona, adiacente alla chiesa, e attraverso le tapparelle della finestra della stanza ho veduto più volte, di notte, quelle scene che non dimenticherò finché vivrò...» (4).

Dal 1927, quando il fascismo teorizzava la «pulizia etnica» minacciando di usare le foibe come luogo dove scaraventare chi osava opporsi, al 1940 quando, secondo la testimonianza appena letta, dai propositi passarono ai fatti, corrono 13 anni, ma non è escluso che i fascisti abbiamo usato le foibe anche in quei tredici anni.

Sta di fatto che la foiba fu uno dei tanti strumenti di oppressione e di eliminazione fisica adottati per primi, nell’epoca contemporanea, dall’imperialismo italiano contro ogni oppositore, croato e sloveno in particolare.

Tra il 1940 e il 1943, nel triennio bellico in cui la borghesia italiana - forte dell’alleanza con la Germania - si illuse di poter allargare il suo dominio in territori molto più vasti di quelli che riuscì a carpire alla fine del primo macello imperialistico, col Trattato di Rapallo del 1920 (5), ci furono alcuni generali italiani che rivaleggiarono con gli alleati nazisti quanto a deportazioni, incendi di villaggi, campi di concentramento e stragi di «ribelli» attuate mediante fucilazione (6). In particolare, si sono distinti per fredda ferocia i generali Marco Robotti, Mario Roatta, Gastone Gambara; una frase del generale Robotti, rivolta ai suoi sottoposti, sintetizza bene l’indirizzo dell’esercito italiano e fascista nei confronti dei «ribelli» slavi (oggi, li chiamerebbero «terroristi»): si ammazza troppo poco! (7).

In questo triennio bellico «furono circa 200mila civili «ribelli» falciati dai plotoni di esecuzione italiani, dalla Slovenia alla «Provincia del Carnaro», dalla Dalmazia fino alle Bocche di Cattaro e Montenegro, senza aver subito alcun processo, ma in seguito a semplici ordini di generali dell’esercito, di governatori o di federali e commissari fascisti», afferma lo storico Giacomo Scotti su il manifesto, 4.2.05.

 

RESISTENZA PARTIGIANA: FORMA DI NAZIONALISMO BORGHESE, NON DI INTERNAZIONALISMO PROLETARIO

 

Non c’è dubbio alcuno che i partigiani titini, intrisi di nazionalismo come tutti i partigiani, si vendicarono appena ne ebbero la possibilità - e questo avvenne in due ondate, nell’autunno del 1943 e nella primavera del 1945 - in particolare nei confronti dei fascisti dichiarati. Ma, come fra i 200.000 croati e sloveni fucilati dai militari italiani e dai miliziani fascisti, così fra i diecimila italiani infoibati, vi andarono di mezzo molti civili innocenti. Alla «pulizia etnica» attuata dal fascismo italiano rispose una «contro-pulizia etnica» attuata da quello che, nella generale falsificazione stalinista, si chiamò «comunismo jugoslavo», ma che fu solo acuto nazionalismo croato o sloveno con velleità panslaviste.

Sostenuta e foraggiata dallo stalinismo e, in parte, anche dagli angloamericani, interessati com’erano a tenere occupate le divisioni tedesche nei Balcani mentre essi tentavano lo sbarco in Italia, la resistenza jugoslava non è mai stata l’espressione di quell’internazionalismo proletario affermato ad alta voce nei primi congressi dell’Internazionale comunista, come non lo è stata la resistenza partigiana italiana o francese: è stata l’espressione di un nazionalismo mai superato, per l’occasione declinato in una conveniente e temporanea alleanza fra croati, sloveni e serbi.

Oggi, con la demagogica difesa dell’italianità dell’Istria e della Dalmazia che sempre la destra ha innalzato come sua specifica bandiera (vista l’importante riserva di voti rappresentata dalla «comunità giuliano-dalmata» rifugiatasi nei confini italiani o emigrata in America o in Australia) il governo ha dichiarato il 10 febbraio di ogni anno «Giornata nazionale del ricordo», per ricordare appunto le vittime delle foibe. Così, dopo il 27 gennaio, dichiarato «Giornata della memoria» in ricordo delle vittime dei campi di concentramento nazisti a cominciare da Auschwitz, avremo anche una seconda data con la quale la classe borghese italiana vuole chiudere, pur non avendolo mai davvero aperto, il capitolo della sua più recente e infame storia militare e politica. Il metodo, ormai più che rodato, è fondamentalmente uno: celebrare in date particolari le stragi, i macelli, i massacri, le guerre...per passare oltre! e preparare altre stragi, altri massacri, altre guerre, inevitabili - come affermava Lenin - fino a quando il capitalismo non sarà definitivamente abbattuto.

La vicenda delle foibe e della «giornata del ricordo» rivela anche un altro aspetto, egualmente vergognoso, che riguarda il silenzio che per sessant’anni i partiti della sinistra, a partire dal PCI sia stalinista che post-stalinista, hanno steso sulle stragi attuate dai «fratelli» partigiani della resistenza titina. E sì che nelle foibe finirono anche molti membri del PCI (per il semplice fatto di opporsi all’annessione di quei territori da parte della nuova Jugoslavia che si stava formando, o solo perché «italiani») che nel triennio bellico 1943-45 organizzarono nei territori di confine gruppi partigiani armati contro l’esercito tedesco, gruppi che in molte occasioni confluirono in organizzazioni più vaste della resistenza jugoslava. Gli interessi di bottega, evidentemente, erano molto forti sia nel PCI che nei partiti della grande borghesia come la DC; nessun governo italiano, dal 1945 in poi, ha mai sollevato con la Jugoslavia di Tito il tema delle stragi delle foibe. Ed era interesse di Washington e di Londra non sollevare attriti di alcun genere con la Jugoslavia di Tito, trattata come pedina occidentale in funzione anti-russa. E’ del 1948 lo «strappo» fra Tito e Stalin, in forza del quale la Jugoslavia si tolse dalla insopportabile tutela diretta moscovita per inserirsi a mo’ di cuscinetto fra Russia e Occidente, propendendo per l’Occidente, e rappresentando così in un certo senso un territorio «non allineato» in una zona particolarmente difficile come sono sempre stati storicamente i Balcani.

Le mire espansionistiche delle borghesie jugoslave trovavano, nella situazione di difficoltà dell’imperialismo tedesco e di quello italiano determinata dallo svolgimento della guerra, un’occasione di rivalsa nei confronti sia degli austro-tedeschi che degli italiani; i nazionalismi croato, sloveno e serbo in particolare, potevano così contare per la loro influenza sulle intollerabili condizioni di oppressione nazionale e razziale imposte per lungo tempo da Vienna, da Roma e da Berlino.

Le formazioni partigiane, sia di qua che di là dei confini italo-slavi, contribuivano in realtà a veicolare nelle file proletarie i rispettivi nazionalismi con metodi e motivazioni politiche diversi da quelli utilizzati dal nazismo e dal fascismo, ma egualmente borghesi, guerrafondai, antiproletari e quindi anticomunisti.

Il falso comunismo che i diversi partiti stalinizzati adottarono per imbrigliare con più successo i rispettivi proletariati organizzandoli per combattere la guerra imperialista a favore di uno schieramento imperialista contro l’altro, funzionò, purtroppo, e diede quella copertura politica e ideale senza la quale i proletari non si sarebbero fatti massacrare a milioni - da una come dall’altra parte dei confini borghesi - per difendere regimi democratici o cosiddetti socialisti o comunisti, ma in realtà borghesi e soltanto borghesi.

 

PIU’ CRESCONO I CONTRASTI INTERIMPERIALISTICI, PIU’ SI PARLA DI «RICONCILIAZIONE NAZIONALE»

 

In un periodo in cui nel mondo si stanno ridisegnando i territori d’influenza dei diversi imperialismi, in una lotta di concorrenza e di spartizione senza scrupoli, come dimostrano le continue guerre scatenate direttamente (Serbia, Afghanistan, Iraq) o fatte «per procura» ( Sudan, Togo, Colombia ecc.), la demagogia patriottica richiede che le varie fazioni borghesi ricuciano vecchie ferite, sì da liberare il campo ideologico per nuove ondate propagandistiche all’insegna del nazionalismo.

Nel seppellire vecchi contrasti l’imperialismo non può che farne germinare di nuovi, più adeguati e rispondenti alle modificate esigenze di difesa dei particolari interessi di ciascuno Stato imperialista. Con la propaganda non si possono sanare le contraddizioni che provengono in realtà dalla struttura economica capitalistica della società; ma si possono ingannare il proletariato e le masse sulle possibilità di modificare le loro condizioni di vita in generale senza che si rivoluzioni la struttura economica della società. Per rinnovare la forza di influenza ideologica di un logoro nazionalismo, i borghesi sono obbligati a togliere dal mercato il vecchio e inefficace patriottismo legato a odii nazional-razziali ormai impotenti, e immettere nel mercato ideologico un nuovo patriottismo di cui si è incominciato a tracciare le linee, come ad es. la civiltà occidentale e cristiana contro la civiltà islamica, la democrazia occidentale contro il totalitarismo asiatico, la «democrazia» contro il «terrorismo». Di per sé non sono concetti nuovi, nel senso che non sono stati inventati oggi, visto che le classi borghesi nelle diverse fasi della loro storia li hanno già utilizzati. Ma il contesto storico attuale si presenta in parte diverso, con una globalizzazione così a portata di televisore e di internet che intimorisce i ceti medi, i quali, legati come sono al loro minuscolo e mediocre mondo individuale, esprimono paure antiche verso lo « straniero», lo «sconosciuto», il «barbaro».

Ecco allora che sale agli onori delle scene la politica di una «riconciliazione» interna, nazionale, interclassista atta a sotterrare vecchi rancori e vecchi contrasti nell’illusione di cancellare, nello stesso tempo, le cause profonde di quei contrasti, di quei rancori, di quegli odii.

A sessant’anni di distanza, quando la gran parte dei sopravvissuti alle tragedie dei massacri di guerra sono morti o sufficientemente vecchi e senza forze per costituire un ostacolo serio ad una ennesima revisione pilotata della storia, non è molto difficile «chiedere perdono» per la particolare brutalità esercitata sistematicamente in guerra (come hanno fatto i governi socialdemocratici tedeschi rispetto al nazismo e ai suoi campi di concentramento), oppure auspicare una «riconciliazione» fra i due schieramenti, come hanno fatto i rappresentanti dell’attuale governo e dell’opposizione parlamentare rispetto alle azioni «terroristiche» dei partigiani e a quelle dei repubblichini di Salò (entrambi da considerare «patrioti»).

Mettiamoci una pietra sopra!, cancelliamo i rancori e gli odii passati, e tutti insieme diamoci da fare per far crescere il paese nella democrazia e nella libertà! Questo è sostanzialmente il messaggio che le diverse fazioni borghesi ( di destra e di sinistra) hanno interesse a far passare. Più si avvicinano tempi di difficoltà economica, e di crisi sociale, e più gridano alla conciliazione nazionale, più gridano alla democrazia e alla libertà elevati a beni irrinunciabili e al di sopra di ogni divisione...

 

NELLA GUERRA BORGHESE NON SI PUO’ «SCEGLIERE» COME MORIRE

 

La tragedia delle foibe è stata utilizzata finora dai partiti della destra, di provenienza chiaramente fascista o meno, allo stesso modo in cui sono state utilizzate le stragi naziste dai partiti parlamentari della sinistra, stalinisti dichiarati o meno. Sono gli Alleati ad aver vinto la seconda guerra mondiale, sono le tragedie provocate soprattutto dal nazifascismo ad essere state largamente propagandate e gonfiate; la storia è stata «scritta» secondo gli interessi dei paesi vincitori, come succede sempre nelle società divise in classi. Dei campi di concentramento inglesi o americani si sa ben poco, degli eccidi provocati dai militari americani e alleati non ne parla quasi nessuno, e raramente vengono ricordati i morti, a centinaia di migliaia, dei bombardamenti aerei americani di cui Dresda, rasa letteralmente al suolo, è stato un esempio che non è facile nascondere, al pari di Hiroshima e Nagasaki.

Ma è più atroce morire gettanti in una foiba o sotto le macerie dei bombardamenti aerei? Torturati dai nazisti o dai marines? Fucilati da parte dei plotoni di esecuzione italiani come in Slovenia e in Montenegro o bruciati dal napalm americano come in Vietnam? Straziati dalle mine antiuomo o uccisi lentamente dagli effetti dell’uranio impoverito?

L’atrocità della guerra borghese è direttamente proporzionale al grado dei contrasti fra gli stati capitalistici raggiunto e allo sviluppo della loro potenza imperialistica nella spartizione dei mercati, e quindi del mondo. L’atrocità delle operazioni di guerra è il prolungamento delle atrocità che, nella società capitalistica, si consumano ogni giorno per mezzo dello sfruttamento sempre più intenso e duro nei posti di lavoro, della mancanza di lavoro e di salario, e delle relazioni interpersonali e sociali condizionate in permanenza dagli egoismi, dagli interessi privati e dalla loro prepotenza e invadenza.

Morire cadendo da un’impalcatura non è mai una «fatalità», come non lo è il 99% degli incidenti sul lavoro: è un assassinio preannunciato perché la causa di quegli incidenti è la mancata predisposizione da parte degli imprenditori di tutte le misure di sicurezza necessarie; perché quel proletario, spremuto nelle sue energie fino all’osso, perde reattività fisica e nervosa, esponendo così la propria vita a qualsiasi rischio.

In guerra il soldato, il «ribelle»o l’ostaggio, che viene fucilato subisce un atto apertamente violento, dichiarato. Ma le migliaia di morti sotto i bombardamenti assomigliano molto ai morti per «infortunio» sul lavoro, o a causa di aerei che cadono, navi che affondano, treni che deragliano, terremoti che squassano edifici inadeguati. Non ci sono misure di protezione che tengano, le bombe non distinguono, distruggono e uccidono, punto. In questi casi, a cadere non sono solo i soldati, i salariati dell’esercito, ma la stessa impalcatura ideologica borghese dei «diritti della persona», delle libertà individuali, della pace sociale. La guerra borghese dimostra che i veri interessi delle classi dominanti non sono i «diritti della persona» e che i sacrifici imposti alle classi dominate hanno per finalità esclusivamente la sopravvivenza del capitale e della sua produzione e riproduzione (che la borghesia difende a costo di milioni di morti e di colossali distruzioni).

Nella guerra borghese e imperialista non si può «scegliere» come morire; l’unica alternativa che ci si può porre è quella di classe, non ne esistono altre. Ogni alternativa riformista, pacifista, conciliatrice si è sempre rivelata falsa, impotente, e non perché la maggioranza degli uomini che abitano il pianeta o una loro parte siano «naturalmente» portati a farsi prima o poi la guerra, ma perché la struttura economica e sociale della società capitalistica rigenera continuamente i conflitti e le guerre, riproponendo a livelli sempre più crescenti e distruttivi gli antagonismi fra i diversi centri di potere imperialistici.

La risposta di classe del proletariato alla guerra borghese poggia su di un indirizzo fondamentale del comunismo rivoluzionario: sull’internazionalismo proletario, ossia sulla lotta contro qualsiasi schieramento borghese di guerra, contro qualsiasi ideologia e politica nazionalista con le quali le diverse borghesie concorrenti, in pace come in guerra, tendono ad irreggimentare il proletariato affinchè sia lui a sopportare il massimo del peso e del rischio della guerra borghese.

Con i mezzi della moderna tecnica militare, se non sono i reparti di fanti ad essere mandati al massacro per «conquistare» una città, un ponte, una collina, un porto, sono le bombe ed i razzi sparati da distanze anche notevoli a raggiungerli. Nella guerra moderna la strategia militare prevede che il nemico sia colpito più nelle sue «retrovie» che sul «fronte»: allora, bombardare le città, massacrare le popolazioni civili sono azioni della moderna arte militare per piegare e demoralizzare le truppe nemiche e vincerle in tempi più brevi. Ciò non ha mai significato l’abbandono dei metodi più antichi di messa a ferro e fuoco di villaggi, paesi e città con le truppe di terra, come dimostrato nella guerra in Vietnam, in Jugoslavia, in Afghanistan, in Somalia, in Iraq. Come non ha mai significato l’abbandono dei metodi di terrorismo e di tortura che l’intellighentsjia borghese ha sempre propagandato come caratteristiche «esclusive» della barbarie medioevale. Gli esempi delle foibe e dei campi di concentramento, piuttosto che di Guantanamo o di Abu Graib sono lì a dimostrarlo.

Nella guerra borghese e imperialista non si puo «scegliere» come morire. Ma una concreta risposta c’è: è la risposta comunista e proletaria alla guerra borghese e imperialista, quella di Lenin: trasformazione della guerra imperialista in guerra civile, dunque guerra di classe contro guerra fra Stati.

 

NAZIONALISMO, PIANTA DI OGNI OPPORTUNISMO

 

Soltanto la solidarietà di classe, fra proletari di ogni nazionalità, è in grado di combattere le divisioni nazionalistiche e razziali alimentate da ogni classe borghese nazionale.

Il nazionalismo è naturale per la borghesia, perché i suoi interessi di classe sono legati a doppio giro con la sua identità nazionale, con lo Stato nazionale che difende i suoi interessi di classe sia in funzione interna verso e contro il proletariato, le sue rivendicazioni e le sue lotte, sia in funzione esterna contro le altre borghesie concorrenti sul mercato internazionale. E tutte le forze che coniugano la difesa degli interessi nazionali, della «patria», delle radici e delle origini natie con la difesa dei «diritti», delle «libertà», della «cooperazione», del rispetto per la legalità, sono forze che lavorano a favore dell’ordine borghese, della struttura economica e sociale del capitalismo. E le forze che si professano rappresentanti dei lavoratori, sbandierando terminologia socialista o comunista, ma che legano la difesa degli interessi dei lavoratori a quelli della patria e dell’economia nazionale, sono forze opportuniste, forze che riconducono le spinte dei lavoratori salariati verso lo scontro con le classi borghesi nell’alveo della legalità borghese, sottomettendosi - e sottomettendo il proletariato - alle esigenze di conservazione sociale delle classi dominanti borghesi.

Chiamare e organizzare i proletari a lottare contro il fascismo per «restaurare» la democrazia, non è stato, non è e non sarà mai un passo avanti del proletariato verso la sua reale emancipazione dall’oppressione capitalistica, verso la liberazione dal giogo del lavoro salariato e dello sfruttamento: è stato, è e sarà uno dei modi più insidiosi per irreggimentare il proletariato sotto le bandiere del profitto capitalistico, sotto le bandiere del nazionalismo borghese, cooperando in realtà al mantenimento della società capitalistica, al prolungamento della vita sociale della dittatura imperialista.

La «resistenza partigiana antifascista» è stata in realtà un’espressione di quella cooperazione, per ottenere la quale i partiti di sinistra, democratici e stalinisti, si sono qualificati storicamente necessari. E’ per questo che li abbiamo definiti nazionalcomunisti.

Per la classe dei proletari, per la classe dei senzariserve, il nazionalismo è un cappio al collo, un ostacolo alla loro lotta anche solo di sopravvivenza; quando il proletariato, nella sua lotta anticapitalistica, scopre questa semplice realtà di classe, la sua forza di classe e rivoluzionaria aumenta in proporzione al livello dello scontro sociale, diffondendo fra le masse uno spirito internazionalista che solo i proletari di tutti i paesi possono avere. Allora i proletari scoprono che la «riconciliazione» borghese nasconde la realtà della spietata concorrenza di mercato; scoprono che la democrazia e la libertà di cui si riempiono la bocca tutti i cantori del capitalismo nascondono la realtà della dittatura capitalistica, della violenza e della brutalità dello sfruttamento del lavoro salariato, delle guerre commerciali, delle guerre finanziarie e delle guerre guerreggiate.

«I principi di dignità della persona, di rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo e dei diritti delle minoranze sono il fondamento dell’Unione Europea. L’integrazione realizzata fra i nostri paesi permette a tutti gli europei di condividere un unico spazio di democrazia e di libertà» (8). Sono le parole che il presidente della repubblica italiana ha pronunciato in occasione della «giornata nazionale del ricordo», nella giornata in cui ricordando la tragedia delle foibe, ha annunciato la necessità della «riconciliazione nazionale», una specie di union sacrée in vista non tanto di una prossima guerra (non è ancora il momento) ma di un «unico spazio di democrazia e di libertà» chiamato Unione Europea.

Dove stanno i principi di dignità della persona? Nei Centri di Permanenza Temporanea, i tristemente famosi cpt che altro non sono se non piccoli campi di concentramento dove vengono ammassati e brutalizzati i clandestini che sbarcano sulle nostre coste invece di morire (dignitosamente, è ovvio) in mare durante la traversata?

Che fine hanno fatto i diritti fondamentali dell’uomo - il diritto a vivere e ad una vita sociale? Nei salari di fame, nelle pensioni che se ne vanno in medicine e affitti, nella disoccupazione e nel precariato sempre più diffusi? Nella morte in solitudine o di inedia?

Lo «spazio di democrazia e di libertà», definito pomposamente Unione Europea, che «garanzia» di vita e di futuro offre agli uomini? Nessuna garanzia, che sia o no scoppiata la guerra, perché è uno spazio di mercato, è un territorio economico dominato - come tutto i paesi del mondo, d’altra parte - dalle leggi del capitalismo.

Nella società dove domina il capitale e il rapporto di lavoro salariato, dove tutto è merce e tutto si muove intorno al denaro, non vi sono principi di dignità della persona che tengano, diritti fondamentali dell’uomo e tanto meno delle minoranze.

Gli interessi economici collegati alla circolazione del denaro, alla produzione e alla riproduzione di capitale, decidono materialmente, e impersonalmente, qual è la dose di «dignità» di ogni individuo. Nella società del mercato più possiedi più sei «degno» di vivere. Ma meno possiedi, meno sei considerato dal mercato, dunque non sei sufficientemente «degno» di vivere in questa società. I meccanismi sociali ed economici di questa società, se non sei un degno consumatore, se non sei un degno sfruttato produttore di plusvalore, ti emarginano, ti escludono, ti gettano di lato; diventi un rifiuto, la tua vita non vale nulla.

E questo succede normalmente in tempo di pace. Ma in tempo di guerra, quando tutti gli aspetti più deleteri e brutali dei rapporti sociali capitalistici si acutizzano ingigantendo la propria crudezza, la vita delle osannate «persone» vale ancora meno; gli uomini sono trasformati in masse d’urto, diventano nel contempo strumenti di guerra, di distruzione e di morte e carne da macello.

L’eliminazione fisica dei nemici è comparabile alla distruzione di merci in sovrabbondanza, e il come li si elimina risponde soprattutto a criteri di convenienza economica ai quali va abbinata quella dose di terrorismo che sempre, in ogni guerra, aggiunge effetto all’azione specificamente militare. La brutalità, l’atrocità, l’orrenda lacerazione di corpi, la negazione preventiva del «diritto a vivere» che caratterizzano ogni guerra concentrandole nello spazio e nel tempo, non sono che l’estensione della violenza quotidiana di cui è intriso fino al midollo il capitalismo e ogni sua espressione politica, economica, sociale e militare.

Solo nell’inganno ideologico della «democrazia», della «libertà», la classe borghese recita i suoi valori, la sua pretesa «umanità», mentre nella realtà quotidiana il disprezzo della vita umana, come di ogni vita del mondo animale e vegetale, la vince su ogni altra cosa: per una quota di mercato da difendere o, al contrario, da conquistare, i capitalisti sono disposti a sacrificare singoli uomini, intere famiglie proletarie, intere città e intere popolazioni; per vincere la concorrenza sul mercato internazionale le classi dominanti borghesi che difendono prima di tutto gli interessi del proprio capitalismo nazionale, dei propri trust, sono diposte, o obbligate, a fare la guerra anche all’alleato di ieri o al nemico momentaneo. La distruzione di uomini e cose non è soltanto «logica conseguenza» della guerra; per il capitalismo è nel contempo un obiettivo cercato perché al business della distruzione seguirà il business della ricostruzione!

In un clima sociale di questo genere, le efferatezze di cui ogni esercito, regolare o «partigiano» che sia, si macchia, diventano parte integrante dei «metodi di guerra», sistematicamente applicati in tutte le occasioni in cui il normale massacro del nemico, non risulti sufficientemente efficace per vincere la battaglia o la guerra.

Ogni governo borghese, a guerra in atto, o a guerra finita, trova la giustificazione per le sue efferatezze; basti ricordare la motivazione addotta dagli americani dopo aver sganciato le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki: «era il solo modo per piegare definitivamente l’esercito nipponico e finire la guerra». Allo stesso modo, i partigiani titini giustificarono gli infoibamenti: «si vendicavano gli infoibati slavi e le fucilazioni da parte fascista»... I borghesi non si sono mai vergognati di nulla, e quei pochi che si sono rosi la coscienza per essere stati strumenti di tortura e di atroci brutalità, si sono autogiustiziati, suicidandosi, togliendo così ai fratelli di classe borghesi l’onere del processo.

 

PIANGERE I MORTI PER FREGARE I VIVI

 

La propaganda democratica, con cui si vuol salvare il contenuto ingannevole di una inattuabile armonia sociale fra oppressi e oppressori, tra sfruttati e sfruttatori, tra capitalisti e proletari, tra torturatori e torturati, esige che i cantori della democrazia si battano il petto di tanto in tanto e piangano i morti... per fregare meglio i vivi! Ci pensa Fassino, ex pci, a proposito delle foibe usate dagli slavi per eliminare i nemici, a battersi l’ossuto petto a nome di tutti i piccisti che in nome della convenienza politica hanno sempre taciuto su questi fatti di atrocità gratuita che coinvolgevano propri membri o i cosiddetti «partiti fratelli»:

 «una pagina dolorosa della storia italiana troppo a lungo negata e colpevolmente rimossa (...). Né il contesto politico del tempo, né l’aggressione operata dal regime fascista alla Jugoslavia possono giustificare le sofferenze atroci di cui furono vittime donne e uomini innocenti» (9).

A sessant’anni di distanza non è difficile ammettere di aver negato e rimosso... A quando la confessione sui crimini dello stalinismo, sulla eliminazione fisica degli «avversari» tacciati di trotskismo e di bordighismo da parte degli apparati di tutti i partiti stalinisti - compreso quello italiano dei Togliatti, dei Vidali e dei Secchia?

Il fatto è che la politica, oggi di moda, della «riconciliazione nazionale» (repubblichini di Salò e partigiani antifascisti, tutti patrioti) può portare voti, sia a destra che a sinistra dello schieramento parlamentare. Quindi l’»autocritica» di Fini sulle leggi razziali fasciste e sui campi di concentramento nazisti non poteva che richiamare la «autocritica» di Fassino sulle foibe, e magari un domani anche su via Rasella. L’obiettivo non è la ricerca della verità, ma quello di venire considerati sufficientemente moderati e ragionevoli da parte di quella schiera di potenziali elettori (che sono, per i per i partiti parlamentari, i loro consumatori) da poterne convincere almeno una parte e ottenerne così il voto.

 

LA RIVOLUZIONE PROLETARIA E LA RISPOSTA ALLA GUERRA BORGHESE E ALLE SUE ATROCITA

 

I proletari e i comunisti come si comportano con i nemici durante la rivoluzione, e nella guerra rivoluxionaria di difesa del potere politico conquistato? Le forze proletarie rivoluzionarie useranno gli stessi metodi che gli aguzzini borghesi hanno usato e usano nelle loro azioni di repressione e nelle loro guerre?

No, la risposta è secca: non useranno il metodo della strage, dello sterminio, del genocidio. Il perché è semplice: l’obiettivo storico della rivoluzione proletaria e comunista non è quello di imporre sulla società un dominio di classe diverso da quello borghese, ma di superare la divisione della società in classi e di trasformarla in una società senza classi, in cui non esistano più le condizioni economiche di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, di appropriazione privata dei mezzi di produzione e delle ricchezze sociali prodotte. Quindi, non ci sarà più bisogno di difendere interessi privati contro la collettività, interessi di parte contro l’intero genere umano. Cambiando l’obiettivo storico, cambia anche l’incidenza dei mezzi violenti che si rendono necessari alla distruzione dell’impianto politico, sociale ed economico della società capitalistica e borghese per far posto ad una nuova struttura, e sovrastruttura, sociale.

La rivoluzione proletaria, e la dittatura di classe instaurata a potere politico conquistato, non sono semplici principi teorici; non si attuano in situazioni astratte o neutre. Sono la risposta politica allo storico sviluppo della società capitalistica, concreta, reale, materiale, in cui il dominio di classe della borghesia è conservato e difeso con ogni forma di violenza possibile, con ogni forma di oppressine e repressione possibile. La rivoluzione proletaria si erge con tutta la sua forza contro il potere delle classi borghesi per abbattere definitivamente il regime di schiavitù salariale, il regime di classe che si basa sulla sistematica coercizione delle classi lavoratrici, e che esercita su di esse tutta la pressione e la repressione che servono a mantenerle nelle condizioni della attuale e planetaria schiavitù salariale.

La rivoluzione proletaria, la dittatura proletaria, non sono ipotesi costruite nel mondo delle fantasie intellettuali, non sono rappresentazioni cinematografiche di mondi fantastici: sono terribilmente concrete, come dimostrato dalla storia con la Comune di Parigi e con la Rivoluzione bolscevica dell’Ottobre 1917. Talmente concrete, da far scorrere sudori freddi nelle schiene di molti governanti borghesi ancor oggi, giustamente!

La rivoluzione, risponde Engels ai contraddittori anarchici, è la cosa più autoritaria che ci sia: è l’autorità di masse armate che abbattono il potere esistente per instaurarne uno nuovo. Lo è stato per le rivoluzioni borghesi, lo sarà anche per le rivoluzioni proletarie.

La dittatura proletaria è certamente una dittatura di classe, instaurata una volta abbattuto il potere politico della borghesia, ossia la dittatura di classe borghese. Ma corrisponde ad una fase storica di transizione dalla società divisa in classi alla società senza classi, al comunismo.

La necessità della dittatura proletaria è determinata storicamente dalla stessa evoluzione economica e politica della società umana. La fase successiva corrisponderà alla negazione della negazione, cioé la negazione della dittatura proletaria che a sua volta è la negazione della dittatura borghese, dunque corrisponderà alla formazione di una società completamente diversa, appunto non più basata sulla divisione in classi sociali contrapposte. La nuova società sarà basata sull’armonia sociale grazie alla quale lo sviluppo dell’uomo non avrà più bisogno di passare attraverso modi di produzione generanti classi dominanti e classi dominate, perché il modo di produzione risponderà alla prioritaria soddisfazione dei bisogni degli uomini, degli esseri sociali che avranno del tutto superato la contrapposizione fra possidenti e nullatenenti, sfruttatori e sfruttati, capitalisti e salariati.

Ma, per svolgere fino in fondo il compito di abbattimento del potere politico della borghesia - senza il quale è impossibile iniziare la trasformazione economica e sociale della società - la dittatura proletaria dovrà utilizzare tutto il suo potere di influenza politica, e tutta la necessaria fermezza nel combattere le forze della conservazione borghese e controrivoluzionarie.

La dittatura comporta drastiche disposizioni, interventi dispotici e l’applicazione di metodi terroristici coi quali scoraggiare la resistenza e la riorganizzazione delle forze della controrivoluzione: questo è inevitabile e assolutamente necessario per la difesa del potere politico proletario. L’esempio della Comune di Parigi del 1871 ci insegna che la mancanza di fermezza e di determinazione classista è stata una delle principali cause della sconfitta dei comunardi; le forze della reazione ebbero modo e tempo di riorganizzarsi e di capovolgere le sorti del primo gigantesco scontro fra la rivoluzione proletaria e la borghesia dominante non solo nazionale ma internazionale.

La grande Rivoluzione russa dell’ottobre 1917, fatto tesoro delle esperienze negative della Comune di Parigi, attuò in modo molto più ampio e determinato la dittatura proletaria: non perse tempo a crogiolarsi nella vittoria dell’insurrezione, schiacciando rapidamente le forze controrivoluzionarie che tentavano di riorganizzarsi dall’interno stesso del potere proletario appena instaurato. E durante la lunga guerra civile tra il 1918 e il 1921, di fronte alle truppe degli eserciti bianchi, foraggiati, sostenuti e protetti dalle borghesie di tutto il mondo, condotti a combattere le forze rivoluzionarie proletarie con gli abituali e sistematici metodi delle stragi, dell’incendio di villaggi e raccolti, di violenze di ogni tipo su donne e bambini, l’armata rossa non rispose mai sullo stesso piano.

Il terrorismo rosso, richiamato da Trotsky come strumento necessario della dittatura prolearia, si attua in proporzione al pericolo per il potere politico appena conquistato. Non vi è il gusto di seviziare i nemici, di martoriare i corpi degli uccisi, atteggiamenti tipici della degenerazione sociale borghese. La sete di profitto, la prepotenza dei capitalisti, il gusto e lo sport delle sevizie sulla popolazione inerme sono elementi che guidano le forze della controrivoluzione ed è contro di essi che le forze della rivoluzione sono chiamate a combattere.

Nella consapevolezza di rappresentare gli interessi generali e storici della stragrande maggioranza degli uomini, e non solo della classe proletaria in senso stretto, le forze della rivoluzione proletaria e comunista trasmettono all’intera società, con le loro azioni e il loro movimento, la certezza di un futuro senza conflitti di classe e senza guerre fra Stati diffondendo valori di fratellanza e di armonia sociale di cui il capitalismo - e quindi le classi borghesi - non sono in grado nemmeno di percepire la dimensione e la profondità. Accecate dalla sete di profitto, le classi borghesi si trasformano in freddi strumenti di oppressione e di distruzione, perché soltanto dall’oppressione delle classi subordinate e di popolazioni più deboli esse raggiungono il loro scopo, l’appropriazione privata della ricchezza sociale prodotta attraverso il massimo sfruttamento del lavoro salariato, vera fonte di ricchezza sociale nella società capitalistica.

Per le classi borghesi, avezze ormai a sacrificare per i loro interessi milioni di vite umane nelle loro guerre, soprattutto, ma anche in tempo di «pace», i metodi di intimidazione e di terrorismo contro ogni possibile avversario, e soprattutto se si tratta del proletariato, fanno parte del normale bagaglio di dominio, sono parte integrante dei mezzi di difesa preventiva del potere. Ai metodi di intimidazione e di terrorismo utilizzati dalle classi dominanti borghesi, il proletariato rivoluzionario non potrà opporre che metodi di intimidazione e di terrorismo altrettanto efficaci.

 «Il grado di accanimento della lotta dipende da tutta una serie di condizioni interne e internazionali. Più la resistenza del nemico di classe vinto si mostrerà accanita e pericolosa, più il sistema di coercizione [della dittatura proletaria, NdR] si trasformerà inevitabilmente in sistema di terrore», così Trotsky nel suo libro Terrorismo e comunismo (10).

In tempo di rivoluzione, che è tempo di guerra civile, «noi sterminiamo le guardie bianche affinché esse non sterminino i lavoratori», affermava ancora Trotsky in polemica con Kautsky che propugnava una rivoluzione senza l’applicazione di violenza e di terrorismo (11), ossia lasciando il monopolio della violenza e del terrorismo alle guardie bianche, dunque alle classi borghesi che le utilizzavano contro il proletariato rivoluzionario!

Chi non lavora non mangia, è un vecchio motto che riassume la condizione del proletario salariato: se lavori, quindi se sei adeguatamente sfruttato dal capitalista di turno, allora mangi quel tanto che basta per sostenerti in forze e tornare ogni giorno che segue a farti sfruttare... «finché morte non vi separi». Ma è rivolto anche ai borghesi di cui il potere proletario si sbarazzerà come classe dominante ma che riciclerà, salvo gli elementi irriciclabili, come forza lavoro al servizio della rivoluzione. E’ stupido ammazzare il mulo perché un giorno ha scalciato; lo si controlla, e lo si fa lavorare. Sarà lavoro forzato? Certo, in tutti i casi in cui gli ex borghesi non accetteranno, senza ribellarsi, le nuove condizioni politiche e sociali.

Ogni visione pacifista e non violenta dello sviluppo della società non solo è una visione che falsa la realtà dei rapporti sociali esistenti e dell’antagonsimo fra le classi che caratterizza la società capitalistica e dai quali non si può prescindere, ma alimenta la sottomissione alle leggi dell’economia capitalistica e della sua sovrastruttura politica, in qualsiasi modo il potere venga modulato.

Ogni posizione democratica e legata all’impianto istituzionale parlamentare è posizione collaborazionista anche se nel proprio programma politico si parlasse di socialismo, di comunismo, di diritti dei lavoratori o di rivoluzione. E’ posizione collaborazionista perché fonda l’attività politica sul principio democratico, ossia sul principio di eguaglianza politica, sociale, culturale, fra capitalisti e proletari, impossibile nella realtà sociale del capitalismo, e fonda la sua azione pratica sulla collaborazione interclassista, dunque mantenendo le classi lavoratrici sottoposte alle esigenze del capitale. Da questo punto di vista è quindi ovvio che le forze cosiddette di sinistra, si chiamino PCI, DS o Rifondazione Comunista, in tempi di crisi economica e sociale, tendano a privilegiare gli atteggiamenti di conciliazione, di cooperazione, appunto di collaborazione con le classi borghesi. E questo avviene sia perché queste forze rappresentano in realtà gli interessi delle classi medie e, in genere, dell’aristocrazia operaia, sia perché il loro ruolo di mediazione fra borghesia e proletariato viene normalmente e sicuramente pagato profumatamente.

Allora, tuttt i discorsi di «riconciliazione nazionale» vanno esattamente in direzione del loro ruolo di mediatori sociali, per cui la mestizia con cui da tempo partecipano al ricordo delle vittime di Auschwitz e oggi anche a quelle delle foibe è come un «atto dovuto», utile al solo scopo di presentarsi più accettabili al cospetto del consumatore-elettore. Il proletariato ha un nemico dichiarato: la classe borghese, che si serve però di forze collaborazioniste provenienti preferibilmente dalle file proletarie; per questo i collaborazionisti sono e diventeranno nemici sempre più insidiosi.

 


 

(1) Per foibe si intendono le cavità rocciose caratteristiche del Carso, prodotte dall’erosione millenaria dell’acqua di fiumi e torrenti; queste voragini possono essere profonde anche diverse centinaia di metri. E’ noto il torrente Foiba (in croato Jama), in Istria, che a Pisino (in croato Pazin) si inabissa in una voragine profonda 125 metri e non si è ancora scoperto se ricompare in superficie e in che punto.

L’infoibamento, nell’autunno 1943 e soprattutto nella primavera del 1945 durante la rivolta nazionalista croata contro fascismo e nazismo, «è diventato metodo sistematico applicato a centinaia e centinaia di uomini e donne, una sorta di prosecuzione macabra della condanna a morte, di cui ha rappresentato il completamento. Non si è trattato soltanto di una scelta tattica, per far scomparire in fretta le prove delle stragi: si è trattato anche di una scelta simbolica. Gettare un uomo in una foiba significa considerarlo alla stregua di un rifiuto, gettarlo là dove da sempre la gente istriana getta ciò che non serve più (un vecchio mobile, la carcassa di un animale morto, una suppellettile rotta). La vittima sprofondata nell’antro viene cancellata nell’esistenza fisica, ma anche nell’identità, nel nome, nella memoria. Uccidere chi è considerato nemico non basta: occorre andare oltre, occultarne il corpo e la vita, eliminare ogni traccia, come se non fosse mai vissuto», così Gianni Oliva nel suo libro Foibe, Oscar Mondadori 2003, p.86.

E meno male che l’annientamento del nemico e la sua «scomparsa dalla faccia della terra»doveva essere una caratteristica della brutalità del medio evo. I partigiani titini sono però in buona compagnia; tutte le truppe di occupazione militare delle potenze coloniali e degli imperialismi, dall’Inghilterra alla Francia, dalla Spagna al Portogallo al Belgio, dall’Italia al Giappone alla Germania e agli Stati Uniti, dalla Russia staliniana alla Cina maoista, hanno scritto pagine di atrocità infinite contro i propri nemici. L’occultamento delle stragi è stata una pratica di tutti i regimi borghesi, nessuno esluso. Qual è la differenza, d’altra parte, fra i corpi fatti a pezzi e resi irriconoscibili dai bombardamenti e dai cannoneggiamenti americani o inglesi e i corpi gettati nelle foibe? Sono egualmente e preventivamente condannati a morte in una guerra che le borghesie in concorrenza fra di loro si fanno maciullando migliaia e milioni di uomini, proletari soprattutto. Allo stesso modo degli imprenditori che, per guadagnare risparmiando sulle spese di smaltimento, scaricano nottetempo in mare o sotterrano in luoghi appartati materiali nocivi, così gli eserciti in guerra (ma anche squadroni della morte, e talvolta gruppi partigiani) risparmiano tempo e risorse disfacendosi dei corpi dei condannati a morte, quando il loro numero è cospicuo, nelle fosse comuni; la foiba è in un certo senso una fossa comune che l’uomo non ha nemmeno avuto la necessità di scavare, ed è normalmente abbastanza inaccessibile da essere adatta per l’occultamento dei corpi, e quindi delle stragi.

(2) Giuseppe Cobolli Gigli, era figlio di un maestro elementare sloveno, Nikolaus Coboll; volle italianizzare il cognome e, una volta diventato gerarca, aggiunse il cognome Gigli per darsi un tocco di nobiltà (vedi il manifesto, 4 febbraio 2005).

(3) Pisino (Pazin), vecchio fulcro della Contea di Pisino esistita dall’inizio del 1000 d.c. fino al 1848, quando fu incorporata nei territori austriaci, è costruita sul costone della voragine più grande e spettacolare dell’Istria, ed è situata al centro della penisola istriana per la cui posizione ha sempre acquisito rilevanza strategica.

(4) Riportato da il manifesto del 4 febbraio 2005.

(5) Il Trattato di Rapallo, del 12 novembre 1920,definisce la linea di confine tra l’Italia, l’Austria e il regno di Serbia, e mette fine all’avventura fiumana di D’Annunzio, inglobando nello Stato italiano quasi 400mila tra sloveni e croati. Il Trattato dichiarò Fiume «città libera» e assegnò all’Italia tutta l’Istria e, in Dalmazia, la città di Zara, le isole di Cherso, Lussino, Lagosta e Pelagosa. Il governo di Belgrado, però, non volle ratificarlo. Solo nel 1927, con i patti di Roma siglati da Mussolini e dal capo del governo jugoslavo Nicola Pasic, il Trattato venne alla fine ratificato e il problema fiumano risolto con l’assegnazione all’Italia della città di Fiume e alla Jugoslavia di Porto Barros.

(6) Dall’entrata in guerra nel 1940, l’Italia agisce immediatamente nei balcani nel tentativo di annettersi i territori più vasti possibile, cominciando con l’invasione dell’Albania e l’attacco alla Grecia nell’illusione di poter scatenare una «guerra parallela» a quella tedesca. Mussolini e Hitler concordano così la spartizione della Jugoslavia e l’Italia riesce a mattere i propri artigli sulla Solvenia meridionale, mentre la parte settentrionale va alla Germania, e su Sebenico, Spalato, Ragusa, Cattaro, tutta la Dalmazia, le isole e la regione della Carniola, il Kosovo e la Macedonia meridionale fino al Montenegro, terra natale della regina Elena.. Ma le popolazioni autoctone, soprattutto slovene e croate, di fronte all’oppressione sistematica attuata dal governo e dall’esercito italiani, risposero con l’organizzazione della resistenza armata che, a sua volta, venne presa come giustificazione per rafforzare ancor più i sistemi di repressione ai quali parteciparono le bande fasciste degli ustascia croati di Ante Pavelic al quale Hitelr e Mussolini affidarono il controllo della Croazia. Secondo una commissione senatoriale americana, i serbi massacrati dagli ustascia croati tra il 1941 e il 1945 variano da 300.000 a 500.000 (cfr. G.Oliva, Foibe, cit.). In Italia vengono costruiti campi di concentramento in cui deportare migliaia di «ribelli» slavi, come a Gonars e Visco (UD), Monigo (TV), Chiesanuova (PD), Grumello (BG), Santa Lucia d’Isonzo e Sdraussina (GO), e nelle isole adriatiche, come a Rab (Arbe) che diventerà un vero e proprio campo di sterminio.

(7) Vedi il manifesto del 4.2.2005.

(8) Vedi il manifesto del 10.2.2005.

(9) Ibidem.

(10) Vedi L. Trotsky, Terrorisme et communisme, Ed. Prométhée, Paris 1980, cap. IV Le terrorisme, p.65.Vedi anche nostra traduzione , in «il comunista» nn. da 46-47 a 83. Il cap.IV è pubblicato nel n.53-54 del marzo 1997.

(11) Ibidem.

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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