TFR dei lavoratori salariati

Governo,  Sindacati  tricolore, Padronato, Banche e Assicurazioni si spartiscono il bottino.

I proletari, oltre ad aver subito il  taglio della pensione futura, vedranno scomparire  anche la vecchia liquidazione

(«il comunista»; N° 103; Marzo 2007)

 

 

Una grande campagna pubblicitaria attraverso televisioni, giornali e radio è stata messa in campo in questi mesi per spingere i lavoratori a destinare il proprio TFR scegliendo i Fondi Pensione, considerati la necessaria futura integrazione della pensione pubblica barcollante. In realtà, i lavoratori hanno ben poco da “scegliere”, visto che il 100% della loro ex liquidazione che matura dal 2007 potrà essere destinato in questo modo: se l’azienda ha meno di 50 dipendenti e lo si dichiara espressamente, il TFR rimane nell’azienda; se l’azienda ha più di 50 dipendenti, il TFR va all’INPS mantenendo formalmente le caratteristiche di prima; mentre se nulla viene dichiarato scatta il “silenzio assenso”, cioè dopo sei mesi il TFR va automaticamente ai Fondi Pensione negoziali, cioè quelli costituiti principalmente dai sindacati tricolore; per destinarlo ad altri Fondi Pensione, invece, lo si deve dichiarare espressamente.

Il Padronato, in cambio dello sblocco di una parte delle liquidazioni dei lavoratori – che prima gestivano direttamente, investendoli ad un tasso d’interesse molto più basso di quello che avrebbero dovuto pagare alle banche – ha ottenuto agevolazioni di carattere fiscale e la possibilità di richiedere finanziamenti sostitutivi di quel capitale alle stesse precedenti condizioni del TFR.

Il Governo, da parte sua, si è riservata la possibilità di dirottarne una parte verso il finanziamento di opere pubbliche e quindi di imprese che aspettano con voracità quei capitali per rimettere in moto il loro ciclo del profitto.

I Sindacati tricolore partono avvantaggiati grazie alla formula del “silenzio assenso” e alla fiducia che continuano a carpire ai lavoratori; attraverso i Fondi Pensioni costituiti da tempo per tutte le varie categorie lavorative, si indirizzano nella prospettiva di costituirsi in soggetti finanziari, di peso, ottenendo così qualche garanzia di sostegno immediata più sostanziosa delle iscrizioni sindacali che tendono a diminuire soprattutto fra i giovani.

Banche e Assicurazioni, si spartiranno il resto e saranno gli attori principali della gestione e del movimento di miliardi di euro rappresentati dalle liquidazioni/TFR dei lavoratori.

Che il TFR sia legato alla pensione è evidente, soprattutto per i lavoratori che non hanno cambiato mai, o quasi, posto di lavoro; serviva per affrontare i mesi successivi alla fine del rapporto di lavoro che passavano tra l’ultimo salario dato dall’azienda e il primo mese di pensione erogata dagli istituti preposti. Nel caso in cui il lavoratore cambiava spesso lavoro, la liquidazione dal posto di lavoro che lasciava forniva comunque una somma di denaro che poteva o doveva essere spesa per far fronte a debiti precedenti, per acquistare beni costosi o altro; insomma, era una somma di denaro che il lavoratore poteva decidere di spendere a seconda delle sue esigenze più o meno immediate.  Con il nuovo sistema il TFR è obbligatoriamente destinato ad integrare e in buona parte sostituire la pensione: la “libera scelta” tanto decantata si riduce ad un solo e obbligatorio sbocco, la pensione, per di più senza gli automatismi e le garanzie che lo Stato prima assicurava.

I lavoratori, soprattutto con la riforma del 1995 del governo Dini – sostenuta dai sindacati tricolore – si sono visti tagliare drasticamente la loro pensione rispetto a quella calcolata sui 35 anni di lavoro (che si aggira intorno al 70% dell’ultimo salario); col metodo contributivo, che somma aritmeticamente i contributi realmente versati dal lavoratore in tutto l’arco della sua vita lavorativa, si abbassa drasticamente la percentuale di rendita se si fa la media con i bassi salari percepiti i primi anni e si calcola che, oltre a dover lavorare anche più di 40 anni, il lavoratore percepirà meno del 50% dell’ultimo salario e che per avere una pensione come prima dovrà sgobbare fino a 65 anni e più.

Il fatto è che i padroni tendono a liberarsi dei lavoratori che raggiungono i 50 anni e che considerano troppo rigidi, costosi e meno produttivi dei giovani; la pensione, perciò, diventa un miraggio per i giovani e irraggiungibile per gli ultraquarantenni.

La campagna orchestrata in favore dei Fondi Pensione tende a far passare l’idea che è “possibile” recuperare la percentuale che lo Stato non garantisce più al futuro lavoratore pensionato; in realtà è un modo per mettere le mani su una gigantesca montagna di denaro (che corrisponde al salario differito dei lavoratori) con un meccanismo che condiziona il futuro della vita dei proletari  attraverso la fortuna o meno degli investimenti dei gestori dei Fondi. I lavoratori non avranno alcuna garanzia reale né sul piano della rivalutazione della loro pensione futura né su quello del recupero di quel capitale in caso di bancarotte, fallimenti, crisi economiche e finanziarie. Le Borse, dove vengono investiti questi Fondi, sono il settore più volatile che esista nella società capitalista.

Le lotte che i sindacati collaborazionisti hanno condotto “in difesa delle pensioni” hanno fatto la stessa fine delle lotte sulla “scala mobile non si tocca”: è passata sistematicamente la linea governativa in difesa dei capitalisti, di un padronato che non trova altra via per difendere i suoi profitti che quella di sempre: far pagare soprattutto alla classe lavoratrice il peso delle sue crisi economiche e finanziarie.

L’istituto della pensione, non va dimenticato, è uno degli ammortizzatori sociali adottati dal fascismo per strappare al proletariato un consenso verso la classe borghese dominante che la sua politica e la repressione antioperaia aveva distrutto. La democrazia post-fascista pensò bene di continuare ad utilizzare questo come altri ammortizzatori sociali per lo stesso scopo: strappare al proletariato un consenso e una pace sociale utili perché la corsa al profitto capitalistico avesse meno impedimenti possibili. La collaborazione interclassista garantita dai sindacati tricolore, e dai partiti “operai” borghesi, ha contribuito decisamente a far passare le esigenze del capitale a spese delle esigenze del lavoro salariato. Ma il capitalismo, nella corsa al profitto, inciampa inevitabilmente in periodi di crisi – la caduta tendenziale del saggio di profitto è congenita al modo di produzione capitalistico – e quando questi periodi di crisi si prolungano molto nel tempo come sta succedendo da qualche decennio, allora i capitalisti intervengono sui costi variabili, dunque sui salari. L’attacco costante al lavoro salariato, sia in termini di occupazione che in termini di condizioni di lavoro e in termini di valore reale del salario, è una condizione di difesa e di sopravvivenza del capitale. E se aumenta la precarietà del posto di lavoro, aumenta in parallelo la precarietà del salario, sia di quello percepito quindicinalmente o mensilmente sia di quello differito come la pensione.

E’ la lotta in difesa delle condizioni di vita – quindi in difesa di un salario che serve per vivere – che dà la vera forza al proletariato; una lotta che si può articolare in migliaia di obiettivi immediati diversi ma che sostanzialmente metta al centro la questione principale: il salario! Certo, per vivere nella società borghese bisogna avere un salario, e un salario consistente visto il rialzo continuo del costo della vita; e per avere un salario bisogna avere un posto di lavoro; perciò è evidente che gli operai tendano a difendere con le unghie e con i denti il posto di lavoro una volta ottenuto, o cerchino a tutti i costi un posto di lavoro se non ce l’hanno, perché è solo contro lavoro per il capitalista che è possibile avere in cambio un salario. Ma i posti di lavoro a disposizione diminuiscono mentre aumenta considerevolmente l’offerta di lavoratori: il mercato capitalistico delle braccia, o dei cervelli, che è lo stesso, spinge alla concorrenza e su questa concorrenza i capitalisti ci sguazzano perché più aumenta la concorrenza fra lavoratori e più possono abbassare i salari! E così la concorrenza fra giovani e anziani non si ferma soltanto alla vita lavorativa degli uni e degli altri, ma si prolunga nel tempo fino a coinvolgere l’intero arco di vita dei proletari che comprende anche gli anni in cui dal ciclo produttivo vengono espulsi quando non rendono abbastanza, quando non possono essere sfruttati  in modo intenso o semplicemente , per disposizioni di legge, quando hanno terminato la lunga pena di una vita logorata da sfruttati e “vanno in pensione”.

Nell’economia capitalistica sviluppata il “diritto alla pensione”, come tanti altri diritti sociali, se da un lato è il risultato delle lotte proletarie del passato, dall’altro è il risultato di una concessione che è convenuta, e conviene ancora, alla classe dominante borghese; esso fa parte di quel pacchetto di ammortizzatori sociali che il potere borghese non se la sente ancora di cancellare del tutto, ma sul quale interviene pesantemente allo scopo di alleggerire in modo consistente la spesa pubblica e di favorire, nel contempo, la dipendenza di ogni “soggetto economico” – quindi anche il singolo individuo che percepisca un reddito – dal sistema finanziario. La pensione, però, che da anni viene erosa a causa dell’aumento del costo della vita e degli interventi legislativi, corrisponde sempre più ad un debito che non ad un credito. E il colpo di genio di trasformare il TFR in un piccolo motore finanziario che alimenta una parte della futura pensione va proprio in questa direzione: lo Stato non ti garantisce più l’erogazione di un salario, anche se decurtato, negli anni in cui non sei più sfruttato direttamente da un datore di lavoro, e quindi non va più a coprire il deficit che si apre nel momento in cui quell’erogazione non è coperta a sufficienza dai contributi dei lavoratori. Che il lavoratore ci pensi da solo alla propria vecchiaia; all’assicurazione sulla vita, con la quale chi stipulava questa polizza assicurativa cercava di garantire un piccolo mensile ai familiari che gli sopravvivevano, si aggiunge così un’altra voce assicurativa, quella del fondo pensione. Il paradosso è che il diritto ad una vita dignitosa e ad una altrettanto dignitosa vecchiaia è sempre più appeso al salario con cui il lavoratore viene pagato: se il salario è sufficientemente alto, allora anche la liquidazione, il TFR, sarà alto e così anche i contributi versati per la pensione; ma se il salario è di fame, come lo sta diventando per la stragrande maggioranza dei lavoratori, allora non solo la vita quotidiana durante il ciclo di vita lavorativa peggiora sempre più, ma la stessa vecchiaia si presenta come un peso mortificante per se stessi e per i familiari.

La massa generale del TFR spettante ai proletari, liberata dai vincoli precedenti che la mettevano a disposizione soltanto dei padroni e ne limitavano notevolmente la circolazione bancaria, ora – col sistema della “scelta” individuale di ogni singolo lavoratore per farla “gestire” da “soggetti finanziari” (fondi, assicurazioni, banche, inps, e domani magari società finanziarie pure) – è stata immessa direttamente nel mercato finanziario, che è il mercato decisivo nelle economie capitalistiche sviluppate; ma è il mercato che in realtà non dà garanzie, non dà tranquillità, non dà sicurezza se non agli speculatori abituati a  maneggiare masse di capitali consistenti e quasi sempre non proprie.

La difesa delle condizioni di vita e di lavoro proletarie, la difesa del salario e, quindi, del posto di lavoro, non passa attraverso i negoziati che le diverse forze del collaborazionismo intavolano per ottenere vantaggi istituzionali; non sarà il TFR dato all’INPS o ai Fondi Pensione dei Sindacati o delle Banche che metterà al sicuro la vecchiaia dei lavoratori salariati. La crisi dei profitti capitalistici è tale per cui la tendenza ormai irreversibile del potere borghese è quella di rimangiarsi poco per volta la maggior parte delle “garanzie” concesse nei decenni precedenti; aumentando la precarietà del lavoro, e quindi del salario, aumenta in parallelo la concorrenza fra proletari che, come conseguenza immediata ha un generale abbassamento dei salari. Il famoso “costo del lavoro” che i padroni di tutto il mondo vogliono diminuire, lo ottengono attraverso due fattori: uno è rappresentato dalle leggi cui il collaborazionismo sindacale e politico dà il suo massimo sostegno, e l’altro è dato dal movimento reale della concorrenza nel mercato del lavoro: i proletari, facendosi concorrenza fra di loro, e quindi offrendosi a salari sempre più bassi per le stesse mansioni, diventano essi stessi fattori del proprio peggioramento di vita.

La difesa delle condizioni di vita e di lavoro proletarie passa prima di tutto attraverso la lotta contro la concorrenza fra proletari, attraverso la tendenziale unificazione delle lotte al di sopra dell’immediata situazione di occupato o disoccupato, precario o atipico, italiano o straniero, giovane o anziano, donna o uomo. Le lotte operaie che hanno ottenuto i migliori risultati sono state quelle che si muovevano in questa prospettiva; sono quelle lotte che hanno assicurato per qualche decennio la tenuta delle conquiste sul piano del salario, della sicurezza sui posti di lavoro, sulle “garanzie”, sui famosi ammortizzatori sociali. Ed è l’assenza di lotte operaie effettivamente di  classe, in difesa esclusiva degli  interessi operai più ampi e generali, che ha permesso e permette al potere borghese di smantellare le conquiste del  passato, gli ammortizzatori sociali che tendono a non  ammortizzare più nulla.

Soltanto riprendendo  la  strada della lotta proletaria di classe, con metodi e mezzi di classe, con obiettivi e piattaforme di lotta unificanti e in grado di rappresentare effettivamente gli interessi comuni dei lavoratori salariati, sarà possibile per il proletariato interrompere il continuo peggioramento delle sue condizioni di vita e di lavoro. Finché il presente e il futuro prossimo della vita proletaria sarà in mano alle forze del collaborazionismo interclassista, i proletari  non avranno alcuna possibilità di difesa efficace dagli attacchi dei capitalisti i quali  sono interessati esclusivamente ad intascare  profitti non importa se questo avviene grazie al licenziamento di decine, centinaia  o migliaia di  lavoratori, alla vita di stenti e di fame di migliaia di proletari, all’aumento delle malattie professionali, all’aumento degli infortuni e delle morti sul lavoro.

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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