Contro il capitalismo che rende precaria la vita e sicura la morte sul lavoro,

Lotta di classe per resistere, per vivere, per cambiare la società

(«il comunista»; N° 107; Dicembre 2007 / Gennaio 2008)

 

Nella notte del giovedì 6 dicembre, alla acciaieria ThyssenKrupp di Torino (ex Ferriere della Fiat), una scintilla alla linea 5 del raparto trattamento termico, dove i laminati d’acciaio vengono portati ad altissime temperature e poi raffreddati in bagni d’olio per temperarli, provoca un incendio che colpisce la squadra di 8 operai che vi lavora; in pochi istanti l’incendio si espande a tutto il reparto.

Sette operai vengono avvolti dalle fiamme e immediatamente soccorsi dai compagni di lavoro che si precipitano a prendere gli estintori: ma gli estintori non funzionano. La squadra di soccorso, arrivata in pochi minuti, non riesce ad entrare nel reparto: la porta d’accesso da cui doveva intervenire è chiusa dall’interno.

Antonio Schiavone, 36 anni, moglie e tre figli piccoli, colpito in pieno dalla vampata di fuoco muore subito arso vivo, gli altri sei compagni di lavoro, con corpi ustionati all’80-95%, gravissimi, vengono portati in ospedale: tre di loro muoiono il venerdì uno dopo l’altro, Roberto Scola, 33 anni, moglie e due figli piccoli, alle 7 del mattino,  Angelo Laurino, 43 anni, moglie e due figli, alle 19, Bruno Santino, il più giovane, 26 anni, alle 23; gli altri tre,  Rosario Rodinò, Giuseppe De Masi e Rocco Marzo, rimangono tra la vita e la morte, ma non per molto. Rocco Marzo, 54 anni, moglie e due figli, l’operaio più esperto corso in aiuto dei compagni anche se avrebbe potuto scappar via salvandosi, che alla fine del mese sarebbe andato in pensione, muore domenica 16. E mentre si stava celebrando il suo funerale, il 19, giunge notizia che anche il giovane Rosario Rodinò, 22 anni, ustionato sul 95% del corpo (il fuoco gli aveva risparmiato solo la pianta del piede destro) è deceduto dopo 15 giorni di terribile agonia. Dieci giorni dopo, il 30 dicembre,  anche l’ultimo ustionato, Giuseppe De Masi, 26 anni, apprendista alla TyssenKrupp, se ne va, chiudendo  una strage annunciata. Ma, anche se ce l’avessero fatta a non morire, che vita avrebbero mai potuto fare? Antonio Boccuzzi, l’ottavo operaio della squadra se l’è fortunosamente cavata ed è testimone dell’inferno scoppiato in reparto.

E’ strage! Strage annunciata! Mancanza di adeguata manutenzione e prevenzione da parte dell’azienda, mancanza di controlli approfonditi e frequenti da parte dell’Ispettorato del lavoro e dell’Asl; mancanza gravissima da parte del sindacato che ha accettato tutto, in nome della produttività e delle esigenze dell’azienda!

Che la salute degli operai non sia una priorità per lo Stato capitalistico è dimostrato dallo stesso Ispettorato del lavoro che dovrebbe fare i controlli: a Torino sono in 58 per controllare 63.000 aziende (1).

La ThyssenKrupp aveva programmato la chiusura dello stabilimento di Torino per il prossimo settembre, spostando la produzione nello stabilimento di Terni, ma anche questo stabilimento verrà prima o poi chiuso. Motivo della chiusura? Poco redditizio; le lavorazioni verranno spostate in Cina e in  Brasile, dove la manodopera costa molto di meno! A quanti altri «incidenti» di questo genere andranno incontro gli operai cinesi e brasiliani?

Un tempo alle Ferriere lavoravano 13 mila operai, poi, di ristrutturazione in ristrutturazione, e passaggi di mano (Teksid, sempre della Fiat, Ilva, azienda Iri, fino alla tedesca ThyssenKrupp) la manodopera è stata ridotta a 385 nel luglio scorso, e a 200circa, oggi. Ma lo sfruttamento non è diminuito, è invece aumentato; dopo l’estate, a fronte di esigenze aziendali per rispondere a ulteriori commesse e per non pagare penali, la richiesta di straordinari si è fatta pressante a tal punto che chi non accettava di fare lo straordinario (mentre altre decine di operai sono in cassa integrazione!) veniva cacciato.

«E’ ovvio - afferma Rosa Rinaldi, sottosegretaria al Lavoro - che un operaio che guadagna dai 1000 ai 1200 euro al mese, farà di tutto per portare a casa 100 euro in più, e dunque si darà disponibile a tutti gli straordinari chiesti dall’azienda»! (2). Oltre a buttare il sangue per 1000-1200 euro al mese, per 100 euro in più si viene costretti a rischiare la vita?!

Per le mezze maniche ministeriali tutto questo è «ovvio», ma lo è anche per i sindacati collaborazionisti che hanno sempre facilitato ai padroni la soddisfazione delle loro esigenze aziendali! I collaborazionisti sanno solo blaterare sui doveri dei padroni in materia di sicurezza del lavoro, su leggi e norme che hanno sottoscritto sapendo benissimo che non verranno mai applicate interamente: sindacalisti che non hanno mai avuto nè voglia, nè coraggio, nè interesse a guidare lotte dure e ad oltranza in difesa della salute, dell’integrità fisica e della vita degli operai e che hanno sempre accettato la monetizzazione, perdipiù misera, della salute! Veri luogotenenti del padronato nelle file operaie, i sindacalisti collaborazionisti sono egualmente responsabili di molte morti sul lavoro.

Lunedì 10 dicembre, giornata di lutto cittadino disposta dal sindaco di centrosinistra di Torino, «per rivendicare un lavoro per vivere e non per morire», rivendicazione ripresa dal vescovo di Torino all’omelia tenuta per i funerali dei 4 operai morti, a suo dire, per «eccesso di profitto» (!?!). Parole, parole, parole buttate al vento, che non hanno mai spostato di un grammo la bilancia a favore degli operai. Parole di circostanza, dette  di fronte ad una tragedia che ha scosso il cuore di una città a lunga tradizione operaia. Una città operaia di cui i capitalisti, e i loro servi in giacca e cravatta o in sottana da prete, hanno un istintivo timore perchè dal profondo della storia operaia può risalire in superficie, come un magma vulcanico, la rabbia proletaria per troppi decenni soffocata. E non sarà mai troppo tardi!

Cordoglio per le famiglie degli operai morti e solidarietà a tutti i lavoratori coinvolti: è il contentuo dell’ipocrita comunicato della direzione della ThyssenKrupp, al quale aggiunge un altro comunicato ufficiale in cui sostiene che: «Non c’è alcuna conferma che all’origine dell’incendio vi sia la violazione degli standard di sicurezza (...)  La Thyssen non ha mai smesso di effettuare la manutenzione ordinaria e straordinaria degli impianti nel sito torinese. Gli standard di sicurezza sono stati regolarmente verificati dalle autorità preposte e le ore di straordinario sono progressivamente diminuite» (3). Sembra di leggere i comunicati della Icmesa di Seveso dopo che il 10 luglio 1976 le valovole di sicurezza dell’impianto cedettero e dalla fabbrica si alzò, attraverso le condotte di scarico, una nube densa e rossiccia; allora, tutti gli italiani conobbero  un  micidiale veleno, la diossina, e le tragiche conseguenze sia dell’ipocrisia criminale con cui la Hoffman-La Roche, proprietaria dell’Icmesa, per più di una settimana nascose gli effetti della diossina, sia della servile impotenza e della massima inettitudine delle cosiddette autorità locali che per più di quindici giorni non presero alcuna decisione atta a salvaguardare la salute delle migliaia di abitanti della zona.

Le aziende capitalistiche, d’altra parte, vivono per uno scopo soltanto: far profitto, e tutto ciò che può servire per far profitto - nel più breve tempo possibile e al costo  più basso possibile - di legale e di illegale, viene fatto. Importa poco se di mezzo ci vanno gli operai che lavorano nell’azienda,  le loro famiglie, il futuro dei loro figli. Le vite degli operai sono votate interamente alla produzione di profitto, e se vi sono episodi - come alla ThyssenKrupp di Torino, e come in mille altri posti - in cui degli operai ci lasciano la pelle, o vengono resi invalidi per tutta la vita, ci si arrende alla... fatalità, e ci si lava la coscienza  monetizzando pure la morte!

La rabbia con cui i trentamila operai, che hanno partecipato al corteo in onore dei 4 fratelli di classe morti, gridavano: Assassini! Bastardi, maledetti assassini!, è una rabbia che accomuna milioni e milioni di proletari in tutto il mondo: dai minatori ucraini e cinesi agli edili sparsi in migliaia di cantieri e sottoposti a lavoro nero e alla clandestinità. E’ una rabbia che troppo spesso si chiude in se stessa, soffocata dal dolore e da un ambiente sociale intossicato dalle tragiche illusioni in una «giustizia» al di sopra delle classi. «Maledetti, bastardi, assassini, portafoglio pieno, senza cuore», era il grido di dolore che il padre di Bruno Santino, a nome di tutti gli operai morti e feriti, alzava dal corteo.

La ThyssenKrupp aveva ricevuto nell’ultimo periodo ben 35 segnalazioni di «anomalie» da parte degli ispettori del lavoro, ma nessun intervento è stato fatto. Il procuratore di Torino, Guariniello, dirà (Raiuno del 9/12/07) che alcuni ispettori erano anche consulenti aziendali della ThyssenKrupp!!! Capitalisti che sfruttano bestialmente la forza lavoro, fino a stremarla di fatica e ad ucciderla, si prendono anche la briga di inviare un comunicato di «partecipazione al lutto» di questo tenore: «Tutti i dipendenti delle sedi e degli stabilimenti in Italia, Germania, Messico, Cina e Usa osserveranno un minuto di silenzio domani [13 dicembre, giorno dei funerali, NdR] alle 11.30» (4). Un minuto di silenzio!, come hanno chiesto di fare anche i sindacati collaborazionisti per gli operai che non hanno partecipato allo sciopero «generale» di due ore di venerdì 7 dicembre! Gli operai muoiono assassinati dalla gestione delinquenziale degli impianti e degli staordinari, ma invece di gridare forte la solidarietà di classe e di rispondere virilmente con la fermata generalizzata di tutte le fabbriche per obbligare tutti i padroni ad applicare le necessarie misure di sicurezza nelle diverse lavorazioni, si invitano gli operai - padroni e sindacalisti insieme - a fermarsi ...per 1 minuto, e pure in silenzio!

Ai funerali di questi 4 proletari assassinati i parenti e i compagni di lavoro non volevano la presenza dei vertici della ThyssenKrupp che avevano dichiarato la volontà di parteciparvi. Ma i vertici aziendali ci sono andati, entrando e uscendo dalla sagrestia, con le proprie guardie del corpo e protetti discretamente dalla Digos. Era il «giorno del dolore», e nessun operaio ha voluto distrarre il dolore con le proteste per quella presenza. Così, i signori Harald Espenhahan, amministratore delegato della Thyssen Italia, Luigi Agarini, vice presidente del Cda di Thyssen, e Klaus Peter Henning, Thomas Schlenz, Marco Pucci («l’uomo chiave dello stabilimento Thyssen di Torino», come afferma La Stampa del 14 dicembre) si sono potuti lavare la coscienza in una rappresentazione di arroganza senza limiti: non hanno rispettato la vita dei propri operai, non hanno rispettato nemmeno la loro morte!

Ai funerali ci sono andati anche Giordano, il ministro del Welfare Damiano e Bertinotti, di «Rifondazione comunista», in rappresentanza di un partito e di un parlamento capaci solo di piangere i morti sul lavoro mentre nulla fanno e possono fare di incisivo per i vivi, viste le loro complicità in materia di salvaguardia dell’economia aziendale, dell’economia nazionale e del governo.

Le parole più «dure», secondo i media borghesi, sono state pronunciate dal vescovo di Torino Poletto durante l’omelia funebre tenuta nel Duomo venerdì 14 dicembre: «Negligenza? Mancanza di sicurezza? Eccessiva ricerca di profitto senza le dovute garanzie per la salute e la vita dei lavoratori?» (5), si chiede il cardinale, lanciando poi un  monito, «La salute non può essere un prodotto da vendere in cambio di un posto di lavoro. Ciascuno si assuma le sue responsabilità perché questa è una nuova questione sociale, anzi di più: una nuova questione etica», concludendo: «Mai più morti come queste» (6).

Potevano essere parole pronunciate da un qualsiasi sindacalista della Cgil o della Uil, o da un qualsiasi ministro del governo di centrosinistra, da una qualsiasi autorità locale o parlamentare: belle parole di circostanza, che non piegano alcuna coscienza, che volano così alto da non lasciare traccia e che soprattutto mettono a posto le coscienze dei capitalisti e dei dirigenti d’azienda; loro, naturalmente, non volevano uccidere nessuno...   

Solo in rarissimi casi i capitalisti, i dirigenti d’azienda, responsabili della gestione aziendale, dagli impianti ai macchinari, ai turni, al personale, hanno pagato per le conseguenze del loro menefreghismo o della loro lucida volontà di far rischiare la vita ai proletari. Quasi sempre se la cavano con poco o niente, sia in ternini di galera che in termini monetari. E questo deve aprire gli occhi a tutti i proletari: la «giustizia» non è mai al di sopra delle classi; al contrario, è al servizio della classe dominante e, quindi, difende soprattutto gli interessi dei capitalisti, qualsiasi genere di interesse ma soprattutto quelli legati direttamente al profitto.

La salute non può essere un prodotto da vendere? Ma chi si vuole prendere in giro? In questa società si paga qualsiasi cosa, anche l’aria che respiriamo; la forza lavoro che le aziende capitalistiche sfruttano, per ricavarne il massimo dei profitti (per i capitalisti non esiste l’«eccesso» di profitto, esiste il profitto, e basta, tutto quello che è possibile accumulare), è la capacità di lavoro che il salariato vende al capitalista; e viene venduta ad ore, a giornata, tutta intera, forza e resistenza fisica e nervosa, capacità tecniche ed esperienze pratiche accumulate, salute intelligenza e manualità  comprese, insomma la vita intera! L’uomo che il capitalismo ha trasformato in lavoratore salariato è una merce - lo voglia o no il cardinale - e come tale viene trattata: ha un prezzo, c’è un mercato - il mercato del lavoro - in cui si scambia e subisce la concorrenza come ogni altra merce! E finchè esisterà il capitalismo, esisterà la merce-forzalavoro, con tutte le conseguenze che questa realtà comporta: il suo sfruttamento sempre più sfrenato da parte dei capitalisti, il suo deprezzamento costante, la crescente concorrenza tra proletario e proletario, la sua riduzione quantitativa in termini di forza lavoro occupata stabilmente e la sua crescita a dismisura in termini di forza lavoro occupata saltuariamente e disoccupata, la sua eliminazione dal processo produttivo in periodi di crisi capitalistiche, la sua eliminazione definitiva e massificata in periodi di guerra imperialistica. Questa è la realtà della società capitalistica che opprime la vita delle masse operaie di tutto il mondo e rispetto alla quale non esistono «questioni etiche», ma questioni di rapporti di forza fra le classi: la classe dei capitalisti che sfrutta il lavoro salariato per estorcerne il plusvalore che si trasforma poi in profitto, e la classe dei proletari, dei lavoratori salariati, costretta a vendere per un misero salario e in condizioni di lavoro sempre peggiori ogni grammo della propria forza fisica e nervosa, ogni giorno per tutta la vita, fino a distruggersi di fatica, fino a morire cadendo da un’impalcatura, in una miniera, in un reparto di fabbrica, se non in guerra!

Secondo il luogo comune più diffuso, ogni azienda dà lavoro ai proletari, dal che ne deriverebbe che è interesse anche dei proletari fare in modo che l’azienda faccia profitto, sia redditizia, sia competitiva sul mercato. E quasi sempre, anche se gli operai non se ne rendono conto, ogni loro reazione alle conseguenze più o meno gravi delle decisioni aziendali è dettata dal quel maledetto principio dell’«interesse comune» fra operai e imprenditori. In questo modo la valutazione degli interessi operai, in termini di condizioni di lavoro e condizioni di vita, viene fatta dipendere dalla valutazione degli interessi aziendali - che sono esclusivamente interessi capitalistici -, e con ciò la priorità è completamente rovesciata: prima vengono gli interessi dell’azienda, poi quelli operai!

Il collaborazionismo sindacale ha avuto ed ha la precisa funzione di mantenere viva questa dipendenza, e quando gli operai fanno mostra di non sopportarla e di reagire in qualche modo, entra in campo il ricatto del posto di lavoro,e quindi del salario: o si risponde alle esigenze dell’azienda - che a sua volta è sollecitata dalla concorrenza di  mercato - e quindi ci si sottopone a tutte le richieste che l’azienda avanza (trattando magari qualche misero compenso in più), oppure si va incontro a serie difficoltà: riduzione della produzione, riduzione dell’organico, cassa integrazione, mobilità, licenziamenti, chiusura. Al sistema della trattativa negoziata sulla base della conciliazione degli interessi si aggiunge il sistema del ricatto: il mercato non attende, o le aziende «colgono le opportunità» quando si presentano, o rischiano di perdere molto di più di quella specifica opportunità, e ne va di mezzo la forza lavoro che non si adegua...

Il collaborazionismo sindacale, e politico, ha sposato in pieno questa impostazione e perciò si adopera affinché i proletari si adeguino costantemente alle esigenze delle aziende. Le aziende chiedono più straordinari? Si facciano più straordinari, basta «concordarli» con i sindacati; le aziende chiedono di legare gli aumenti salariali alla produttività?, si leghino i salari alla produttività perché ovviamente la competitività sul mercato è essenziale! Le aziende organizzano ritmi accelerati di produzione? Si accettino i ritmi più accelerati, magari con il pretesto che non si può non adottare nuove tecnologie. Le aziende chiedono la riduzione dell’organico e l’introduzione di lavoratori precari nei picchi di lavoro? Si accetta che un certo numero di operai siano considerati in esubero, e ovviamente la «somministrazione di lavoro» a ditte appaltatrici e a lavoratori precari, basta che sia «negoziata » con i sindacati... Le misure di prevenzione e di sicurezza latitano? Devono essere gli operia che denunciano la loro  mancata applicazione... Ogni intervento delle aziende sull’organizzazione del lavoro è indirizzato allo scopo di rendere l’azienda più competitiva sul mercato, perciò più redditizia e quindi  capace di produrre più profitto capitalistico in minor tempo; in genere, risparmiando il più possibile su ogni «voce» restringibile (vedi salari, manutezione, prevenzione degli infortuni, mensa, pause, ecc.), e riducendo al massimo sull’organico. Ma il sindacato che ci sta a fare?

 Agli operai che cosa rimane degli interventi aziendali? Ai 200 operai della Thyssen Krupp che cosa era rimasto di tutti gli interventi fatti dai vertici dell’azienda? La prospettiva della chiusura tra giugno e settembre del prossimo anno, il carico di lavoro che svolgevano fino allo scorso anno in 385, il ricatto di ore di straordinario (fino a 4 giornaliere!) da fare nei picchi di produzione pena  i richiami scritti e infine il licenziamento, il rischio costante della vita di fronte ad impianti del tutto insicuri! Oltretutto, le ore straordinarie non solo sono state concesse in notevole quantità dai sindacati nei contratti nazionali, ma sono praticamente equiparate in valore alle ore ordinarie, il che significa che al padrone non costano, come un tempo, molto di più delle ore ordinarie. Allora è logico che la ThyssenKrupp obblighi i propri lavoratori anche a 4 ore giornaliere di straordinario oltre le 8 ore già fatte.

Dov’è la comunanza di interessi tra capitalisti e proletari? Non c’è. Esiste, invece, da una parte l’oppressione salariale esercitata dalla classe dei capitalisti e difesa dallo Stato centrale, e dall’altra la resistenza a questa oppressione da parte della classe dei proletari, che solo sindacati di classe - ossia che abbiano per scopo la difesa esclusiva degli interessi di classe del proletariato - possono organizzare e difendere efficacemente.

I salari-base, che non bastano mai per vivere decentemente, e che ormai non bastano più anche per la sola sopravvivenza di una famiglia operaia, costituiscono di per sè la forma monetaria dell’oppressione capitalistica sul proletariato e, nello stesso tempo, un sostanziale ricatto di ogni padrone nei confronti di ogni «suo» operaio. Ma ai salari bassi si aggiungono molte altre voci dell’oppressione capitalistica sul proletariato:

- aumento dell’intensità di lavoro nell’unità di tempo e per singolo lavoratore (ritmi di lavoro accelerati, pause ridotte ed eliminate, aumento delle mansioni per singolo lavoratore, ecc.)

- aumento dell’orario giornaliero di lavoro (aumento degli straordinari, aumento dei turni, aumento delle ore impiegate per andare al lavoro e tornare dal lavoro, ecc.)

- aumento della nocività e dell’usura fisica e mentale da lavoro (ambienti malsani, poco aerati, esposizione prolungata a sostanze nocive, ad alte temperature, a fumi e polveri, accelerazione dei movimenti umani guidati dai movimenti delle macchine, reiterazione prolungata degli stessi movimenti meccanici, ecc.)

- aumento del livello di pericolosità del lavoro (sistemi di sicurezza obsoleti, scarsa  o inefficace manuntenzione dei macchinari, degli impianti, dei mezzi, sistemi di prevenzione scarsi o inesistenti, ecc.).

Con queste caratteristiche, il capitalismo da parecchi anni ha instaurato un «nuovo modello di sviluppo» che risponde alla sua primaria esigenza di salvaguardare il tasso medio di profitto dal quale dipende la sua stessa esistenza. Per i capitalisti, che sono i soli beneficiari del modo di produzione capitalistico che presuppone, appunto, lo sfruttamento del Lavoro salariato da parte del Capitale, gli operai sono semplicemente quella determinata massa di braccia da impiegare nel ciclo produttivo al massimo delle sue possibilità di sfruttamento: la produttività, intorno alla quale tanto si affannano padroni, dirigenti d’azienda, sindacalisti collaborazionisti, banchieri, parlamentari, governanti e le più varie «autorità», è il principio sul quale ogni azienda struttura la propria organizzazione del lavoro. Produttività e competitività vanno di pari passo, l’una si compenetra nell’altra: più aumenta la produttività del lavoro, più le merci prodotte acquisiscono competitività sul mercato rispetto alle merci concorrenti, più il capitalista guadagna, ossia trasforma quelle merci in profitto.

Nel capitalismo Produttività e Competitività significano Profitto assicurato preventivamente; e più crescono la produttività del lavoro e la competitività delle merci prodotte, più è certo il profitto. Perchè i capitalisti non si accontentano di un profitto medio o basso, o magari equo e solidale? In verità non sono i singoli capitalisti a manovrare il mercato, ma è esattamente il contrario: è il mercato, quindi lo scontro a livello internazionale fra tutte le merci e tutti i capitali, in quantità sempre più mastodontiche, che condiziona e obbliga le grandi associazioni di capitalisti, e gli Stati che ne difendono gli interessi particolari, ad agire in un modo piuttosto che in un altro, in una lotta senza fine, e senza esclusione di colpi. E’ questa infernale lotta di concorrenza che si riflette su ogni azienda, su ogni linea di produzione fino a colpire con le sue «esigenze di mercato» la vita quotidiana di ogni proletario determinando le sue condizioni di lavoro via via peggiorative quanto più quelle esigenze di mercato si fanno pressanti. Il capitalista, i vertici delle aziende, non sono soltanto coloro che intascano i profitti, ma sono coloro che diventano gli aguzzini degli operai, non per  cattiveria personale ma... per esigenze di mercato! La loro insensibilità, il loro essere «senza cuore» ma col «portafoglio pieno»,  come gridava il padre di Bruno Santino a Torino, non derivano da malformazioni naturali o da insane compagnie, ma dal fatto che si sono venduti anima e corpo al capitale, alle sue leggi, alla sua dittatura, alla sua cinica crudeltà. Sono nemici della classe operaia di fatto, anche se non per «scelta»!

Il rischio di infortunio e di infortunio mortale, per gli operai,  è ormai un fatto diventato normale. L’organizzazione del lavoro che i capitalisti applicano, a qualsiasi livello e in tempo di cosiddetta pace sociale, nella misura in cui è sempre più coerente con le esigenze di profitto delle attività capitalistiche, è necessariamente sempre più rischiosa per i lavoratori salariati. Non si spiegherebbe altrimenti quanto succede sui posti di lavoro in tutto il mondo; con l’unica differenza - a detrimento della classe operaia internazionale - che nei paesi attualmente in forte espansione capitalistica, come la Cina, l’India, il Brasile, il Sudafrica ecc., la mancanza di misure di sicurezza sul lavoro è ancor più vasta e drammatica, tanto da alzare in progressione geometrica l’incidenza degli «incidenti sul lavoro» e soprattutto delle morti sul lavoro sull’attività lavorativa generale.  

  Gli operai assassinati alla TyssenKrupp di Torino vanno così ad aggiungersi alle maledette statistiche delle «morti bianche» che portano i morti causati dal lavoro a più di 3 al giorno nel 2007 (secondo i dati Inail, nel 2006 sono stati, ufficialmente, 1350 e nel 2007 sono stati 1006), una strage continua!

Di fronte a questo massacro continuo come hanno risposto i sindacati in tutti questi anni? Semplicemente non hanno risposto! Nella realtà dei fatti si sono resi complici del massacro capitalistico. A che servono le parole del gran capo della CGIL, Epifani, quando in occasione dello sciopero generale dei metalmeccanici dell’11 gennaio 2008 per il rinnovo del contratto, ammettono che sulla questione della sicurezza sul lavoro «anche il sindacato ha le sue colpe»!

Sembra di ascoltare l’ipocrita ammissione di colpa del presidente Usa, G. W. Bush, lo stesso 11 gennaio, di fronte al Museo della Shoah a Gerusalemme, quando pronunciò le fatidiche parole: «Avremmo dovuto bombardare Auschwitz»... come se questo atto di guerra, anche nel caso fosse stato portato a termine, avesse potuto cancellare il bombardamento che rase al suolo  Dresda, o quello nucleare di Hiroschima e di Nagasaki, e comunque il gigantesco massacro di milioni e milioni di uomini nel macello imperialistico mondiale attuato esclusivamente in ottemperanza alle leggi capitalistiche del profitto; o potesse giustificare le guerre di rapina e le stragi sistematicamente attuate in tutte le guerre, da quella di Corea del 1950 a quella attualissima in Iraq o a quella annunciata contro la Siria e l’Iran.

Certo, i sindacati collaborazionisti come la triplice Cgil-Cisl-Uil e tutti gli altri similmente operanti in Italia e in qualsasi altro paese, non possono essere paragonati agli Stati imperialisti che usano tutti i mezzi, compresi appunto quelli militari, per battere la concorrenza sul mercato mondiale. Ma la loro funzione sociale, proprio in quanto organizzazioni capillari delle masse operaie, organizzazioni votate alla conciliazione degli intersssi fra le classi e a far passare nelle file operaie le esigenze capitalistiche come fossero esigenze comuni a tutti gli operai, è una funzione utile esclusivamente agli interessi di dominio politico e sociale del capitalismo, e quindi della classe dominante borghese.

In questi anni di «pace sociale», l’opera dei sindacati tricolore, nati nel secondo dopoguerra con il dna del collaborazionismo, nonostante la periodica «durezza» delle loro parole, ha facilitato enormemente lo sfruttamento capitalistico consegnando ai padroni una classe operaia rassegnata, demoralizzata, disunita,  immiserita, senza speranza, alla mercé delle lente ma inesorabili manipolazioni opportuniste per renderla docile, flessibile, addirittura  «partecipe» dei «problemi aziendali» e, naturalmente, dell’economia nazionale! Una politica di questo genere, che disprezza fin dall’origine la difesa esclusiva delle condizioni di vita e di lavoro operaie, non poteva non produrre il risultato che è sotto gli occhi di tutti: una massa operaia alla mercé del dominio padronale, incapace di resistere e di lottare efficacemente contro ogni sorta di attacco capitalistico sulla sicurezza della vita operaia e quindi del posto e sul posto di lavoro. Ci vuole ben altro che qualche parola falsamente commossa di fronte alle stragi continue di lavoratori! 

Gli operai devono risvegliarsi da questo lungo e profondo sonno drogato dall’imbelle democratismo e dall’interclassismo; devono  prendere in mano finalmente la loro lotta strafottendosene delle «esigenze aziendali» e rimettendo come priorità assoluta il proprio salario e la propria salute quotidiana!

Solo con attitudini classiste - che prendano finalmente atto della inconciliabilità degli interessi operai con quelli padronali - e solo attuando mezzi e metodi di lotta volti a difendere esclusivamente le esigenze di vita e di lavoro della classe operaia, gli operai potranno ridiventare protagonisti della loro lotta, e della loro storia.  Al di fuori della lotta di classe, gli operai saranno sempre «invisibili», alla mercé dei soprusi padronali e polizieschi, usati come  carne da sfruttare bestialmente in tempo di pace e carne da macello in tempo di guerra, schiavi salariati senza speranze e senza prospettive!

   


 

(1) Cfr. la Repubblica, 8/12/2007.

(2) Cfr. il manifesto, 7/12/2007.

(3) Cfr. la Repubblica, 10/12/2007.

(4) Cfr. la Repubblica, 13/12/2007.

(5) Cfr. la Repubblica, 14/12/2007.

(6) Cfr. La Stampa, 14/12/2007.

 

Partito comunista internazionale

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