Globalizzazione  e  crack  finanziari,  due  fattori dello  stesso  processo  di  crisi  del  capitalismo

(«il comunista»; N° 105-106; Luglio / Ottobre 2007)

 

La crisi finanziaria internazionale dello scorso agosto, di cui tutti i media hanno parlato, ha riproposto ai capitalisti e ai governanti di tutto il mondo le solite, fatidiche domande: riuscirà il sistema capitalistico mondiale a superare questa ennesima crisi finanziaria senza incappare nella recessione?, riuscirà a non intaccare l’economia reale?

Già dalle domande si evidenzia un problema: esiste una economia che gli stessi capitalisti definiscono reale, e un’economia irreale, virtuale, fittizia, fantastica per usare un termine caro a Marx. Dove per «economia reale» si intende economia produttiva, economia industriale e agricola, economia produttrice di beni materiali, economia in cui il capitale industriale e commerciale con il lavoro salariato  producono merci che vengono poi scambiate nel mercato contro  denaro; mentre per «economia fittizia» si intende la parte di economia rappresentata dall’accumulo di capitale di interesse, di capitale eccedente, di capitale che non torna ad investirsi del ciclo della produzione reale, di capitale da prestito, creditizio, come ricorda Marx.

Lo sviluppo del capitalismo ha accresciuto enormemente la massa di capitali da prestito; ha prodotto, e produce costantemente, come per le merci, una sovrapproduzione di capitali. E questa sovrapproduzione, non assorbita nel ciclo di produzione di merci, circola in un ambito  che potremmo chiamare virtuale, nell’ambito dei titoli di credito, nel mondo delle «promesse di pagamento», nel mondo delle «cambiali»; cioé, in un mondo in cui l’inesorabile spinta alla valorizzazione del capitale, non trovando per tutti i capitali esistenti lo sbocco nell’economia reale, si costruisce uno sbocco fittizio, dove la speculazione, dunque il rischio, cresce in proporzione geometrica rispetto al flusso di capitali che vi si trasferiscono. La vitalità del capitale è data dalla sua circolazione continua, e sempre più veloce; ma la sovrabbondanza di capitali può in deterrminate situazioni portare alla distruzione di una parte di essi. La speculazione creditizia e la speculazione borsistica, se da un lato tendono a premiare il rischio con una valorizzazione accresciuta dei capitali in esse investiti, dall’altro lato tendono a distruggere una parte di quei capitali che non riescono non solo ad accrescere il loro valore iniziale, ma subiscono la loro completa volatilizzazione a beneficio di rischi andati invece a buon fine.

Gli è che il capitale finanziario, detenuto e controllato dal sistema bancario, in genere ha di fronte a sé due possibili circolazioni: il credito volto alla produzione e alla circolazione di merci, il risparmio rivolto al rischio speculativo.  Per dirla in parole semplici: quando le banche indirizzano i capitali depositati verso il rischio speculativo in quantità maggiori di quelli indirizzati verso il credito industriale e commerciale, mettono a rischio di liquidità l’intera quantità di capitali in esse depositati.

Naturalmente la speculazione può riguardare qualsiasi titolo di borsa, sia di società private che di società pubbliche e di Stato. Le crisi profonde, tipo 1929, riguardano tutto il sistema borsistico, dunque tutte le società per azioni esistenti; e siccome le società per azioni sono - per loro costituzione - globalizzate o globalizzabili, se tutto il loro sistema cede, siamo di fronte ad una crisi generale del capitalismo. Ma questo tipo di crisi avviene solo in presenza di fattori di crisi su tutti i livelli economici, ossia quando da quello fittizio, fantastico, essenzialmente speculativo i fattori di crisi passano all’economia reale; allora, la volatilizzazione dei capitali, e quindi la generale mancanza di liquidità da parte delle banche, si manifesta insieme alla chiusura delle fabbriche, all’aumento vertiginoso della disoccupazione, al rapido immiserimento della stragrande maggioranza della popolazione. Non siamo più di fronte alla volatilizzazione di masse anche considerevoli di capitali fittizi, o ad una parziale distruzione di capitali reali, ma di fronte ad un blocco della produzione reale - e quindi ad un blocco della stessa produzione e riproduzione di capitale reale. Da crisi di questo tipo il capitalismo  esce soltanto attraverso una distruzione ancor più ampia di capitali e merci che si ottiene con la guerra; perché solo dalla grande distruzione il capitale può ricominciare a costruire, a macinare profitti da nuovi cicli di produzione e riproduzione capitalistica, in una rinnovata spirale di sviluppo capitalistico.

Il capitalismo mondiale, prima di giungere a crisi generali di quella profondità, attraversa periodi in cui la sua espansione, il suo sviluppo incappa in crisi periodiche parziali, regionali, che toccano una parte dei capitali bancari o una parte delle economie nazionali. Crisi che riesce ancora a bilanciare attraverso il loro riassorbimento mediante l’aumento del tasso di sfruttamento del lavoro salariato, da cui estorce quantità gigantesche di plusvalore, e quindi di capitali da investire sia nell’economia «reale» che in quella «fantastica»; tasso di sfruttamento solitamente negoziato con i sindacati collaborazionisti, quando questi garantiscono un sufficiente controllo sociale delle masse lavoratrici, o assicurato dall’intervento diretto dello Stato attraverso forme dittatoriali di tipo militare o populista quando il controllo sociale delle masse sfugge, o è sfuggito, alle organizzazioni (sindacati, partiti) predisposte a quel compito per conto della classe borghese dominante. La crisi d’agosto ha scosso sì i palazzi delle borse del mondo, ma non aveva una tale forza tellurica da farli crollare.

Gli «esperti» di economia borghese si sono, ovviamente, gettati a studiare la crisi d’agosto per trarne soprattutto elementi di rassicurazione: la bolla immobiliare americana, attesa d’altronde da almeno due anni, ha sì messo in pericolo il capitale finanziario americano e quello inglese e tedesco, ma il sistema borsistico generale ha tenuto. Il che significa una cosa, che nel campo della speculazione finanziaria è determinante: la crisi di fiducia nei confronti di Wall Street o di Londra, le due maggiori piazze borsistiche del mondo, non era andata al di là dei primi scossoni. E ciò era già capitato qualche mese prima, di fronte alla notevole caduta della borsa di Shangai (febbraio 2007: -9%) che aveva provocato un decremento consistente di tutte le borse del mondo; ma l’economia reale cinese ha continuato ad incrementare notevolmente, al di sopra del 10%, e questo permise sia di circoscrivere nello spazio e nel tempo la crisi di Shangai del febbraio scorso, sia di far recuperare alla borsa di Shangai in poco tempo i livelli precedenti, in un movimento benefico per tutte le altre borse del mondo.

La crisi americana d’agosto, che è stata indentificata come crisi dei sub-prime, ossia   della concessione di mutui per la casa a vasti strati di richiedenti senza garanzie di solvibilità, ha avuto alcune caratteristiche che potevano mettere in seria crisi l’intero sistema finanziario americano poiché ha provocato contemporaneamente un decremento repentino dei consumi interni. Va detto che l’economia americana, e per suo tramite l’economia mondiale - compresa la straordinaria crescita della Cina - ha conosciuto in questi ultimi anni un aumento costante dei consumi interni, cosa che, da un lato, ha permesso l’aumento delle importazioni (e quindi, di conseguenza, l’aumento delle esportazioni di molti paesi tra cui in particolare Gran Bretagna, Germania, Cina, Giappone) e, dall’altro, costituiva una iniezione di fiducia nei confronti dei vari partners capitalisti che continuavano a finanziare l’enorme debito pubblico e deficit commerciale di Washington (leggi Cina e Giappone, soprattutto).

E’ istruttivo rileggere cosa afferma Marx nel Capitale a proposito dei consumi delle masse:

«Immaginiamo che l’intera società sia composta esclusivamente di capitalisti e lavoratori salariati. Prescindiamo inoltre dai cambiamenti di prezzo che impediscono a grosse porzioni del capitale complessivo di reintegrarsi nelle loro condizioni medie, e che, data la concatenazione generale dell’insieme del processo di riproduzione, così come la sviluppa in particolare il credito, non possono non provocare ogni volta su scala generale ristagni temporanei. Prescindiamo egualmente dagli affari puramente fittizi e dalle transazioni speculative, che il sistema creditizio favorisce. Una crisi sarebbe allora spiegabile soltanto con uno squilibrio nella produzione dei diversi rami e fra il consumo degli stessi capitalisti e la loro accumulazione. Così come stanno le cose in realtà, tuttavia, la reintegrazione dei capitali investiti nella produzione dipende in gran parte dalla capacità di consumo delle classi non produttive, mentre le capacità di consumo degli operai è limitata sia dalle leggi del salario, sia dal fatto d’essere impiegati solo finché è possibile impiegarli con profitto per la classe capitalistica. La causa ultima di ogni vera crisi resta sempre la miseria e la limitatezza del consumo delle masse rispetto alla tendenza della produzione capitalistica a sviluppare le forze produttive come se il loro limite fosse soltanto costituito dalla capacità di consumo assoluta della società» (1).

In questo brano vi sono concentrati molti concetti fondamentali del marxismo in merito ai fatti economici del capitalismo. Sono previsti i «ristagni temporanei» [la recessione] nel processo di riproduzione del capitale, come è affermato che il sistema creditizio favorisce gli «affari puramente fittizi» e le «transazioni speculative». E per quel che riguarda la capacità di consumo delle masse vi è affermato chiaramente il limite nell’applicazione delle «leggi del salario», ossia nelle condizioni di schiavitù salariale in cui sono costrette a vivere le masse lavoratrici, condizioni che determinano inoltre la limitazione da parte della classe capitalistica nell’impiego di lavoro salariato nella misura in cui è possibile farlo «con profitto», fino a quando cioè il tasso di sfruttamento del lavoro salariato è tale da rendere redditizio per i capitalisti l’impiego del capitale-salari sul capitale fisso, insomma quando il «costo del lavoro» permette ai capitalisti di estorcere plusvalore a sufficienza per la sua trasformazione in profitto capitalistico.

Quanto ai consumi delle masse lavoratrici, essi vanno intesi nella loro estensione più ampia, dai generi di prima necessità ai prodotti più diversi che il tenore di vita medio delle società capitalistiche sviluppate, negli anni di espansione economica, ha permesso (frigorifero, lavatrice, lavastoviglie, radio, televisione, automobile, computer, vacanze, casa, ecc.) e che hanno contribuito allo sviluppo economico capitalistico. Anche se, come sottolinea Marx nel passo citato, la quantità di capitali reinvestiti nella produzione (nell’economia reale) dipende in ultima analisi dalla capacità di consumo delle classi non produttive (borghesi e classi medie) rispetto alla quale capacità di consumo - in realtà limitata di fronte alla quantità di capitali a disposizione -  i capitali «liberi» dall’investimento nella produzione si indirizzano naturalmente nell’economia fittizia, nella speculazione del credito e finanziaria.

Se, da un lato, lo sviluppo capitalistico provoca sovrapproduzione di merci, e di capitali, dall’altro la sovrapproduzione di capitali chiede di essere impiegata in modo da non interrompere il movimento perpetuo della valorizzazione del capitale, e quindi - non trovando un’adeguata valorizzazione per tutti i capitali in eccesso nel loro impiego nell’economia reale - quei capitali in eccesso si indirizzano nella speculazione grazie alla quale la circolazione dei capitali è assicurata nel tentativo di valorizzarli a velocità molto più sostenuta di quella offerta dagli investimenti nell’industria e nel commercio, per non parlare dell’agricoltura.

Di certo, la casa ha sempre costituito un bene-capitale di sicuro interesse non solo per le classi capitalistiche e per gli strati agiati delle classi medie, ma anche per le classi lavoratrici verso le quali, in particolare, si è andata sviluppando un’offerta di mutui (capitali di prestito) sempre più «agevolati» come se «la capacità di consumo», in questo caso  del prodotto-casa,  non trovasse il limite nella effettiva capacità di consumo delle masse lavoratrici ma nella capacità di consumo «assoluta» dell’intera società; togliere qualsiasi limite di solvibilità ai sottoscrittori dei famosi sub-prime andava esattamente in questa direzione. 

I sub-prime corrispondono a «prodotti finanziari» ad altissimo rischio non solo per chi li sottoscrive, ma anche per le banche che li vendono; questi prodotti finanziari ad altissimo rischio avevano bisogno di essere assicurati, «coperti», da altri prodotti finanziari, meno rischiosi, come gli hedge funds (letteralmente, fondi di copertura, ossia fondi comuni di investimento che operano con capitali presi a prestito), gli unici che avevano interesse a «finanziare» rischi più alti. L’operazione prevede che il rischio non sia circoscritto a nicchie del mercato finanziario, ma sia diffuso su tutti i mercati; così, mentre si allarga la raccolta dei prestiti da girare ai mutuatari insolventi, il rischio viene distribuito su molti mercati e questo fa apparire l’operazione meno rischiosa per unità di prodotto finanziario venduto; in realtà, scoppiata la bolla,  riemergono tutti gli effetti negativi del rischio: le banche non rientrano dalle forti esposizioni finanziarie con i fondi comuni di investimento che hanno coperto i sub-prime, i mutuatari perdono la casa, le banche centrali (come è stato il caso in questa crisi) sono obbligate ad intervenire foraggiando in liquidità le banche a rischio di fallimento.

La crisi dei «sub-prime» si è trasmessa agli «hedge funds», e da questi alle banche che hanno «investito», dunque prestato, capitale in questi fondi comuni. La crisi perciò si è allargata a tal punto che alcuni gruppi finanziari presenti in questi  mercati sono falliti, azzerando il loro valore in borsa e trascinando nella caduta istituti di credito collegati in vari paesi: la crisi è rimbalzata dall’America all’Inghilterra, alla Germania, all’Australia, alla Francia, alla Svizzera, alla Spagna. Tutto ciò avviene perché nella fase imperialistica dello sviluppo capitalistico, quindi nella fase in cui primeggia su tutto il capitale finanziario - che tiene per il collo il capitale industriale e il capitale commerciale - sono proprio i capitalisti, i non proprietari dei capitali che maneggiano, che  investono, che disinvestono, che rischiano capitali presi a prestito, capitali non propri. Questo, in genere, non succede ai capitalisti ad esempio dell’industria, proprietari del loro capitale privato, molto più guardinghi e diffidenti nei loro movimenti bancari e finanziari. Ma lo sviluppo del capitalismo va sempre più verso il potere preponderante del capitale finanziario sul capitale industriale, verso il potere degli imprenditori piuttosto che dei capitani d’industria o dei padroni delle ferriere. Come Marx ha spiegato più volte, il vero capitalista è l’imprenditore, ossia colui che non possiede privatamente capitali, ma prendendoli in prestito avvia un’attività economica o finanziaria della quale si appropria il prodotto finale; se l’attività economica o finanziaria avviata ha successo, l’imprenditore accumula capitali di interesse restituendo i capitali iniziali presi a prestito e reinvestendo i capitali di interesse; se quall’attività non ha successo, l’imprenditore fallisce e i capitali presi a prestito vanno in fumo mettendo in seria crisi gli istituti di credito che hanno prestato quei capitali.

L’economia capitalistica, che gli «economisti» lo vogliano o no, va in questo modo, ed è tanto più logico che vada così da quando esiste il sistema delle società per azioni, vero e proprio sistema di concentrazione e centralizzazione di capitali altrui, volano del sistema del credito. Persa la proprietà dei capitali privati e acquisita la proprietà di azioni,  gli imprenditori risultano essere espropriatori di capitali privati ma appropriatori di capitali sociali: i pochi si appropriano della proprietà sociale, «e a questi pochi il credito conferisce sempre più il carattere di puri e semplici cavalieri di ventura. Poiché qui la proprietà esiste nella forma delle azioni, il suo movimento e il suo trasferimento diventano puro e semplice risultato del gioco di borsa, dove i pesci piccoli vengono divorati dagli squali e le pecore dai lupi» (2). Cavalieri di ventura che giocano in borsa con capitali altrui.

Il credito, dunque, diventa nello stesso tempo la leva principale dello sviluppo delle forze produttive e del mercato mondiale, e la leva principale della sovrapproduzione e della sovraspeculazione. Tale doppio movimento di sviluppo costituisce però la più forte contraddizione del capitalismo, perché se il sistema creditizio affretta fino ad un certo livello, come dicevamo, «lo sviluppo materiale delle forze produttive e la formazione del mercato mondiale, che il modo di produzione capitalistico ha il compito storico di creare», affretta contemporaneamente, «le violente eruzioni di questo antagonismo, le crisi». E Marx non perde occasione per tirare le conseguenze dialettiche dallo sviluppo storico del modo di produzione capitalistico: sviluppo delle forze produttive e formazione del mercato mondiale, «come fondamento materiale della nuova forma di produzione», del modo di produzione superiore, il comunismo; crisi, provocate dall’antagonismo fra sviluppo delle forze produttive e mercato mondiale,  «elementi dissolventi del vecchio modo di produzione» (3). Il nuovo modo di produzione, quello comunista, corrisponde perciò allo sbocco storico del movimento reale, e fortemente contraddittorio, dell’economia capitalistica e delle sue inevitabili crisi.

Leggendo i diversi commenti alla crisi borsistica d’agosto da parte dei vari media borghesi, si evidenzia una, seppur indiretta, conferma del marxismo e della sua critica all’economia capitalistica. Alcuni commentatori hanno ovviamente paragonato la crisi di oggi con quelle del recente passato, come quella dell’estate-autunno 1998 o quella dell’ottobre 1987; mentre altri vi vedevano elementi di crisi paragonabili alla crisi del 1929, diventata ormai un classico delle crisi capitalistiche anche per i commentatori borghesi. C’è chi invece si è spinto molto più indietro nel tempo, riconoscendo elementi della crisi attuale simili, fra le diverse «violente manifestazioni di patologia finanziaria», alla crisi del 1907. Crisi di un secolo fa. 

Perché il paragone con la crisi del 1907?

Vale la pena di leggere quanto segue:

«Innanzitutto, perché quel che accadde nel 1907 arrivò a conclusione di un ciclo di sviluppo mondiale altrettanto vorticoso di quello che l’economia mondiale sperimenta da più di un quindicennio (escludendo la recessione breve e traumatica del 2001-2002). Anche un secolo fa, l’epicentro della crisi fu il sistema finanziario americano e l’economia reale degli Stati Uniti fu coinvolta quanto sembra esserlo già ora (col settore immobiliare) e minaccia di diventarlo ancor più nei prossimi mesi.

«Anche un secolo fa la crescita dell’economia mondiale mise in risalto lo sviluppo di alcuni grandi paesi. Negli ultimi quindici  anni, abbiamo visto i famosi paesi BRIC (4) e in particolare la Cina, assurgere al livello di potenze mondiali; nel quindicennio che precedette il 1907 si trattò di Stati Uniti e Germania, che vennero a sfidare l’egemone di quel tempo, l’Inghilterra e la sua tradizionale rivale, la Francia. Ma cominciarono, in quel periodo, a brillare anche le stelle di paesi come il Giappone e l’Italia, mentre veniva alla ribalta la Russia, anche allora grazie  ad una industrializzazione basata sullo sfruttamento delle materie prime e sull’agricoltura da esportazione...» (5).

E’ passato un secolo da allora, e non c’è dubbio che, dal punto di vista finanziario, lo sviluppo ha certamente cambiato la fisionomia della finanza del 1907. Ciò che accomunerebbe le due epoche, sostiene il commentatore citato, è «il disordinato, vorticoso, enorme sviluppo del mercato finanziario internazionale privato».

Spiega il nostro commentatore: «Anche la crisi del 1907 giunse alla fine di un gigantesco esperimento di innovazione finanziaria, che vide il formarsi, nei principali paesi, di enormi banche private che mettevano in ombra il potere delle banche di emissione e rispondevano solo a se stesse. Allora, come oggi, le grandi istituzioni finanziarie divennero capaci di spostare capitali da una parte all’altra del mondo in tempi più brevi, grazie all’introduzione di nuove tecnologie». L’innovazione tecnologica di allora fu il telefono, con la sistemazione di cavi sottomarini per collegare i continenti; oggi è - sempre per via telefonica - l’informatica, la connessione telematica. Dunque la velocità di circolazione dei capitali, e delle informazioni su di essi e sui mercati di riferimento, è sempre stato al centro dello sviluppo del capitalismo, soprattutto nell’epoca del capitale monopolistico e finanziario che per teatro ha sempre più il mondo.

Ma alla tendenza alla globalizzazione dei mercati che si accentua, si erge, in contrasto, l’accentuazione del protezionismo, del nazionalismo. Ogni  Stato, mentre da una parte  facilita l’internazionalizzazione dei  rapporti commerciali e finanziari del proprio capitalismo nazionale, dei propri trusts, dei propri gruppi  bancari, tendendo quindi ad una integrazione della propria economia nell’economia mondiale (e quindi degli altri paesi), dall’altra parte tende a sfruttare questa stessa internazionalizzazione a fini nazionali, continuando ad agire in questo modo da capitalista collettivo, da appropriatore privato della ricchezza sociale, in concorrenza con tutti gli altri Stati-capitalisti collettivi. Mentre, sul mercato mondiale, si formano le alleanze tra Stati e tra trusts, emergono dallo stesso movimento economico e finanziario, che sostanzia il mercato mondiale, gli elementi di contrasto, di concorrenza e di crisi. Il nazionalismo col suo sottoprodotto di protezionismo non scompare con l’internazionalizzazione delle economie; è invece destinato ad accentuarsi. E tutte le crisi passate del capitalismo - non solo quella del 1907 - dimostrano questa contrastante realtà del capitalismo che spinge i diversi capitalismi nazionali ad affrontare le crisi su due direzioni di fondo: scaricare gli effetti più negativi e devastanti delle crisi sui concorrenti, e comunque su altri paesi anche della periferia dell’imperialismo, e nello stesso tempo avviare il proprio riarmo, che è un settore decisivo dell’economia reale di ogni paese, soprattutto quando l’economia reale subisce gravi conseguenze a causa delle crisi dell’economia finanziaria e speculativa.

Con lo sviluppo del capitalismo, con la sua globalizzazione, si sviluppa parallelamente anche il militarismo e la sua base economica, il riarmo. E’ noto che è stato sempre  il riarmo alla base della ripresa delle maggiori economie dopo le crisi. Riarmo significa preparazione della società alla guerra. E in un mondo ormai globalizzato, in cui tutte le economie, anche le più deboli, di tutti i paesi del mondo, sono fra di loro intrecciate e dipendenti dal movimento dei paesi imperialisti più forti, e in cui i contrasti determinati dalla concorrenza - sempre più accentuata in un mercato che è sì mondiale ma che per le la sovrapproduzione di merci e di capitali risulta sempre più stretto - la guerra diventa lo sbocco obbligatorio, necessario in cui le crisi capitalistiche conducono le economie di ogni paese.

La guerra, che è la politica condotta con i mezzi più violenti a disposizione, segue inevitabilmente la tendenza della politica imperialista: più è mondiale la politica, più la guerra assume i caratteri dello scontro mondiale fra imperialismi concorrenti.  

 Lenin, nel 1916, scriveva il suo famoso opuscolo L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, con il quale si completava non solo la critica dello sviluppo storico del capitalismo e se ne definiva, una volta per tutte, la fase di sviluppo ultima - appunto quella della predominanza assoluta del capitale finanziario su tutta l’economia e sulla società, l’imperialismo -, ma si combattevano anche le diverse interpretazioni opportuniste che andavano a giustificare la guerra mondiale attraverso la quale il capitalismo tentava di superare la sua prima più grande crisi mondiale (la teoria kautskiana del superimperialismo, in testa).

Ormai lo riconoscono anche i borghesi:  nell’imperialismo la tendenza naturale dei capitalisti è di spartirsi il mondo. Da quando il capitalismo ha creato e sviluppato il mercato mondiale, quindi una rete non solo produttiva e commerciale super-nazionale, ma anche e soprattutto una rete finanziaria internazionale,  è il mercato mondiale a dettare legge, a determinare l’andamento positivo o negativo delle economie nazionali. E’ per questa ragione che i capitalisti, e in loro rappresentanza, gli Stati borghesi, sono spinti costantemente a spartirsi il mondo e ciò è determinato «non per la loro speciale malvagità, bensì perché il grado raggiunto dalla concentrazione [di capitale, ndr] li costringe a battere questa via, se vogliono ottenere dei profitti» (6), profitti che non si possono più ottenere nei limiti del proprio mercato interno.

La similitudine della crisi d’agosto di quest’anno con quella del 1907, dovrebbe portare anche i borghesi ad una conclusione logica: l’analisi e la critica marxista del capitalismo e dell’imperialismo come sua fase suprema sono attualissime. Ciò che essi non possono condividere sono le conseguenze politiche, oltre che economiche, che il marxismo ne tira.

Il limite dello sviluppo del capitalismo è nel capitalismo stesso, nelle sue stesse leggi economiche; la sua inesorabile spinta verso la riproduzione allargata di capitale, e alla continua e incessante valorizzazione del capitale, lo conduce ciclicamente ad inevitali crisi; crisi sempre più gravi e profonde quanto più si globalizza non solo l’economia reale, ma la rete di rapporti finanziari nel mondo. Il riarmo, dunque la preparazione agli scontri di guerra fra Stati, è congenito allo sviluppo del capitalismo, e risulta determinante non soltanto dal punto di vista della ripresa economica della società dopo le crisi, ma soprattutto dal punto di vista della spartizione del mondo in territori economici dominati e in zone di influenza più durature.

«La prospettiva generale è segnata -scrivevamo nel 1987 a commento di quella crisi borsistica (7) - perché per quanti artifici riescano ad adottare i vari paesi imperialisti, nessuno può sfuggire al fatto che sebbene agenti internazionalmente si tratta sempre di capitalismi organizzati nazionalmente e perciò esprimenti contrastiu di interessi che non possono non diventare sempre più acuti e insanabili».

I borghesi, ovviamente, sono convinti che le loro crisi siano comunque superabili, attraverso una serie, più o meno intelligente, di misure di controllo e di bilanciamento dello scontro di concorrenza che ogni capitalista vive sul mercato. Ma per quanti sforzi possano fare gli istituti finanziari internazionali o i guru della finanza mondiale, non riusciranno mai a risolvere le cause delle crisi finanziarie per la stessa ragione per cui la produzione capitalistica più si sviluppa e più va incontro a crisi di sovrapproduzione: il capitalismo stesso è il limite al proprio sviluppo.

L’illusione che i borghesi hanno in campo economico ce l’hanno anche in campo politico e sociale, in particolare quando parlano di «sviluppo sostenibile», di «pace tra i popoli». In regime capitalista, afferma Lenin nell’Imperialismo (8), non è una forma diversa di proprietà dei capitali, o una forma diversa della lotta di concorrenza che potrà cambiare la sostanza del modo di produzione capitalistico, il contenuto di classe della lotta per la spartizione del mondo. E tale lotta per la spartizione del mondo contiene l’antagonismo di classe che caratterizza la società capitalistica, ossia l'antagonismo tra classe borghese (detentrice del capitale) e classe proletaria (detentrice della forza lavoro, il cui sfruttamento attraverso il lavoro salariato permette l’accumulazione di gigantesche quantità di profitto capitalista.

La lotta borghese per la spartizione del mondo interessa anche la classe del proletariato perché quella lotta di concorrenza fra capitalisti, fra imperialismi, fra Stati borghesi, si può svolgere solo sul più bestiale sfruttamento delle masse lavoratrici di tutti i paesi del mondo; e perché quella lotta di concorrenza non si svolge soltanto nella forma pacifica, ma sempre più nella forma violenta dell’occupazione militare e della guerra. Il proletariato è inevitabilmente coinvolto in questa lotta di concorrenza borghese, sia a livello di sfruttamento pacifico della sua forza lavoro, sia a livello di carne da macello nelle guerre borghesi: in entrambi i casi, i proletari vi figurano come masse schiavizzate alle esigenze del capitale, in pace come in guerra. In nessuna guerra imperialista il proletariato trova il benchè minimo interesse coincidente con la propria borghesia: patria, economia nazionale, civiltà sono categorie ideologiche e materiali di esclusivo interesse borghese e tutte sono indirizzate contro gli interessi della classe proletaria, tanto nei paesi altamente industrializzati quanto nei paesi particolarmente arretrati.

Le borghesie di ogni paese, fronteggiano le proprie crisi economiche utilizzando non solo misure di carattere economico e finanziario, ma soprattutto misure di carattere sociale e politico. Il crescente militarismo che caratterizza i paesi imperialisti si prolunga nella società attraverso un crescente dispotismo sociale, una crescente blindatura della tanto osannata democrazia borghese, una crescente limitazione dei famosi diritti di cui ogni democrazia si vanta . L’aumento del rischio, e quindi della insicurezza degli investimenti di capitale, si prolunga nella società in un aumento dell’insicurezza dei posti di lavoro, della precarietà generale del lavoro e quindi del salario per vivere, nell’età considerata adatta allo sfruttamento salariale come nell’età dell’esclusione dal lavoro salariato. Tutta la vita sociale in regime capitalista assume sempre più le caratteristiche di una pesante sopravvivenza, di rischio continuo, di malattie o tragedie che vengono «dall’esterno», di situazioni lavorative, di svago o di riposo sottoposte costantemente ad improvvisi peggioramenti, dall’infortunio sul lavoro all’incidente stradale, dalla pazzia omicida di vicini di casa alle sparatorie nelle rapine, dalla perdita istantanea del lavoro alla volatilizzazione improvvisa dei risparmi di una vita. E tutto questo fa da sfondo ad una propaganda insistente che le classi dominanti borghesi fanno in termini di terrorismo sociale, contro lo straniero, l’immigrato, il clandestino, lo zingaro, il disperato, il drogato, la «feccia umana» come Sarkozy ha definito i giovani delle banlieux parigine o i leghisti nostrani definiscono gli zingari.

I proletari, per non tornare a farsi irreggimentare domani nelle colonne di soldati portati al macello, in difesa delle ragioni della guerra di rapina della propria borghesia, devono già oggi riprendere coraggio e fiducia nelle proprie forze, nella forza della comunione di interessi che i proletari di ogni categoria, di ogni settore produttivo, di ogni nazionalità esprimono quando superano le barriere che la borghesia alza attraverso la concorrenza fra di loro. L’antagonismo di classe, che le classi borghesi sentono profondamente e in base al quale agiscono sistematicamente contro gli interessi delle classi proletarie di tutto il mondo, deve tornare ad essere riconosciuto come una realtà di questa società, come una contraddizione insanabile da parte di questa società. Va riconosciuto che i rapporti di produzione e i rapporti sociali che ne derivano si basano su quell’antagonismo di classe che oppone le classi borghesi alla classe del proletariato, e che tali rapporti antagonisti non si risolveranno mai all’interno della società capitalistica che, anzi, li acutizza sempre più.

Le crisi incontro alle quali va ciclicamente la società capitalistica, possono essere l’occasione per il proletariato per riprendere la sua lotta di classe in difesa delle sue condizioni di vita e di lavoro, rompendo i legacci che lo tengono avvinto al carro borghese, rompendo con le pratiche del collaborazionismo sindacale e politico che lo incatenano sempre più strettamente alle sorti della borghesia e della sua economia, subendone oltretutto gli effetti più negativi e devastanti.

Attraverso le crisi capitalistiche le classi borghesi fanno esperienza, tirano lezioni utili al mantenimento e alla difesa del loro dominio sulla società, verificano l’efficacia delle loro tradizionali pratiche di consenso sociale e di controllo del proletariato e approntano diversi metodi di governo. L’hanno fatto in precedenza, all’epoca della Comune di Parigi, utilizzando il pugno di ferro e il massacro dei comunardi ma aprendo successivamente al coinvolgimento della socialdemocrazia al «dialogo sociale» e alla collaborazione con lo Stato borghese; e in seguito alla crisi sorta con la prima guerra mondiale, quando la collaborazione dei partiti socialisti e socialdemocratici con le classi borghesi democratiche non impedirono la vittoria del proletariato rivoluzionario in Russia e lo sviluppo del movimento rivoluzionario in Europa particolarmente minaccioso per i poteri borghesi, e quando la risposta borghese alla minaccia proletaria e comunista fu il fascismo, ossia l’aperta dittatura borghese e la fine della democrazia liberale.

Anche il proletariato fa esperienza, e tira le lezioni dalla storia delle lotte fra le classi, e soprattutto dalle sconfitte. Ma lo fa e lo può fare solo attraverso il partito di classe, il partito comunista rivoluzionario che ha il compito di portare all’interno della classe proletaria i risultati dei bilanci dinamici dei grandi svolti storici. E per la costituzione di questo partito noi dedichiamo tutte le nostre forze.

 


 

(1) Cfr. K. Marx, Il Capitale, Libro III, Edizioni UTET, Torino 1987, sezione quinta, cap. XXX, Capitale  denaro e  capitale reale I, pag. 610.

(2) Ibidem, sezione quinta, cap. XXVII, Il ruolo del credito della produzione capitalistica, pag. 557.

(3) Ibidem, sezione quinta, cap. XXVII, cit., pag. 558.

(4) BRIC è il termine con cui, dal 2003, si fa riferimento a 4 paesi - Brasile, Russia, India e Cina - le cui economie sono in forte sviluppo e che, secondo la banca d’affari Goldman Sachs, che ha coniato la sigla Bric, entro il 2050 offuscheranno la maggior parte dei paesi attualmente più ricchi del mondo.

(5) Cfr. l’articolo La prima crisi della seconda globalizzazione, in «Affari & Finanza», 17.9.2007.

(6) Cfr, Lenin, Imperialismo, fase suprema del capitalismo, Opere, vol. 22, Editori Riuniti, Roma 1966, pag. 253.

(7) Vedi l’articolo: Il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso -Il crack delle borse anticipa il crack dell’economia mondiale, in «il comunista» n. 9-10, dicembre 1987.

(8) Cfr. Lenin, Imperialismo, fase suprema del capitalismo, cit. pag. 253.    

  

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