La  prospettiva  del  comunismo  trova  nell’ottobre  bolscevico una  formidabile  conferma:  lezione  storica  e  internazionale della  rivoluzione  proletaria,  e  della  controrivoluzione borghese

(«il comunista»; N° 105-106; Luglio / Ottobre 2007)

  

La rivoluzione d’Ottobre, 90 anni fa, irruppe sulla scena con la formidabile forza dei movimenti storici di classe, rimettendo all’ordine del giorno l’unica alternativa storica allo sviluppo inesorabile del capitalismo nella guerra mondiale: la rivoluzione comunista mondiale!

Le borghesie di tutto il mondo, impegnate a far macellare milioni di proletari nella prima guerra planetaria per la spartizione del mondo, furono scosse fin nelle fondamenta del loro potere dal movimento proletario rivoluzionario internazionale che, nel proletariato russo, esprimeva la sua punta di diamante. La rivoluzione d’Ottobre, guidata dal partito bolscevico di Lenin, scoppiò nel 1917, durante la guerra mondiale, e aveva per parola d’ordine: o dittatura dell’imperialismo o dittatura proletaria! I comunisti rivoluzionari, da allora, ebbero un’ulteriore conferma della giustezza della prospettiva marxista; la rivoluzione in Russia, infatti, non aveva soltanto i caratteri della rivoluzione antifeudale, e già il fatto di essere guidata dal proletariato rivoluzionario e dal suo partito la distingueva nettamente da qualsiasi altra rivoluzione borghese già avvenuta, a cominciare dalla grande rivoluzione francese; conteneva anche i caratteri essenziali della rivoluzione proletaria e comunista, che davano al movimento comunista internazionale l’ossigeno teorico e l’esperienza storica pratica necessari per indirizzare tutti proletari del mondo verso l’unico sbocco che la storia delle lotte fra le classi ha determinato, appunto lo sbocco rivoluzionario anticapitalista. La fondazione dell’Internazionale Comunista rendeva questa prospettiva un fatto vivo e operante. Ma il movimento comunista internazionale,e in particolare quello europeo occidentale, non si dimostrò all’altezza del compito storico; il peso dell’opportunismo socialdemocratico, ereditato dal movimento socialista precedente caduto nel tradimento della collaborazione con la borghesia di fronte alla guerra, si rivelò particolarmente grave e non bastò il calor bianco della rivoluzione russa a debellarlo. Ci vollero quasi dieci anni, dal 1917 al 1926, perché la borghesia internazionale - pur continuando a farsi la guerra e una spietata concorrenza sul mercato mondiale - riuscisse ad avere ragione del movimento comunista; non ci riuscì attraverso i molteplici attacchi militari contro il potere bolscevico in una tremenda guerra civile su ogni confine della Russia rivoluzionaria, nella quale fu battuta; ci riuscì attraverso l’opera insidiosa e maligna dell’opportunismo che, alla pari di un cancro, aggredì, debilitò e, infine, uccise, attraverso un processo degenerativo mortale, l’Internazionale comunista, il partito comunista mondiale della rivoluzione proletaria. Lo stalinismo, che condensò tutte le diverse tendenze e forze dell’opportunismo storico, rappresentò ideologicamente e praticamente la controrivoluzione borghese; e come ogni ondata opportunista che si rispetti, utilizzò a piene mani la grande influenza della rivoluzione russa sul proletariato internazionale per distruggere il movimento comunista internazionale e il suo primo bastione vittorioso, la Russia proletaria e rivoluzionaria.

La Sinistra comunista, e in particolare quella che in Italia fondò il partito comunista a Livorno nel 1921, si dimostrò l’unica corrente politica comunista in grado di non cedere allo stalinismo, di mantenere viva e vitale la rotta rivoluzionaria del marxismo, e di fornire le basi teoriche, programmatiche, politiche, tattiche e organizzative sulle quali poter ricostituire il movimento comunista internazionale. La vastità e la profondità della controrivoluzione staliniana non solo decimò cannibalisticamente i militanti rivoluzionari in Russia e in ogni parte del mondo, ma contribuì in modo determinante alla corruzione del proletariato in senso democratico, legalitario, pacifista portandolo completamnete disarmato dal punto di vista della lotta classista al secondo macello imperialistico e alla successiva ricostruzione postbellica. Il nazionalcomunismo è, in effetti, la teorizzazione della politica staliniana, imposta con la forza della repressione statale e del terrorismo ideologico; grazie a questa opera di salvataggio della conservazione sociale, la birghesia in ogni paese del mondo potè, e può ancora, cantare vittoria. Ma lo sviluppo delle contraddizioni e delle crisi del capitalismo non macherà di spingere nuovamente il proletariato sul terreno della lotta di classe, l’unico terreno fertile per la sua trascrescenza in movimento rivoluzionario, anche se ancora oggi questo appare lontano. Il compito dei comunisti rivoluzionari oggi è quello di dedicarsi alla ricostituzione del partito di classe, organo indispensabile non solo per la guida del proletariato nellarivoluzione e nella dittatura di classe, ma anche per la sua preparazione che, la storia lo insegna, non si attua se non in tempi lunghi. Riprendendo la questione della rivoluzione russa e dei suoi caratteri comunisti e universali, ripubblichiamo qui di seguito un lavoro del 1998, già apparso in quell’anno nel nostro giornale, come utile riflessione sulla sempre attuale validità delle lezioni storiche tratte dall’Ottobre boslcevico. 

 

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«La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi» - così il «Manifesto» del 1848 di Marx-Engels - «Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, oppressori e oppressi, furono continuamente in reciproco contrasto, e condussero una lotta ininterrotta, ora latente ora aperta; la lotta che ogni volta è finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta» (1). E continua: «La società borghese moderna, sorta dal tramonto della società feudale, non ha eliminato gli antagonismi fra le classi. Essa ha soltanto sostituito alle antiche, nuove classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta».

L’antagonismo di classe che oppone il proletariato moderno, i lavoratori salariati, alla classe dominante borghese, in un certo senso sviluppa all’ennesima potenza l’antagonismo di classe che caratterizzò le società preborghesi, condensando storicamente in un’unica grande lotta internazionale gli antagonismi nazionali, corporativi, di caste che caratterizzarono le società precedenti. Come la borghesia moderna distrugge attraverso il dominio mercantile tutte le barriere entro le quali sono nate e sviluppate le classi preborghesi e borghesi stesse, proletarizzando il  mondo intero, così il proletariato moderno rappresenta in questa società il punto più alto delle contraddizioni sociali non solo della società borghese ma anche di tutte le società precedenti. E’ questo risultato storico, davvero rivoluzionario, che fa della società borghese moderna l’ultima delle società di classe, e del proletariato moderno la sola classe storica che rivoluzionerà da cima a fondo l’intera società umana, eliminando nel processo rivoluzionario ogni residuo delle società preborghesi e superando definitivamente la preistoria umana, la società divisa in classi.

A differenza di tutte le classi antecedenti, la classe borghese «non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali», come non può esistere senza sfruttare con sempre maggiore ampiezza e intensità il mercato mondiale. Il bisogno di smerciare le merci prodotte, quindi di accumulare e riprodurre con sempre maggiore velocità i capitali investiti, accresce di continuo la concorrenza fra capitalisti, fra nazioni capitaliste, fra trust capitalisti che, con lo sviluppo generale del capitalismo, vanno incontro inevitabilmente ad un mercato intasato, nel quale la grande potenza produttrice del modo di produzione capitalistico (grazie al rivoluzionamento continuo degli strumenti di produzione) riversa quantità sempre maggiori di merci e di capitali che ad un certo punto non trovano più «sbocco». E così, insieme alla contraddizione fondamentale tra lavoro salariato e capitale - tra produttori della ricchezza sociale e proprietari della ricchezza sociale -, si acuiscono le contraddizioni legate alla produzione per il mercato che non trova mercato, alle crisi cicliche del commercio e dell’economia in generale. «Con quale mezzo la borghesia supera le crisi? - ancora dal Manifesto del 1848 - Da un lato, con la distruzione coatta di una massa di forze produttive; dall’altra, con la conquista di nuovi mercati e con lo sfruttamento più intenso dei vecchi. Dunque, con quali mezzi? Mediante la preparazione di crisi più generali e più violente e la diminuzione dei mezzi per prevenire le crisi stesse».

Ed è nell’ esplosione delle contraddizioni economiche e sociali corrispondenti ai periodi di crisi acute del capitalismo che si sviluppano in forme più acute e violente gli antagonismi sociali di classe che vedono le classi proletarie resistere e reagire all’ oppressione borghese sempre più pesante. I mezzi con i quali la borghesia tenta di superare le crisi della sua società - distruggendo masse di forze produttive, compresi uomini, in quantità sempre maggiori -, in definitiva, non risolvono le crisi ma ne preparano i fattori di acutezza maggiore. E con essi preparano i fattori oggettivi della rivoluzione proletaria.

 Ma la rivoluzione proletaria, per attuarsi, non può poggiare soltanto sui fattori oggettivi che lo stesso sviluppo del capitalismo accumula storicamente; non può, d’altra parte, poggiare soltanto sul movimento operaio spontaneo e immediato provocato dallo scontro di interessi che i rapporti di produzione e sociali esistenti producono. Essa deve poggiare anche su fattori soggettivi, che altro non sono che gli strumenti di cui la storia della lotta fra le classi ha dotato il proletariato: l’associazione a carattere economico del proletariato a difesa dei suoi interessi immediati (in breve, i sindacati di classe), e il partito comunista («l’organizzazione del proletariato in classe, quindi in partito», come ricorda il Manifesto del 1848). L’associazione a carattere economico per affrontare i problemi della vita proletaria quotidiana in questa società, per ottenere soddisfazione a rivendicazioni ancora compatibili con i rapporti di produzione e sociali borghesi, e per allenarsi alla lotta contro i capitalisti (la «resistenza quotidiana al capitale», di Engels). Il partito di classe per trasformare la lotta immediata in lotta di classe generale, in lotta politica per la conquista del potere politico e per l’abbattimento dello Stato borghese, per l’esercizio della necessaria dittatura di classe a difesa della vittoria rivoluzionaria e per l’estensione del movimento rivoluzionario in tutto il mondo.

La rivoluzione proletaria concentra in una fase storica di altissima tensione sociale, e a livello internazionale, potenti energie sociali che la situazione storica di sviluppo degli antagonismi di classe spinge a polarizzarsi, presentando, all’interno di uno scenario in cui tutte le componenti sociali della società borghese tendono a disgregarsi disorientandosi, due potenti poli di classe - quello proletario e quello borghese - verso cui vengono attirate, separandole, tutte le forze sociali esistenti. E questi poli di classe si esprimono storicamente in forze organizzate, in partiti ed eserciti, che si combattono fino alla vittoria decisiva di uno sull’altro.

Ogni lotta di classi è lotta politica, afferma il Manifesto del 1848; ed ogni lotta politica ha per obiettivo principale la conquista del potere politico. Dunque la lotta proletaria non può avere che l’obiettivo di conquistare il potere politico, potere che è in mano alla classe borghese dominante, grazie al quale essa mantiene il dominio completo sull’ intera società e si assicura la proprietà non solo e non tanto dei mezzi di produzione quanto della produzione stessa. Un potere che la classe dominante non cede spontaneamente, ma che gli va strappato con la forza della violenza rivoluzionaria perché con la forza della repressione reazionaria essa lo ha difeso, lo difende e lo difenderà.

Il capitalismo è un modo di produzione che per obiettivo ha la riproduzione del capitale, attraverso il mercato, attraverso la produzione di merci che circolano nel mercato; e non vi é alcuna possibilità, per il capitale - dunque per la classe borghese che lo rappresenta -, al fine di assicurarsi in permanenza la proprietà della produzione e lo sviluppo dei profitti, di agire in modo diverso dallo sfruttamento sempre più intenso del lavoro salariato. Non esistono tipi diversi di capitalismo: uno dal «volto umano» che produce senza sfruttamento di lavoro salariato, e uno «brutale» che produce solo sfruttando a più non posso il lavoro salariato. Esiste soltanto un tipo di capitalismo, quello descritto nel suo intero arco storico, dalla nascita allo sviluppo alla sua degenerazione, da Marx ed Engels, quello che vive esclusivamente dello sfruttamento sempre più inteso del lavoro salariato e dell’oppressione economica, politica  e militare di masse sempre più vaste nel mondo, quello che rivoluziona continuamente gli strumenti di produzione, che va ciclicamente in crisi di sovrapproduzione e che «risolve» le sue crisi con «la distruzione coatta di una massa di forze produttive» (dunque con la guerra) sempre più mastodontica.

E’ un modo di produzione che ha bisogno di un mercato non solo nazionale ma anche mondiale, di una massa sempre più vasta di proletari - quindi di senza riserve da sfruttare sempre più intensamente - a livello nazionale e mondiale, e di organizzazioni specifiche di difesa degli interessi capitalistici a livello nazionale come alla scala internazionale. E’ indubbio che l’organizzazione che risponde più efficacemente e più durevolmente alla difesa degli interessi capitalistici in generale è lo Stato nazionale. La classe borghese, come ha bisogno di un mercato nazionale ha anche bisogno di uno Stato nazionale, dove per «nazionale» si intende un territorio economico in cui la classe borghese domini incontrastata sulle proprie classi sottomesse e nei confronti della concorrenza di altri Stati nazionali. E lo sviluppo del capitalismo a livello mondiale forma il mercato mondiale, il quale non è semplicemente la somma di tutti i mercati nazionali esistenti, ma è l’ambito più ampio possibile in cui ogni azienda capitalistica, ogni raggruppamento di aziende, ogni trust, ogni Stato nazionale, viene attirato in forza delle proprie eccedenze produttive o dei propri bisogni di sopravvivenza capitalistica. Il mercato mondiale supera i limiti dei diversi mercati nazionali, in parte li cancella e tutti li sottomette alle potenze capitalistiche più grandi che attraverso il mercato mondiale dominano il mondo. Già in questo sviluppo contraddittorio del capitalismo si intravede la tendenza al superamento non solo dei confini «nazionali», ma della stessa divisione internazionale del lavoro, superamento che il capitalismo non potrà mai assicurare alla società umana dato il suo vincolo nei rapporti di proprietà e di appropriazione privata. Le poche potenze capitalistiche più grandi diventano sempre più forti mentre la stragrande maggioranza degli altri paesi, inevitabilmente immessi nei gironi infernali della produzione capitalistica e del mercato mondiale, sono destinati a rimanere sempre più lontani dai paesi cosiddetti «civili»; la situazione generale dello sviluppo dei paesi del mondo presenta una forbice che si allarga sempre di più: da un lato i pochi paesi superindustrializzati e dall’altro il resto del mondo industrializzato o semi-industrializzato che sia. E di fronte ad un periodo di crisi capitalistica dei paesi più forti - dunque, di una crisi generale, mondiale - tutto il mondo viene coinvolto; nessun paese, nessun popolo, nessuna borghesia, nessun proletariato, nessuno di loro ha scampo: sono costretti a seguire le vicissitudini dei paesi capitalisticamente più forti e più influenti nelle diverse aree del mondo. Gli Stati, in periodo di cosiddetta «pace» manovrano per costruire alleanze economiche, politiche e militari, che utilizzeranno in periodo di guerra, sia per la guerra guerreggiata - dunque per la partecipazione diretta alla distruzione coatta di masse di forze produttive - sia per il sostegno cosiddetto «neutrale» di una delle due parti avverse - dunque per la partecipazione indiretta alla distruzione coatta di masse di forze produttive crescenti. Ogni Stato borghese, nella sua funzione principale di difensore degli interessi capitalistici nazionali, anche contro altri Stati borghesi, non può esimersi dall’essere inevitabilmente coinvolto dai periodi di crisi generali e di guerra, qualunque passo «neutrale» venga tentato. Ogni Stato borghese soprattutto di fronte alla crisi di guerra mondiale non può non «prendere posizione», stare da un lato o dall’altro della guerra borghese; come d’altra parte non può sfuggire al mercato mondiale, delle cui contraddizioni la guerra è la massima rappresentazione. 

Ma lo Stato non serve alla classe dominante soltanto per difendere i suoi specifici interessi «nazionali» nel mercato mondiale e quindi nei confronti di tutti gli altri Stati concorrenti; serve innanzitutto a difendere gli interessi borghesi all’interno del proprio territorio economico, all’interno dei confini della propria nazione, della propria patria, e per amministrare questa difesa nei confronti prima di tutto del proprio proletariato che deve  costantemente piegare alle esigenze - in continuo cambiamento - del capitalismo nazionale.

Da questo punto di vista è facile capire che ogni lotta fra le classi, fra proletariato e borghesia, è lotta politica; poiché la classe dominante borghese, in questa lotta, mette in campo tutte le sue armi, a partire dallo Stato; armi non soltanto economiche, ma anche e soprattutto politiche.

Una classe sociale, quella borghese, che ha in mano tutto, che possiede tutta la ricchezza esistente, che domina l’intera società, che dirige attraverso lo Stato tutta l’organizzazione sociale, che bisogno ha di continuare a lottare contro una classe che è schiavizzata dai rapporti di produzione e sociali capitalistici? Che bisogno ha di continuare ad ingannare questa classe, sottoposta e oppressa, con i principi e i metodi democratici, con le più retrive superstizioni?, che bisogno ha di rincretinire il proletariato con la sua propaganda, la pubblicità, i quiz, i giochi d’azzardo, con la televisione, il cinema e i mezzi di stampa, con la chiesa e la scuola, l’alcol ed ogni tipo di droga?

La classe dominante borghese ha imparato una lezione storica: gli antagonismi sociali producono ciclicamente violente e vaste reazioni delle classi proletarie, a tal punto da mettere in pericolo la sua stabilità statale e il suo dominio politico, persi i quali verrebbe meno la difesa degli interessi di accumulazione e riproduzione capitalistici da cui dipende non soltanto il dominio borghese ma la stessa esistenza della classe borghese.

Perciò, la classe dominante borghese non smette nemmeno un secondo la sua lotta contro il proletariato; sa che una volta piegato alle esigenze del capitale il proletariato non rimarrà succube in eterno; sa che deve piegarlo continuamente, che deve riaffermare il proprio dominio di classe in ogni situazione, in ogni momento, ad ogni livello, di fronte ad ogni anche minimo accenno di antagonismo manifestato. La classe dominante borghese ha imparato dalla storia delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni che deve mantenere il proletariato, soprattutto il proletariato, nel più ampio disorientamento, nella più profonda ignoranza e nel più acuto isolamento, in modo che i fattori oggettivi che spingono storicamente i proletari a unirsi nella lotta che li accomuna non vengano utilizzati come base materiale per il movimento rivoluzionario e comunista.

La rivoluzione proletaria è inevitabile perché il movimento delle contraddizioni capitalistiche porta verso la polarizzazione delle forze sociali e lo scontro fra di esse. Più ingigantiscono le forze produttive nel processo di sviluppo del capitalismo, e più esse premono contro i rapporti di produzione e sociali che le obbligano a chiudersi, fino all’asfissia, nei limiti del mercato e dei rapporti di proprietà privata. Le masse umane, schiavizzate nel lavoro salariato, nella miseria, nella fame, nella disoccupazione, private delle loro organizzazioni di difesa classista e del loro partito rivoluzionario, possono essere macellate a milioni, come tragicamente dimostrano le guerre imperialiste borghesi, e perdere la forza di opporsi ad esse; anzi, possono perfino essere spinte a rendersi complici del macello di guerra. Ma non potranno dimenticare per sempre che le loro condizioni di vita e di lavoro possono in realtà cambiare, possono diventare da tormento gioia, da miseria e da ignoranza abbondanza e conoscenza, da vita di schiavi vita di liberi in armonia nella società e nella natura; e questo perché la spinta materiale dei bisogni di sopravvivenza porta i proletari ad agire, a reagire, a ribellarsi, a organizzare le proprie azioni di lotta, a organizzare le proprie forze finalizzando il loro movimento ad uno sbocco rivoluzionario, di cambiamento radicale della situazione fino ad allora vissuta.

«Gli antagonismi che si sprigionano dagli stessi rapporti della società borghese devono essere affrontati combattendo - Marx, giugno 1848 -; non possono essere eliminati con la fantasia.» (2). Ed il combattimento contro ogni nemico esistente nella società che la classe proletaria ha espresso storicamente è la leva con la quale gli antagonismi sociali sono stati e verranno ancora affrontati e risolti. Il 1848 proletario di Parigi, Vienna, Milano, Napoli, Berlino, Varsavia si congiunge al 1871 della Comune di Parigi, al 1905 russo e al 1917 bolscevico, e su fino al 1927 cinese passando per il 1919 di Budapest. In questi 80 anni si sono svolte le rivoluzioni proletarie che hanno confermato la validità del marxismo come teoria della rivoluzione comunista e come teoria del superamento del capitalismo quanto a modo di produzione di classe; e si sono svolte le controrivoluzioni feudali e borghesi che hanno a loro volta confermato la validità della teoria marxista e della sua forza di previsione storica. Stanno trascorrendo altri 80 anni in cui la controrivoluzione borghese e imperialista ha affondato in profondità la sua lama nelle carni del proletariato internazionale, seppellendo generazioni di proletari avvelenati dalla democrazia, dal collaborazionismo, dall’ interclassismo, dalla pace sociale, dalla difesa della patria e dall’antifascismo resistenziale. Decenni bui, in cui il disorientamento del proletariato è tragico. Ma decenni nei quali il capitalismo ha dimostrato ampiamente di non essere assolutamente in grado di risolvere le sue contraddizioni materiali, di non essere assolutamente in grado di risolvere gli antagonismi sociali. Le classi non sono scomparse, tutt’altro. Il mondo si è proletarizzato molto più estesamente di quanto non fosse nel 1917. Crescendo lo sviluppo del capitalismo, sono cresciute di numero le masse di proletari in tutti i continenti, e non solo in Oriente ma anche nel continente più arretrato, in Africa. E se è aumentato il controllo sociale da parte del capitalismo e in particolare delle potenze più forti del mondo, sono aumentati dialetticamente i fattori di crisi sociale che la borghesia ha continuato a «risolvere» coi suoi mezzi: distruzione coatta di masse di forze produttive, guerre, miseria crescente, genocidi; e che continuerà a risolvere in questo modo fino a quando la rivoluzione proletaria non spezzerà questa maledetta spirale una volta per tutte.

«La condizione più importante per l’esistenza e per il dominio della classe borghese è l’accumularsi della ricchezza nelle mani di privati, la formazione e la moltiplicazione del capitale; condizione del capitale è il lavoro salariato - ancora dal Manifesto del 1848 -. Il lavoro salariato poggia esclusivamente sulla concorrenza degli operai tra di loro. Il progresso dell’industria, del quale la borghesia è veicolo involontario e passivo, fa subentrare all’isolamento degli operai risultante dalla concorrenza, la loro unione rivoluzionaria, risultante dall’associazione. Con lo sviluppo della grande industria, dunque, vien tolto di sotto ai piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce e si appropria i prodotti. Essa produce anzitutto i suoi seppellitori. Il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono del pari inevitabili». (3).

Abbiamo sentito troppe volte pronunciare la tesi: ma la rivoluzione proletaria è stata sconfitta, dunque non ha avuto la forza di rivoluzionare il mondo, e la borghesia è, sempre più forte, la classe dominante in tutto il mondo. E abbiamo sentito troppe volte pronunciare l’oscena tesi: il comunismo è morto, crollato in URSS e nell’ Est europeo; ed anche quel poco che rimane in Cina e a Cuba, viene ormai a patti con l’economia di mercato e si trasforma in capitalismo! Ma non c’è finora mai stato comunismo realizzato, c’è sempre stato capitalismo e soltanto capitalismo, in URSS, in Est Europa, in Cina, a Cuba, più o meno sviluppato!

Due le questioni. La prima: la rivoluzione proletaria potrà essere ancora sconfitta fino a quando non avrà colpito al cuore la classe borghese dominante più forte; nel 1848 questa era rappresentata dall’ Inghilterra, nel 1917 all’ Inghilterra si erano aggiunte la Germania,  la Francia e gli Stati Uniti, e dopo la seconda guerra mondiale è rappresentata dagli Stati Uniti che hanno scalzato i concorrenti. E’ tesi marxista che la rivoluzione proletaria e la conseguente conquista del potere politico, in date condizioni storiche di forza del movimento proletario e comunista, è possibile anche in un solo paese; ed è altrettanto marxista la tesi secondo la quale quella conquista del potere politico in un solo paese rappresenta un bastione della rivoluzione proletaria internazionale, essendo obiettivo della rivoluzione proletaria la trasformazione economica dell’ intera società borghese in società comunista. Conquistato il potere politico in Russia nell’Ottobre 1917, Lenin affermò che il proletariato russo al potere era un esempio vivente della vittoria rivoluzionaria per tutto il proletariato del mondo e che il compito non si fermava alla sola Russia, ma si allargava - con l’Internazionale Comunista - a tutto il mondo, compresi i paesi arretrati capitalisticamente. Altra questione era la possibilità o meno di iniziare da subito la trasformazione economica socialista, per la quale era necessario che le basi economiche del socialismo - cioè il capitalismo sviluppato - fossero effettivamente presenti.

Dunque, per i marxisti il problema non si è mai posto: o la rivoluzione proletaria vince simultaneamente in tutto il mondo, oppure non ha alcuna possibilità e perciò tanto vale nemmeno iniziarla in un solo paese. Con questa tesi i menscevichi russi tradirono la rivoluzione proletaria nell’arretrata Russia, e i socialdemocratici europei abbandonarono qualsiasi preparazione rivoluzionaria nei più sviluppati paesi europei. Tutti finirono per sostenere la guerra imperialista dalla parte delle rispettive borghesie nazionali.

E’ previsto che la rivoluzione proletaria venga sconfitta? Sì, il marxismo l’ha previsto, e anche qui a date condizioni: se rimane isolata, e per lungo tempo, dal movimento rivoluzionario internazionale, e se non adotta strategia politica e militare adeguata (come fu il caso della Comune di Parigi); e se, pur vincendo anche la guerra civile interna contro le armate controrivoluzionarie, in un paese ad economia capitalistica estremamente arretrata, la vittoria rivoluzionaria in un paese capitalisticamente avanzato non giunge in soccorso (come nel caso della Russia bolscevica). E nel caso in cui, alla conquista del potere politico in un paese capitalistico avanzato non segua una corretta, disciplinata, ferrea tattica e politica rivoluzionaria sul piano della direzione politica del movimento proletario internazionale e sul piano delle misure di intervento nell’economia che, qui sì, matura per la trasformazione socialista, devono iniziare da subito a distruggere i rapporti borghesi di produzione e di proprietà: su entrambi i piani, per combattere fin dall’inizio la controrivoluzione e le sue basi materiali.

 

La classe proletaria

o è' rivoluzionaria

o non è nulla

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Come lo svolto storico 1848-1850 fece da base all’ affermazione teorica del socialismo scientifico nelle lotte fra le classi, dunque del comunismo marxista, teoria che proiettò, nel futuro e necessario processo di sviluppo delle formidabili forze produttive che caratterizzano il capitalismo, la prospettiva storica del comunismo, così lo svolto storico 1917-1921 fece da base all’ applicazione concreta della teoria del comunismo marxista, sia sul piano della conquista rivoluzionaria del potere politico, sia su quello dello sviluppo della lotta proletaria rivoluzionaria alla scala mondiale. Lo sfondo sociale, economico, politico e militare in un caso e nell’ altro erano internazionali, e le classi decisive in lotta - con le dovute differenze tra un’epoca, quella del 1848-50, in cui all’ordine del giorno vi era soprattutto la rivoluzione borghese antifeudale e l’epoca, quella del 1917-1921, in cui all’ordine del giorno vi era la rivoluzione proletaria - erano la borghesia e il proletariato, anche se le classi precapitalistiche - aristocrazia feudale, servaggio, dispotismo asiatico, schiavismo e gruppi umani provenienti da società prefeudali e preschiaviste - erano ben presenti in vasti paesi e continenti con tutto il loro peso storico di arretratezza e di reazione.

Non si possono comprendere i fatti storici, nel loro dialettico svolgersi, se non alla luce del marxismo. E questo lo si deve al metodo marxista di interpretazione della storia che si basa sul materialismo storico e dialettico. In questa caratteristica sta la capacità del marxismo sia di prevedere il necessario sviluppo storico delle forze produttive e delle società che queste forze storicamente formano, sia di comprendere attraverso le lezioni delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni perché il corso storico di sviluppo delle società umane  subisce fasi di ascesa, di arresto, di arretramento, di involuzione, di ripresa. E’ il punto di vista del futuro - il punto di vista del comunismo, quindi del fine ultimo della lotta fra le classi - che dà la possibilità di interpretare in modo dialetticamente corretto lo svolgersi del presente e il già svolto del passato. E’ il punto di vista della società senza classi, della società in cui gli antagonismi sociali che hanno caratterizzato ogni società di classe finora esistita, fino alla società borghese,  sono stati superati, debellati e cancellati, della società nella quale i gruppi umani vivono come esseri sociali, come specie, in armonia tra vita sociale e bisogni sociali, tra produzione e soddisfazione dei bisogni quotidiani, tra società umana e natura, il punto di vista del futuro comunismo che dà forza teorica al marxismo, e al partito comunista che ne rappresenta lo strumento di coscienza dei fini ultimi e di lotta di classe per eccellenza.

Quando si parla di 1848 si parla del ’48 europeo, ma l’Europa di allora equivaleva al mondo: era il cuore pulsante del nuovo modo di produzione capitalistico che si era ormai imposto storicamente su tutto il pianeta, soprattutto attraverso la potenza Inghilterra, anche se la grande maggioranza dei paesi del pianeta, allora, aveva ancora l’obiettivo di farla finita con le sovrastrutture politiche e le strutture economiche delle società precapitalistiche. Con lo sviluppo grandeggiante dell’ Inghilterra capitalistica e il portato storico della grande rivoluzione francese, il modo di produzione capitalistico superava con forza il punto di «non ritorno»: da allora i modi di produzione precapitalistici non avevano più alcuna possibilità storica di rivincita sul capitalismo, sarebbero stati distrutti o emarginati definitivamente dalle nuove e potenti forze produttive, e i paesi ancora arretrati sarebbero stati uno dopo l’altro inesorabilmente risucchiati nel vortice del mercato capitalistico. Certo, da allora il capitalismo ha fatto passi da gigante, ha continuato a distruggere le basi economiche e materiali delle vecchie società e a sostituirle con la produzione capitalistica; ha continuato a trasformare il contadiname in proletari, a distruggere i mezzi di sostentamento delle vecchie classi contadine per «liberarle» al lavoro salariato, e ha continuato a svilupparsi in modo ineguale nei diversi paesi, e a ridisegnare costantemente i confini dei vecchi imperi, delle vecchie nazioni, dei vecchi Stati. E ha continuato a produrre i suoi seppellitori: i proletari moderni.

Quando si parla di 1917 si parla del ’17 russo, ma la Russia di allora costituiva l’anello più debole della catena imperialistica, più debole a causa dello sviluppo ineguale del capitalismo, e imperialistica perché la guerra mondiale 1914-18 rappresentava in maniera inequivocabile la corsa imperialistica delle maggiori potenze mondiali dell’epoca alla nuova spartizione del mondo, potenze alle quali apparteneva anche la Russia zarista come la Germania guglielmina, l’impero giapponese del Sol levante come la Francia e gli Stati Uniti superdemocratici e la più antica potenza capitalistica mondiale, l’Inghilterra.

Borghesia e proletariato non erano, e non sono, le uniche classi sociali esistenti: proprietari terrieri, aristocrazie, caste, contadini, piccola borghesia sono state, e sono ancora in un numero consistente di paesi arretrati, classi che dispongono di peso numerico e sociale, normalmente mobilitate a fini di conservazione e reazione. Ma borghesia e proletariato sono le classi principali, le uniche classi determinanti, perché rappresentano, una contro l’altra, percorsi storici precisi e forze storiche capaci di attirare dalla loro parte le altre classi esistenti. E borghesia e proletariato furono decisive, in negativo e in positivo, anche nell’arretrata Russia dei primi decenni del secolo XX.

Il 1917 russo fa parte della fase storica che va dallo scoppio della prima guerra mondiale nel 1914 e dal montare del movimento proletario rivoluzionario al biennio 1926-27 in cui il movimento proletario rivoluzionario viene definitivamente sconfitto, a livello non solo russo ma internazionale, dalla controrivoluzione borghese. In questa lunga fase storica il marxismo vi ha riconosciuto tutti i problemi teorici, politici, programmatici, tattici, organizzativi, economici, militari, ideologici che il movimento delle forze di classe che si scontrano produce, e produrrà anche in avvenire. Per questa ragione il bolscevismo di Lenin è stato «pianta di ogni clima», non solo affermazione coerente del marxismo contro ogni revisionismo e opportunismo, ma anche coerente applicazione del marxismo in una delle situazioni più difficili che la storia potesse presentare al proletariato rivoluzionario: conquistare il potere politico in un grande paese ancora contadino e arretrato ma nel quale il proletariato moderno concentrato nelle grandi fabbriche aveva sufficiente forza sociale e organizzata, e mantenere il potere politico anche per molti anni, in attesa della saldatura con la vittoria rivoluzionaria in paesi capitalisticamente evoluti, dovendosi nel frattempo assumere il compito storico di sviluppare al massimo, in modo il più centralizzato e controllato possibile, il capitalismo battendo tutti i residui dei vecchi modi di produzione, dal feudalesimo all’economia primitiva! Nessun’altra classe poteva assumersi un compito storico di questo peso: soltanto il proletariato, diretto dal suo partito di classe.

Quella fase storica si apre con l’urto tremendo delle contraddizioni del modo di produzione capitalistico e del suo sviluppo internazionale, urto che sbocca nella prima e devastante guerra imperialistica mondiale; con un  movimento proletario in crescita pur se lacerato dal giganteggiare del riformismo interventista ma nel contempo attraversato da una vivida linea coerentemente marxista e rivoluzionaria - la sinistra comunista - poggiante saldamente sulle basi teoriche e programmatiche del comunismo marxista; con un grande movimento dei popoli coloniali dell’Asia in direzione della rivoluzione borghese nazionale. Una fase in cui la storia porta all’appuntamento della guerra di classe il proletariato dei paesi moderni, civilizzati, pienamente borghesi e democratici in una obiettiva alleanza antimperialistica con le rivoluzioni armate nazionali borghesi nei paesi oppressi dal colonialismo. Una fase in cui la grande prospettiva marxista del comunismo rivoluzionario affascina e influenza sul terreno concreto della lotta di classe e rivoluzionaria contro ogni oppressione, e trascina dietro di sé popoli interi.

Tutto ciò è avvenuto secondo leggi storiche che il marxismo ha scoperto, identificato, fissato, secondo le quali le società umane nello sviluppo delle forze e delle forme di produzione attraversano necessariamente determinate fasi, determinati periodi, e si organizzano secondo gli interessi economici e materiali predominanti in lotta permanente fra di loro. La formazione delle classi sociali - che appaiono solo ad un certo stadio di sviluppo delle forze produttive, e che scompariranno solo ad uno stadio di sviluppo molto superiore che chiamiamo comunismo - fa sì che l’organizzazione sociale prenda tendenzialmente le forme più adatte, anche se «impure» e contraddittorie, alla difesa degli interessi economici e materiali dei gruppi umani (le classi) che esprimono più direttamente il livello di sviluppo delle forze produttive sociali raggiunto. Ma le forze produttive sociali - tra le quali il marxismo contempla non soltanto i gruppi umani che intervengono nel processo produttivo, ma anche la terra, le scoperte, lo sviluppo delle scienze, la tecnica e la sua applicazione alla produzione, il capitale -, se da un lato raggiungono obiettivamente un punto di sviluppo che consentirebbe il passaggio ad una organizzazione sociale superiore, dall’altro sono costrette dall’organizzazione sociale esistente (che prevede, nelle società classiste, classi dominanti e classi dominate) in forme sociali non più coerenti con il loro sviluppo, in forme sociali che da rivoluzionarie si sono trasformate in riformiste e in seguito in conservatrici e reazionarie perché atte a difendere esclusivamente gli interessi economici e materiali di una parte della società, la classe dominante, contro tutte le altre classi e contro lo stesso sviluppo storico delle «proprie» forze produttive.

Ogni società di classe attraversa fasi storiche rivoluzionarie, riformiste e conservatrici. E’ stato così per la società schiavistica, per la società a dispotismo asiatico, per la società feudale europea, e lo è per la società capitalistica. Non fa parte della visione marxista concepire il passaggio da una società di classe ad un’altra superiore come un fatto automatico, semplice, lineare. Il marxismo prevede non solo la necessità storica del salto, raggiunto un certo grado di sviluppo delle forze produttive, da determinate forme sociali ad altre forme superiori, ma prevede che questo salto sia violento poiché le classi dominanti usano tutta la loro forza, la forza del loro Stato e delle loro armi per conservare il più a lungo possibile il potere contro ogni forma d’attacco portato dalle classi dominate. La rivoluzione è la cosa più autoritaria che ci sia, disse Engels agli anarchicheggianti socialisti dell’epoca, e sicuramente comporta l’uso della violenza e del terrore. E la controrivoluzione, da parte sua, è sicuramente la cosa più violenta che ci sia, non solo per l’uso della forza armata e del terrore militaresco, ma per la violenza prolungata generazione su generazione al fine di perpetuare un modo di produzione ed una organizzazione sociale non più utili alla società umana, ma utili esclusivamente ad una sua parte, la minore, di detentori del potere economico, politico e militare.

Qui non si parla di violenza «naturale», di fatalità, di casualità o di uso incosciente di mezzi violenti: qui si parla di violenza organizzata, di terrore scientificamente messo in atto, che le classi dominanti nel loro lungo periodo di dominio hanno maturato e raffinato allo scopo di contrastare e di prevenire i possibili attacchi al loro dominio da parte delle classi subordinate. Si parla perciò di forze organizzate, disciplinate, dirette secondo strategie e tattiche predisposte coscientemente: è per questo che la rivoluzione proletaria non potrà essere né pacifica né indolore. Essa dovrà agire con eccezionale fermezza e disciplina, diretta da una lucida coscienza dei fini rivoluzionari, da una grande forza di valutazione delle situazioni e di previsione dello spostamento delle forze sociali: fermezza, disciplina, lucida coscienza dei fini, grande forza di valutazione e di previsione che solo il partito di classe rivoluzionario può assicurare al proletariato. E il partito bolscevico di Lenin fu esattamente questo per il proletariato non solo «russo», ma mondiale, perché i fini rivoluzionari costantemente dichiarati consistevano e consistono nella trasformazione generale dell’economia capitalistica (capitale, lavoro salariato, mercato) in economia socialista (proprietà sociale dei mezzi di produzione, consumo contro lavoro a mezzo di scontrini non cumulabili, abolizione della proprietà privata e della appropriazione privata dei prodotti, graduale distruzione del mercato), prima, e infine comunista (produzione sociale, consumo sociale, lavoro non più come mezzo di vita ma come primo bisogno della vita, da ciascuno secondo le sue capacità a ciascuno secondo i suoi bisogni).

E’ in ragione di questi fini storici che la classe proletaria o è rivoluzionaria o non è nulla. Essa è portatrice storicamente del superamento degli antagonismi sociali che caratterizzano la società borghese, perché in essa, in quanto classe di lavoratori salariati, si condensano tutti gli antagonismi sociali rappresentati fondamentalmente dalla produzione sociale di beni e dalla appropriazione privata di questi stessi beni.

«Proletariato e ricchezza - si legge in Marx (4) - sono termini antitetici. Essi formano come tali un tutto, essi sono forme del mondo della proprietà privata. Si tratta della posizione determinata che entrambi assumono nell’antitesi. Non è sufficiente dichiararli due termini di un tutto. La proprietà privata, come proprietà privata, come ricchezza, è costretta a mantenere in essere se stessa e con ciò il suo termine antitetico, il proletariato. Questo è il lato positivo dell’antitesi; la proprietà privata che ha in sé il suo appagamento. Invece il proletariato, come proletariato, è costretto a negare se stesso e con ciò il termine antitetico che lo condiziona e lo fa proletariato, e cioè la proprietà privata. Esso è il lato negativo della antitesi, la sua irrequietezza in sé, la proprietà privata dissolta e dissolventesi. La classe possidente e la classe del proletariato rappresentano la stessa autoestraneazione umana. Ma la prima classe si sente completamente a suo agio in questa autoestraneazione, sa che la estraniazione è la sua propria potenza ed ha in essa la parvenza di una esistenza umana; la seconda si sente annientata nell’estraniazione, vede in essa la sua impotenza, e la realtà di una esistenza non umana. (...) In seno all’ antitesi, dunque, il proprietario privato è il partito della conservazione, ed il proletario il partito della distruzione. Il primo lavora alla conservazione dell’ antitesi, il secondo alla sua distruzione.». Non vi è dunque proletariato senza appropriazione privata della ricchezza al polo opposto, al polo borghese; e viceversa. Ma per quanto il proletariato sia parte essenziale della società borghese, è nello stesso tempo la negazione della società borghese. Facciamo continuare Marx: «E’ vero che la proprietà privata nel suo movimento economico va essa stessa verso la propria dissoluzione, ma solo mediante uno sviluppo indipendente da essa, inconsapevole, che ha luogo contro la sua volontà ed è condizionato dalla natura della cosa, e solo perché essa produce il proletariato come proletariato, la miseria consapevole della sua miseria intellettuale e fisica, la disumanizzazione consapevole di essere disumanizzazione e che perciò sopprime se stessa. Il proletariato esegue la condanna che la proprietà privata infligge a se stessa producendo il proletariato, così come esegue la condanna che il lavoro salariato infligge a se stesso producendo l’altrui ricchezza e la propria miseria. Se il proletariato vince, esso non perciò diventa il termine assoluto della società; infatti esso vince solo superando se stesso ed il suo opposto. Allora scompare tanto il proletariato quanto l’antitesi che lo condiziona, e cioè la proprietà privata».

In questo eccezionale ponte storico Marx collega dialetticamente le determinazioni materiali che fanno del proletariato la classe dei lavoratori salariati che producono la ricchezza altrui e la propria miseria, alla negazione di se stesso in quanto proletariato, in quanto produttore di ricchezza altrui e di miseria propria; negazione che contiene la distruzione dei rapporti di produzione e sociali che costringono il proletariato ad essere proletariato, ad essere classe per il capitale, per la proprietà privata, per gli approprianti di ricchezza sociale. «Nelle condizioni di vita del proletariato sono riassunte tutte le condizioni di vita dell’odierna società, nella loro forma più inumana» - insiste Marx - «l'uomo nel proletariato ha perduto se stesso, ma, contemporaneamente, non solo ha acquistato la coscienza teorica di questa perdita» - con la nascita della teoria del socialismo scientifico, del comunismo -,  «bensì è stato spinto direttamente dalla necessità ormai incombente, ineluttabile, assolutamente imperiosa - dall’espressione pratica della necessità - alla ribellione contro questa inumanità; ecco per quali ragioni il proletariato può e deve emanciparsi. Ma esso non può emanciparsi senza sopprimere le proprie condizioni di vita. Esso non può sopprimere le proprie condizioni di vita senza sopprimere tutte le inumane condizioni di vita della società attuale, che si riassumono nella sua situazione».

Il proletariato, dunque, non «sceglie» di essere o non essere la classe storica che dovrà rivoluzionare da cima a fondo la società borghese, l’ultima in ordine di tempo delle società divise in classi antagoniste: lo è per determinazione storica e per funzione sociale. «Una classe oppressa - sostiene Marx terminando il testo «Miseria della filosofia» - è la condizione vitale di ogni società fondata sull’antagonismo delle classi. L’affrancamento della classe oppressa implica dunque di necessità la creazione di una società nuova. Perché la classe oppressa possa affrancarsi, bisogna che le forze produttive già acquisite e i rapporti sociali esistenti non possano più esistere le une a fianco degli altri (...) La condizione dell’affrancamento della classe lavoratrice è l’abolizione di tutte le classi, come la condizione dell’affrancamento del ‘terzo stato’, dell’ordine borghese, fu l’abolizione di tutti gli stati (nel significato storico di stati dello Stato feudale, N.d.R.) e di tutti gli ordini.» Programma comunista espresso in brevissime parole: «La classe lavoratrice sostituirà, nel corso del suo sviluppo, all’antica società civile una associazione che escluderà le classi e il loro antagonismo, e non  vi sarà più potere politico propriamente detto, poiché il potere politico è precisamente il riassunto ufficiale dell’antagonismo nella società civile. Nell’attesa, l’antagonismo tra il proletariato e la borghesia è una lotta di classe contro classe, lotta che, portata alla sua più alta espressione, è una rivoluzione totale (...) Il combattimento o la morte; la lotta sanguinosa o il nulla. Così, inesorabilmente è posto il problema» (5).

Nell’ Europa del 1848 la cosiddetta «questione sociale» era posta chiaramente in questo modo. E così fu nella Russia del 1917, paese certamente molto arretrato capitalisticamente, ma in forza delle vicende storiche che legarono lo zarismo all’imperialismo inglese e francese, e della guerra mondiale, paese spinto ad una rivoluzione totale in cui tutte le classi presenti si mossero a difesa dei propri interessi, dall’aristocrazia zarista e proprietaria terriera alla molle borghesia industriale, dal proletariato fortemente concentrato nelle grandi città all’ immenso contadiname povero sparso nel vasto territorio, dalla piccola borghesia urbana al ricco kulak. La rivoluzione la fanno le classi oppresse e la dirigono i loro partiti politici. La particolarità storica che non si attuò in Germania nel 1848 si attuò in Russia nel 1917: all’ordine del giorno la storia pose una doppia rivoluzione, la rivoluzione borghese con i compiti economici e politici classici della liberazione dell’ economia capitalistica dai limiti e dai privilegi della struttura feudale e aristocratica e della libera circolazione delle merci e degli uomini non più incatenati al pezzo di terra dove nacquero, e la rivoluzione proletaria con i compiti politici ed economici della distruzione del dominio borghese e del suo Stato per avviare con l’ emancipazione del proletariato dal lavoro salariato, l’ emancipazione dell’ umanità da ogni società divisa in classi. E la doppia rivoluzione, o rivoluzione in permanenza per riprendere la terminologia marxista tanto cara a Trotsky, poteva essere concretamente messa all’ordine del giorno in Russia non solo in forza del movimento proletario esistente, e della sua esperienza di lotta accumulata nei vent’anni precedenti già scaturita nel 1905 rivoluzionario, ma in forza soprattutto della presenza attiva del partito di classe, il partito di Lenin, che non si limitò a rappresentare gli interessi della minoranza proletaria all’interno di un paese maggioritariamente composto dal contadiname e con l’esigenza storica di uscire dall’ imbuto precapitalistico in cui lo aveva infilato l’ aristocrazia zarista, ma si assunse il compito storico di rappresentare la sola efficace e lucida guida di due rivoluzioni, antizarista e antiborghese al tempo stesso. Il proletariato, di fatto, sostituì la borghesia nella classica funzione di guida del contadiname e si trovò schierata contro la borghesia alleata all’ aristocrazia zarista. E dato che questa funzione la stava svolgendo in piena guerra imperialistica mondiale - portando, da un lato, grave danno allo schieramento anglo-francese di cui la Russia zarista faceva parte, e, dall’altro, rappresentando un grande e vivente esempio di movimento rivoluzionario anticapitalistico in ascesa -, la rivoluzione proletaria in Russia si trovò contro tutte le borghesie più potenti del mondo.

E’ questa particolare situazione che mise, nel periodo rivoluzionario che si aprì con lo scoppio della prima guerra mondiale,  il proletariato russo, e quindi il suo partito di classe, a capo del movimento del proletariato rivoluzionario internazionale, assumendosi il compito non soltanto di dirigere la doppia rivoluzione in Russia, ed eventualmente nei paesi arretrati in cui il movimento rivoluzionario delle masse contadine e popolari avesse forza per combattere, ma anche di dirigere la rivoluzione proletaria mondiale.

 

L’Ottobre bolscevico è' stato proletario e comunista

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La rivoluzione proletaria in Russia ha dovuto affrontare tutti i problemi che la guerra imperialistica mondiale - dunque, quella guerra che non ha permesso ad alcun paese al mondo di rimanere nascosto e per conto proprio e di non subirne le conseguenze - poneva al movimento proletario internazionale, sia nel territorio di confine interno che nel territorio degli altri paesi capitalisti. Di più: essa ha dovuto affrontare nello stesso tempo compiti politici socialisti, e compiti economici capitalistici, in un vasto paese per la maggior parte enormemente arretrato economicamente.

Ma la rivoluzione proletaria in Russia poteva contare su di un partito di classe, il partito bolscevico di Lenin, che, per la sua caratteristica di essere comunista, non era un partito nazionale, non era un partito legato alla storia nazionale e da essa condizionato come sono tutti i partiti borghesi, ma era un partito che si formò alla scuola internazionale del marxismo intransigente, un partito che non ebbe bisogno di cambiare il proprio programma per diventare «comunista» ma nacque pienamente comunista e sul corso di una lunga e coerente battaglia teorica e politica contro ogni revisionismo ed opportunismo. Da questo punto di vista il partito bolscevico di Lenin non era il partito «russo», era il partito comunista internazionale che si preparava a dirigere la rivoluzione proletaria là dove sarebbe eventualmente maturata: in Russia o in Germania, in Francia o in Polonia, in Ungheria o in Italia.

La rivoluzione d’Ottobre in Russia apriva il ciclo delle rivoluzioni proletarie, le rivoluzioni dell’epoca moderna; e nello stesso tempo funzionò da potente acceleratore delle rivoluzioni nazionali borghesi in tutta la parte del pianeta in cui maturavano le condizioni di passaggio da forme sociali e politiche preborghesi sulla spinta di modi di produzione precapitalistici che cedevano gravemente di fronte all’introduzione del capitalismo anche se soltanto in alcune industrie e nel commercio. Ma alla fine del ciclo essa rimase la sola rivoluzione proletaria effettivamente vittoriosa, purtroppo poggiante su di un’economia arretrata, alla quale nessun altro movimento rivoluzionario in Europa riuscì, con la vittoria nel proprio paese, a portare il suo decisivo contributo. E non bastò il formidabile partito bolscevico a reggere il peso della controrivoluzione borghese; esso ripiegò e infine degenerò nello stalinismo, versione russa della controrivoluzione borghese.

Dominava la borghesia, come classe espressa dal modo di produzione capitalistico, e dominava il mondo - sottomettendo al proprio potere politico ed economico anche i più grandi paesi del mondo come la Russia, la Cina, l’India - soprattutto con le proprie armate e con le proprie flotte da guerra. Ma, alla distruzione dei modi di produzione precapitalistici non corrispondeva un tempestivo impianto a largo raggio del modo di produzione capitalistico, bensì vi si introducevano forme di dominio politico e militare a difesa degli interessi delle classi borghesi imperialistiche. E, mentre la gran parte del pianeta veniva depredata, affamata, violentata in mille maniere sul piano della sopravvivenza quotidiana di intere popolazioni, sul piano delle risorse agricole e minerarie, sul piano religioso, culturale, scientifico, le grandi potenze borghesi sviluppavano a dismisura  le capacità produttive a tal punto che sarebbe bastato mettere queste capacità produttive al servizio dello sviluppo dei popoli del pianeta per far fare a questi popoli un salto qualitativo di eccezionale importanza guadagnando mezzi secoli in cui quei popoli avrebbero invece dovuto attraversare l’orrore e lo scempio della società capitalistica.

Questa grande prospettiva poteva essere posseduta soltanto dalla classe che più di ogni altra ha espresso storicamente la forza rivoluzionaria in grado di attuare questo salto: la classe del proletariato moderno. Ed è stata la grande prospettiva della rivoluzione in permanenza di Marx, ripresa da Lenin e dal partito bolscevico per la Russia e per tutto il mondo precapitalistico. Una Russia che aveva quel tanto di sviluppo capitalistico da formare un robusto e concentrato proletariato moderno alle porte dell’ Europa borghese sviluppata, e quell’enorme quantità di contadiname e di arretratezza che la inchiodava in una situazione precapitalistica particolarmente radicata e in diretto collegamento con l’ arretratissima Asia. E’ per questa sua contraddizione storica, per questa sua doppia faccia - euro/asiatica - che la Russia in un periodo di apertura rivoluzionaria rappresentava la possibile attuazione della prospettiva della rivoluzione in permanenza, cioè la trascrescenza della rivoluzione borghese in rivoluzione proletaria.

I compiti economici in Russia rimanevano borghesi, i compiti politici potevano essere borghesi o proletari, a seconda della classe che avrebbe guidato la rivoluzione antifeudale fino in fondo.

Il proletariato russo e il suo formidabile partito leninista colsero l’appuntamento storico, disarcionarono la borghesia russa che - impaurita dalla forza della sua stessa rivoluzione (febbraio 1917) e dalla forza del proletariato nella sua rivoluzione - faceva velocemente dietro-front ributtandosi nelle braccia degli Zar e degli imperialisti borghesi di Londra e Parigi. Il febbraio ’17, borghese e socialnazionalista, fu superato e cancellato dall’ Ottobre rosso, proletario e internazionalista. In entrambe le rivoluzioni fu il proletariato la classe decisiva; ma l’Ottobre fu diretto dal partito bolscevico e la conquista del potere non fu più ceduta nelle mani borghesi ma fu strettamente mantenuta nelle mani proletarie e bolsceviche.

Era antimarxista, ed antiproletaria, la tesi secondo la quale, essendo i compiti economici di tipo capitalistico, il proletariato avrebbe dovuto astenersi dal prendere le armi per una rivoluzione che era borghese (e che doveva fare la borghesia e il contadiname da essa trascinato dietro), e tanto meno per la propria rivoluzione socialista. Secondo questa tesi, il proletariato, e quindi il suo partito di classe, avrebbero dovuto disinteressarsi di un movimento, per quanto rivoluzionario, che non li riguardava direttamente, e attendere che le condizioni di sviluppo economico e sociale fossero capitalisticamente mature per porsi - solo allora - il compito di muovere la propria rivoluzione antiborghese. Già Marx ed Engels, nel 1848, inserivano nel «Manifesto del partito comunista» una indicazione estremamente precisa per la Germania che a quel tempo presentava una situazione simile a quella che il proletariato russo doveva affrontare nella Russia del 1917: «In Germania il partito comunista combatte insieme alla borghesia contro la monarchia assoluta, contro la proprietà fondiaria feudale e il piccolo borghesume, appena la borghesia prende una posizione rivoluzionaria. Però il partito comunista non cessa nemmeno un istante di preparare e sviluppare fra gli operai una coscienza quanto più chiara è possibile dell’antagonismo ostile fra borghesia e proletariato, affinché i lavoratori tedeschi possano subito rivolgere, come altrettante armi contro la borghesia, le condizioni sociali e politiche che la borghesia deve creare con il suo dominio, affinché subito dopo la caduta delle classi reazionarie in Germania, cominci la lotta contro la borghesia stessa» (6). Per la Russia zarista, il partito di Lenin non fece che applicare questa indicazione. Di più, nella frase successiva del «Manifesto» vi si legge una previsione che non si avverrò per la Germania del 1848, ma si avverrò in pieno per la Russia del 1917: «I comunisti rivolgono la loro attenzione soprattutto alla Germania (proviamo leggere Russia al posto di Germania, per un momento), perché la Germania (la Russia) è alla vigilia di una rivoluzione borghese, e perché essa compie questo rivolgimento in condizioni di civiltà generale europea più progredite, e con un proletariato molto più evoluto che non l’Inghilterra nel diciassettesimo e la Francia nel diciottesimo secolo; perché dunque la rivoluzione borghese tedesca (russa) può essere soltanto l’immediato preludio di una rivoluzione proletaria». Lenin conferma Marx ed Engels.

E’ tesi marxista che la conquista del potere politico non corrisponde automaticamente alla trasformazione dell’economia capitalistica in economia socialista, e poi in comunismo pieno. La conquista del potere politico è indispensabile al proletariato per fermare il corso di sviluppo iperfolle del capitalismo e per fermare le sue guerre, è indispensabile per abbattere il potere non solo politico ma anche militare ed economico delle classi dominanti borghesi, è indispensabile per iniziare a distruggere il modo di produzione capitalistico sul quale poggia l’intera società borghese, i suoi rapporti di produzione e sociali, l’appropriazione privata della produzione sociale. E’ tesi marxista che la rivoluzione proletaria e comunista possa svolgersi anche in un solo paese e che la conquista del potere politico, in date condizioni storiche di forza del proletariato, possa avvenire in un solo paese. Tanto più nella situazione di guerra imperialista nella quale il partito comunista rivoluzionario presente deve condurre l’azione disfattista all’ interno del «proprio» paese, anche da solo, e potendolo fino alla conquista del potere. Quanto alla trasformazione socialista dell’ economia, la questione il nostro partito l’ha posta così:

«La formula marxista è che il socialismo è storicamente possibile sulla base di due condizioni, necessarie entrambe. La prima è che la produzione e la distribuzione si svolgano generalmente in forme capitalistica e mercantile, ossia che vi sia largo sviluppo industriale, anche di aziende agricole, e mercato nazionale generale. La seconda è che il proletariato e il suo partito pervengano a rovesciare il potere borghese e ad assumere la dittatura. Date queste due condizioni, non  si deve dire che è possibile cominciare a costruire il socialismo, ma che le sue basi economiche risultano già costruite, e si può e deve iniziare immediatamente a distruggere i rapporti borghesi di produzione e di proprietà, pena la controrivoluzione» (7). Dunque innanzitutto la dittatura proletaria, il conquistato potere politico, ha il compito, se le basi economiche del socialismo esistono già, ossia se ci si trova in un paese capitalisticamente avanzato, di iniziare immediatamente a distruggere i rapporti borghesi di produzione e di proprietà: non si «costruisce» socialismo, ma si distrugge capitalismo. «Se invece parliamo di un paese in cui manca la condizione prima di sviluppo produttivo e mercantile, allora la trasformazione socialista non sarà possibile. Ciò non vuol dire che, in date condizioni storiche e rapporti di forza, non sia possibile tentare ed attuare la conquista proletaria del potere politico (Ottobre rosso) senza programma di trasformazione socialista fino a quando la rivoluzione non guadagni alcuni altri paesi che hanno la condizione prima, dello sviluppo economico». E in Russia, era chiarissimo a Lenin e a tutti i comunisti marxisti di allora, non era all’ordine del giorno la trasformazione economica socialista; era all’ ordine del giorno la difesa della dittatura proletaria instaurata, la vittoria sulle truppe controrivoluzionarie interne ed esterne, e lo sforzo di direzione del movimento proletario internazionale verso lo sbocco rivoluzionario in altri paesi.

Perché economicamente fosse possibile passare al socialismo - Lenin lo ripeté in tutti i suoi interventi - era necessaria la vittoria rivoluzionaria del proletariato in alcuni paesi capitalisti sviluppati. E per quella vittoria il potere bolscevico e il generosissimo proletariato russo accettarono i sacrifici più tremendi; vinsero comunque la guerra civile che le armate bianche sostenute da tutte le potenze imperialiste avevano scatenato in ogni angolo del vastissimo paese. Per quella vittoria, il potere bolscevico e il proletariato rivoluzionario russo avrebbero resistito anche per vent’anni come una fortezza assediata (i famosi «vent’anni di buoni rapporti con i contadini»).

Ma nei compiti non ancora economici della rivoluzione proletaria in Russia, emerge la valenza internazionale e comunista della rivoluzione bolscevica: 1) tutto il potere dittatoriale al partito di classe proletario, 2) distruzione della guerra imperialistica, 3) vittoria nella guerra civile contro le armate bianche, 4) saldatura con la rivoluzione proletaria europea.

Il Partito comunista bolscevico va al potere, dopo aver conquistato pacificamente i Soviet e dopo la fase insurrezionale; i partiti borghesi e opportunisti sono dichiarati immediatamente illegali, ma rimangono in piedi due problemi: le elezioni per l’Assemblea costituente - non ci si dimentichi che siamo in un paese che sta ancora facendo la rivoluzione borghese democratica - e la compartecipazione al governo dei socialrivoluzionari (gli essere) di sinistra. L’Assemblea costituente, chiaramente inconsistente e impotente, viene semplicemente cacciata via da un plotone di marinai bolscevichi. I Soviet si prendono in mano tutto il potere, nominano il proprio Comitato Esecutivo e designano il governo, cioè il Consiglio dei Commissari del Popolo. Il «popolo» c’è perché la rivoluzione non è puramente proletaria, ma è anche contadina sebbene guidata e diretta dittatorialmente dal proletariato. Quanto alla compartecipazione al governo degli esserre di sinistra, la questione verrà risolta in seguito, e anche in questo caso per nulla burocraticamente. Dopo la pace di Brest-Litovsk, voluta caparbiamente dai bolscevichi per distruggere la guerra imperialistica, gli esserre escono dal governo (marzo 1918), fanno propaganda contro i bolscevichi indicandoli come nemici del popolo, assassinano l’ambasciatore tedesco Mirbach per scatenare la guerra antitedesca nazionale,  insorgono armi alla mano a Mosca, attentano a revolverate alla vita di Lenin e uccidono il compagno Uritsky. La dittatura di classe, dunque dittatura di Partito diventa terrore di classe, dunque terrore di partito. Il Partito bolscevico è unico detentore del potere politico, e sulla base della lotta rivoluzionaria non solo antizarista ma anche antiborghese portata più in fondo possibile. Tutte le altre forze politiche, per ultimo gli esserre, si sono dimostrate antiproletarie e antirivoluzionarie.

Al tempo della rivoluzione russa il capitalismo nella sua più alta espressione ha maturato il suo parassitismo, a tal punto che ormai le guerre che genera non sono più di sistemazione nazionale e di progresso economico e sociale rispetto alle società precapitalistiche, ma sono solo guerre di spartizione dei mercati, di brigantaggio. I compiti politici, oltre che economici, in Russia presentavano nella rivoluzione antizarista obiettivi di carattere borghese e capitalistico che il proletariato si assume; ma mai il potere proletariato passa ad allearsi alla borghesia nelle guerre di spartizione dei mercati. L’obiettivo del potere proletario è quello di terminare la guerra, negoziare con tutti i belligeranti la pace, a qualsiasi costo. E il costo sarà molto alto. Gli «alleati» non accolgono l’invito dei bolscevichi; lo fanno i tedeschi. Dure le condizioni poste dai tedeschi, che comportano anche l’annessione di popolazioni slave. I «negoziati» durano dal dicembre 1917 al marzo 1918, passando per accesi contrasti fra gli stessi bolscevichi, e alla fine passa la formula di Lenin: accettare e firmare la pace. Il proletariato non continua la guerra imperialistica, la ferma, anche se il prezzo è alto. Ma nello stesso tempo prepara la guerra di classe contro gli attacchi delle armate bianche.

Dall’inizio del 1918 fino al marzo del 1921 il potere proletario in Russia è impegnato in una serie tremenda di scontri, di guerre, di lotte contro molteplici nemici interni, foraggiati e sostenuti dalle potenze imperialiste maggiori. La situazione economica è disastrosa, più che al tempo dello zar; carestia, epidemie, fame, mancanza di armi, di munizioni, di vestiario. Attaccati da ogni parte: Denikin, Kornilov, Kaledin, Alexeiev, Kolciak, Judenic, Wrangel, i generali bianchi che per lungo tempo hanno tenuto sotto il loro tallone buona parte del territorio dell’ex impero zarista. E con essi i giapponesi a Vladivostok, i tedeschi in Finlandia, gli alleati ad Arcangelo, gli inglesi dalla Persia verso Bakù, i francesi ad Odessa, inglesi e francesi in Estonia, Lituania e Polonia. Negli anni della guerra civile l’Armata rossa, organizzata sulle ceneri dell’esercito zarista completamente dissolto grazie all’azione disfattista del bolscevismo, tra attacchi, sconfitte, ritirate e contrattacchi, riesce a vincere su tutti i fronti interni. Le controrivoluzioni sono vinte: «La Russia tutta - si legge nella «Struttura» -, ma dopo oltre quattro anni dalla vittoria di Ottobre, è finalmente controllata dal partito comunista. Fino ad allora la domanda: che deve fare il partito giunto al potere?, ha in fondo avuto una sola risposta: combattere per non perderlo!» (8).

Un altro compito il proletariato russo e il partito bolscevico si addossarono in funzione della rivoluzione proletaria mondiale: la costituzione dell’ Internazionale comunista, quello che doveva essere il partito comunista mondiale unico. Fin dal 1914 Lenin, dal vergognoso fallimento dei partiti della Seconda Internazionale di fronte allo scoppio della guerra imperialistica col loro appoggio alle rispettive borghesie nazionali, pone il problema di costituire la nuova Internazionale. Ma ci volle la vittoria bolscevica in Russia, e la pressione dei moti proletari contro la guerra, per giungere alla sua costituzione nel 1919 a Mosca. Era comunque un tempo in cui, sapendo bene che non ci si poteva attendere la trasformazione socialista in Russia, erano tutti convinti che si doveva far leva sul movimento rivoluzionario del proletariato europeo per la distruzione definitiva della guerra imperialistica e per lo sviluppo della rivoluzione socialista nel mondo. E la costituzione dell’ Internazionale comunista nel 1919, sebbene in ritardo sull’onda rivoluzionaria, rappresenta l’ ulteriore sforzo, un apice, del movimento rivoluzionario comunista nella prospettiva di collegare in forma centralizzata i moti proletari che dal 1915, nonostante il tradimento di quasi tutti i capi socialisti dell’ epoca, si erano espressi contro la guerra con i movimenti rivoluzionari più recenti. «Purtroppo la rivoluzione non può sorgere da sola stanchezza ed esasperazione - si legge ancora nella «Struttura» -, ma ha bisogno della difesa della linea continua di classe che il tradimento del 1914 aveva su quasi tutto il fronte mondiale spezzata». E questo è stato il grande nodo storico che non poteva essere sciolto con la sola volontà e dedizione militante dei comunisti di allora. Ci si rese conto - e la famosa prospettiva di Lenin sul dover resistere sul bastione della dittatura proletaria anche per vent’anni, la dice chiara - che l’opportunismo socialdemocratico, riformista, massimalista, in occidente aveva ancora una grande presa sul proletariato, e che non sarebbe stato facile né veloce batterlo. Viene in mente l’immagine che Lenin ricordò più di una volta: in Russia è stato relativamente facile conquistare il potere politico ma sarà estremamente difficile mantenerlo, dati i compiti economici interni capitalistici da assolvere; mentre nei paesi capitalisticamente avanzati sarebbe stato molto più difficile che in Russia conquistare il potere politico, ma sarà più facile mantenerlo, data la potenza economica sviluppata di quei paesi. L’opportunismo riformista e collaborazionista, con la sua presa sul proletariato, ha contribuito in modo determinante a rendere difficile al proletariato occidentale di quegli anni di riconoscere con chiarezza quali erano i suoi compiti rivoluzionari. 

I compiti di tutti i partiti aderenti all’ Internazionale comunista erano allora chiarissimi ai militanti comunisti e alla parte avanzata del proletariato: Preparare la rivoluzione, conquistare il potere politico, instaurare la dittatura di classe, abbattere dunque lo Stato borghese e il dominio politico borghese, unire le proprie forze alle forze proletarie rivoluzionarie di tutto il mondo e, innanzitutto, al proletariato russo che aveva già conquistato il potere politico, per resistere più efficacemente ai colpi portati dalla controrivoluzione e nello stesso tempo per sferrare l’attacco rivoluzionario là dove le condizioni storiche della lotta rivoluzionaria ponevano il proletariato e il suo partito di classe nella situazione più favorevole. Leggendo Lenin, i rapporti dei primissimi anni dell’ Internazionale, e i grandi rivoluzionari dell’epoca da Trotsky a Zinoviev, da Kamenev a Bordiga, non si può dubitare della loro estrema lucidità nella valutazione della situazione generale e delle difficoltà che la rivoluzione europea incontrava. Tutti speravano che al calor bianco della rivoluzione il proletariato si sarebbe liberato di molti pregiudizi, dell’influenza dell’opportunismo e della paura di non sapere cosa fare dopo, una volta preso il potere; e che i partiti proletari si sarebbero rigenerati per acciuffare al volo l’appuntamento storico con «il combattimento o la morte», con la rivoluzione. Ma la saldatura tra la dittatura proletaria in Russia e la rivoluzione europea vittoriosa non avvenne; la rivoluzione europea stentò a farsi strada, i giovani partiti comunisti espressero una grande immaturità che fu determinante per i risultati sconfortanti sul fronte occidentale. Troppo profonda era la ferita che l’opportunismo aveva inferto al proletariato allo scoppio della guerra mondiale, e troppo legati alla tradizione socialdemocratica erano i partiti che più di altri avrebbero potuto approfittare del disorientamento delle borghesie europee in conseguenza della guerra stessa. La linea di classe, spezzata dal tradimento opportunista, fu difesa strenuamente ma da sparute minoranze marxiste intransigenti che non ebbero la possibilità di riorientare in tempo il proletariato occidentale verso lo sbocco rivoluzionario e comunista. In Russia il partito bolscevico riuscì ad approfittare della situazione favorevole che nell’Ottobre 1917 si aperse di fronte al proletariato; ma ci volle la grande forza di un Lenin e la sua speciale sensibilità del momento storico, perché il partito bolscevico desse l’ordine, in quel giorno e non in un altro, dell’insurrezione.

Pur nella piena consapevolezza che non si sarebbe trattato di introdurre socialismo nella sola Russia, ma che si sarebbe trattato di portare la rivoluzione democratica iniziata nel febbraio a trascrescere in rivoluzione proletaria, dittatorialmente e terroristicamente proletaria, Lenin e il partito bolscevico attuano la più coerente ed efficace politica proletaria: anche da soli, ossia senza l’aiuto del proletariato di altri paesi, andiamo alla conquista del potere politico; e soli, ossia senza alcuna alleanza politica con altri partiti, dovremo governare la dittatura proletaria con tutti i suoi compiti capitalistici che l’economia estremamente arretrata impone. Senza una visione generale, mondiale, della rivoluzione proletaria, mai sarebbe stato dato l’ordine di insurrezione nei giorni decisivi per la conquista del potere; ed anche in questo l’Ottobre è proletario e comunista. La rivoluzione d’Ottobre dava inizio alla rivoluzione proletaria e comunista mondiale.

La mancata saldatura con la rivoluzione proletaria in Europa, nell’Europa capitalistica sviluppata - dove esisteva un proletariato vasto, organizzato, con esperienza di lotta e in movimento contro l’ordine costituito (basti ricordare il proletariato tedesco che iniziò a lottare in piazza contro la guerra già nel 1915, e continuò la sua lunga e tenace lotta per 8 anni consecutivi, fino al 1923!), e dove purtroppo non esistevano partiti proletari saldamente formati sulla teoria e sul programma marxista al di fuori di alcune piccole correnti, come nel caso della sinistra comunista italiana -, quella mancata saldatura contribuì a provocare il ripiegamento della rivoluzione bolscevica, e successivamente, la sconfitta. Sconfitta che fu, in realtà, del proletariato internazionale e dei comunisti di tutto il mondo, non solo del proletariato «russo».

Ma il ripiegamento non avvenne su di un socialismo già avviato: ciò che, e con grande difficoltà, si stava avviando in Russia era capitalismo, come Lenin aveva già chiaramente affermato nel 1918 e ribadito nel 1921 nel suo volumetto sull’imposta in natura. Analizzando gli elementi sociali della società russa come l’aveva trovata la rivoluzione proletaria, Lenin individua 5 elementi: 1. Economia contadina patriarcale-naturale. 2, Piccola produzione agraria mercantile. 3. Capitalismo privato. 4. Capitalismo di Stato. 5. Socialismo. E fra tutti questi, il Socialismo era rappresentato non da forme economiche ma dalla Dittatura di classe, dalla forma politica dello Stato proletario governato dal solo partito comunista. Lenin ribadirà che il passaggio al capitalismo di stato avrebbe significato un grande salto in avanti rispetto agli elementi 1, 2 e 3; e lo indicherà come la forma di capitalismo non soltanto più moderna, ma anche più controllabile da parte dello Stato proletario. Significativamente Lenin dipinge con grande efficacia la situazione in cui si trova la Russia rivoluzionaria nel 1921: la vera lotta non è fra Capitalismo di Stato e Socialismo, ma tra l’alleanza degli elementi 1, 2 e 3 contro il capitalismo di stato e il socialismo; i quali ultimi non sono d’altra parte alleati ma nemici storici. La loro alleanza obiettiva è data dialetticamente dal fatto che il contadiname sta - sempre, in ogni epoca del corso di sviluppo del capitalismo - col capitalismo privato contro il capitalismo di stato e il socialismo. La rivoluzione bolscevica ripiegò, in assenza prolungata della rivoluzione europea, sul capitalismo di Stato e successivamente sul capitalismo privato, alleati entrambi questa volta contro il socialismo, contro la rivoluzione proletaria. Non bastò, purtroppo, il monito di Lenin: «10-20 anni di giusti rapporti coi contadini e la vittoria è assicurata su scala mondiale (anche con un ritardo delle rivoluzioni proletarie che maturano), altrimenti 20-40 anni di sofferenze col terrore delle guardie bianche» (9); non bastò l’enorme sforzo per portare l’energia elettrica, la civiltà capitalistica per eccellenza, «in ogni villaggio» per non aver «bisogno, o quasi, di fasi intermedie, di anelli transitori fra il sistema patriarcale e il socialismo». Nella prospettiva di Lenin non sono assenti le rivoluzioni proletarie, tutt’altro: esse sono in ritardo, ma stanno maturando, e poiché esse sono in ritardo noi, che abbiamo il potere politico in Russia, non attendiamo invano ma nel frattempo «dobbiamo utilizzare il capitalismo (soprattutto incanalandolo nell’alveo del capitalismo di Stato) come anello intermedio tra la piccola produzione e il socialismo, come un  mezzo, una via, un modo, un metodo per aumentare le forze produttive» (10). Coerentemente col marxismo Lenin traccia il percorso obbligato, date le condizioni storiche in cui la rivoluzione proletaria ha vinto in Russia ed è in ritardo nei paesi capitalisti sviluppati: si devono innanzitutto costruire le basi del socialismo, ossia l’economia capitalistica incanalandola nell’alveo del capitalismo di Stato. 10-20 anni di giusti rapporti coi contadini - che erano comunque la stragrande maggioranza in Russia - significava per il combattente Lenin (e il combattente Trotsky, griderà nel 1925 in faccia allo Stalin del «socialismo in un solo paese», per di più arretrato: anche cinquant’anni, se occorre!), resistere col potere in pugno, e armato, senza abdicare, senza cedere.

Lenin indica, a quel tempo, un esempio, come avrebbe fatto Marx: la Germania e il suo capitalismo di Stato. Unire il socialismo di Russia, ossia il potere politico in mano comunista, al capitalismo di stato tedesco - «le due metà spaiate del socialismo» -: allora vi sarebbe stata la possibilità di avviarsi verso il socialismo anche sul piano economico. E ricordiamolo, a scanso di equivoci: socialismo significa soprattutto distruzione del capitalismo, e non costruzione di una nuova società.

La controrivoluzione borghese, internazionale oltre che russa, non vinse l’Ottobre rosso nella guerra civile; vinse anni dopo, perché l’Ottobre rosso era rimasto senza l’ossigeno rivoluzionario che solo la vittoria proletaria in un paese capitalistico sviluppato europeo poteva offrirgli; lo vinse perché la rivoluzione proletaria non riuscì ad aprire un varco nei bastioni delle potenze borghesi europee e perché i partiti operai europei occidentali giunsero, all’appuntamento storico con la rivoluzione, impregnati di democratismo, di riformismo, di pacifismo, di altezzoso purismo teoricista ma di bassa cucina parlamentarista e ministerialista.

I compiti fondamentali del partito di classe, che i bolscevichi affrontarono di fronte alla guerra imperialista e alla rivoluzione in Russia, pur a ottant’anni di distanza - 80 anni di sofferenze col terrore delle guardie bianche -, non sono cambiati; semmai, proprio in forza delle lezioni delle controrivoluzioni, essi sono riconfermati con più decisione e fermezza sia per quanto riguarda la lotta contro ogni mezzo e metodo della democrazia, sia per quanto riguarda la formazione del partito di classe internazionale. La Sinistra comunista italiana ha avuto conferma dalla storia nella sua tenace battaglia contro la democrazia e contro ogni forma di opportunismo che la democrazia nutre. Il partito comunista internazionale che preparerà e dirigerà il futuro movimento proletario rivoluzionario sarà fin dall’inizio un unico partito mondiale, con un unico programma e centralizzato, intransigentemente antiborghese e anticapitalistico in principio e nei fatti. La futura rivoluzione proletaria potrà contare sull’enorme esperienza storica fatta dall’ Ottobre bolscevico, dalla rivoluzione proletaria in Russia, e sulla linea di continuità di classe delle battaglie della Sinistra comunista. Lenin poté riferirsi alla Comune di Parigi del 1871, noi ci riferiremo alla Comune di Pietrogrado del 1917, in una unica linea di continuità teorica e programmatica. E dunque, potere politico proletario vorrà sempre dire Dittatura del proletariato esercitata dal solo e unico partito di classe. Il compito di instaurare e dirigere la dittatura proletaria era, è e sarà compito del partito di classe, e a questo scopo il partito si deve preparare, e deve preparare il proletariato soprattutto nei suoi reparti avanzati. La lotta rivoluzionaria del proletariato, e quindi del partito di classe, non termina con l’insurrezione e la presa del potere; l’insurrezione e la presa del potere, in realtà, mettono il proletariato nelle condizioni di avviare la sua rivoluzione internazionale che non si attua necessariamente in simultanea in tutti, o in gran parte dei paesi, ma può iniziare anche in un solo paese: ma i compiti politici che il partito di classe rappresenta e assume praticamente sono comunque internazionali, universali, e al fine di sviluppare la guerra proletaria di classe a livello mondiale il potere politico conquistato in un determinato paese non è che il primo baluardo dal quale avanzare per la vittoria internazionale del proletariato. Ma è stato esattamente così già per l’Ottobre bolscevico.

«La dittatura del proletariato - scrive Lenin (11) - non significa la fine della lotta di classe, ma la sua continuazione in forma nuova e con mezzi nuovi. Finché rimangono le classi, finché la borghesia, rovesciata in un solo paese, moltiplica i suoi attacchi contro il socialismo su scala mondiale, questa dittatura è necessaria. Nel periodo transitorio la classe dei piccoli agricoltori - e qui Lenin porge particolare attenzione all’ unica dittatura del proletariato esistente, quella nella Russia arretrata, alle prese con i famosi «buoni rapporti coi contadini» - non può che essere soggetta a molte esitazioni. Le difficoltà del periodo di transizione, l’influenza della borghesia suscitano inevitabilmente di tanto in tanto dei tentennamenti nello stato d’animo di questa nuova massa. Al proletariato, indebolito e in una certa misura declassato a causa della distruzione della sua base vitale, la grande industria meccanica, spetta la difficilissima e più grande missione storica di resistere nonostante questi tentennamenti e di condurre a termine la sua opera: liberare il lavoro dal giogo del capitale». Per l’ennesima volta Lenin insiste nel ribadire il fine generale della lotta proletaria di classe: liberare il lavoro dal giogo del capitale, anche se nella Russia arretrata le condizioni storiche non permettevano di passare subito alla distruzione del capitalismo - il capitalismo doveva invece essere sviluppato al massimo per vincere l’enorme arretratezza -; ma la condizione di dittatura proletaria vittoriosa in Russia permetteva al proletariato internazionale di avere un saldo punto d’appoggio per la sua lotta contro le borghesie più potenti e un esempio vivente di quale strada avrebbe dovuto seguire. «Né Lenin, né altri, lui vivente, - ricorda la nostra «Struttura» (12) - e perfino prima del 1926, aveva accantonato la tesi che il punto dell’avvenire a cui ogni altro traguardo andava subordinato era il dilagare della rivoluzione e della dittatura comunista ben oltre le frontiere della Russia, e malgrado gli insuccessi a catena scontati dai tentativi della classe operaia di avanguardia in pressoché tutti i partiti di Europa. La politica di amministrazione della Russia bastava fosse quella di una gestione precaria, intercalare; in quanto era caposaldo delle prospettive del comunismo mondiale che l’economia russa avrebbe mosso verso il socialismo non solo al fianco, ma indubbiamente al seguito di quella di gran parte d’Europa. La pratica economica del partito aveva una semplice consegna: attendere sulla rocca del conquistato potere; non aveva quella: trasformare; e tanto meno la stolta, che dopo prevalse: costruire».

 


 

(1) Vedi K.Marx, F.Engels, «Manifesto del partito comunista», G. Einaudi Editore, 1962, cap. 1 «Borghesi e proletari», p. 100. I passi successivi si leggono alle pp. 103-4 e 108.

(2) Vedi l’articolo di K. Marx «La rivoluzione di giugno» (pubblicato nella «Neue Rheinische Zeitung» nr. 29, 29 giugno 1848) in Marx-Engels, «Il Quarantotto», Editrice La Nuova Italia, Firenze, 1970, p. 47.

(3) Vedi K.Marx, F.Engels, «Manifesto del partito comunista», cit., p. 116.

(4) Cfr. K.Marx, F.Engels, 1845, «La Sacra famiglia», cap. IV, paragrafo 4 «Proudhon», in «Glossa marginale n.2», pp. 43-44, Editori Riuniti, Roma 1969.

(5) Cfr. K. Marx, 1847, «Miseria della filosofia», cap. II, paragrafo 5 «Gli scioperi e le coalizioni degli operai», pp. 146-7, Editori Riuniti, Roma 1976.

(6) Cfr. K.Marx, F.Engels, «Manifesto del partito comunista», cit., pp. 243-4.

(7) Vedi il testo di partito del 1955, «Struttura economica e sociale della Russia d’oggi»,  Ed. il programma comunista, 1976, alla p. 22; la citazione successiva è a p. 23.

(8) Ibidem, p. 32.

(9) Cfr. Lenin, «Schema dell’opuscolo ‘sull’imposta in natura’ «, in Opere, vol. 32, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 303.

(10) Cfr. Lenin, «Sull’ imposta in natura», in Opere, vol. 32, cit., p. 330; il passo precedente è alle pp. 329-330.

(11) Cfr. Lenin, «Tesi per il rapporto sulla tattica del partito comunista di Russia al III congresso dell’ Internazionale comunista», in Opere, vol. 32, cit., punto 10., p.435.

(12) Vedi «Struttura economica e sociale della Russia d’oggi», cit., pp. 465-466.

 

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