L’Iran nel mirino americano

(«il comunista»; N° 100; Maggio 2006)

 

 

La tensione fra Stati Uniti e Iran da tempo sta aumentando, e non solo a causa dell’intenzione dell’attuale governo di Ahmadinejad di sviluppare la tecnologia nucleare. Il problema del controllo delle fonti di energia - petrolio e gas naturale innanzi tutto - è problema centrale per i paesi imperialisti più forti, e in particolare per il primo gendarmne mondiale dell’imperialismo, gli Stati Uniti d’America. Ma c’è anche il problema del controllo politico, e quindi militare,delle potenze imperialiste sulle aree divenute nel tempo strategiche; strategiche per gli interessi convergenti e, nello stesso tempo, contrastanti dei paesi imperialisti maggiori. Non c’è dubbio che l’area mediorientale, in cui l’Iran ha sempre giocato un ruolo non trascurabile, è area strategica per gli Usa, la Gran Bretagna, la Russia, la Germania, la Francia, l’Italia ed ora anche per la Cina il cui dirompente capitalismo è affamato come non mai di risorse energetiche.

Come mai gli Stati Uniti non hanno fatto una piega, anzi, l’hanno sostenuto e vi hanno partecipato attivamente, di fronte allo sviluppo del nucleare - non solo civile, ma anche militare - di Israele, del Pakistan e dell’India? L’Iran ha firmato, e finora rispettato, il Trattato di non proliferazione nucleare, mentre Israele e India non l’hanno mai firmato. Noi non diamo alla firma dei Trattati tra briganti un’importanza basilare, sapendo che le alleanze, come i trattati, fra briganti sono sempre più o meno di lunga durata, ma sicuramente transitorie. Ma nei rapporti diplomatici fra Stati le convenzioni, i trattati, i patti rivestono una certa importanza, se non altro come pretesto formale per irrigidire le proprie posizioni in situazioni di acuta concorrenza e di forte contrasto.

Il segretario di Stato americano, Condoleezza Rice, ha recentemente espresso la volontà del governo di Washington di forzare il governo di Teheran ad abbandonare il progetto di dotarsi di armi nucleari. Davanti ad una Commissione del Congresso americano ha sostenuto che l’Iran rappresenta la maggior minaccia per gli Usa - come un tempo Saddam con le sue armi di «distruzione di massa» - perché è determinato a sviluppare armi nucleari (e non solo il nucleare civile) «sfidando la comunità internazionale» (1); ha sostenuto che l’Iran è «la banca centrale del terrorismo» e che il sostegno iraniano al terrorismo «sta ritardando e in qualche caso arrestando [si riferisce all’Iraq evidentemente, NdR] la crescita di governi democratici e stabili» in Medio Oriente, e che la politica attuale di Teheran «è diretta a sviluppare un Medio Oriente che sarebbe 180 gradi diverso da quello che ci piacerebbe nascesse». Cioè che fosse un Medio Oriente organizzato in funzione della difesa degli interessi americani...

Niente di nuovo sotto il sole: l’imperialismo americano parte dal principio che ciò che lo minaccia rappresenta una minaccia per tutto il mondo, ciò che va contro i suoi desiderata è da classificare come potenzialmente nemico della «comunità internazionale» e che la contrapposizione alla sua politica di egemonia mondiale va considerata come un atto di «terrorismo».

Da questo punto di vista non vi è nulla di diverso da quanto precedeva l’attacco militare del 2003 all’Iraq. La differenza sta nel pretesto: contro l’Iraq gli Usa, in combine con la Gran Bretagna, dopo aver sottoposto per undici anni ad un micidiale embargo l’Iraq, hanno dovuto costruire dal niente le prove del possesso da parte di Saddam Hussein di armi di distruzione di massa (chimiche, biologiche e nucleari); contro l’Iran non hanno bisogno di costruire prove false visto che Teheran rivendica apertamente la volontà di dotarsi di energia nucleare anche in vista del suo uso militare.

Un’altra differenza, non di secondo piano, è rappresentata dal fatto che gli iraniani sono un popolo con basi storiche e culturali omogenee, con classi di potere storicamente aspiranti all’egemonia nella vasta area del Medio e Vicino Oriente, e che, con una popolazione di oltre 60 milioni di abitanti (tre volte quella dell’Iraq), è in grado di pesare notevolmente sugli equilibri dell’intera area.

Gli Usa si trovano però a dover fronteggiare una situazione in cui Teheran, pur nell’isolamento diplomatico in cui vive, dovuto all’estremismo confessionale che perma la sua politica interna ed estera, e alla sua contrapposizione netta rispetto ad Israele (unica potenza nucleare attualmente nell’area), ha comunque rapporti privilegiati, soprattutto economici, con la Cina (di cui è il principale fornitore di petrolio) e la Russia, due concorrenti di Washington non di piccola taglia.

La politica americana, anche sotto l’Amministrazione Bush, ha posto come suo obiettivo strategico riguardo al Medio Oriente, la formazione di un altro forte gendarme dell’imperialismo da poter manovrare con una certa tranquillità. Lo è stato tempo addietro la Persia dello scià Reza Pahlavi, che vi ha regnato dal 1941 al 1979, quando la sollevazione delle masse popolari e proletarie, stritolate dalla corsa alla «modernizzazione» e guidate dagli sciiti di Khomeini, lo costrinsero alla fuga. E’ stata la volta, successivamente, dell’Iraq di Saddam Hussein, lanciato in una orrenda guerra contro l’Iran tra il 1980 e il 1988, finita senza vincitori nè vinti ma con un indebolimento acuto dell’Iraq che peserà, come sempre succede, sulle condizioni di sopravvivenza delle grandi masse contadine e proletarie.

La guerra in Iraq, aldilà del demagogico grido di vittoria lanciato da Bush sulla tolda di una portaerei due mesi dopo aver iniziato i bombardamenti e l’occupazione militare del paese, si rivela - come non poteva non essere - come un mezzo per nulla risolutore della crisi apertasi per le conseguenze dell’embargo e della guerra di Saddam contro il Kuwait. La guerra in Iraq non è stata una guerra-lampo, ma una guerra che tende a protrasi ancora per anni e nella quale le contraddizioni storiche presenti nel paese fra etnie (arabi e curdi) e comunità confessionali differenti (sciiti e sunniti) fanno da base ad una lotta di concorrenza di tutti contro tutti in un caos di cui gruppi etnici, o confessionali, vogliono approfittare a proprio vantaggio armi alla mano; e di questa situazione è indubbio che ne ha approfittato anche l’Iran, sostenendo e controllando molti dei gruppi sciiti iracheni. Conseguenze, queste, che gli americani non prevedevano e che dimostrano la loro cecità politica, ma che, grazie alla loro gigantesca forza economica (dall’inizio della guerra Washington ha speso più di 300 miliardi di dollari, e ne ha stanziati altri 200 miliardi!), vengono affrontate con l’unica politica che sa adottare l’imperialismo: l’oppressione militare, dopo quella economica e politica, con l’occupazione militare di un territorio economico considerato vitale per i capitali Usa.

Secondo la teoria della guerra preventiva, col solito pretesto della «lotta al terrorismo» e dell’importazione della «democrazia» in paesi dove vige la «dittatura», personale come quella di Saddam o confessionale come quella islamica di Teheran, le minacce di Washington a Teheran dovrebbero trasformarsi, secondo un copione già visto, in prossime sanzioni economiche, embargo (allo scopo di indebolire economicamente il nemico) e, infine, attacco militare. Visto che Teheran mostra di non abbassare la testa, non è improbabile che gli Stati Uniti abbiano preparato materialmente i piani di attacco militare anche contro l’Iran, magari tirando qualche lezione dai piani d’attacco sbagliati contro l’Iraq. Il fatto poi che il presidente iraniano - democraticamente eletto nelle presidenziali del giugno 2005 - abbia recentemente dichiarato che Israele «va distrutto», offre naturalmente un altro forte pretesto agli imperialismi occidentali - quindi non solo agli Stati Uniti ma anche agli europei - per unirsi, anche se mal volentieri, alla campagna ingaggiata da Bush contro l’Iran di Ahmadinejad.

Perchè mai l’imperialismo americano è così assetato di guerra guerreggiata? Per diversi motivi, tra cui i principali possono essere considerati questi:

1) per ragioni economiche e finanziarie, per cui la produzione di guerra rilancia l’economia del paese e permette di incanalare masse gigantesche di capitali sovraprodotti in operazioni contemporaneamente di difesa delle fonti di profitto (ad esempio il settore dell’energia) e di attacco alla concorrenza di tutti gli altri protagonisti del mercato, quindi non solo i paesi prodottori di petrolio, ma anche gli imperialismi concorrenti, in prima istanza gli imperialismi europei, ai quali aggiungere Cina e Russia.

2) per ragioni politiche, in quanto l’imperialismo fonda sì il suo agire sulla potenza del capitale finanziario e dei monopoli, ma si esprime attraverso la politica di aggressione, del militarismo, della rapina a mano armata, e non c’è angolo della terra in cui non vi sia una ragione per la quale l’imperialismo cerchi di imporre la sua egemonia, la sua oppressione. Nei confronti poi degli imperialismi concorrenti, in particolare gli europei, l’imperialismo americano ha la necessità di ribadire la sua egemonia politica a livello internazionale, ed ogni forzatura, anche di carattere militare, è proiettata a condizionare la politica estera di ogni paese sulla linea di difesa degli interessi «vitali» americani.

3) per ragioni ideologiche, in quanto le classi dominanti borghesi non dimenticano che hanno bisogno di attirare dalla propria parte le masse popolari e proletarie, sia che si tratti di paesi sviluppati o di paesi arretrati. La caccia al consenso, al sostegno, alla partecipazione delle classi lavoratrici è un’attività permanente delle classi dominanti; essa sanno che sia in pace che in guerra hanno bisogno di avere al proprio fianco almeno una parte consistente delle classi lavoratrici, perciò le campagne ideologiche volte ad ottenere questo risultato non smettono mai di essere lanciate. La lotta «al terrorismo» fa parte di queste campagne propagandistiche, alla stessa stregua delle compagne in difesa dei valori della patria e dei propri confini. Combattere, poi, sul piano dello «scontro di civiltà» dove si dà per acquisito che la civiltà occidentale deve avere la supremazia su ogni altra civiltà, significa di fatto voler irreggimentare le masse lavoratrici dei paesi occidentali sotto le bandiere degli imperialismi più potenti. Nell’altro versante, la campagna contro la prepotenza occidentale, contro la degenerazione dei costumi e dei comportamenti, assolve allo stesso compito di irreggimentare le classi lavoratrici dietro le bandiere verdi dell’islam. In entrambi i fronti abbiamo classi borghesi che si fronteggiano e si combattono e che lanciano contro il nemico i propri proletari, trasformati così da bestie da soma a carne da macello.

Sarà dunque guerra contro l’Iran?

E’ già guerra commerciale e diplomatica, capeggiata dagli Usa ma non ancora estesa alla gran parte dei paesi imperialisti più importanti. E’ certo che gli Usa forzano per le sanzioni economiche contro Teheran, sul quale terreno portare i vari Stati europei, anche se sa che non sarà facile convincere Russia e Cina. Ma fintantochè l’Iran rappresenta quella famosa minaccia di cui parlava Condoleezza Rice, la guerra americana resta un progetto serio e fattuale, ma difficile da condurre prima di aver chiuso in qualche modo la situazione critica in Iraq.

Sta di fatto che l’imperialismo, americano o britannico, tedesco o russo, francese o cinese, sta inoltrandosi in un periodo sempre più caratterizzato da guerra permanente, ancora limitata a determinate zone del pianeta, un tempo chiamate «zone delle tempeste» per la loro evidente esposizione alle tensioni e ai contrasti internazionali.

Il proletariato americano, ed europeo, che cosa ci guadagna dalla guerra in Iraq, e da quella probabile in Iran? Le classi borghesi dominanti dei paesi imperialisti hanno interesse a concedere ciascuna al proprio proletariato dei benefici dalle loro guerre di rapina; l’hanno sempre fatto, e lo fanno anche ora. In particolare, verso alcuni strati più alti del proletariato, in modo da dividere la classe lavoratrice mettendo uno strato contro l’altro sulla base di condizioni economiche e normative diverse. E con questo esse applicano il vecchio principio di politica imperialista: se non li convinci con le parole, corrompili col denaro, e se non basta, usa la forza bruta. Oggi distribuiscono qualche briciola ad una parte del proprio proletariato, domani dovranno usare il bastone per mandarli a morire sui campi di guerra.

Finchè i proletari non riconoscono le proprie classi dominanti borghesi come classi nemiche, saranno sempre preda facile della propaganda che ineggia alla civiltà occidentale, alla libertà, alla democrazia, tutti valori che vanno "difesi" anche con le armi e "importati", nei paesi che non ce l’hanno, anche con la guerra.

I proletari non sono per la guerra, sono per la conciliazione, per la pace, per accomodare i problemi, e questa attitudine mentale, e pratica, deriva loro dalla propaganda che la piccola borghesia e le forze del riformismo operaio hanno da decenni continuato a fare poggiando su situazioni economiche nel complesso non tragiche. Ma quando la situazione economica diventa difficilee per molti proletari è vera tragedia in una incerta sopravvivenza quotidiana, allora i già deboli confini di classe tra sfruttati e sfruttatori, tra capitalisti e lavoratori salariati, vengono saltati a piè pari da sentimenti che appaiono immediatamente e praticamente solidali, sentimenti che le organizzazioni religiose per prime sono maestre nell’orientare, nello sfruttare a favore della conservazione e della reazione. Succede in occidente col cristianesimo, succede in oriente con l’islam.

Alla propaganda di guerra dell’imperialismo i comunisti rivoluzionari non rispondono con la propaganda della pace, perché questa pace è pace imperialista, l’altra faccia della stessa medaglia.

I comunisti marxisti rispondono con il disfattismo rivoluzionario, ossia con l’opposizione a partecipare a qualsiasi fronte di guerra, non importa quale pretesto le classi dominanti borghesi usino per giustificare la «propria» guerra. Rispondono con la critica a qualsiasi argomento che la borghesia e i suoi alleati opportunisti usano per convincere i proletari che la guerra alla quale vengono chiamati è «giusta» e per la quale è «giusto» farsi massacrare. Rispondono con la rivendicazione dell’antagonismo di classe che oppone il proletariato, sotto qualsiasi cielo, alla borghesia: perciò preparazione della lotta di classe, e di conseguenza, preparazione della rivoluzione proletaria contro preparazione della guerra imperialista.

E’ possibile preparare il partito proletario, e il proletariato, alla lotta di classe portata fino in fondo, fino alla rivoluzione, se intanto si «lotta per la pace» nel quadro delle logiche della democrazia e del capitalismo?

No, per la semplice ragione che le logiche della democrazia e del capitalismo non possono portare che ad una pace imperialista, ossia ad un periodo, transitorio, di tregua tra una guerra e l’altra, tra un massacro di guerra e l’altro.

Farla finita con la guerra dell’imperialismo significa lottare nella guerra di classe, significa che il proletariato non combatte più la guerra dei borghesi, ma la propria guerra contro i borghesi.

Come si è visto con Zapatero in Spagna, con le posizioni di Prodi e Bertinotti in Italia, e con tutti i governi che hanno ritirato finora le loro truppe dall’Iraq, di per sé il ritiro delle truppe del proprio paese da un paese occupato militarmente non corrisponde automaticamente ad una posizione di classe. Questo ritiro può derivare dalla stessa politica imperialista che in precedenza ha deciso l’invio di quelle truppe. E’ dunque non il fatto in sè, invio o ritiro, ma la politica che sta a monte il fattore decisivo. E se la politica è imperialista, tutti i suoi atti sono funzionali alla realizzazione di questa politica, dunque tutti sono contrari all’interese di classe del proletariato, che quegli atti siano attuali o potenziali. Perciò, anche se un governo ritira le proprie truppe da un’occupazione militare non avrà mai il sostegno del partito proletario, perchè quel ritiro, in quel determinato momento, nella lotta di concorrenza fra borghesi, non corrisponde ad una resa alle istanze di classe del proletariato, ma corrisponde ad una diversa disposizione delle proprie forze di conservazione nella continuazione della lotta di concorrenza con gli altri paesi imperialisti.

Altra cosa è, se è la lotta di classe del proletariato, guidato dal proprio partito di classe e mobilitatosi contro le avventure di guerra della propria borghesia con scioperi e azioni dirette, a fermare la partenza delle truppe, o a farle ritirare una volta che siano state inviate. In questo caso il ritiro delle truppe sarebbe il risultato della lotta proletaria di classe e non del calcolo delle convenienze borghesi.

E’ perché il proletariato sia in grado di agire, un domani, da classe in movimento, che noi lavoriamo, oggi come ieri, senza cedere alle lusinghe del pacifismo e della democrazia imperialista.

 


 

(1) Vedi il manifesto, 10.3.2006.

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

Ritorno indice

Top