Triennalizzazione del contratto nel pubblico impiego: i padroni del privato cantano vittoria!

Che lezione tirare dal rinnovo del contratto del pubblico impiego

(«il comunista»; N° 104; Giugno 2007)

 

 

Ormai è ufficiale: a cominciare dal pubblico impiego i contratti si allungheranno di un anno; ciò vuole dire che nella pratica si trascineranno abbondantemente oltre i tre anni. Naturalmente i sindacati tricolore si sono premurati di sottolineare che è in via “sperimentale”, solo nel pubblico impiego (per il prossimo rinnovo contrattuale 2008-2010), anche perché si andrebbero a modificare gli assetti contrattuali stabiliti nel ’93; insomma è una questione di tempi per far digerire il peggioramento ulteriore ai proletari.

Da tempo il collaborazionismo sindacale di Cgil-Cisl-Uil ha accettato in pratica, prima, e fatti suoi, subito dopo, gli obiettivi dei padroni: maggiore flessibilità per poter accedere ad un posto di lavoro, maggiore flessibilità all’interno del posto di lavoro stesso e da un posto di lavoro ad un altro, drastica riduzione del “costo del lavoro” (ossia dei salari) sia nel settore pubblico che in quello privato, aumento della concorrenza tra i proletari con l’incentivo del salario legato all’aumento dei ritmi di lavoro e della produttività.

Il contratto del pubblico impiego, scaduto da 17 mesi, è passato con un aumento misero di 101 euro medi lordi; in pratica, lo Stato borghese oltre ad aver risparmiato facendo partire gli aumenti più tardi ha anche ottenuto che il prossimo contratto duri tre anni invece di due.

Va detto che in questo settore di lavoratori che un tempo erano tendenzialmente più “garantiti” rispetto al settore privato, soprattutto nel mantenimento del posto di lavoro, le condizioni sono drasticamente cambiate negli ultimi anni: sono aumentati enormemente i lavoratori precari e la quantità di lavoratori con salari che si aggirano intorno ai 1.000 euro; questo nuovo accordo tra sindacati tricolore e governo non li solleva da una condizione tendenzialmente più misera dato che “quell’aumento” rappresenta una goccia rispetto alla reale perdita di potere d’acquisto del loro salario e in cambio poi di una maggiore flessibilità.

Nel ’93, con l’accordo sulla “nuova politica dei redditi”, il sindacato tricolore accettava di modificare gli assetti contrattuali dove, ad esempio, si stabiliva che ogni 2 anni veniva contrattata la parte economica e ogni 4 quella normativa (prima era di tre anni per entrambe), ma questo per far passare la definitiva cancellazione della “vecchia” scala mobile: un meccanismo che automaticamente ogni 6 mesi faceva aumentare il salario recuperando circa il 50% di ciò che l’inflazione si mangiava in potere d’acquisto, che per quanto sgangherato era pur sempre un meccanismo che si aggiungeva alla contrattazione nazionale. Inoltre esisteva la contrattazione aziendale con la quale, là dove esisteva una certa combattività operaia, si riusciva a strappare un’altra quota di salario che andava ad aggiungersi   in maniera stabile in busta paga. Ma quest’ultima quota di salario, con i nuovi accordi del ’93, diventava praticamente una quota “una tantum” che il padrone concedeva a seconda delle sue esigenze di contenimento dei costi e legata strettamente  ad obiettivi di incremento della produttività e alla presenza dei lavoratori sul posto di lavoro senza alcuna garanzia di stabilizzarsi in busta paga.

Il biennio economico diventava così il livello principale in cui, in generale, il salario avrebbe dovuto per tutti i lavoratori recuperare, sia pure in ritardo, una determinata quota di salario perso con l’aumento del costo della vita. In realtà, non solo i conti che facevano i sindacati tricolore erano molto al di sotto di ciò che si sarebbe dovuto ottenere per andare alla “pari”, ma gli aumenti poi effettivamente ottenuti in busta paga venivano riparametrati per livello professionale aumentando il divario tra la maggioranza dei livelli inquadrati ai salari più bassi  con quelli più alti; inoltre, venivano concesse - come sempre nelle abitudini del collaborazionismo sindacale - le “tranches” in modo che i costi per i padroni venissero diluiti nel tempo.

Per il padronato è stato un vantaggio enorme aver eliminato un automatismo come la scala mobile e andare a trattare ogni due anni con i sindacati ultracollaborazionisti il salario a livello nazionale. Anno dopo anno, contratto dopo contratto, essi hanno iniziato a trascinare sempre più in là nel tempo la durata delle vertenze (tanto più che si era stabilita una specie di scala mobile “carsica” che copriva con qualche euro un’indennità per la “vacanza contrattuale”) fino al punto che di fatto ormai in tutte le categorie non si chiudeva il contratto prima dei 12 mesi dalla scadenza.

Questo naturalmente perché non c’è mai stata una risposta dura sul terreno con iniziative di lotta da parte del sindacato tricolore a difesa degli accordi che loro stessi avevano sottoscritto. Era chiaro che prima o poi il padronato avrebbe preteso questo allungamento ed è sintomatico che proprio dal pubblico impiego parta oggi l’affondo, cioè là dove un tempo i proletari avevano qualche “garanzia” in più, e ciò dimostra il segnale chiaro che si intende dare a tutto il proletariato nel senso di accettare più sacrifici mettendo in soffitta qualsiasi illusione di recupero di un tenore di vita decente; ai lavoratori viene praticamente detto che  si devono solo augurare di riuscire a mantenere un posto di lavoro sempre più precario e sempre più mal pagato!

Questo significa che gradualmente ma sempre più velocemente – si è visto anche con la riforma delle pensioni – per la stragrande maggioranza dei lavoratori, siano essi sotto il padrone “Stato” o quello privato, si sta concretizzando un progressivo peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita proletarie.

Ma, di fronte al drammatico impoverimento dei proletari e delle loro famiglie non c’è solo la rassegnazione, come insegnano la chiesa e il collaborazionismo sindacale anche quando parla di “lotta”. Non solo per ottenere condizioni salariali e di lavoro migliori è necessario lottare uniti - meglio se al di sopra delle categorie e dei settori in cui i proletari vengono costretti - ma anche solo per una lotta di pura difesa delle condizioni elementari di vita è necessario scendere sul terreno della lotta di classe, della difesa esclusiva degli interessi operai immediati senza farsi condizionare dalle cosiddette compatibilità di un sistema economico e sociale che difende prima di tutto il profitto capitalistico e i privilegi delle classi possidenti. 

Per anni padronato pubblico e privato, sindacati tricolore e governo, hanno agito continuamente e incessantemente per dividere i vari settori di lavoro, le varie categorie al loro stesso interno con mille livelli retributivi, spostando le scadenze contrattuali, aumentando le differenze salariali o normative e di carattere previdenziale anche consistenti soprattutto per il settore pubblico, in ottemperanza al sistema di clientelismo politico utile soltanto ad imprigionare i proletari in un reticolo di false garanzie e di  “debiti di riconoscenza” atti a dividere i proletari e a tenerli più strettamente sottoposti alle esigenze del mercato, dei singoli padroni e, in generale, dell’economia nazionale, mantenendo contemporaneamente una pace sociale, tanto cara al metodo democratico di governo e a tutte le forze della conservazione sociale, dalla quale ne ricavano benefici esclusivamente i padroni, i politicanti, i parassiti della società, gli opportunisti.

La crisi del capitalismo a livello internazionale, sottoposto ad una concorrenza in aumento sui mercati di tutto il mondo, preme sui profitti del padronato nazionale e impone allo Stato - che è in realtà il comitato di difesa degli interessi capitalistici nazionali - di tagliare sulle spese; e quel che torna più comodo e che dà meno scompenso al sistema dei profittti capitalisti è il taglio delle spese assistenziali-previdenziali. Ciò significa, in pratica, che lo Stato e il padronato sono spinti a tagliare sui salari e sulle vecchie garanzie (le cosiddette condizioni di “privilegio”) di tutti i settori del proletariato. Va da sè che così facendo, in assenza di lotta di classe e di organizzazioni classiste dei lavoratori capaci di lottare contro questa ulteriori pressione capitalistica sui salari, la concorrenza tra proletari è destinata ad aumentare favorendo, di fatto, le manovre di difesa dei profitti a scapito dei salari operai.

Resta pur sempre l’ “idea” che nel settore pubblico ci siano condizioni di maggiore “garanzia”, ma la realtà sta cambiando velocemente: ci sono e si verificheranno condizioni sempre maggiori di sfruttamento, di salari miseri, e precarie di lavoro. Prima i lavoratori di questo settore si “toglieranno” questa idea dalla testa e cominceranno ad essere più sensibili alla solidarietà con i loro fratelli di classe del settore privato, e prima incominceranno a vedere la via chiara della lotta di classe che li porterà ad uscire dal tunnel dell’immiserimento delle loro condizioni di vita. 

Anche i dati ufficiali diffusi dai media borghesi ammettono chiaramente che mediamente una famiglia proletaria tra tasse, balzelli, tariffe varie ha perso intorno ai  600/700 euro l’anno, senza contare tutto il resto compresi affitti, mutui, tikets sanitari, alimenti e vestiario (e sembra che proprio su questi ultimi i proletari stanno risparmiando sempre di più per tirare avanti con il magro salario). Gli aumenti richiesti dai sindacati tricolore si attestano mediamente sui 100 euro lordi mensili. Ciò vuole dire che tolte le tasse non recuperano che una minima parte dell’aumentato costo della vita e in pratica il salario continua a svalutarsi drasticamente. Con l’ulteriore allungamento della durata dei contratti diventerà ancora più evidente e pesante per i proletari. Rispetto alle esigenze di difesa degli interessi proletari la contrattazione dovrebbe al contrario essere accorciata per recuperare più in fretta ciò che l’inflazione e costo della vita erodono al salario.

Il salario oggi dovrebbe attestarsi – per una famiglia media proletaria – sui 3.000 euro. Nella realtà, il salario medio dei lavoratori è meno della metà, ciò significa che si è svalutato di almeno il 50% in questi ultimi 12/13 anni. Infatti, per poter mantenere lo stesso tenore di vita di allora si devono aumentare le ore di lavoro di tutti i componenti della famiglia, donne e figli compresi. Per i lavoratori precari e i disoccupati saltuari l’impoverimento è già attuale e non non vi è nessun segnale di “controtendenza”.

L’accordo sul rinnovo del contratto per il pubblico impiego dimostra per l’ennesima volta che sindacati tricolore, padronato e governo sono tutti d’accordo sul fatto che il salario dei proletari debba diminuire ulteriormente, per mantenere alta la competitività delle merci italiane sui mercati internazionali, e per salvaguardare i profitti delle aziende, che sono poi i profitti dei padroni.

Ancora una volta i sindacati tricolore ultracollaborazionisti con padroni e governo borghese si fanno veicolo presso i lavoratori per far passare gli interessi del mercato e dei padroni, senza il minimo scrupolo e pretendono anche che i lavoratori li seguano e li sostengano!

I proletari devono riprendere a lottare direttamente e indipendentemente dal collaborazionismo sindacale se vogliono iniziare ad invertire la rotta e non solo per recuperare il potere d’acquisto del loro salario, ma anche per aumentare il loro tenore di vita, lottare per ridurre l’orario di lavoro, i ritmi e i carichi di lavoro per recuperare tempo e energie per vivere e non solo per lavorare a beneficio dei capitalisti.

Lottare sul terreno della difesa elementare dei propri interessi immediati non sarà possibile che a condizione di rompere la pace sociale, di rompere i vincoli con il sindacalismo collaborazionista, di rompere con le pratiche conciliatorie che ogni forza opportunista - politica, sindacale, religiosa - mette in opera al solo scopo di difendere gli interessi del profitto capitalistico.

Lottare sul terreno della difesa elementare dei propri interessi immediati significa accettare a viso aperto l’antagonismo di classe tra proletari e borghesi, quell’antagonismo che la borghesia e tutti i suoi servitori non si fanno alcuno scrupolo ad usare per schiacciare il proletariato nelle condizioni di uno sfruttamento sempre più esteso e accresciuto a tutta la razza dei proletari - mariti, mogli, figli, nonni - dimostrando quanto il marxismo aveva già denunciato fin dal suo primo apparire: la società borghese è la società della schiavitù salariale che può essere combattuta e vinta solo ed esclusivamente per mezzo della lotta di classe del proletariato, unica classe moderna a non avere nulla da difendere in questa società e tutto da guadagnare dal suo rivoluzionamento.

Lottare sul terreno della difesa elementare dei propri interessi immediati significa organizzarsi in funzione di questa lotta, organizzare le proprie forze al di fuori e contro le pratiche collaborazioniste; e in questa lotta i proletari troveranno i comunisti sempre al loro fianco.

 

Partito comunista internazionale

 www.pcint.org

 

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