Malgrado le sue crisi, il capitalismo non crollerà se non sotto i colpi della lotta proletaria rivoluzionaria

 («il comunista»; N° 110; Novembre 2008)

 

La crisi finanziaria che ha avuto, in verità, il suo debutto nell’estate 2007 con i primi fallimenti dei fondi specializzati nei famosi subprime americani, ha continuato ad espandersi fino ad entrare nella sua fase più acuta a partire dalla fine di quest’estate.

Per un anno i più alti responsabili finanziari e politici del mondo, collegati con tutti i media internazionali, hanno continuato a minimizzare la portata della crisi, felicitandosi rumorosamente, dopo ogni accesso di febbre speculativa, della prontezza delle banche centrali e dei governi nel gestire i rimedi adeguati al sistema finanziario, e annunciando regolarmente la fine della crisi e il proseguimento della crescita economica.

Ma, a partire dalla scorsa metà di settembre i discorsi lenitivi hanno lasciato il passo alla dichiarazioni più allarmiste: la ragione va cercata nel fatto che la crisi ha cominciato a sfuggire ad ogni controllo, il sistema finanziario non soltanto americano ma internazionale, come un malato nella fase terminale, non reagendo più ai pesanti rimedi che si succedevano a ritmo sempre più rapido: «salvataggi» di banche in difficoltà, decisione del governo americano di riprendersi in carico i crediti inesigibili delle banche, gigantesche iniezioni di liquidità, diminuzione dei tassi storici decisi dalle Banche centrali internazionali ecc.

Negli ultimi giorni di settembre la crisi finanziaria colpisce in pieno l’Europa, dove i discorsi ufficiali avevano vantato contro ogni evidenza la solidità delle banche (delle grandi banche europee, dall’UBS svizzera al francese Crédit Agricole, senza parlare della britannica Northern Rock caduta in fallimento nel novembre dello scorso anno avendo confessato dopo molti mesi di aver perso miliardi di euro!).

Il 26 settembre il ministro dell’economia tedesco dichiarava ancora fieramente che, a causa della loro crisi, gli Stati Uniti stavano perdendo il loro primato di «superpotenza finanziaria» e che un nuovo equilibrio mondiale multipolare stava emergendo nel quale l’euro e le economie della sua zona poteva gareggiare alla pari con il dollaro e l’economia americana. Sarà sufficiente qualche giorno per dimostrare la fragilità di questi discorsi dell’imperialismo tedesco: la grande banca belgo-olandese Fortis (n.1 in Belgio dove la metà delle famiglie vi hanno i propri conti correnti, n. 2 in Olanda) veniva recuperata in extremis da un intervento comune dei governi belga, olandese e lussemburghese, la banca Dexia (i cui clienti in Francia sono essenzialmente le comunità locali) dai governi francese e belga; mentre il governo tedesco era costretto ad organizzare il salvataggio della banca immobiliare Hypo Real e i primi forti timori emergevano sulla prima banca italiana, l’Unicredit.

La speranza che i paesi europei potevano resistere meglio ad una crisi specificamente americana, si volatilizzava definitivamente all’inizio della prima settimana d’ottobre; non solo questi primi salvataggi si incagliavano, non solo la situazione si aggravava brutalmente in Gran Bretagna, ma, nonostante le affermazioni ripetutamente contrarie, i paesi europei si rivelavano incapaci di agire in maniera coordinata, e ciascun paese non pensava ad altro che a salvare i propri interessi, fosse anche a detrimento dei suoi partners.

La Germania e la Gran Bretagna, ancora convinte della loro superiorità, si opponevano risolutamente ad ogni progetto di creazione di un fondo europeo comune di salvataggio delle banche proposto dagli olandesi, dai francesi e dagli italiani; l’unione europea significa che ciascun paese agisce secondo le sue esigenze, spiegava seccamente la cancelliera tedesca alla fine del «mini-summit» del 3 ottobre che non giungerà ad alcuna decisione. Nel frattempo, lo Stato irlandese aveva deciso unilateralmente il 30 settembre di garantire la totalità dei depositi nelle sue banche; fu severamente criticato al summit dai responsabili inglesi e tedeschi che ne denunciavano la concorrenza sleale per le proprie banche; ma durante il week-end del 4-5 ottobre, il governo tedesco, di fronte alla scacco del,salvataggio di Hypo Real e al deterioramento della salute del suo sistema finanziario, decideva, anch’esso in modo del tutto unilaterale, di prendere la stessa misura; nell’urgenza della situazione, i governi austriaco e danese erano costretti anch’essi a decretare nella notte la garanzia dei depositi bancari nei rispettivi paesi per evitare una fuga di capitali verso la Germania!

I britannici, furiosi del capovolgimento di fronte tedesco, non avevano altra scelta che quella di ricorrere ad una misura «estrema» per preservare il proprio sistema finanziario: una semi-nazionalizzazione delle sue principali banche (lo Stato inglese entra per il 60% nel capitale della Bank Royal of Schotchland, per il 55% nella HBOS, per il 40% nella Barclays). Il governo di Londra proporrà agli altri paesi europei di seguire il suo esempio, ciò che essi rifiuteranno come un sol uomo… per alcuni giorni. Allo stesso modo, la decisione unilaterale del governo olandese di nazionalizzare la branca locale della banca Fortis per salvaguardare i propri interessi nazionali, senza comunicarlo ai soci belga e lussemburghesi, obbligherà questi ultimi a fare la stessa cosa: la sola reazione alla crisi veramente internazionale nella cosiddetta “Unione Europea” cadeva così miseramente!

Per completare il quadro, è utile citare il caso della piccola Islanda (300.000 abitanti, non aderente all’UE) che conosceva da qualche anno un boom economico record, fondato sulla forte crescita delle sue attività finanziarie visti i suoi strettissimi legami con la finanza internazionale. Colpita in pieno dalla crisi economica, e trovandosi virtualmente in bancarotta secondo quanto dichiarato dal suo governo, lo Stato islandese decideva la nazionalizzazione delle sue principali banche e, dato che lo Stato islandese aveva estrema difficoltà di rimborsarli, il contemporaneo congelamento di tutti i depositi che vi si trovavano,  moltissimi dei quali sono delle municipalità britanniche. La Gran Bretagna, da parte sua, reagì utilizzando una legge… antiterrorista per bloccare i fondi islandesi che si trovavano nelle banche britanniche! Dato che nei paesi dell’UE l’Islanda non trovava alcuna piazza disposta a farle credito, si rivolgeva alla Russia che acconsentì ad un prestito di 4 miliardi di euro, entrando così, sebbene dalla porta di servizio, nel novero degli Stati che possono condizionare in parte il sistema finanziario internazionale.

Stante la gravità della crisi, questa non può non ravvivare tutti gli antagonismi nazionali esistenti anche in questo cartello di Stati che costituisce l’Europa, rendendo problematica ogni azione comune di una certa ampiezza. Questa incapacità degli Europei nel decidere un’azione comune ha contribuito parecchio all’indebolimento della moneta unica, l’euro, in rapporto al dollaro e allo yen; così è dimostrata in maniera eclatante la fragilità della cosiddetta «costruzione europea» e l’incapacità insormontabile dell’Europa nel presentarsi come una rivale potenziale rispetto agli Stati Uniti sulla scena mondiale. Se un rivale emergerà nel prossimo futuro non potrà che essere uno Stato, non un cartello di Stati, economicamente così forte e storicamente spinto a competere sul mercato mondiale con le più grandi potenze imperialiste esistenti, prima fra tutte gli Stati Uniti d’America, da rappresentare un vitale polo d’attrazione per altri Stati, come è già successo con la Germania negli anni Trenta del secolo scorso.

La seconda settimana d’ottobre ha visto la crisi finanziaria raggiungere la fase parossistica in seguito al fallimento di tutti i tentativi sempre più disperati  per mettervi fine: né il famoso piano americano Paulson di 700 miliardi di dollari, né gli interventi delle banche centrali, né le decisioni britanniche e nemmeno gli appelli del presidente della BCE a «riprendere il loro spirito» quando la crisi colpiva in pieno la seconda economia mondiale, il Giappone, hanno potuto impedire alle Borse mondiali di conoscere un vero e proprio crac.

Se non vi sono stati fino ad oggi, eccezion fatta per la borsa di Mosca ed alcune borse dell’America latina, che pochi crolli in una sola seduta, la maggioranza delle borse hanno conosciuto, dopo ribassi continui, la peggiore settimana dopo il crac del 1987 a Parigi, talvolta peggio che nel 1929 a New York: la Borsa ha ceduto così in una settimana all’inizio di ottobre il 19,8% a Wall Street contro il 13,17% del 1987 e il 9,12% nel 1929; il 24% a Tokyo, il 22% in Brasile, il 21,6% a Francoforte e Milano, il 21,5% a Parigi, il 19,8% a Madrid, il 19,3% in India…(1).

Crisi della finanza? Crisi del capitalismo!

Secondo le «spiegazioni» più correnti, la crisi attuale sarebbe dovuta all’eccesso di crediti concessi a causa della «cupidigia» di banchieri senza scrupoli e dell’insufficienza di regole delle attività finanziarie. Vecchio ritornello che riemerge ad ogni crisi! Marx si burlava già a suo tempo di una commissione parlamentare inglese che attribuiva la causa della crisi economica del 1857-58 all’ «eccesso di speculazione e all’abuso del credito»; e replicava: «Quali sono le circostanze sociali che riproducono, quasi regolarmente, queste stagioni di generale illusione, di speculazione selvaggia e crediti fittizio? Se si riuscisse ad individuarle una volta per tutte, si avrebbe un’alternativa molto semplice: o sono circostanze controllabili dalla società, oppure sono intrinseche all’attuale sistema produttivo. Nel primo caso la società potrebbe scongiurare le crisi; nel secondo, finché permane il sistema, bisogna sopportarle, come, in natura, i cambiamenti di stagione» (2).

Sono  passati centocinquant’anni da quando sono state scritte queste righe, e vi sono state ripetute dimostrazioni del fatto che la società capitalista è incapace di controllarsi ed è incapace di impedire il ritorno periodico delle crisi, che la sorprendono ogni volta. Gli scritti marxisti spiegano il meccanismo di queste crisi periodiche del capitalismo; ad esempio Engels, nell’«Anti-Dühring»:

«In effetti, dal 1825, anno in cui scoppiò la prima crisi generale, tutto il mondo industriale e commerciale, la produzione e lo scambio di tutti i popoli civili e delle loro appendici più o meno barbariche, si sfasciano una volta ogni dieci anni circa. Il commercio langue, i mercati sono ingombri, si accumulano i prodotti tanto numerosi quanto inesitabili, il denaro contante diviene invisibile, il credito scompare, le fabbriche si fermano, le masse operaie, per aver prodotto troppi mezzi di sussistenza, mancano di mezzi di sussistenza; fallimenti e vendite all’asta si susseguono. La stagnazione dura per anni, forze produttive e prodotti vengono dilapidati e distrutti in gran copia, sino a che finalmente le masse di merci accumulate defluiscono grazie ad una svalutazione più o meno grande e produzione e scambio a poco a poco riprendono il loro cammino. Gradualmente la loro andatura si accelera, si mette al trotto, il trotto dell’industria si trasforma in galoppo e questo si accelera sino ad assumere l’andatura sfrenata di un vero steeple-chase [corsa ad ostacoli, ndr] industriale, commerciale, creditizio e speculativo per ricadere finalmente, dopo salti da rompersi il collo, nel baratro del crac» (3).

In confronto al XIX secolo il capitalismo si è enormemente sviluppato, ha conquistato tutto il pianeta, ma le sue leggi di funzionamento sono forse cambiate? Come sempre, è la saturazione dei mercati, la sovrapproduzione, che provoca la crisi, anche quando, come oggi, questa crisi si manifesta all’inizio come una crisi finanziaria, provocata dalla «speculazione» e la scomparsa del credito (particolarmente il credito interbancario che è vitale per la circolazione dei capitali).

I borghesi, i loro esperti e i loro politici di destra o di sinistra, dimostrano di non comprendere nulla dell’andamento della loro economia quando essi non propongono come soluzione alla crisi che delle riforme per regolamentare e inquadrare l’attività bancaria e finanziaria: essi non vogliono vedere, e non possono vedere, che è il meccanismo fondamentale della produzione capitalista, la sua struttura economica, che provoca inevitabilmente delle crisi sempre più violente fino a quando non vi è altra prospettiva che una nuova guerra mondiale per distruggere le forze produttive in sovrabbondanza e ricominciare un nuovo ciclo di accumulazione – a meno che la rivoluzione proletaria non rovesci il capitalismo. E’ certamente possibile che essi giungano a scongiurare il crac finanziario, a salvare gli istituti di credito, a ristabilire il credito grazie alla messa in opera di tutti i mezzi statali a disposizione, fino alla nazionalizzazione del settore bancario, il che significa che lo Stato diventa la banca (o viceversa!). Se tuttora bene, la crisi finanziaria potrà allora essere «risolta»

(al prezzo di un indebitamento esorbitante degli Stati), ma la crisi economica, che ne è stata la vera causa, sarà sempre presente!

 

Lo  spettro  del  1929

 

L’ampiezza della crisi finanziaria attuale, la sua profondità e la sua estensione mondiale sono tali che tutti i commentatori, tutti i media parlano di una crisi comparabile a quella del 1929, anche se aggiungono subito che questa non avrà le stesse conseguenze, perché i responsabili non faranno gli stessi errori, essendo state tirate le lezioni della crisi degli anni Trenta. Si potrebbe far loro notare che da una quindicina d’anni i diversi governi americani, sotto la pressione dei centri finanziari più importanti, si sono impegnati a far scomparire i freni che erano stati allora adottati e che tutti quanti oggi giurano di reintrodurre…

Ma l’importante è sapere come interpretare questo paragone.Non vi sono dubbi che l’ampiezza della crisi finanziaria sarebbe sufficiente da sola per concludere che la recessione economica mondiale sarà ben più grave che le recessioni degli ultimi 25 anni. Ma il riferimento al 1929 rinvia ad una crisi dal peso storico particolare: al di là delle differenze delle recessioni più o meno accentuate che ritmano il movimento economico del capitalismo, ciò che temono i borghesi sono le conseguenze brutali e durevoli non soltanto sulla crescita economica, ma anche sull’equilibrio politico e sociale dei paesi colpiti come sugli equilibri politici mondiali.

La nostra corrente ha sempre sostenuto che l’espansione economica senza precedenti conosciuta dal capitalismo dopo la fine della seconda guerra mondiale sboccherà inevitabilmente in una grande crisi generale di sovrapproduzione – del tipo 1929 per fissare l’idea – che riproporrà l’alternativa

guerra o rivoluzione.

Quando il capitalismo ha prospettive reali di crescita, esso è in effetti in grado di ammortizzare le tensioni sociali ed è conseguentemente vano sperare nell’apertura di un periodo rivoluzionario (è quel che non potevano assimilare gli immediatisti sessantottini che si caratterizzavano per «prendere i propri desideri per realtà»). Ma quando il capitalismo è minacciato d’asfissia a causa della sovrapproduzione, esso ha bisogno di attaccare senza scrupoli i proletari per trarne a tutti i costi dei profitti, preparando nel contempo la guerra che con le sue massicce distruzioni di beni, di merci, di forze produttive – comprese le forze produttive umane, i proletari – gli permetterà di risolvere la crisi e di riavviare un nuovo ciclo di accumulazione.

Siamo già a questo punto? Per rispondere, vediamo quali sono le caratteristiche del «1929», preso come esempio classico di grande crisi di sovrapproduzione nell’epoca dell’imperialismo, così come sono state definite nei lavori di partito (4).

Esse vanno ben al di là della classica caduta borsistica del lunedì nero (28 ottobre) in cui la borsa di Wall Street perse il 13% (crollo record che non sarà superato se non dal crac dell’ottobre 1987); perché se il crollo brutale della borsa segnava in modo spettacolare lo scoppio della crisi, la recessione economica era cominciata in realtà nei mesi precedenti; è questa recessione che provocò in ultima analisi lo scoppio della «bolla» speculativa di borsa che, a sua volta, ebbe conseguenze devastanti sull’economia «reale», sulla produzione industriale. Cominciata nel 1929, la crisi terminerà nel 1932: il 1933 è in effetti un anno di ripresa, anche se piuttosto esitante. Malgrado le drastiche misure di intervento statale, passate col termine di «New Deal», una violenta ricaduta ebbe luogo nel 1937-38, ma essa conobbe una soluzione rapida nello… scoppio della guerra mondiale che rilanciò la produzione a scala gigantesca.

Nei 3 anni della crisi del ‘29, la produzione industriale, che è l’indice più significativo dell’economia capitalistica, accusò un cedimento del 44% che corrisponde ad una caduta media del 17,5% annuo. Nel 1929 la disoccupazione non era che del 3,2%: raggiunse la cifra enorme del 23,5% nel 1932, ossia un aumento medio annuo dell’8%. Le cifre degli indici di borsa mostrano un abbattimento medio del 37,5%.

Oltre a questi elementi, una caratteristica molto importante della crisi del 1929 è stata la deflazione, questo vero e proprio incubo di cui soffrono ancor oggi i capitalisti di tutto il mondo: i prezzi alla produzione cedono del 12% in media per anno (i prezzi al dettaglio, al consumatore come dicono i media, si abbatterono egualmente, ma, come sempre, in misura minore). Infine, la caduta dei salari è l’ultimo criterio importante della crisi, anche se va messa in relazione alla caduta dei prezzi al consumo: i capitalisti, paradossalmente, soffrirono della crisi probabilmente di più dei proletari (almeno dei proletari che avevano un lavoro). Dal 1929 al suo minimo del marzo 1933, il salario settimanale medio nell’industria si abbassò del 56% mentre i prezzi al consumo diminuirono del 28% (5).

Riassumendo, una grande crisi catastrofica di sovrapproduzione nel senso marxista del termine, è caratterizzata da una caduta generale dei prezzi alla produzione, un grave diminuzione della produzione, un forte aumento della disoccupazione, una caduta consistente dei salari e una conseguente diminuzione sensibile dei consumi, un crollo dei profitti – e tutto questo per diversi anni – e non solamente da un crac delle borse.

L’evoluzione del capitalismo da ottant’anni non può non avere delle conseguenze sullo scoppio e il decorso di una grande crisi di sovrapproduzione: da un lato, l’importanza molto più grande del peso dello Stato nell’economia, anche dopo la cura di «liberalizzazione» seguita negli ultimi decenni, permette al capitalismo di smorzare le scosse e gli offre delle armi politiche «anticicliche» molto più potenti di quelle che esistevano nel 1929, come possiamo constatare facilmente guardando quel che avviene sotto i nostri occhi; dall’altro lato, l’ipertrofia del settore finanziario e la generalizzazione dell’economia del debito ad una scala in precedenza sconosciuta accrescendo notevolmente l’instabilità potenziale, rendono enormemente più problematici gli interventi statali (al punto da minacciare di fallimento gli stessi Stati!) (6); mentre la «globalizzazione», cioè l’internazionalizzazione accresciuta dell’economia e l’accelerazione della circolazione dei flussi finanziari alla scala del pianeta, diminuiscono parallelamente le possibilità d’azione degli Stati nazionali. Le forze produttive sono diventate più potenti e più importanti delle strutture statali  borghesi che cercano di controllarle!

La crisi attuale si presenta a prima vista soprattutto come una crisi finanziaria, e su questo piano appare più grave di quella del 1929; non solo la caduta degli indici di borsa sull’anno è nettamente più importante che nel ’29, ma abbiamo assistito, nel corso di un anno, allo sprofondamento di istituti finanziari in attività anche da lunghissimo tempo (la Lehman Brothers aveva 158 anni di vita!)ed a una grave crisi del credito, che nella crisi del ’29 ebbe luogo molto più tardi, e tutto questo a dispetto degli interventi massicci e ripetuti delle Banche centrali e degli Stati.

Ma per quel che concerne gli altri elementi di valutazione della crisi, la differenza con la crisi degli anni Trenta è sorprendente: la produzione industriale nei grandi paesi non accusa che una diminuzione molto più debole. Le ultime cifre disponibili (luglio o agosto, a seconda dei paesi) per la produzione industriale indicano una variazione a confronto con l’anno precedente, del –1,5% per gli Stati Uniti, - 1,7% per l’area dell’euro (-2% per la Francia, -3% per la Spagna, -3,2% per l’Italia, ma + 1,7% per la Germania); - 2% per il Canada, -2,3% per la Gran Bretagna, e la palma del temporaneo record torna al Giappone con un –6,9% (mentre la Cina annunciava un + 12,8% ad agosto rispetto allo stesso mese del 2007!, il che risulta come un dato ancora notevole dell’aggressività del capitalismo cinese che nei primi 8 mesi del 2008 ha registrato un incremento della produzione del 15,7% rispetto allo stesso periodo del 2007, anche se i commentatori occidentali si sono premurati di notare che la tendenza degli ultimi tre mesi è anche in Cina di segno negativo, visto che a giugno la produzione è salita del 16%, a luglio del 14,8% e ad agosto, appunto, del 12,8%). La disoccupazione: aumenta, ma di poco per raggiungere il 6,1% negli Stati Uniti, il 7,5% nella zona dell’euro e il 4,2% in Giappone; ma sappiamo che le statistiche sulla disoccupazione non poco confrontabili un paese con l’altro, e in generale sono poco affidabili) (7).

I profitti delle imprese americane non sono abbassati che del 3,8% (a ritmo annuale) nel secondo trimestre, essenzialmente nel settore finanziario, dopo una fortissima crescita per 4 anni consecutivi fino alla metà del 20078; le autorità finanziarie lottavano non contro la deflazione ma contro il ritorno dell’inflazione. Quanto ai salari, se una previsione americana indica che il salario medio conoscerà in questo paese un abbassamento senza precedenti dopo gli anni Trenta, questo abbattimento non supererà di molto il 10% (8).

In una parola, il capitalismo ultramoderno del Ventunesimo secolo, grazie ai metodi d’intervento statale nell’economia inaugurata ottant’anni fa dal fascismo e dall’imperialismo rooseveltiano, è riuscito finora a frenare la crisi, ad ammortizzarla e a differirne nel tempo le conseguenze. Riuscirà ad impedire che essa scoppi con tutta la sua forza?

E’ impossibile scartare questa possibilità; ma una tale vittoria capitalista non sarebbe che una vittoria di Pirro: al posto di conoscere una crisi violenta ma relativamente breve, si ritroverebbe con una crisi più larvata ma prolungata dalla quale gli sarebbe molto più difficile uscirne, e comunque al prezzo di una crisi futura resa ancor più grave e insormontabile dai mezzi utilizzati per combattere l’attuale…

 

Il  capitalismo  non  si autodistruggerà  mai !

 

A fine settembre il ministro socialdemocratico tedesco dell’economia, Peer Steibrück, affermava in una intervista allo «Spiegel» che «certe parti della teoria di Marx non sono poi così sbagliate» e in particolare quella secondo la quale «il capitalismo non finirà per autodistruggersi a colpi di cupidigia»; il 15 ottobre ,’anziano candidato PS alle elezioni presidenziali gli fece eco proclamando in un meeting: «Marx ha detto che il capitalismo va ad autodistruggersi, ebbene noi siamo qui!». In realtà Marx ha detto che il capitalismo crea prima di tutto i propri seppellitori – ciò che è completamente differente.

Quale che sia l’evoluzione della crisi attuale, anche se essa si rivelasse come l’inizio della grande crisi catastrofica attesa dai marxisti, una cosa è certa: il capitalismo non si autodistruggerà, come non si sono «autodistrutti» i modi di produzione che l’hanno preceduto nella storia dell’umanità.

Solo una rivoluzione nel corso della quale le classi oppresse rovesciano attraverso la guerra civile il dominio della vecchia classe dominante, può rovesciare  il vecchio modo di produzione del quale la borghesia è l’agente, instaurare al suo posto un nuovo modo di produzione che corrisponde al livello raggiunto dalle forze produttive. «A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi si erano mosse. Questi rapporti, da forma di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale» (9). 

Discorrendo sulla sua «autodistruzione» del capitalismo, i lacchè  del capitalismo vogliono evitare che i proletari comprendano che essi soltanto sono capaci di essere gli affossatori del capitalismo; altrimenti detto, che la distruzione del capitalismo non può essere che il risultato della loro lotta rivoluzionaria.

Fintantoché il proletariato non troverà, sotto i colpi degli attacchi capitalisti che vanno moltiplicandosi, la forza di lanciarsi in questa lotta decisiva, fintantoché non troverà la forza di organizzarsi a quello scopo, così sul piano politico (attraverso il partito comunista rivoluzionario) che economico (sindacato di classe), il capitalismo riuscirà ad uscire da tutte le crisi e a prepararsi per imporre la sua soluzione: un nuovo macello mondiale, ancora più distruttivo che i due precedenti a causa dei suoi decenni di espansione nel corso dei quali si sono create quantità gigantesche di forze produttive in sovrabbondanza.

Questa è l’alternativa che pone storicamente il corso di sviluppo del capitalismo; tale è l’alternativa che deve ricordare la crisi attuale ai proletari.

 

 


 

 

1) E’ ben vero che il lunedì seguente, le borse del mondo, allettate dai milioni di dollari e di euro promessi dai governi borghesi, hanno conosciuto dei rialzi storici; ma l’entusiasmo si è dissipato rapidamente e già dal mercoledì esse conoscevano nuovi ribassi, anch’essi storici! Questa volatilità dei corsi borsistici è tipica dei periodi di crac: all’indomani delle giornate nere dell’ottobre 1929, i corsi di Wall Street bruciarono un 18%. La sola differenza è che oggi questa volatilità è ancora più grande e soprattutto più durevole.

2) Vedi K. Marx, Commercio e finanze in Gran Bretagna, 4/10/1858, “New York Daily Tribune”, in Marx-Engels, Opere complete, vol. XVI, Editori Riuniti, Roma 1983, pag. 35.

3) Vedi F. Engels, Anti-Dühring, del 1876-77, in Marx-Engels, Opere complete, vol. XXV, Editori Riuniti, Roma 1974, Terza sezione, Socialismo, cap. II, Elementi teorici, pag. 265.

4) Allo sviluppo dell’economia statunitense sono stati dedicati molti materiali dal partito, e per quanto concerne la crisi recessiva americana di metà degli anni Cinquanta ne1lo studio più generale intitolato «Il corso del capitalismo mondiale nella esperienza storica e nella dottrina di Marx», presentato alle Riunioni generali di Cosenza, Ravenna e Piombino del 1956, ‘57 e ‘58 (pubblicato nel giornale del partito di allora, «il programma comunista» dal n. 16 del 1957 al n. 10 del 1958, ripreso poi per quanto riguarda il decorso dell’economia americana nella successiva Riunione generale di Torino del 1958 («Sfregio e bestemmia dei principi comunisti nella rivelatrice diatriba tra i partiti dei rinnegati») in «il programma comunista» nn. 12 e 13 del 1958. Per quanto concerne le caratteristiche della prima grande crisi generale del 1929, vedi la puntata del primo studio citato contenuta nei n. 7, 8 e 9 del 1958 di «programma comunista», dal capitoletto «44.La diagnosi della crisi USA» al capitoletto «59. Gli estremi della corsa criminale». Quest’ultima parte è pubblicata anche in francese nel n. 4, Luglio-Settembre 1958, della rivista «Programme comuniste», col titolo «La récession américaine de 1957 annonce-t-elle un nouveau 1929?».

5) Cifre riprese dalle statistiche americane citate da E. Varga, «La crise économique, sociale, politique», reprint Ed. Sociales, 1976.

6) Oltre alla piccola Islanda, le società finanziarie stimano superiore all’80% il rischio di impossibilità di pagare i debiti contratti –cioè il rischio di fallimento – del Pakistan, dell’Argentina, dell’Ucraina, dell’Ungheria e della Turchia, come del Kazakistan e della Lettonia. Cfr. Financial Times, 14/10/08.

7) Cfr. The Economist, 11-17/10/2008, e per la Cina Il Sole 24 Ore Radiocor, 12/9/2008.

8) Cfr. International Herald Tribune, 16/10/2008.

9) Vedi K. Marx, Per la critica dell’economia politica, del 1859, Editori Riuniti, Roma 1979, Prefazione, pag. 5.

 

 

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