Violenza e stadi

(«il comunista»; N° 95; Maggio 2005)

 

Lazio-Livorno, all’Olimpico, domenica 10 aprile. «Tre minuti per Wojtyla e 87 per Hitler e Mussolini», così scrive «la Repubblica» di lunedì 11. Tre minuti di silenzio in ricordo della morte del papa, con immagini del papa che passano sui tabelloni luminosi: le stesse mani che alla curva nord laziale hanno applaudito al papa sollevano poi bandiere con la croce uncinata nazista, croci celtiche e tricolori repubblichini, accompagnate da striscioni con scritto «Roma è fascista», «Boia chi molla», «Me ne frego», e da cori: «Duce, Duce»; di questi tempi non poteva mancare un soggetto che va per la maggiore: «Foibe: Togliatti criminale di guerra». Il tutto all’insegna non solo di un revanscismo nero, ma una di chiara propaganda fascista. Dopo «il silenzio» rivolto al ricordo del papa, entra «la politica» che la fa da padrona per tutti i 90 minuti della partita.

I 300 tifosi del Livorno non hanno avuto la possibilità di “rispondere per le rime”, se non cantando “Bandiera rossa” e “Bella ciao”, nel più tipico stile resistenziale, come risposta ad un nazionalismo nero con un nazionalismo rosso. Ma una cosa l’avevano fatta bene, avevano preparato uno striscione con su scritto: «Moby Prince 140 morti senza giustizia: e i responsabili?», in ricordo del 10 aprile di 14 anni fa quando avvenne il disastro della Moby Prince. Questo striscione però non c’era allo stadio, era stato sequestrato dalla polizia all’entrata. Proprio strane le coincidenze: le bandiere naziste entrano, questo striscione no! Striscioni, canti, grida fascisti: è un primo tipo di violenza, la violenza potenziale, la violenza annunciata, minacciata.

Ma la violenza effettivamente attuata “fa parte della partita”. I più grossi scontri avvengono nella strada del ritorno dei livornesi, portati in pullman alla stazione Termini; saliti sul treno, usano il freno d’emergenza per fermarsi alla stazione San Pietro, «decisi a non ripartire fino a quando non fossero stati rilasciati i ragazzi fermati» (il manifesto, 12 aprile 05), fermati in questura perché trovati senza documenti, e dei quali non ne sapevano più nulla. Allora, cosa è successo?, leggiamo ancora dal «manifesto» del 12 aprile: «Scesi sul marciapiede del binario, sono stati caricati da circa 600 agenti. Gli ultrà hanno lanciato sassi raccolti dalla massicciata rompendo alcune vetrate, ma ben presto sono dovuti indietreggiare trovando riparo sul treno. All’interno degli scompartimenti, gli agenti hanno fatto uso di gas lacrimogeni e spray urticanti. Mentre molti svenivano, per l’effetto del gas, ad alcuni veniva puntata la pistola alla testa, altri venivano picchiati in maniera selvaggia. Portati fuori dal convoglio, i tifosi sono stati fatti sedere e sdraiare sul pavimento bagnato. Qua sono volati svariati calci al volto e minacce di ogni tipo. Dopo circa quattro ore, gli oltre 250 tifosi sono stati trasferiti negli uffici della polizia scientifica di via Patini, a due passi dalla stazione ferroviaria di Tor Sapienza. Qua, come testimoniano alcuni tifosi, sono stati lasciati per ore senza acqua, senza cibo, senza la possibilità di andare in bagno, alcuni perfino denudati». La rabbia dei poliziotti ha avuto così il suo sfogo. Conclusione: «11 arrestati, 246 denunciati e diffidati».

Il ministro dell’interno Pisanu, di fronte ai fatti di Roma, e agli scontri a Cava dei Tirreni a margine del derby Cavese-Juve Stabia di serie C2 (nei quali 21 poliziotti e 13 carabinieri sono risultati feriti), ha lanciato la grande minaccia: blocco degli stadi considerati più a rischio, e partite a porte chiuse, partite sospese al primo lancio di oggetti in campo. Un ministro dell’interno che deve fare se non minacciare una repressione più forte? E’ successo sempre, dopo gli incidenti negli stadi, che lo Stato prendesse misure dure contro i «violenti», ma poi «lo spettacolo deve continuare» - troppi soldi in ballo, i club non possono fermarsi – fino alla successiva tornata di violenze. Violenze che sono sempre imputate alle iniziative di gruppi di facinorosi, come se questi calassero sugli spalti dal nulla, e non si portassero invece addosso la violenza della vita quotidiana e lo spirito di rivalsa. L’altra violenza, quella dei poliziotti, è invece giustificata a priori: l’ordine va mantenuto!, e non si sa mai quanti sono i feriti tra i tifosi …

 

Inter-Milan, quarti di Champions League, a San Siro, martedì 12 aprile, partita di ritorno con l’Inter sotto di due gol. Era annunciato come «il derby d’Europa», in uno stadio e in una città sotto i riflettori di tutto il mondo. La partita doveva essere un «esempio di civiltà» con cui Milano rispondeva alla «violenta Roma». Ma anche a San Siro la spettacolarizzazione di una rabbia selvaggia col lancio di petardi, bottigliette e oggetti di ogni tipo, l’ha avuta vinta sull’andamento della partita.

Un gol interista non convalidato dall’arbitro ad un quarto d’ora dalla fine, in una partita ormai già persa, è stato il pretesto: dalla curva interista, già nota per vandalismi e violenze (dai cui spalti nel 2001, nella partita Inter-Atalanta, fu lanciato addirittura un motorino sugli anelli sottostanti, ma non si è mai “scoperto” come abbiano potuto portare un motorino fin lassù senza che nessuno li fermasse), per i cori razzisti e gli slogan fascisti, si scatena un pandemonio. Nel campo arriva di tutto, e ci va di mezzo il portiere del Milan che si becca un petardo nella schiena. La partita, sospesa per venti minuti, riprende, ma dopo un nuovo lancio di oggetti viene sospesa definitivamente. Le curve sono presidiate da tifoserie organizzate, non c’è dubbio, e quanto è successo non è avvenuto all’improvviso. Da giorni (secondo l’Unità del 13 aprile 05) «il tam tam tra i tifosi interisti diceva che in caso di eliminazione (più che probabile visto il risultato dell’andata) sarebbero scoppiati disordini». Promessa mantenuta, con forze dell’ordine, stavolta, alla finestra.

 

Juventus-Liverpool, quarti di Champions League, stadio Delle Alpi di Torino, mercoledì 13 aprile, partita di ritorno. Il caso vuole che questo incontro si tenga a vent’anni esatti dalla tragedia dell’Heysel (in Belgio, ci furono 38 e più di 150 feriti tra i tifosi italiani) (1) dove si giocava la finale di Coppa Uefa proprio tra Juventus e Liverpool. Dopo i recentissimi incidenti di Roma e di Milano alle partite Lazio-Livorno e Inter-Milan, e dopo le minacce repressive del ministero degli Interni, le forze di polizia blindavano la città di Torino nel tentativo di impedire scontri tra le due tifoserie. I media, nel frattempo, mettevano in evidenza che le misure repressive attuate dal governo Thatcher vent’anni fa dopo i fatti di Heysel nei confronti degli ultras britannici hanno avuto il risultato di attenuare, fino ad eliminare quasi del tutto, il fenomeno della violenza negli stadi e fuori degli stadi che caratterizzava gli hooligans inglesi. Il ministro dell’Interno italiano si doveva sentire quindi del tutto giustificato nel prendere misure analoghe per le tifoserie italiane. Gli è che, durante la notte precedente l’incontro, gruppi di tifosi juventini provvedevano a dare la caccia ai tifosi del Liverpool per “vendicarsi” di Heysel. «Venti fermati, otto denunciati, tutti fra i venticinque e i trentaquattro anni, quasi tutti da tempo diffidati e conosciuti dalle forze dell’ordine« (QN, 14.4.2005). Il giorno dopo, allo stadio, all’arrivo dei sostenitori del Liverpool, sono scoppiati gli incidenti con centinaia di ultras bianconeri che tentavano il contatto con gli ultras inglesi, ma che si scontravano con la polizia. La situazione ad un certo punto torna sotto controllo della polizia, gli incidenti terminano, la partita si svolge regolarmente. Nella ripresa, nella curva bianconera appare uno striscione – tanto per non essere da meno dei destri laziali o interisti – nel quale, scritto in inglese, si ringrazia Dio per Sheffield ’89, dove si verificò una strage di tifosi del Liverpool. All’insegna del solito copione di velenosa rivalità attraverso la quale vengono espresse le mille insoddisfazioni che caratterizzano la vita quotidiana, e lo spirito di rivalsa su nemici facilmente identificabili, come lo è stato a suo tempo qui in Europa per gli ebrei o in America per i neri. La sconfitta della Juve, così almeno dalle cronache, non provoca ulteriori incidenti, salvo alimentare nei gruppi di teppisti un permanente desiderio di vendetta e di violenza gratuita.

 

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 La violenza cinetica, attuata negli scontri tra tifoserie prima, durante o dopo la partita, e il lancio in campo di petardi e oggetti di ogni tipo, è ormai un corollario atteso. I media non fanno che ripeterlo: la violenza delle tifoserie va combattuta innanzitutto dai club e, ovviamente, dalle forze dell’ordine. Raramente si evidenzia la violenza delle forze dell’ordine nei confronti dei tifosi, degli «ultras», che spesso vengono vessati e bastonati semplicemente perché non subiscono le provocazioni in silenzio e rassegnati. Del pestaggio dei livornesi, se non fosse per le testimonianze dei tifosi stessi, si sarebbe saputo ben poco. D’altronde, la violenza espressa dalle tifoserie calcistiche, amplificata dalle riprese televisive, e da tutti i media, non è che una parte della violenza che sprizza da ogni poro di questa società. Lo stadio è la moderna arena romana, dove dare sfogo alle esasperazioni e alle spinte ribelli che maturano ogni giorno nella vita quotidiana di ogni singolo individuo; è un ambiente in cui il gruppo si presta a raccogliere tutte le insoddisfazioni dei singoli, a trasformarle in una comunanza di sentimenti di rivincita che singolarmente nessuno avrebbe la forza di attuare. Ma è anche l’ambito in cui poteri esterni, legati ai club o a forze politiche o magari ad organizzazioni malavitose, agiscono organizzati, pilotando, manovrando le azioni di violenza, in modo che le masse attratte dalle sfide sportive impegnino le proprie energie e la propria rabbia su bersagli di volta in volta interessati. Bersagli che in realtà non fanno mai male al capitalismo, che non mettono mai in risalto i reali antagonismi sociali – che sono quelli di classe – che non mettono mai in discussione il mercato, la dipendenza della vita dal lavoro salariato, il dominio borghese sulla società; anzi, il tifoso della squadra avversaria, e lo stesso poliziotto, diventano obiettivi naturali, fanno parte dello stesso teatro in cui si svolge la commedia dello sport come portatore di valori e di ideali di lealtà, di vigore atletico, di intelligenza di gioco. Ma ad ogni partita, l’illusione che nello sport la tracotanza, l’imbroglio, la spietatezza del mercato e delle sue regole restino fuori dei cancelli, è destinata miseramente a cadere.

Negli stadi, come nella scuola e nei quartieri, l’ordine borghese, il rispetto delle regole del mercato e dell’asservimento delle masse proletarie al lavoro salariato, e alla disoccupazione, lo si mantiene (quando ci riescono) solo ed esclusivamente con la repressione poliziesca, che è insieme violenza potenziale e violenza cinetica. La via d’uscita non sta nell’abbracciare “la causa” della squadra di calcio per la quale si parteggia, anche se questo parteggiare lo si manifesta cantando “Bandiera rossa”, alzando bandiere con falce e martello o sventolando il volto di Che Guevara.

 La via d’uscita sta nell’accettare un terreno di scontro completamente diverso, certamente più alto e decisivo: il terreno della lotta di classe, riconoscendo la realtà degli antagonismi sociali che sono alla base delle insoddisfazioni e delle rabbie che spingono gruppi di tifosi a forme di violenza anche molto aspre ma sostanzialmente impotenti e inefficaci, che fanno soltanto il gioco di coloro che, nel mondo del calcio dove girano business miliardari, ci guadagnano a mani basse.

 


 

(1) Vedi il nostro articolo «La violenza negli stadi è un aspetto della violenza che questa società sprigiona da ogni suo poro», in «il comunista» n. 3-4, Luglio 1985.

 

www.pcint.org

 

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