Il futuro del capitalismo: benessere e prosperità ?

No: crisi economiche e miseria crescente per un proletariato sempre piu numeroso e oppresso nel mondo

(«il comunista»; N° 100; Maggio 2006)

 

Con l’espansione mondiale del capitalismo, e in particolare dopo la seconda guerra imperialistica mondiale, le democrazie di tutto il mondo, con a capo gli Stati Uniti d’America - una volta sconfitte le dittature fasciste - pronunciarono solennemente l’impegno a non utilizzare più la guerra come un mezzo per risolvere i conflitti di interessi fra Stati e fra popoli, e avviare la società intera verso la civiltà, il benessere, la prosperità. Tale solenne impegno veniva recepito dalle costituzioni repubblicane, come quella italiana, e sancito una volta per tutte.

La ripresa economica del capitalismo,  seguìta sempre alle immani distruzioni delle guerre, portò gli Stati imperialisti più forti  nell’arco di trent’anni a sviluppare l’accumulazione capitalistica in maniera gigantesca; ma più accumulavano ricchezza sociale, più si acutizzavano i fattori di contrasto e di crisi: economici e commerciali, prima di tutto, e poi finanziari, per convergere tendenzialmente verso conflitti militari. La guerra, come mezzo per risolvere i conflitti di interessi fra Stati e popoli, invece di scomparire e venir sostituita dal negoziato, dalla convivenza pacifica, dalla civile ripartizione delle ricchezze e delle risorse esistenti in natura, è diventata sempre più il mezzo attraverso il quale risolvere contrasti e conflitti. La civiltà della borghesia, la civiltà del capitalismo sviluppato è ormai condensata nella preparazione e nella conduzione della guerra guerreggiata. La borghesia, nata politicamente da una guerra rivoluzionaria contro il feudalesimo e l’aristocrazia nobiliare, era destinata a percorrere un cammino storico simile a quello delle classi abbattute, con una differenza: universalizzando il dominio economico del capitalismo, ha reso sempre più interdipendente il futuro economico, sociale e politico di ciascun paese da quello degli altri, in particolare dei paesi più industrializzati. E ha reso sempre più mondiale il peso e l’effetto, negativo e positivo, dell’espansione o della crisi di un paese sul resto dei paesi.

Con la guerra di Corea - 1950 - a neanche 5 anni di distanza dalla fine del secondo macello mondiale, il mondo ripiombava nella crisi di guerra. I bei propositi paficisti di tutti i borghesi del mondo si sbriciolavano definitivamente. La guerra in Corea - scrivevamo all’epoca (1) - «non era un episodio contingente o locale, un caso, un deprecabile incidente: era una fra le tante, e certo fra le più virulente manifestazioni di un conflitto imperialistico che non ha paralleli nè meridiani, ma si svolge sul teatro di tutto il mondo, nei limiti di tempo internazionali dell’imperialismo». E vale la pena citare anche i brani successivi, a dimostrazione del nostro metodo di analisi e di previsione: «I suoi protagonisti non erano nè coerani del nord rivendicatori di un’unità nazionale spezzata, nè i coreani del sud araldii di un diritto e di una giustizia violati; ma le milizie inconsce e l’ufficialità prezzolata dei due grandi centri mondiali del capitalismo, entrambi protesi per un’ineluttabile spinta interna verso il precipizio della guerra»; i due grandi centri mondiali del capitalismo erano allora America e Russia, che rappresentavano, nel loro condominio politico e militare sul mondo, i formidabili pilastri della conservazione capitalistica. Seguitiamo a leggere: «Non in palio erano la libertà, il socialismo, il progresso, e le mille ideologie in lettera maiuscola di cui è cosparso come di tante croci il cammino della società borghese, ma i rapporti di forza e le condizioni di sopravvivenza dei due massimi sistemi economici e politici del capitalismo, America e Russia».

Quella guerra era destinata non a chiudersi con una pace sedicentemente duratura, bensì con la sua estensione: «Non era guerra in Corea, ma guerra nel mondo. E la “pace”, la fine ormai prossima del conflitto col tradizionale abbandono delle forze lanciate successivamente in rinnovati esperimenti partigiani - che sarà un altro modo di continuare la guerra vera oltre le finzioni di una pace illusoria, - ha subito riaperto lo scenario di nuovi conflitti: e l’Indocina sembra essere, fin da oggi, l’anello immediatamente successivo del conflitto palese. La macina dell’imperialismo non ha soste».

Infatti sarà l’Indocina - Viet Nam, Cambogia, Laos - il teatro di un lunga guerra iniziata dall’imperialismo francese, e continuata successivamentedall’imperialismo americano, entrambi sconfitti militarmente (nel 1954 i francesi, nel 1975 gli americani), da popolazioni mobilitate sotto la bandiera dell’indipendenza e dell’unificazione nazionale e la bandiera del falso socialismo

Con la grande crisi capitalistica del 1975, tutti i paesi del mondo, compresi i più forti economicamente, hanni iniziato un lento ma inesorabile declino. Sono passati altri trent’anni da quella grande crisi e la grande novità che gli ideologi borghesi sono riusciti a scovare nel loro bagaglio culturale è condensata nella teoria della guerra preventiva, che, interpretata in un’accezione a tutto orizzonte, significa, da un lato, attacco preventivo da parte di alcuni Stati nei confronti di altri Stati - nella più schietta e dichiarata lotta di concorrenza borghese, come nel caso delle guerra balcanica degli anni Novanta, o della guerra in Afghanistan e in Iraq ancor oggi in corso - dall’altro, attacco mondiale alle condizioni di vita e di lavoro delle grandi masse lavoratrici. Non c’è angolo della terra, infatti, in cui non vi sia una politica borghese sempre più oppressiva nei confronti del proprio proletariato e contemporaneamente nei confronti del proletariato straniero, si tratti dei messicani negli USA, dei nordafricani e degli arabi in Europa, dei pakistani  o degli indiani in Medio Oriente, o dei cinesi in mezzo mondo.

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IL LIMITE DELLA PRODUZIONE CAPITALISTICA E’ IL CAPITALE STESSO

 

L’accumulazione capitalistica, e la spasmodica valorizzazione del capitale, portano inevitabilmente ad accumulare ricchezza (e benessere) presso le classi dominanti, e miseria (fame e oppressione) presso le classi dominate, le classi proletarie. Ma questa situazione non è di oggi, non la si deve al cattivo governo dei Bush, dei Putin o degli Hu Jintao; l’origine va cercata nel modo di produzione capitalistico, e sarà soltanto un altro modo di produzione (quello socialista) ad averne ragione. Sarà un’altra grande guerra rivoluzionaria a farla finita non più con le classi aristocratiche nobiliari, ormai degenerate e impotenti, ma con una classe molto ma molto più resistente e forte, la classe borghese, l’unica che rappresenta e difende fino allo stremo, con le unghie e con i denti, il capitalismo.

Nel Manifesto del 1848 e nel primo libro del Capitale sono di primaria importanza i richiami al formarsi nel secolo XV, dopo le scoperte geografiche, del mercato ultra-oceanico, come dato fondamentale dell’accumulazione capitalistica, e alle guerre commerciali tra Portogallo, Spagna, Olanda, Francia, Inghilterra. Affermazione che riprendiamo dal Dialogato con Stalin (2) del 1952, scritto da A.Bordiga nella serie di articoli intitolati Sul filo del tempo.

All’epoca di Marx, dunque all’epoca del capitalismo tipo, è l’impero inglese che domina la scena mondiale. Engels, nella Prefazione del 1892 al suo studio del 1844 «La situazione della classe operaia in Inghilterra», porta  in evidenza una critica basilare: «La teoria del libero scambio si fondava su un’ipotesi: che l’Inghilterra dovesse diventare l’unico, grande centro industriale di un mondo agricolo, e i fatti hanno smentito pienamente questa ipotesi. Gli elementi determinanti dell’industria moderna, cioè la forza del vapore e le macchine, possono essere creati dovunque vi sia combustibile, particolarmente carbone; e altri paesi, oltre l’Inghilterra, dispongono di carbone: la Francia, il Belgio, la Germania, l’America, perfino la Russia [per non parlare di petrolio, gas naturale, energia atomica, ecc., NdR]. E gli abitanti di quei paesi non ritennero conforme ai propri interessi trasformarsi in affamati affittuari irlandesi, unicamente per la maggior gloria e ricchezza dei capitalisti inglesi. Essi cominciano a fabbricare prodotti industriali non soltanto per se stessi ma anche per il resto del mondo, e la conseguenza è che il monopolio dell’industria, detenuto dall’Inghilterra per quasi un secolo, ora è irrimediabilmente spezzato» (3).

Dunque, la concorrenza capitalistica sviluppa l’economia capitalistica nei diversi paesi, e la disponibilità di combustibile per far funzionare le macchine mette molti paesi nella possibilità di concorrere alla produzione industriale mondiale; il «libero scambio» (prodotto industriale contro prodotto agricolo) giunge così al declino, già anticipato d’altra parte in Inghilterra «perfino nel periodo del monopolio», quando i «mercati non potevano tenere il passo con la crescente produttività dell’industria inglese; e le crisi decennali ne erano la conseguenza»; e continua Engels: «Ora i nuovi mercati divengono ogni giorno più rari, al punto che perfino ai negri del Congo deve essere imposta la civiltà che si fonda sui cotonati di Manchester, le stoviglie dello Staffordshire e gli utensili metallici di Birmingham. Quali saranno le conseguenze quando le merci continentali e soprattutto quelle americane affluiranno in massa sempre crescente, quando la parte dominante che ancora oggi spetta alle fabbriche inglesi nel rifornimento del mondo comincerà a ridursi ogni anno di più?».

Qui non vi è soltanto la visione ben precisa del mercato mondiale, ma vi è la previsione scientifica del declino del monopolio inglese sul mondo e della sempre più acuta lotta di concorrenza nel mercato mondiale fra i paesi industriali più potenti e agguerriti, spinti ad alzare sempre più la propria produttività e, nello stesso tempo, ad entrare inevitabilmente nelle crisi commerciali ed economiche, fino alle crisi di guerra.

«La produzione capitalistica non può arrestarsi. Deve continuare a crescere e ad espandersi, o deve perire. Già ora, solo perché la parte del leone che l’Inghilterra ha sempre avuto nel rifornimento del mercato mondiale si è ridotta, ecco la stagnazione, la miseria, la sovrabbondanza qui di capitale, là di lavoratori disoccupati». La  miseria crescente (su cui il marxismo  ha svolto una teoria) è quindi legata dialetticamente alla produzione capitalistica, e alla sua specifica produttività. I mercati tendono a saturarsi di merci (attenzione, di merci, dunque di beni prodotti dal capitalismo): più si eleva la produttività capitalistica, più si intasano i mercati, più peggiorano le condizioni di vita del proletariato, più la miseria si fa crescente.

Dove è scritto Inghilterra, si legga Stati Uniti d’America; dove si parla di altri paesi che dispongono di materie prime fondamentali per la produzione capitalistica (carbone, petrolio, gas naturale, ecc.) si legga Cina e India, e il quadro di fondo disegnato da Engels non cambia. Il monopolio mondiale dell’Inghilterra, messo già in discussione negli ultimi decenni dell’Ottocento, con il Novecento si spezza definitivamente e, in gran parte, ne ereditano la funzione in particolare gli Stati Uniti d’America. Ma il passaggio di mano non risolve il problema cruciale del capitalismo che consiste nella sua incapacità di svilupparsi se non attraverso successive crisi di sovraproduzione, se non attraverso una continua spartizione del mercato mondiale fra le potenze imperialistiche più forti, entrando in contraddizione sia con lo sviluppo delle forze produttive che con lo sviluppo della concorrenza fra capitali, fra trusts capitalistici, fra Stati capitalistici.

«Il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso; è il fatto che il capitale e la sua autovalorizzazione appaiono come punto di partenza e come punto d’arrivo, come movente e come fine della produzione; il fatto che la produzione è soltanto produzione per il capitale» - afferma Marx ne Il Capitale (4) -, e ciò impedisce ai mezzi di produzione di essere, all’opposto, «puri e semplici mezzi per una espansione sempre più diversificata e completa del processo di vita per la società dei produttori», e questo vale per il programma della società socialista!

Il brano di Marx continua: «I confini entro i quali soltanto può muoversi la conservazione e la valorizzazione del valore-capitale, poggiante sull’espropriazione e sull’immiserimento della grande massa dei produttori, entrano perciò continuamente  in conflitto con i metodi di produzione che il capitale deve utilizzare per i suoi scopi, e che tendono ad un aumento illimitato della produzione, alla produzione come fine in sé, all’incondizionato sviluppo delle forze produttive sociali - entrano in permanente conflitto con il fine angusto della valorizzazione del capitale esistente».

Qui non si tratta più solo di concorrenza fra capitalisti, di concorrenza fra aziende, trust o Stati capitalistici; qui si tratta della contraddizione di fondo del modo di produzione capitalistico che sfrutta il lavoro salariato esclusivamente per la valorizzazione del capitale, come fine in sé appunto.

Constatata e dimostrata questa contraddizione di fondo del capitalismo, Marx afferma l’impossibilità per il capitalismo di superare il suo limite originario: «Se il modo di produzione capitalistico è un mezzo storico per sviluppare la forza produttiva materiale e creare il mercato mondiale ad essa corrispondente, è al tempo stesso la contraddizione permanente fra questa sua missione storica e i rapporti sociali di produzione che gli corrispondono». Una contraddizione permanente, rigenerata continuamente nello sviluppo dello stesso modo di produzione capitalistico, che potrà essere risolta soltanto con il superamento di questo modo di produzione, distruggendolo, e la sostituzione col modo di produzione socialista che come fine ha la soddisfazione dei bisogni della società umana e non del mercato capitalistico. La produzione non più per il capitale, ma per la società dei produttori. Allora, i rapporti sociali di produzione non entreranno più in conflitto con il modo di produzione perché non si fonderanno più «sull’espropriazione e sull’immiserimento della grande massa dei produttori», ossia non si fonderanno più sulla divisione della società in classi contrapposte: la società sarà un’intera società di produttori in quanto tutti i suoi componenti contribuiranno (da ciascuno secondo le proprie possibilità) alla produzione sociale ed otterranno (a ciascuno secondo i suoi bisogni) tutto ciò che servirà e che desidereranno per vivere nella collettività umana.

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IL MERCATO MONDIALE: ORIGINE E SBOCCO DELLE CONTRADDIZIONI E DEI CONTRASTI IMPERIALISTICI

 

Il mercato mondiale non è un mercato «unico», nel senso che non è un mercato «nazionale» esteso al mondo, un mercato  del dollaro o dell’euro come non lo era della sterlina al tempo del dominio dell’Inghilterra sul mondo. Il mercato mondiale trova la sua base materiale nel modo di produzione capitalistico che è dominante nell’economia mondiale, ma che a sua volta si esprime attraverso aziende in concorrenza fra loro, aziende più o meno avanzate, più o meno grandi, a capitale privato o pubblico o misto, ma sempre aziende. Nel mercato mondiale i paesi capitalisticamente più sviluppati - quindi che rappresentano lo sviluppo economico e finanziario più forte delle aziende che li caratterizzano - attraverso la loro potenza economica, finanziaria e militare  condizionano lo sviluppo dei paesi capitalisticamente arretrati, allargando la forbice tra sviluppo e sottosviluppo e giustificando, nello stesso tempo, la spinta ad una continua e nuova ripartizione del mondo.

L’estensione del modo di produzione capitalistico nel mondo, la sua «universalizzazione», non è avvenuta secondo un processo «a macchia d’olio»; nella realtà storica è avvenuta attraverso conquiste violente, guerre coloniali, guerre di rapina, insomma attraverso eserciti bene armati e diretti ad imporre il predominio del capitalismo più forte sui paesi ad economia precapitalistica, dunque attraverso un ineguale corso di sviluppo durante il quale alla formazione  e allo sviluppo di  capitalismi nazionali sempre più forti e potenti corrispondeva la formazione di capitalismi deboli, immaturi, limitati nel proprio sviluppo dall’oppressione dei capitalismi più potenti. Lo sviluppo ineguale del capitalismo, non significa soltanto che nei diversi paesi esso è apparso in tempi diversi, chi prima e chi dopo; significa anche uno sviluppo basato su qualità differenti quali la dimensione del paese, il numero dei suoi abitanti, le quantità e le qualità delle sue risorse naturali, la sua posizione geografica rispetto alle rotte commerciali dei mercati, la storia precedente delle classi e della lotta fra le classi, la tempistica della rivoluzione borghese e la maturazione rivoluzionaria della classe borghese, e il contributo rivoluzionario loro dato dalle classi lavoratrici, in particolare dal proletariato industriale.

Come il mercato nazionale è il luogo in cui agisce un insieme di aziende, così il mercato mondiale è il luogo in cui agisce un insieme di mercati «nazionali», parziali, o paralleli, nei quali i vari capitalismi «nazionali» (composti e guidati da associazioni di capitalisti, da cartelli internazionali e dagli Stati borghesi) si  incontrano e si scontrano. Le aziende, d’altra parte, sono sottoposte allo stesso tipo di pressione perché sono fatte per il mercato e dipendono dal successo che hanno nel mercato. Sulla spinta della concorrenza esse tendono ad ingrandirsi, a diventare più forti nel proprio ramo di attività, e con l’avvento dell’imperialismo tendono ad accorpare altre aziende dello stesso ramo e a diversificare la produzione e l’attività economica nei settori più disparati. Le alleanze che un tempo facevano gli Stati per favorire reciprocamente le aziende del proprio paese, diventa un metodo per ciascuna azienda, tanto che con lo sviluppo del capitalismo e della concentrazione industriale e finanziaria, si sono formati trusts e cartelli che scavalcano i confinim e le regole, dei singoli Stati, trasformando le aziende nazionali in aziende multinazionali. I monopoli, infatti, dipendendo sostanzialmente dal capitale finanziario - il quale per definizione non ha confini - tendonop a diventare sempre più internazionali. Ci sono aziende multinazionali che hanno un giro d’affari che supera di gran lunga il prodotto interno lordo di diversi paesi arretrati; e questo dà la dimensione della potenza economica e finanziaria, concentrata in poche mani, che controlla però quote rilevanti del mercato, attraverso le quali pochi grandi gruppi multinazionali controllano la vita economica -. e quindi la sopravvivenza economica - di molti paesi . La concorrenza fra piccole e medie aziende è surclassata dalla concorrenza fra grandi trust multinazionali. Questa lotta di concorrenza  trasferisce inevitabilmente a livello politico, e quindi statale, gli elementi di tensione e di guerra che nascono nel mercato mondiale e che richiedono di essere governati secondo la logica della difesa degli interessi specifici, particolari, dei gruppi di aziende dominanti.

Nell’urto, che la concorrenza commerciale e finanziaria non riesce sempre a mantenere sul piano «pacifico» e «diplomatico», si esaltano le più potenti forze. Queste, d’altra parte, difendendo i propri interessi capitalistici di parte, tendono a difendere gli interessi capitalistici più generali; ma l’orizzonte di questa difesa non è mai universalista, nel senso che primeggiano e primeggeranno sempre le diverse reti di interessi che si fanno concorrenza a livello internazionale e mondiale. Lo sviluppo del capitalismo, e in particolare del capitalismo finanziario, conduce inevitabilmente ad una politica di spartizione del mondo da parte dei capitalismi più potenti; e conduce, altrettanto inevitabilmente, all’oppressione dei tanti paesi capitalistici più deboli da parte di una minoranza di paesi capitalistici economicamente .- e quindi anche politicamente e militarmente - predominanti.

«La caratteristica della seconda guerra imperialistica e delle sue conseguenze già evidenti - scrivevamo nel 1947 (5) - è la sicura influenza in ogni angolo del mondo, anche quello più arretrato nei tipi di società indigena, non tanto delle prepotenti forme economiche capitalistiche, quanto dell’inesorabile controllo politico e militare da parte delle grandi centrali imperiali del capitalismo; e per ora della loro gigantesca coalizione, che include lo Stato russo»

L’appropriazione privata della produzione sociale, caratteristica esclusiva del capitalismo, non permette ad alcuna borghesia di staccarsi dal rappresentare interessi specifici di gruppi, lobby, trust, Stati capitalistici. E’ per questo che non si è mai verificato, e mai si verificherà, sotto il capitalismo,  la formazione di un unico, mondiale Stato borghese, di un unico, mondiale «superimperialismo», in grado - come pretendeva il rinnegato Kautsky - di «escludere attriti, conflitti e lotte nelle forme più svariate» (6). Nella fase imperialistica dello sviluppo capitalistico, la concorrenza , e quindi i contrasti e i conflitti fra i diversi imperialismi, non cancellano le caratteristiche aziendali, e quindi, statali, del capitalismo, anzi le esalta in un crescendo continuo di contrasti, di violenza, di annessioni, di guerre di rapina e di conquiste territoriali.

Come sottolineava Lenin (7), in diretta polemica con Kautsky e con la sua teoria del «superimperialismo», «nella realtà capitalistica (...) le alleanze “inter-imperialiste”o “ultra-imperialiste” non sono altro che un “momento di respiro” tra una guerra e l’altra, qualsiasi forma assumano dette alleanze, sia quella di una coalizione imperialista contro un’altra coalizione imperialista, sia quella di una lega generale tra tutte le potenze imperialiste. Le alleanze di pace preparano le guerre e a loro volta nascono da queste; le une e le altre forme si determinano reciprocamente e producono, su di un unico e identico terreno, dei nessi imperialistici e dei rapporti dell’economia mondiale e della politica mondiale, l’alternarsi della forma pacifica e non pacifica della lotta».

Questa previsione marxista è confermata dalla realtà storica; basti guardare al comportamento delle diverse potenze imperialiste nella prima e nella seconda guerra mondiale, e nelle guerre che hanno continuato a ritmare lo sviluppo del capitalismo dopo il 1945.

La favola di uno sviluppo libero, pacifico e sostenibile (come usano dire i pacifisti attuali) del capitalismo, raccontata dalle borghesie di tutto il mondo, ripresa e abbellita dai partiti opportunisti di tutto il mondo,  si frantuma sistematicamente contro la realtà quotidiana del capitalismo in ogni angolo del mondo. Qualsiasi tipo di alleanza che i diversi Stati imperialisti formano è di durata transitoria; l’alleanza tra imperialismi non cancella la lotta di spartizione del mondo, anzi la acuisce in quanto, col passare degli anni, la fame di territori economici di cui impossessarsi aumenta e può essere saziata soltanto attraverso l’ingigantimento della potenza economica e finanziaria dei trusts che dominano l’economia mondiale, e il conseguente ingigantimento della potenza militare degli Stati che difendono gli interessi di quei trusts. La libertà, di cui ogni democrazia si è sempre vantata, con l’entrata del capitalismo nella fase imperialista è morta e sepolta.  Nella società borghese imperialista libertà significa solo libertà di sfruttamento, di oppressione, di annessione, di guerra. Non solo aumenta progressivamente lo sfruttamento del lavoro salariato, e quindi l’oppressione sociale, ma aumenta progressivamente anche l’oppressione nazionale.

«L’imperialismo - ribadisce Lenin - è l’éra del capitale finanziario e poi dei monopoli, che sviluppano dappertutto la tendenza al dominio, non già alla libertà. Da tali tendenze risulta una intensa reazione, in tutti i campi, in qualsiasi regime polico, come pure uno straordinario acuirsi di tutti i contrasti anche in questo campo [lotta per l’indipendenza e la costituzione di Stati unitari e nazionali, NdR]. Specialmente si acuisce l’oppressione delle nazionalità e la tendeza alle annessioni, cioè alla soppressione della indipendenza nazionale» (8).

Tale tendenza, soprattutto con la seconda guerra imperialistica mondiale, si è chiaramente mostrata non solo fra potenze imperialiste dominanti e paesi coloniali o ex-coloniali, ma all’interno dello stesso gruppo dei paesi imperialisti più forti. E’ avvenuto sia all’epoca della condominio russo-americano sul mondo che ha dominato i decenni della cosìdetta «guerra fredda», sia nel periodo più recente seguito al disfacimento del blocco sovietico su cui dominava Mosca.

Con il crollo del blocco sovietico, Washington si  propose come rappresentante del perno intorno al quale costituire  un unico governo mondiale e superimperialista in grado di superare le tensioni e i conflitti derivanti dalla contrapposizione dei due famosi blocchi - quello occidentale e quello russo, detto a sproposito «comunista» -, governo al quale avrebbero dovuto partecipare i vari paesi industrializzati. In realtà, l’America tendeva approfittare della situazione di grave crisi dei paesi dell’Europa dell’Est che facevano parte del blocco sovietico per conquistarli, per annetterli nell’area della propria e diretta influenza. Cosa che nemmeno con la guerra in Yugoslavia è interamente avvenuta. La fortissima concorrenza degli imperialismi europei con gli Stati Uniti su territori economici che storicamente hanno sempre costituito un’area privilegiata, e la stessa concorrenza fra loro, ha dato una spinta ancor più forte alla formazione di alleanze più vaste e complicate come quella dell’Europa di 25 paesi, anche se ciò non impedisce ovviamente il crescere delle relazioni economiche fra gli Stati Uniti e ciascuno di questi paesi; ma taglia la strada alla formazione di un unico governo mondiale capeggiato dagli Usa.

Che la concorrenza, nello sviluppo mondiale del capitalismo, accentui i contrasti invece di diminuirli è dimostrato anche dall’emergere sul mercato mondiale di altre potenze capitalistiche con decise aspirazioni imperialiste: Cina e India, soprattutto. Ma non mancano tensioni di grande rilevanza anche nell’area dei paesi possessori di materie prime necessarie all’economia capitalistica come, nelle Americhe, Venezuela e Bolivia, in Africa, Sudan, Ciad, Uganda, Nigeria, l’intero Medio Oriente e il Sud Est asiatico. In queste aree si sono alternate le spedizioni militari e di guerra alle pressioni economiche e finanziarie, magari sotto le vesti della Banca Mondiale, del Fondo Monetario Internazionale, o dell’ONU. A dimostrazione ulteriore che «le alleanze di pace preparano le guerre e a loro volta nascono da queste» in una inesorabile alternanza «della forma pacifica e non pacifica della lotta», come affermava Lenin.

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PROLETARI, MODERNI SCHIAVI, A MILIONI  SACRIFICATI AL DIO PROFITTO

 

E’ sotto gli occhi di tutti che nel mondo, ormai da decenni, la miseria e le guerre hanno provocato milioni e milioni di diseredati, di affamati, di disperati. Masse umane senza futuro nei propri paesi sono spinte a cercare un futuro di sopravvivenza in altri paesi; si mettono in movimento non sapendo che cosa troveranno e dove troveranno i mezzi per sopravvivere, ma sapendo che potrebbero morire nel tragitto da un momento all’altro, di sete o di fame, ammazzati perché ingombranti o perchè le carrette del mare si rovesciano. A tal punto il capitalismo ha portato la sofferenza di milioni e milioni di proletari!

Secondo le stesse statistiche borghesi, più di 3 miliardi di esseri umani  dispongono meno di 2 dollarui al giorno per sopravvivere; e sappiamo che le statistiche borghesi danno sempre un quadro meno tragico di quel che è. Ciò significa che più della metà della popolazione terrestre vive di stenti o è condannata a morire di fame. E’ questo il futuro che il capitalismo assicura alla specie umana.

Per i capitalisti è talmente abbondante oggi l’offerta di braccia da sfruttare in qualsiasi parte del mondo, che non c’è più bisogno di strappare dalle proprie case e dalla propria terra i neri, i gialli, gli olivastri o i bianchi: sono le condizioni generali di oppressione del capitalismo mondiale che spingono masse sempre più grandi di proletari, di senza riserve, di qualsiasi nazionalità e di qualsiasi colore sia la loro pelle, a muoversi verso le metropoli industriali, perdipiù a proprie spese! I negrieri di oggi non hanno più bisogno di andare in Africa per riempire le navi di schiavi neri strappati dalla loro terra come facevano i loro antenati; oggi si possono permettere di aspettare a casa propria che gli schiavi vengano a bussare...

La tendenza dell’imperialismo al dominio su scala mondiale su territori più ampi possibili, e quindi alla spartizione del mondo nella forma pacifica e non pacifica della lotta di concorrenza, comportando inevitabilmente l’aumento dell’oppressione imperialistica sui popoli, e il loro depauperamento, in particolare nei paesi più arretrati, provoca nello stesso tempo il fenomeno dell’emigrazione forzata di masse sempre più numerose. Già Lenin nell’Imperialismo sottolineava questo fenomeno: «una delle particolarità dell’imperialismo (...) è la diminuzione dell’emigrazione dei paesi imperialisti e l’aumento dell’immigrazione in essi di individui provenienti da paesi più arretrati,con salari inferiori» (9).

All’epoca era già un fenomeno mondiale, come fenomeno mondiale era ed è l’imperialismo. Ieri, gli «individui», di cui parlava Lenin, si potevano contare per qualche centinaia di migliaia, nelle due direzioni, ora il fenomeno  è caratterizzato dallo spostamento di milioni e milioni di persone, nella stragrande maggioranza ex contadini e proletari, verso le metropoli imperialiste.

Nella divisione internazionale del lavoro, caratteristica specifica del capitalismo, vi è già una stratificazione della forza lavoro, tra paese e paese, e all’interno dello stesso paese tra i lavoratori con grado diverso di specializzazione. L’immigrazione dai paesi arretrati verso i paesi industrializzati non poteva che essere gestita dai capitalisti come un’occasione in più per aumentare l’estorsione di plusvalore dal loro sfruttamento e, nello stesso tempo, per aumentare  la concorrenza fra proletari: i loro più bassi salari tendono ad abbassare il salario medio del proletariato autoctono. Più cresce la pressione dell’immigrazione, più aumenta la concorrenza fra gli stessi immigrati e più cresce la concorrenza con i proletari indigeni. La stratificazione del proletariato diventa così molto fitta, e complica ancor più la vita dei proletari immigrati nella misura in cui sono obbligati a sopravvivere nella clandestinità.

Fuggire dalla fame, dalla miseria, dalle distruzioni di guerra, dal terrore: diventa l’imperativo per milioni e milioni di proletari di tutti i paesi capitalisticamente arretrati. Fuggire, sì, ma dove? Verso i paesi più ricchi, preferibilmente verso il paese colonizzatore di cui si sono forzatamente conosciuti un po’ la lingua e i costumi. Non c’è al mondo paese arretrato che non abbia conosciuto, per motivi di guerra o di fame, l’emigrazione. Ai primi del Novecento l’Italia, l’Irlanda, la Grecia hanno fornito alla Francia, al Belgio, alla Germania, all’Inghilterra, all’America, milioni di braccia da sfruttare, e prima ancora la  Cina agli Stati Uniti; erano i paesi arretrati, essenzialmente agricoli, di allora. Oggi diventano meta di emigrazione da paesi molto più arretrati dell’Italia o della Grecia dei primi del Novecento, da parte dei paesi dell’Est Europa, dell’Africa, del Medio Oriente, dell’Estremo Oriente o del Sud America; ma potrebbero tornare, a causa di rovesci economici provocati da guerre, paesi produttori di emigranti.

Queste masse disperate di proletari hanno anche un altro tipo di impatto sugli equilibri formatisi negli anni nei paesi industrializzati, in particolare a livello di relazioni sociali e sindacali.

Nei paesi industrializzati, la tendenza dei sindacati all’integrazione nelle istituzioni statali, poggia su due grandi basi materiali: 1) la possibilità e la volontà da parte dei capitalisti di pagare salari più alti a una parte dei proletari rispetto alla maggioranza, creando strati di operai privilegiati (la famosa aristocrazia operaia di Engels) da contrapporre al resto del proletariato, e, 2) il peggioramento progressivo del le condizioni sociali generali di sopravvivenza dei diversi strati operai in termini di legalità, sanità, abitazioni, diritti civili, ecc.

Di fronte a questa situazione, i sindacati collaborazionisti, legati come sono agli interessi di difesa dell’economia aziendale, e quindi nazionale, esprimono il massimo di attività nei confronti degli strati privilegiati del proletariato, e in ogni caso verso la parte di operai già organizzati stabilmente dai padroni capitalisti nelle diverse aziende. Sia dal punto di vista economico che dal punto di vista politico,  questi sindacati partecipano attivamente alla corruzione del proletariato perché quei privilegi, quei benefici, transitano dal padrone (capitalista privato o Stato) verso i proletari attraverso di loro. Lenin, ad esempio nello stesso Imperialismo, sottolinea che i capitalisti, grazie agli alti profitti monopolistici: «hanno la possibilità di corrompere singoli strati di operai e, transitoriamente, perfino considerevoli minoranze di essi, schierandole a fianco della borghesia del rispettivo ramo industriale o della rispettiva nazione contro tutte le altre»; e continua utilizzando un concetto di grande importanza: «Questa tendenza è rafforzata dall’aspro antagonismo esistente tra i popoli imperialisti a motivo della spartizione del mondo. Così sorge un legame tra l’imperialismo e l’opportunismo; fenomeno questo che si manifestò in Inghilterra prima e più chiaramente che altrove, perchè ivi, molto prima che in altri paesi, apparvero certi elementi imperialistici» (10).

Lenin qui parla di popoli imperialisti, con la quale terminologia evidentemente intende affermare che nei paesi imperialisti la grande maggioranza della popolazione - compresa quindi una parte consistente del proletariato - è stata corrotta dalla classe dominante borghese attraverso benefici e privilegi sociali, il che la fa schierare a fianco della borghesia dominante con la quale condivide i risultati soprattutto dello sfruttamento delle nazioni oppresse.

A seconda della situazione sociale ed economica più generale, e della situazione dei rapporti di forza fra borghesia e proletariato, i capitalisti sono più o meno  propensi a concessioni anche importanti nei confronti del proletariato. Lo stesso fascismo, per quanto dichiaratamente opposto alle istanze politiche proletarie e rivoluzionarie, adottò nei confronti del proletariato una politica sociale basata sulla più ampia corruzione (mutua, pensioni, infortuni, ecc.), con l’obiettivo appunto di schierare al proprio fianco - dopo aver ottenuto una sconfitta profonda del proletariato rivoluzionario in virtù soprattutto dell’azione dell’opportunismo politico e sindacale - la maggior parte del proletariato. Per organizzare in modo efficace, programmato e controllato, l’opera di corruzione del proletariato, era necessaria una forza centralizzatrice della classe borghese capace di costringere anche la stessa borghesia ad uniformarsi, superando le tendenze centrifughe naturali di ogni capitalista in lotta contro ogni altro capitalista, ad un programma politico in grado di legare alla classe dominante le classi dominate. Da questo punto di vista, il fascismo, e ancor più il nazismo tedesco, è stato realmente «un tentativo di autocontrollo e di autolimitazione del capitalismo tendente a frenare in una disciplina centralizzata le punte più allarmanti dei fenomeni economici che conducono a rendere insanabili le contraddizioni del sistema» (11), e una contraddizione insanabile del sistema riguarda ovviamente le condizioni di vita e di lavoro del proletariato.

Il fascismo  ha cercato di ottenere che il proletariato si schierasse dalla parte della borghesia utilizzando i mezzi del corporativismo; la democrazia post-fascista ha ottenuto questo stesso risultato attraverso l’opera traditrice dei partiti comunisti e socialisti precipitati nell’opportunismo. Il fascismo ha vinto economicamente e socialmente, perché l’imperialismo - cioè il capitalismo dei monopoli - è fascismo, mentre la democrazia ha vinto politicamente, e la borghesia - grazie a questa duplice e dialettica vittoria - si ribadisce classe dominante. La democrazia e il fascismo sono diversi soltanto sull’organizzazione della corruzione del proletariato, e sull’effettiva capacità di centralizzazione del controllo sociale; in sostanza, sono due metodi di governare la società borghese sui quali il giudizio del marxismo autentico è noto da tempo: la democrazia è il miglior involucro politico che la classe dominante borghese ha a disposizione per ingannare il proletariato e per indurlo ad abbandonare la via della lotta di classe antagonista e rivoluzionaria a favore della via conciliatrice, intermedista, collaborazionista, nell’illusione di ottenere miglioramenti e prosperità poco alla volta invece che... tutto in un colpo. Il fascismo, a sua volta, non rappresenta un «passo indietro nella storia» come voleva l’opportunismo staliniano, ma l’aperta dichiarazione di dominio imperialista della borghesia. Il fatto che col fascismo la borghesia avesse abbattuto le istituzioni democratiche per passare direttamente all’aperta violenza di classe, avrebbe dovuto essere considerata dalle forze del comunismo rivoluzionario come l’occasione per scendere sullo stesso terreno dell’aperta violenza di classe, classe contro classe, proletariato contro borghesia, per la dittatura imperialista o per la dittatura del proletariato.

Come affermava  Marx, nel 1848, «Gli antagonismi che si sprigionano dagli stessi rapporti della società borghese devono essere affrontati combattendo; non possono essere eliminati con la fantasia. La forma migliore di Stato [dal punto di vista della rivoluzione proletaria, NdR]  è quella in cui gli antagonismi sociali non vengono annullati o repressi con la forza, quindi in modo artificiale, quindi solo in apparenza [leggi: democrazia, NdR]; la forma migliore di Stao è quella in cui tali antagonismi raggiungono lo stadio della lotta aperta, e quindi della loro soluzione» (12).

E ancora, con la potenza della previsione marxista: «Non l’abbiamo mai nascosto. Il nostro terreno non è il terreno del diritto; è il terreno della rivoluzione. Il governo, da parte sua, ha infine abbandonato l’ipocrisia del terreno legale; si è posto sul terreno rivoluzionario, giacché anche il terreno controrivoluzionario è rivoluzionario» (13).

Dunque, la democrazia, il terreno del diritto, non è il terreno del’emancipazione del proletariato, quindi dei comunisti rivoluzionari. Tanto più se la classe dominante borghese straccia la maschera dell’ipocrisia della legalità ponendosi sul terreno dell’illegalità, del terrorismo e della violenza, come appunto fece col fascismo.

Entrambi i metodi di governo borghesi saranno vinti solo dalla rivoluzione proletaria che avrà superato in una lotta intransigente e durissima contro la borghesia e le forze dell’opportunismo l’ostacolo della corruzione politica del proletariato; non esiste una terza via: o dittatura della borghesia imperialista, o dittatura del proletariato.

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PROLETARIATO E LOTTA DI CLASSE

 

Le grandi lotte del proletariato rivoluzionario del 1848, del 1871 e del 1917 appaiono, agli occhi dei proletari di oggi, non solo lotte «del passato», ma lotte non più attuali, che non insegnano più nulla. L’unico insegnamento di quelle lotte che interessa alla borghesia è solo quello che la borghesia stessa, con l’indispensabile contributo degli opportunisti di ogni epoca, vuole che passi nelle teste dei proletari: i moti rivoluzionari che il proletariato ha tentato nella storia passata non hanno raggiunto la meta, sono stati sconfitti, e anche quando hanno potuto raggiungere il potere, come in Russia nel 1917, hanno dato vita ad un regime politicamente  totalitario ed economicamente perdente, tanto che alla fine è crollato.

Ma la realtà storica è ben altra.

E’ ovvio che la propaganda ideologica della borghesia tenda a squalificare ogni lotta, ogni moto, ogni movimento rivoluzionario che abbia come protagonista il proletariato. La borghesia imperialista di oggi tende a farlo addirittura con il proprio moto storico rivoluzionario, per il quale non trova più alcun senso d’orgoglio, a dimostrazione che non solo la borghesia oggi non ha più nulla di positivo e di progressivo da offrire alla società, ma che essa ha paura della sua stessa storia, ha paura del suo passato rivoluzionario, ha paura che il proletariato possa risvegliare in se stesso un orgoglio di classe simile a quello che spinse la borghesia rivoluzionaria a farla finita con re, nobiltà e clero, rappresentanti della vecchia società precapitalistica, ormai d’intralcio alla potente spinta economica, politica e ideale della rivoluzione borghese.

Lo sviluppo economico dei vari paesi, e quindi delle società, è finora sempre stato ineguale. Le prime forme di economia capitalistica l’abbiamo nell’Italia del Quattrocento, troppo isolate per potersi espandere a livello internazionale, e si deve attendere il Seicento per ritrovarle in Inghilterra da cui poi si svilupperanno in tutto il mondo; non con missioni pacifiche e umanitarie, ma sulla bocca dei cannoni. Perché il capitalismo si estenda a tutto il mondo come economia dominante in grado di condizionare la vita di ogni paese e di ogni popolo, bisogna arrivare al Novecento, e nello stesso secolo assistiamo alla predominanza mondiale dell’imperialismo capitalistico e al primo tentativo di assalto al cielo del proletariato internazionale, a cominciare dal proletariato russo per continuare con il proletariato tedesco, polacco, ungherese, cinese.

Il capitalismo ci ha messo cinque secoli per dominare sul mondo, e ancora non è riuscito ad elevare una buona parte dei paesi del mondo ai livelli di sviluppo economico e di tenore di vita dei paesi imperialisti più importanti. Al contrario. E’ proprio perché si tratta di capitalismo che i paesi arretrati, inegualmente sviluppati, sono condannati a restare arretrati in confronto a quelli sviluppati e, nella misura in cui qualche paese, come la Cina, l’India, l’Indonesia, il Brasile, riesce a svincolarsi dalla piaga dell’assoluto sottosviluppo economico, lo fa al prezzo di una gigantesca oppressione dei propri proletariati, ad un accelerato sradicamento dei contadini da un’economia che garantiva loro la sopravvivenza, gettando enormi masse proletarizzate nel girone della disoccupazione, della miseria, dell’incertezza di vita.

Il proletariato non ha scelta: o combatte per la sopravvivenza, o crepa. Ma combattere per la sopravvivenza significa anche svelare il segreto della potenza della classe borghese: essa continua a dominare, nonostante sia una classe del tutto superflua per la società umana, nella misura in cui il proletariato combatte solo per sopravvivere giorno per giorno.

La lotta di classe, dunque la lotta che vede il proletariato combattere come classe e non come individuo che deve sopravvivere giorno dopo giorno, rivela la realtà dei rapporti sociali, e svela l’antagonismo profondo si cui si fonda la società capitalistica. Un antagonismo di classe che oppone, con violenza estrema, gli interessi di classe della borghesia agli interessi di classe del proletariato. La borghesia non smette un secondo di lottare contro il proletariato, anche quando parla di pace, di libertà, di democrazia, di civiltà. La tortura del lavoro salariato e il dispotismo di fabbrica permeano tutta la società e imprigionano i proletari alla loro misera vita quotidiana di schiavi moderni. Che futuro hanno i proletari davanti agli occhi?

Un futuro che nemmeno gli schiavi nell’antica Roma immaginavano; se non altro rappresentavano una importante risorsa per il proprio padrone. Oggi, il moderno schiavo salariato è ridotto ad un accessorio della macchina o della catena di servizi presso i quali è impiegato; non ha una vita propria, non ha un tempo proprio da dedicare alla famiglia, al godimento della vita. E quando il proletario dei paesi imperialisti crede di non dover avere più preoccupazioni per il proprio futuro individuale, giunge la crisi economica, con le conseguenti restrizioni e le sue condizioni di vita e di lavoro sono destinate a cambiare in peggio. E’ quel che è successo a più mandate nell’ultimo sessantennio. Non solo. Le conseguenze delle crisi capitalistiche hanno anche inciso, ovviamente, nel flusso delle migrazioni, facendo aumentare progressivamente il numero di immigrati dei paesi arretrati nei paesi sviluppati.

Il proletariato europeo, americano, canadese, insomma il proletariato dei paesi civili, si trova così a doversi mescolare sempre di più con i proletari immigrati da tutti gli angoli del mondo, constatando in pratica, fianco a fianco, che le condizioni di sfruttamento capitalistico hanno esattamente la stessa base e che le condizioni di sfruttamento del proletariato immigrato potranno essere le sue prossime condizioni di sfruttamento.

La solidarietà di classe non nasce spontanea, non nasce semplicemente constatando che il padrone tende a sfruttare sempre di più i propri proletari e che li divide pagandoli in modo diverso per metterli gli uni contro gli altri. La solidarietà di classe nasce dalla lotta di classe, da una lotta alla quale partecipano i proletari di ogni nazionalità e di ogni categoria perché riconoscono nel padrone - e nei suoi alleati, altri padroni o sindacati opportunisti che siano - il vero antagonista. Ma quando la solidarietà di classe è assente, il campo è aperto a qualsiasi influenza borghese, da quella più pacifica e umanitaria a quella più retriva e tragica come il razzismo.

Il proletariato ha una strada molto dura e difficile da imboccare, viste le condizioni di vero e proprio arretramento storico della sua lotta di classe. Ma può contare sul fatto che la borghesia imperialista non riuscirà per lungo tempo ancora ad utilizzare i propri profitti per corrompere la maggioranza dei suoi proletari; sarà costretta a dare giri di vite molto più drastici alle condizioni di vita e di lavoro proletarie, ma nello stesso tempo dovrà fare di tutto per conquistare il consenso della maggior parte di loro per poterli indirizzare alla difesa, in guerra, dell’economia nazionale come già li indirizza, in pace, con l’aiuto prezioso delle forze dell’opportunismo democratico e riformista.

E’ nella lotta comune, nella lotta di classe, che i proletari possono trovare la forza e il coraggio di opporsi ad una pressione sempre più pesante sulla loro vita quotidiana. E quando il proletariato scopre che è la lotta di classe che gli dà la forza, allora la lotta di classe diventa finalmente centrale e può abbandonare ai piagnistei degli opportunisti le litanie sulla democrazia violata, sulle regole civili infrante, sulle istituzioni delegittimate, sulla legalità perduta.

E’ in questa prospettiva, l’unica coerente con lo sbocco rivoluzionario, che il partito comunista del proletariato, il partito rivoluzionario, lavora.

 


 

 

(1) Vedi l’articolo di A.Bordiga, Corea è il mondo, pubblicato nella rivista del partito comunista internazionalista, allora la rivista teorica del partito, prima della scissione del 1952, Prometeo, n.1, seconda serie, novembre 1950; raccolto poi nel volumetto intitolato Per l’organica sistemazione dei principi comunisti, ed. il programma comunista, 1973, pp.187-189.

(2) Vedi Dialogato con Stalin, ed. Prometeo1953, p.44; oppure, A.Bordiga, Dialogato con Stalin, Ed. Sociali, 1975, pp.108-109.

(3) Cfr. F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, Ed. Rinascita, 1955, pp. 25-26.

(4) Vedi K. Marx, Il Capitale, libro III, cap. XV, Ed. Utet, 1987, p.320.

(5) Cfr. Natura, funzione e tattica del partito rivoluzionario della classe operia, dalla serie Le tesi della sinistra, di A. Bordiga, pubblicato in Prometeo, cit. n.7, mag-giu 1947; nel volumetto  Per l’organica sistemazione dei principi comunisti, cit., pag. 103.

(6) Cfr. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, del 1916, Opere, vol. XXII, Ed.Riuniti, 1966,pag. 294.

(7) Ibidem, pag. 295.

(8) Ibidem, pag. 296.

(9) Ibidem, pag. 282.

(10) Ibidem, pag. 300.

(11) Cfr. Il ciclo storico del dominio politico della borghesia, dalle serie Le tesi della sinistra, di A. Bordiga, pubblicato in Prometeo, cit., n. 5, genn-febbr. 1947; nel volumetto Per l’organica sistemazione dei principi comunisti, cit., pag.79.

(12) Vedi K. Marx, La rivoluzione di giugno,  1848, in Marx-Engels, Il Quarantotto,  Ed. La Nuova Italia, 1970, pag. 47.

(13) Vedi K. Marx, La borghesia e la controrivoluzione, 1848, in Marx-Engels, Il Quarantotto, cit., pag. 153.

 

Partito comunista internazionale

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