La donna e il socialismo (2)

Di August Bebel

La donna nel passato, nel presente e nell’avvenire

(«il comunista»; N° 112; Aprile 2009)

(continua dal n. 111)

  

I.  La donna nel passato

 

 

Sotto il regime del diritto materno, non v’era alcun diritto scritto. Le relazioni erano semplici e sacri gli usi; nel nuovo ordinamento, invece, il diritto scritto fu la prima necessità, e fu anche una forza. Questo nuovo diritto trovò fino da allora la sua più chiara espressione in Roma. Roma si costituì a stato fin da principio; proprietà privata e predominio degli uomini formarono la base della sua esistenza. Ciononostante, i cittadini romani per dimostrare la purezza e la inattaccabilità della loro origine, si chiamarono dalle loro madri sabine: Quiriti, ed anche molto più tardi furono chiamati col nome di Quiriti nei comizi e in senato. Populus Romanus significava il complesso dello stato, ma populus romanum quiritum esprimeva la cittadinanza e l’origine. Frattanto la donna perdeva appunto a Roma i suoi diritti agnatizî (16) . Nella gens imperava il diritto paterno, i discendenti per parte di donna erano esclusi dall’eredità. I figli ereditavano come eredi naturali; se questi mancavano, ereditavano i parenti in linea maschile, e, se non ce n’erano neppure di questi, ereditavano i gentili.

Per effetto del matrimonio, la donna perdeva il diritto di eredità sul patrimonio del padre e su quello dei fratelli di lui; essa usciva dalla propria gens; e perciò né lei né i suoi figli potevano ereditare dal padre e dai fratelli di questi. La quota ereditaria andava altrimenti perduta per la gens paterna. Frattanto la divisione per gentes, fratrie (17) e tribù formò ancora per parecchi secoli la base dell’organismo militare romano e dell’esercizio dei diritti civili. Anche nel culto religioso, Cerere, la dea della fertilità, era la protettrice della plebe Romana. Nel tempio di Cerere venivano depositate la cassa del comune, le deliberazioni del senato e le leggi, e sotto la protezione sua si riuniva il comune.

Gli avvenimenti di Atene e di Roma, dopo che la donna, per lo stabilirsi del diritto paterno e del matrimonio, fu spogliata dei suoi diritti, si ripeterono nell’identica guisa ovunque la proprietà privata divenne la base del nuovo ordinamento sociale.. Il possesso della terra e degli strumenti di lavoro fece sorgere anche il bisogno della proprietà, ovvero del diritto di disporre degli uomini che permetteva al proprietario di godere e aumentare la sua proprietà. La moglie, quale procreatrice di eredi legittimi, che diverranno poi i sostegni della proprietà, è la prima vittima di questa caccia alla proprietà e al diritto di disporre delle persone. Essa diventa, come tante altre cose, proprietà dell’uomo che ne dispone liberamente; può tenerla a suo piacere o ripudiarla, maltrattarla o proteggerla. Ne seguiva che la fanciulla appena abbandonata la casa paterna, rompeva con questa ogni relazione; la sua vita poteva dirsi divisa in due parti nettamente distinte: la prima nella casa paterna, la seconda in quella del marito. Questa assoluta separazione dalla casa paterna veniva da Greci espressa simbolicamente con il bruciare dinanzi alla casa del marito l’adorno carro che gli conduceva la sposa e i di lei beni.

In modo diverso procedettero le cose in quei paesi e in quelle regioni, sterili per natura, ove l’alimentazione della popolazione presentava speciali difficoltà. Così ad esempio presso i popoli dell’altipiano del Tibet, ove si è introdotto la poliandria, eccezione fatta per i capi. Qui tutti i fratelli di una famiglia hanno una donna soltanto. Qui l’infanticidio è frequente, e diviene una specie di legge naturale, poiché fra le popolazioni a regime di poliandria [ relazione matrimoniale di una donna con più uomini] i nati maschi prevalgono, e così viene in certa guisa perpetuata la condizione esistente. La poliandria è in vigore anche fra gli Alaiti e gli Esquimesi, dunque nei paesi della zona glaciale, all’opposto della poligamia che si incontra specialmente nei paesi a clima caldo.

Ma, nonostante lo sviluppo della proprietà privata, rimase in vigore, ancora per lungo tempo, la proprietà più o meno comune della tribù, della comunità o dello stato; così in Roma come fra i germani, gli Slavi, ecc. Generalmente erano proprietà comuni i boschi, le acque e i pascoli, mentre il terreno coltivabile veniva di quando in quando diviso in lotti secondo il numero dei capi di famiglia. Ma per effetto dei mutati rapporti ereditari le figlie erano escluse dalla ripartizione. Si teneva conto soltanto dei figli. Perciò le figlie rappresentavano un valore minore, e quindi la nascita d’un figlio veniva considerata con un occhio diverso di quello con cui si guardava la nascita d’una figlia. Soltanto fra gli Incas del Peru e presso alcune altre popolazioni la figlia riceveva un mezzo lotto (18).

D’altra parte, presso le popolazioni che, come i Germani, si reggevano già nei tempi storici a monogamia, un’altra istituzione condusse a gravi inconvenienti. L’usanza che i figli ricevessero dalla comunità il loro lotto non appena maritati, indusse spesse volte i padri a maritare i loro figlioli ancora minorenni, di dieci o dodici anni, a donne puberi. Ma siccome in tali condizioni una vera vita matrimoniale era impossibile, il padre, abusando della autorità paterna, subentrava al figliolo in qualità di marito (19). Vedremo subito a quale degenerazione delle condizioni di famiglia ciò dovesse condurre. La «castità dei rapporti» nel matrimonio dei nostri maggiori è una mera favola, come è favola molto di ciò che si narra di quei tempi. La figlia, finché restava nella casa paterna, doveva guadagnarsi col lavoro il proprio sostentamento; quando essa abbandonava la casa per andare sposa non poteva pretendere più nulla e diventava come straniera di fronte alla propria famiglia

Tale stato di cose esisteva nell’India, in Egitto, in Grecia, a Roma, in Germania, in Inghilterra, nel regno degli Atzechi e degli Incas, ecc. E tale si conserva anche oggidì nel Caucaso, in molte regioni della Russia e dell’India dove si è mantenuta l’antica comunione di famiglia sulla base della discendenza dal padre. Se il defunto non lasciava figli o figli di fratelli, il suo patrimonio non ritornava alla figlia, ma alla comunità. Non è che più tardi che spetta alla figlia il diritto ereditario sui mobili di casa, sull’armento, o che le viene concesso un corredo; e più tardi ancora essa acquista il diritto di ereditare beni immobili. (…)

Sotto il governo imperiale [di Roma], la donna acquistò il diritto di ereditare, ma rimase sempre minorenne e di nulla poteva disporre senza il tutore. Finché viveva il padre, la tutela era esercitata da lui, anche se la figlia era maritata, oppure egli le nominava un tutore. Morto il padre, entrava come tutore il più prossimo parente maschio, anche se incapace come agnato. Il tutore aveva il diritto di incaricare della tutela, quando gli piacesse, un terzo a lui benvisto. La donna romana davanti alla legge non aveva volontà propria; soltanto l’uomo aveva il diritto di domandare la separazione.

Cresciuta la potenza e la ricchezza di Roma, presero il posto dell’antica severità di costumi i vizi e la dissolutezza. Roma diventò il centro della crapula (20) e della raffinatezza dei sensi. Crebbe il numero dei postriboli e di pari passo si diffuse sempre maggiormente tra i maschi l’amor greco. Vi fu un’epoca in cui a Roma il numero degli uomini che si prostituivano era più grande di quello delle donne che si dedicavano alla prostituzione. I pervertimenti sessuali e le dissolutezze crebbero così a Roma come in tutto l’impero a un punto tale, da formare un pericolo per l’esistenza dello Stato. Divorzio e sterilità divennero generali fra le classi dominanti. Gli eccessi e il libertinaggio degli uomini provocarono un eguale comportamento anche fra le donne, e per sfuggire alle pene severe comminate dalle leggi contro l’adulterio della donna, le dame romane si vendicavano facendosi iscrivere nei registri degli edili, ai quali spettava la vigilanza sulla prostituzione. Il libertinaggio, le guerre civili e il sistema dei latifondi causarono un tale aumento di celibi e una sì grande diminuzione di nascite, che il numero dei cittadini e dei patrizi romani scemò notevolmente; perciò nell’anno 16 a.C. l’imperatore Augusto emanò la cosiddetta legge Giulia (21) che premiava la prolificazione e comminava delle pene contro il celibato dei cittadini e dei patrizi romani. Il numero crescente degli schiavi e degli stranieri e la diminuzione dei cittadini romani destò la massima inquietudine. Chi aveva figli, aveva pure la preferenza in confronto di coloro che non ne avevano o dei celibi. A questi ultimi non spettava alcuna eredità, eccetto quella dei loro prossimi parenti; chi non aveva figli poteva ereditare soltanto la metà; il resto andava allo Stato. Su ciò Plutarco osserva: «i Romani non si maritavano per avere eredi, ma per ereditare».

Più tardi la legge Giulia venne ancora inasprita. Tiberio prescrisse che nessuna donna, il cui nonno, padre o marito fosse stato cavaliere romano, potesse vendersi per denaro. Le donne maritate che si facevano iscrivere sul registro delle prostitute dovevano venire bandite dall’Italia come adultere.

Naturalmente per gli uomini non c’erano le stesse pene.

Nell’epoca imperiale il matrimonio veniva conchiuso in diverse forme. La prima, e più solenne, aveva luogo davanti al gran sacerdote, alla presenza di almeno 10 testimoni, e gli sposi, in segno del vincolo, mangiavano insieme una focaccia composta di farina, sale e acqua. La seconda forma era la «presa di possesso», che si considerava come avvenuta quando una donna, consenziente il padre o il tutore, conviveva per un anno sotto il tetto del marito insieme a lui. La terza forma era una specie di compera reciproca, onde gli sposi si scambiavano delle monete e la promessa matrimoniale.

Presso i Giudei, il matrimonio era già consacrato dalla religione fin dai primi tempi, ma la donna non aveva il diritto di scelta; era il padre che le fissava lo sposo. Si legge nel Talmud (22): «Quando tua figlia è in età da marito, dona la libertà ad un tuo schiavo e maritala a lui». Presso gli Ebrei il matrimonio era considerato come un dovere (Crescete e moltiplicate). Perciò la razza ebrea, malgrado tutte le persecuzioni ed oppressioni, è aumentata sempre. Gli Ebrei sono i nemici giurati del maltusianismo (23).

E Tacito così ne parla: «Fra loro regna una tenace coesione e una premurosa liberalità, ma provano un odio ostile contro tutti gli altri. Non mangiano, non dormono con nemici e, sebbene estremamente sensuali, si astengono dall’accoppiarsi con donne straniere… ma fanno aumentare la popolazione. E’ per essi peccato l’uccidere uno dei nati dopo la morte del padre: e tengono per immortali le anime di coloro che morirono in battaglia o giustiziati. Di qui l’amore alla moltiplicazione e il disprezzo della morte». Tacito odia e aborre gli Ebrei, perché disprezzando la loro religione paterna (la religione dei gentili), ammassano doni e tesori. Li chiama “gli uomini più malvagi” ed un “popolo abominevole” (24).

Mentre gli Ebrei sotto la signoria romana furono obbligati a stringersi sempre più fortemente gli uni agli altri, e mentre nel lungo periodo di persecuzione che da allora, e quasi per tutto il medio evo cristiano, ebbero a soffrire, si rafforzò quella vita intima di famiglia che può servire di esempio alla odierna società civile, nella società romana si compiva il processo di decomposizione e dissoluzione.

Alla dissolutezza che spesso confinava con la pazzia, si contrappose, come altro estremo, la più rigorosa continenza. L’ascetismo assunse le forme religiose che prima aveva assunto il libertinaggio, e il fanatismo più entusiastico gli faceva propaganda. La crapula e la lussuria avevano rotto ogni freno, e formavano il più crudo contrasto col bisogno e la miseria dei milioni e milioni che Roma conquistatrice aveva tratti in Italia da tutti i paesi del mondo allora conosciuto.

Tra questi c’era anche un numero sterminato di donne che, divise dal focolare domestico, dai genitori o dal marito, strappate ai figli, versavano nella più profonda miseria e tutte anelavano al riscatto. E in condizioni di poco migliori si trovavano innumerevoli donne romane; sicché avevano le stesse aspirazioni e qualunque mutamento nella loro condizioni sarebbe stato per esse il benvenuto. Oltre a ciò la conquista di Gerusalemme e del regno di Giuda per opera dei romani, ebbe per effetto la distruzione di ogni indipendenza nazionale, e produsse fra le sette ascetiche di quel paese dei visionari che annunziavano l’avvento di un nuovo regno che avrebbe apportato a tutti libertà e felicità.

Sorse il Cristianesimo. Esso personificò l’opposizione contro il materialismo bestiale dominante fra i grandi e i ricchi dell’impero romano, rappresentò la ribellione contro il disprezzo e l’oppressione delle masse; ma cadde nell’estremo opposto, predicando l’ascetismo. Sorto in un tempo che non riconosceva alcun diritto alla donna, considerandola sotto un falso aspetto come l’origine prima dei visi dominanti, esso predicò il disprezzo della donna. Nelle sue inumane dottrine insegnava l’astinenza e la mortificazione della carne. Ma colle su frasi ambigue relative a un regno celeste e ad uno terreno, trovò un sottosuolo fecondo nel terreno paludoso dell’impero romano. La donna, come tutti i miseri, sperando nella sua redenzione, lo abbracciò subito con fervore. Tuttavia fino ad oggi si può dire che non si è compiuto nel mondo nessun importante movimento a cui anche le donne non abbiano partecipato attivissimamente come combattenti e come martiri. Coloro quindi che magnificano il cristianesimo come una grande conquista della civiltà, non dovrebbero dimenticare che furono appunto le donne alle quali esso va debitore di una gran parte del suo successo. Il loro zelo per la conversione fu di grande efficacia nell’impero romano nei primi tempi del cristianesimo, e fra i popoli barbari nel medio evo, e per loro mezzo i più potenti vennero convertiti. Ricordiamo fra le altre Clotilde, che indusse Clodoveo, re dei Franchi, ad abbracciare il cristianesimo; e Berta, regina di Gand, e Gisella regina d’Ungheria, che lo introdussero nei loro Stati. Si deve pure all’influenza della donna la conversione del duca di Polonia e dello czar Iarislao e di molti altri grandi.

Ma il cristianesimo ricompensò male la donna. Esso nelle sue dottrine dimostra per essa lo stesso disprezzo che le dimostrano tutte le religioni dell’Oriente; le impone di essere la serva obbediente dell’uomo cui, anche oggidì, essa deve promettere obbedienza davanti all’altare. Vediamo come la Bibbia ed il cristianesimo parlano della donna e del matrimonio.

Già nella storia della creazione viene imposto alla donna di essere sottomessa all’uomo. Nella scena del paradiso. È la donna che seduce l’uomo ed ha la colpa della cacciata dal paradiso. Si vede che i libri di Mosè furono scritti in un tempo in cui l’uomo era già diventato padrone. I dieci comandamenti dell’antico testamento sono rivolti all’uomo; soltanto nel nono comandamento la donna viene nominata insieme ai servi e agli animali domestici, e l’uomo viene avvertito di non lasciarsi tentare né dalla donna del prossimo, né dal suo servo, né dalla sua domestica, né dai buoi né dagli asini, e da tutto ciò che il prossimo possiede. Qui dunque la donna appare come un oggetto; essa era un brano di proprietà che l’uomo acquistava o contro una somma di denaro o contro prestazione di servizi. Gesù, che appartiene a una setta che si era imposta il più rigoroso ascetismo (astinenza) e l’autoevirazione (25), interrogato dai suoi discepoli se fosse bene pigliar moglie, risponde: «Non tutti comprendono la parola, ma soltanto quelli ai quali è dato; imperocché vi sono evirati che così uscirono dall’utero materno, ve ne sono di quelli che vennero evirati dagli uomini; altri poi si sono evirati da sé per ottenere il regno dei cieli» (26). L’evirazione dunque, stando a queste parole, è opera gradita a Dio e la rinunzia all’amore e al matrimonio è un’opera buona.

E Paolo che può essere chiamato più che lo stesso Gesù il fondatore del cristianesimo e che fu il primo a dare caratteri internazionali a questa dottrina e la sottrasse alle sette giudaiche, predicava: «Il matrimonio è una condizione infima; maritarsi è bene, ma non maritarsi è meglio», …«Vivi nello spirito e resisti agli stimoli della carne…». «Coloro che furono guadagnati da Cristo, hanno mortificato la loro carne insieme alle loro passioni e ai loro appetiti».

Egli stesso seguì le sue dottrine e non contrasse matrimonio. Quest’odio contro la carne e l’odio contro la donna, che viene rappresentata come la seduttrice dell’uomo (veggasi la scena del Paradiso). In questo senso predicavano gli apostoli e i padri della chiesa ed in questo senso operò la Chiesa in tutto il medio evo, creando chiostri e introducendo il celibato dei preti, ed anche oggi essa conserva lo stesso indirizzo.

La donna, secondo il cristianesimo, è la impura, la seduttrice che portò il peccato nel mondo e trasse l’uomo a rovina. Perciò gli apostoli e i padri della Chiesa considerarono sempre il matrimonio soltanto come un male necessario, come oggi si considera la prostituzione. (…) S. Eusebio e S. Gerolamo concordano nell’affermare che l’espressione della Bibbia: «Crescete e moltiplicatevi» non risponda più ai tempi e la donna cristiana non se ne debba curare. Si potrebbero citare ancora cento dei più illustri luminari della chiesa i quali insegnavano allo stesso modo e predicando di continuo diffusero quei principi contrari alla natura sulle questioni sessuali e sull’accoppiamento fra i due sessi, che pure è un precetto naturale e il ,cui adempimento costituisce uno dei doveri più importanti del compito della vita. L’odierna società è ancora gravemente malata di queste dottrine, e se ne rimette solo a rilento.

San Pietro apostrofa le donne energicamente così: «Donne, siate obbedienti all’uomo». San Paolo scrive agli Efesi: «L’uomo è il signore della donna, come Cristo della Chiesa», e ai Corinti: «L’uomo è l’immagine e la gloria di Dio, e la donna è la gloria dell’uomo».

A questa stregua ogni minchione d’uomo può tenersi migliore della donna più distinta, e infatti in pratica anche oggi è così. San Paolo alza pure la sua voce autorevole contro una più elevata educazione ed istruzione della donna, dicendo: «Non si permetta a una donna di educarsi od istruirsi, essa deve ubbidire, servire e stare tranquilla».

Tali dottrine non erano proprie soltanto del cristianesimo. Come questo è una miscela di giudaismo e di filosofia greca, e questa ha a sua volta le proprie radici nelle più antiche civiltà degli Egizi, dei Babilonesi, degli Indi; così la posizione subordinata fatta dal cristianesimo alla donna era stata comune ad ogni antica civiltà umana. Ogni rapporto di dominio contiene la degradazione dei dominati. E questa posizione subordinata della donna si è conservata fino ad oggi in Oriente, ove la civiltà non raggiunse che un mediocre sviluppo, più assai che nella cristianità. Non fu il cristianesimo che migliorò a poco a poco la condizione della donna, ma la civiltà progredente dei paesi occidentali, malgrado il cristianesimo. Il cristianesimo non ha proprio nessun merito se oggi la condizione della donna è più elevata di quella che era al tempo della sua origine. Esso, nei riguarda della donna, ha solamente, nolente o costretto, rinnegato la sua vera natura.

I fanatici della «missione redentrice del cristianesimo», in questo caso come in molti altri riguardi, sono certo di diverso avviso. Essi sostengono che il cristianesimo ha redento la donna dall’antica servitù, e si appoggiano soprattutto sul culto di Maria madre di Dio sorto più tardi nel cristianesimo, culto che serve per il sesso femminile come tale. Al contrario la chiesa cattolica, che fino ad oggi di questo culto ebbe cura, dovrebbe protestare decisamente. I santi e i padri della Chiesa già citati, e dei quali sarebbe agevole riferire molti altri brani, e tra essi i primi e i più grandi collettivamente e individualmente, si mostrano avversari della donna e del matrimonio. Il Concilio di Macon, che discusse nel VI secolo la questione se la donna ha un anima o non l’ha, si esprime sfavorevolmente sulla intelligenza della donna. L’introduzione del celibato ad opera di papa Gregorio VII (27), il furore di una parte dei riformatori, e specialmente di Calvino e dei riformatori della chiesa scozzese e dei preti contro i «piaceri della carne», e soprattutto il «Libro dei libri», la Bibbia nelle sue numerose espressioni sfavorevoli alla donna e all’uomo, insegnano il contrario.

La chiesa cattolica introducendo il culto di Maria poneva, con astuto calcolo, il suo proprio culto della dea, in luogo del culto pagano delle dee, che esisteva presso tutti i popoli tra i quali si diffuse il cristianesimo. Maria fece le veci di Cibale, Militta, Afrodite, Venere, Cerere ecc. dei popoli meridionali; di Edda, Troia ecc. dei popoli germanici; solamente essa venne idealizzata spiritualmente e cristianamente.

Le popolazioni primitive, fisicamente sane, rozze ma incorrotte, che nei primi secoli della nostra era, come flutti immani s’avanzarono dall’Est e dal Nord, e inondarono il floscio impero romano dove il cristianesimo a poco a poco dominava da signore, resistettero con tutte le forze alle dottrine ascetiche dei predicatori cristiani, e questi bene o male dovettero tenere conto di queste nature sane. I Romani si accorsero con stupore che i costumi di quei popoli erano molto diversi dai costumi loro. Tacito riconobbe tale fatto, esprimendosi sui tedeschi così: «I loro matrimoni sono rigorosissimi, e nessuna usanza è più encomiabile di questa, perché essi sono quasi i soli barbari che si appagano di una donna; di adulterî non si ode parlare quasi mai; e se avvengono sono puniti subito, giudici gli stessi mariti. Il marito caccia fuori del villaggio la moglie adultera, coi capelli tagliati, ignuda, davanti ai parenti; perché l’offesa recata alla costumatezza non trova indulgenza. Una donna infedele non trova alcuno che la soccorra né per pregi di bellezza, di gioventù o di ricchezza. Ivi nessuno ride del vizio, né il sedurre o l’essere sedotto vi è considerato come un’occupazione della vita. I giovani si ammogliano tardi e quindi conservano le loro forze; anche le fanciulle non vanno a marito troppo presto, e quindi fiorenti di giovinezza e fisicamente robuste si accoppiano ad uomini egualmente forti, della stessa età, e il vigore trapassa di padre in figlio».

Non bisogna dimenticare che Tacito ha dipinto le condizioni matrimoniali degli antichi Germani a troppo rosei colori e senza conoscerle forse abbastanza intimamente, allo scopo di additarle ad esempio ai Romani. E’ vero che l’adultera veniva punita severamente presso i Germani, ma non era lo stesso per l’adultero. Ai tempi di Tacito la gens era ancora in fiore fra i Germani. Egli stesso, al quale dovevano apparire strani e incomprensibili – dato il progresso dei rapporti domestici fra i romani – la vecchia costituzione gentilizia e i suoi principi, egli stesso narra stupito che presso i Germani il fratello della madre considerava il nipote come un figliuolo, ed anzi alcuni ritenevano che il vincolo di sangue fra zio materno e nipote fosse più sacro e stretto di quello fra padre e figlio, sicché tutte le volte che si chiedevano gli ostaggi, il figlio della sorella rappresentava una garanzia maggiore di quella che poteva offrire il proprio figliuolo. Su di che Engels osserva: Se dai compagni di una gens veniva dato il figlio in garanzia del mantenimento di una promessa e se egli, per effetto della violazione del patto da parte del padre, restava vittima, il padre non doveva intendersela che con se stesso. Ma se era il figlio di una sorella che veniva sacrificato, allora restava offeso il più sacro diritto gentilizio. Il più prossimo parente gentilizio, obbligato a proteggere primo d’ogni altro il fanciullo o il giovane, era colpevole della sua morte; egli o non doveva darlo in pegno o doveva tenere il patto (28). Del resto, ai tempi di Tacito, il diritto materno aveva già, secondo Engels, ceduto il posto al diritto paterno.

I figli ereditavano dal padre; mancando i figli ereditavano i fratelli e gli zii paterni e materni. L’ammissione del fratello della madre, malgrado il diritto paterno, dipendeva da ciò, che l’antico diritto era sparito appena da poco. Il ricordo di questo diritto antico fu il motivo per il quale a Tacito parve che il rispetto dei Germani verso il sesso femminile riuscisse pressoché incomprensibile ai Romani. I Tedeschi si distinguevano anche per quell’invincibile coraggio che, secondo le osservazioni di Erodoto e di altri antichi scrittori, animava tutti gli uomini che si reggevano a diritto materno. La difesa delle donne è per essi tutto ciò che di più nobile ed elevato si conosca; il pensiero che le loro donne cadessero prigioniere o schiave è il più spaventoso che essi possano concepire e li spinge alla più viva resistenza. La donna è per essi sacra e inviolabile; il suo consiglio ha un valore speciale e perciò anche le donne sono sacerdotesse o profetesse. Ai tempi di Tacito i Tedeschi avevano già dimore fisse; la ripartizione del suolo aveva luogo ogni anno e continuava pure a sussistere la comproprietà dei boschi, delle acque e dei pascoli. Il loro regime di vita era ancora semplicissimo; la loro ricchezza principale il bestiame; i loro abiti, molto primitivi, consistevano in rozzi mantelli di lana, in pelli di animali; le donne e gli ottimati (29) avevano sottovesti di lino. La lavorazione dei metalli era in uso soltanto presso le tribù che abitavano troppo lontano per l’importazione dei prodotti dell’industria romana. Negli affari di piccola importanza giudicava il consiglio dei capi; nei più gravi l’assemblea del popolo. I carpi erano elettivi, ed anzi erano per lo più di una stessa famiglia, ma il passaggio al diritto paterno favorì l’ereditarietà delle cariche e condusse alla fine alla fondazione di una nobiltà, dalla quale derivò più tardi la dignità reale. Come in Grecia e a Roma, così anche in Germania, con l’introduzione e col crescere della proprietà privata, con lo sviluppo delle arti e del commercio e col mescolarsi di razze e popoli diversi, la gens scomparve. In luogo suo venne una confederazione o unione di comunità, il consorzio delle Marche (30) che per molti secoli formò l’organizzazione democratica di un libero stato di contadini, fino a che esso soggiacque a poco a poco nelle lotte coi principi, con la nobiltà e con la chiesa, cadde in stato di sudditanza e servitù e segnò il formarsi del feudalesimo.

Nella comunione delle Marche, capo supremo della famiglia era il legittimo signore; venivano dietro di lui i membri di sesso maschile. Le donne, le figlie e le nuore erano escluse dal consiglio e dal governo. Erano passati i tempi in cui le donne avevano la direzione degli affari delle tribù, fatto questo che aveva sorpreso altamente Tacito e che egli riferisce con parole di aborrimento e di disprezzo. La legge salica (31) nel V secolo dell’era nostra abolì espressamente la successione ereditaria del sesso femminile quanto all’eredità patrimoniale della famiglia, e lo spirito di questa legge dominò per secoli. Ogni membro della Marca aveva diritto, come dicemmo poc’anzi, ad una parte dei fondi comuni. Quando un giovane si maritava riceveva il suo lotto di fondi e se gli venivano dei figli acquistava nuovamente il diritto ad una porzione di terreno. Vigeva pure generalmente il costume che i giovani sposi ricevessero speciali concessioni per la fondazione della loro famiglia, per esempio un carro di legna di faggio e la legna per la casa. I vicini prestavano la loro opera volonterosi per le condutture e per digrossare legnami e nella costruzione degli attrezzi domestici ed agricoli. Nascendo una figlia, i genitori di lei avevano diritto ad un carro di legna; se il neonato era invece maschio, a due carri. Da ciò si vede che la donna valeva soltanto la metà del maschio.

La conclusione del matrimonio era semplice. Non si trattava di un rito religioso, bastava la dichiarazione delle due volontà e il matrimonio era conchiuso non appena la coppia era entrata nel letto nuziale. L’usanza che il matrimonio, per essere valido, abbisognasse di un atto della chiesa, sorse soltanto nel IX secolo e non fu che nel XVI secolo che il matrimonio fu dichiarato dal Concilio di Trento un sacramento ecclesiastico.

Col sorgere dello Stato feudale, la condizione sociale di un gran numero di queste comunità peggiorò. I capitani vittoriosi si erano impadroniti di grandi possessioni che sino allora erano del popolo, ed alla loro volta le diedero in dono a quelli del loro seguito, agli schiavi, ai servi, aglio emancipati, tutti per la maggior parte di origine straniera. In tal modo i capitani si crearono una nobiltà di corte e di toga che dipendeva dalla loro volontà e prestava loro aiuto nell’attuazione dei loro progetti. Siccome la formazione di un grande impero quale i re Franchi avevano attuato, dimostrò insufficiente anche dal punto di vista politico la vecchia costituzione gentilizia, così al posto del consiglio dei capi subentrarono i sottocondottieri dell’esercito e la nuova nobiltà.

La gran massa dei contadini liberi, possessori di fondi, fu fiaccata e depressa dalle continue guerre di conquista e dalle discordie dei grandi, cosicché si trovarono nell’impossibilità di soddisfare più oltre all’obbligo di costituire l’esercito. Successero in loro luogo le genti addette al servizio dei grandi, che miravano a salire e che, per lo più, erano stati contadini; questi ultimi, incapaci di opporre resistenza ai continui saccheggi, si erano posti sotto la protezione dei grandi o della Chiesa, che aveva capito che sarebbe divenuta in pochi secoli una potenza considerevole.

Ma, dopo che essi ebbero affidata la proprietà loro ai protettori, la ricevettero di ritorno da essi soltanto sotto forma di beni livellari (32), con l’obbligo della prestazione di tasse e servizi che un po’ per volta assunsero le più svariate forme e che diventarono nel corso del tempo sempre più numerose e opprimenti. Soggezione e schiavitù guadagnarono in estensione. Il signore si arrogò a poco a poco la facoltà di disporre quasi illimitatamente dei suoi servi e schiavi; a lui spettava ora il diritto di costringere al matrimonio ogni uomo di diciotto anni e ogni donna di quattordici. Egli poteva prescrivere all’uomo la moglie, alla donna il marito. Eguale diritto aveva sulle vedove e sui vedovi. Aveva anche il cosiddetto jus primae noctis (33), al quale poteva rinunciare contro pagamento di una data tassa che rivelava già col nome la sua natura (bocca del letto, scellino della camicia, tributo della vergine, tassa del grembiule, ecc.). Questo diritto della prima notte venne discusso più volte.

Può darsi che per alcuni sia molto incomodo, perché esisteva ancora in un’epoca che viene magnificata volentieri come esemplare sotto l’aspetto del cosiddetto buon costume e della pietà. Si è già visto che questo jus primae noctis è l’ultimo avanzo di una usanza che si collega al tempo del diritto materno, quando tutte le donne di una gens erano le mogli di tutti gli uomini della stessa gens. Con la scomparsa della gens, continua a mantenersi l’uso di abbandonare la sposa agli uomini del consorzio domestico la notte del matrimonio; ma il diritto va limitandosi nel corso del tempo e passa alla fine nel capo della stirpe o nel sacerdote, come pratica dio un atto religioso; ma si conserva poi dai feudatari come espressione del loro potere sulle persone e viene esercitato a loro talento o effettivamente, ovvero vi rinunziano contro prestazioni in natura o in danaro.

(…) Non ci può essere dubbio alcuno che il cosiddetto diritto della prima notte non solo fu praticato durante tutto il Medio Evo, ma anche nell’epoca moderna, e fece parte del codice feudale.

(…) Nel Medio Evo i matrimoni si facevamo nell’interesse del padrone, perché i figli che ne nascevano diventavano suoi dipendenti come i genitori loro, aumentavano le sue entrate con l’aumento della manodopera. Fu appunto perciò che i signori ecclesiastici e civili favorirono i matrimoni dei loro sudditi. La cosa prendeva un altro aspetto per la Chiesa nei casi in cui essa mirava a venire in possesso a titolo di legato (34), ponendo impedimenti al matrimonio, del paese e degli abitanti. Ciò però riguardava quasi esclusivamente quelli fra i liberi che erano in più basso stato, la cui condizione era divenuta nel corso del tempo sempre più insopportabile, per le circostanze già da noi accennate e che, seguendo spesso i suggerimenti e i pregiudizi religiosi, cedevano i loro beni alla Chiesa, cercando protezione e pace entro le mura dei conventi. Altri proprietari di fondi che si sentivano troppo deboli per opporsi alla potenza dei grandi signori, si raccomandavano alla protezione della Chiesa contro prestazione di certe corresponsioni e servigi. Ma accadeva spesso che i loro discendenti incontrassero per tale via la stessa sorte a cui i loro antenati volevano sottrarsi e cadessero in potere della Chiesa, ovvero questa se ne facesse dei proseliti per i monasteri per poter più tardi impadronirsi dei loro beni.

Le città fiorenti avevano nei primi secoli il massimo interesse a favorire l’incremento della popolazione, facilitando quant’era possibile la conclusione di matrimoni. Ma col tempo le circostanze mutarono. Non appena le città si sentirono potenti e sorse una classe di lavoratori istruiti ed organizzati, crebbe l’ostilità contro coloro che venivano a stabilirvisi, poiché in essi si vedevano soltanto dei concorrenti molesti. Con l’aumentare della potenza della borghesia si moltiplicarono le restrizioni e gli ostacoli  elevati contro i neo-arrivati. Tasse di famiglia elevate, esami di Maestro dispendiosi, limitazione in ogni arte ad un certo numero di Maestri e lavoranti, costrinsero migliaia di persone alla servitù, ad una vita fuori del matrimonio e al vagabondaggio. E quando passò il tempo della prosperità delle città e cominciò quello della loro decadenza, le idee limitate di quel tempo fecero sì che aumentassero gli ostacoli contro la formazione della famiglia e l’indipendenza. Si aggiunsero poi altre cause di demoralizzazione.

La tirannia dei signori crebbe di decennio in decennio; ciò spinse molti loro sudditi a mutare la loro vita di miseria col mestiere del mendicante, del vagabondo o del bandito; il che era favorito dai grandi boschi e dal pessimo stato delle vie di comunicazione. Oppure si facevano lanzichenecchi (soldati mercenari) che si vendevano a chi più pagava e offriva più ricco bottino. Si formò così un numeroso proletariato di bricconi maschili e femminili che divenne una vera piaga sociale. La Chiesa contribuì in buona fede alla corruzione generale. Vi era già nel celibato dei preti la causa precipua delle dissolutezze sessuali, e queste furono favorite dalle continue relazioni con Roma e l’Italia.

Roma non era soltanto la capitale della cristianità e la residenza del papato, ma fedele al suo passato del tempo dell’impero era divenuta pure la nuova Babele, l’alta scuola europea della scostumatezza, e la corte papale la sua sede principale. L’impero, cadendo, aveva lasciato all’Europa cristiana i suoi vizi più che le virtù. I primi erano stati specialmente coltivati in Italia, e di là penetrarono in Germania, in specie per effetto delle relazioni col clero. Questo, smisuratamente numeroso, formato di uomini vigorosi, i cui bisogni sessuali venivano aumentati straordinariamente dalla vita indolente e dissoluta, e che era tratto a soddisfarli, a motivo del celibato obbligatorio battendo una via contro natura, portò la scostumatezza in tutte le classi sociali e costituì nelle città e nelle campagne una vera peste per la moralità del sesso femminile. I conventi di frati e di monache spesso non erano differenti dai bordelli che in questo solo, che cioè la vita vi era ancor più sfrenata e dissoluta e molti delitti, specialmente gli infanticidi, potevano restare tanto più facilmente occulti in quanto che nei conventi la giurisdizione veniva esercitata soltanto da coloro che erano a capo di questa corruzione. I contadini cercavano di porre le loro mogli e le loro figliuole al sicuro dalle seduzioni dei preti col non accettare alcuno come «padre spirituale» il quale non si obbligasse a prendere una concubina. Circostanza questa che determinò un vescovo di Costanza ad imporre ai parroci della sua diocesi una tassa speciale detta di concubinaggio. Tali condizioni spiegano il fatto che nel Medio Evo, che ci viene rappresentato dalla cecità degli scrittori romantici come pio e costumato, per esempio nel 1414, ci fossero a Costanza in occasione del Concilio ivi tenuto, non meno di 1500 meretrici.

(…)

Ma la condizione delle donne andò sempre più peggiorando anche per il motivo che, oltre agli ostacoli di ogni maniera che rendevano difficile la costituzione della famiglia e il matrimonio, il loro numero superava di molto quello degli uomini. E di questo devono considerarsi come cause particolari le guerre e le sfide, come pure i pericoli che presentavano a quel tempo i viaggi commerciali, la maggiore mortalità negli uomini in conseguenza dell’intemperanza e della crapula e la maggiore mortalità dipendete da questo sistema di vita per effetto di molte malattie pestilenziali che infuriarono nel corso di tutto il Medio Evo. Nel periodo dal 1326 al 1440 si contarono 32 pestilenze; dal 1400 al 1500 quarantuno; dal 1500 al 1600 trenta (35).

Schiere di donne giravano per paesi come ciurmatrici, cantatrici, suonatrici, in società con gli studenti e i chierici, inondando le fiere e i mercati e trovandosi dovunque  c’erano adunanze di popolo e solennità. Nelle truppe dei soldati mercenari v’erano speciali reparti formati da donne, le quali disimpegnavano diversi uffici a seconda della bellezza e dell’età, giusta il carattere del tempo governato a maestranze e corporazioni, mentre fuori di questa cerchia non avrebbero potuto darsi a nessuno a scanso di pene severe. Nei campi esse dovevano trascinare coi carri fieno, paglia e legna, riempire tombe, stagni e fosse e aver cura della pulizia: negli assedî dovevano riempire con frasche, fastelli e fasci d’arbusti le fosse per facilitare l’assalto, aiutare a collocare in posizione le artiglierie o se queste affondavano in strade impraticabili aiutare a trasportarle.

Per ovviare in qualche modo alla miseria di queste donne si istituirono in molte città le cosiddette case di Dio, dipendenti dall’amministrazione cittadina, dove esse erano tenute a condurre una vita onesta. Ma né il numero di questi istituti né i molti conventi erano in condizione di accogliere tutte quelle che avevano bisogno di soccorso. Siccome, giusta le idee del Medio Evo, nessun mestiere, fosse anche il più spregevole, poteva essere esercitato senza regole determinate, così fu organizzata a sistema di corporazione anche la prostituzione. In tutte le città v’erano postriboli, regalia cittadina o del sovrano, ed anche della Chiesa, la cui rendita netta andava nelle casse rispettive. In questi postriboli le donne avevano una padrona scelta da esse, la quale doveva vigilare sopra la disciplina e l’ordine, ma soprattutto curare gelosamente che le concorrenti non costituite a corporazione guastassero il mestiere. Queste, se sorprese, venivano perseguitate con accanimento e punite giudizialmente. I bordelli godevano di una protezione speciale: gli schiamazzi in loro vicinanza venivano puniti più severamente. Le iscritte nella corporazione avevano pure il diritto di prendere parte, ordinate in corteo, a quelle processioni e solennità alla quali intervenivano le maestranze, e non di rado sedettero alle mense dei principi e dei consiglieri. Per altro, non mancarono, specialmente nei primi tempi, violente persecuzioni contro le meretrici ad opera di quegli stessi uomini che esse mantenevano col loro mestiere e col loro denaro.

(…)

V’era certo nel conto in cui nel Medio Evo si tenevano apertamente i piaceri sessuali, il riconoscimento che l’istinto naturale radicato in ogni uomo sano e maturo, ha il diritto di essere soddisfatto e rappresentava la vittoria della natura sull’ascetismo cristiano.

D’altra parte però si capisce che di questo riconoscimento e di questo soddisfacimento fruiva solamente una delle parti, che l’altra era invece trattata diversamente come se anch’essa non potesse e non dovesse avere gli stessi stimoli ed istinti, e la più lieve infrazione delle leggi della morale emanate dagli uomini veniva punita con la massima severità. I rapporti sociali e politici ristretti e limitati com’erano, entro i quali si aggirava il piccolo borghese del Medio Evo, gli facevano dettare norme altrettanto piccine e ristrette anche in rapporto alla posizione della donna. Ed il sesso femminile, per effetto della continua oppressione e della speciale sua educazione, si era così immedesimato nelle idee di chi lo dominava, che trovava tale condizione naturalissima e normale.

Non ci furono anche milioni di schiavi che trovavano naturale la schiavitù e non si sarebbero redenti a libertà se i liberatori non fossero sorti dalla classe stessa dei fautori della schiavitù? I contadini prussiani non hanno forse chiesto di essere lasciati in servitù quando nel 1807 furono proclamati liberi dalla legge di Stein, poiché diversamente «chi avrebbe provveduto a loro in caso di malattia o nella vecchiaia»? E non è lo stesso anche oggi dell’agitazione operaia? Quanti lavoratori non vi sono anche oggi i quali si lasciano influenzare e guidare come pecore dai loro sfruttatori?

L’oppresso ha bisogno di chi lo stimoli e lo animi; perché gli manca la forza e la capacità dell’iniziativa. Così è stato della schiavitù, del famulato (36) e della servitù; così è stato ed è nell’agitazione del proletariato dell’epoca moderna, e così è anche nella lotta per la libertà e l’emancipazione della donna, lotta intimamente connessa con quella che si combatte dai proletari.

 

(2 – continua)

 


 

(16) Agnatizio: relativo all’agnazione, ossia la legame di parentela da parte dei maschi, cioè tra i discendenti dello stesso padre, e tenuto conto della sola linea maschile.

(17) Fratria: nell’antica Grecia era l’associazione dei membri di famiglie discendenti dallo stesso capostipite, con fini di tutela della vita, dei beni, dell’onore dei componenti. I membri della fratria combattevano insieme in guerra e avevano culti propri; con l’affermarsi dello Stato, la fratria mantenne funzioni religiose.

(18) Cfr. Laveleye, L’origine della proprietà. Traduzione del dottor Bücher (Nota di A. Bebel). Emile de Lavelaye, economista belga, esponente del socialismo cristiano, scrisse diverse opere, tra cui Propriété et ses formes primitives, Alcan, Paris 1891.

(19) Cfr. Laveleye, L’origine della proprietà, cit.(Nota di A. Bebel).

(20) Crapula: gozzoviglia.

(21) Augusto, il figlio adottivo di Cesare, apparteneva per adozione alla Gens Iulia; di qui il nome di Giulia dato alla legge (Nota di A. Bebel).

(22) Talmud: raccolta di trattati giuridici e religiosi che costituiscono l’esegesi della  Mishnach, alla luce dell’halakhah e dell’haggadah. E’ raccolto in due redazioni: il Talmud palestinese, risalente ai secoli IV-V, in aramaico occidentale e il Talmud babilonese, di più vasta diffusione, in aramaico orientale, risalente al secolo V. Arricchito di commenti, costituisce testo base dell’ebraismo ortodosso. La Mishnach è la legge orale ebraica, formatasi attraverso il lavoro, di esegesi della Bibbia nell’ambito delle scuole rabbiniche e codificata da Rabbi Giuda (o Giuda il Santo, sec.II-III) nell’accademia di Bet Shearim in Galilea, che elaborò materiale di precedenti raccolte. Essa è composta di 63 trattati, divisi in sei sezioni (preghiera e norme di agricoltura, ricorrenze, matrimonio, diritto civile e penale, culto, norme sulla purità). Halakhah, in ebraico significa “via, norma”. Nella tradizione ebraica costituisce la parte normativo-giuridica contenuta nella Torah (in ebraico “legge, insegnamento”, costituita dai primi cinque libri della Bibbia, o Pentatéuco - Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio)  e codificata nel Talmud; applicata in maniera vincolante a tutti gli aspetti della vita del singolo e della collettività, costituisce la base dell’ortodossia pratica ebraica. Haggadah, in ebraico significa “racconto”. Nella letteratura rabbinica, l’insieme di racconti, parabole, proverbi e simili a scopo edificante, derivante dalla tradizione orale e incorporato nel Talmud.

(23) Maltusianismo: teoria ispirata da T. R. Malthus – economista britannico, pastore anglicano,  1766-1834 -  secondo la quale per assicurare il benessere dell’umanità sarebbe necessario applicare misure di controllo delle nascite esercitato con la continenza.

(24) Tacito, Storie, libro 5. (Nota di A. Bebel).

(25) Mantegazza, L’amore nell’umanità (Nota di A. Bebel). Probabilmente si tratta di Paolo Mantegazza, Gli amori degli uomini, 2 voll., Milano 1886.

(26) Matteo [evangelista]: cap. 19, ver. 11 e 12 (Nota di A. Bebel).

(27) Fu un provvedimento del quale i parroci, fra gli altri, della diocesi di Magonza si dolsero in questi termini: Voi vescovi e abati possedete grandi ricchezze, una tavola principesca, sontuosi equipaggi di caccia; noi poveri preti, per nostro conforto, non abbiamo che una donna. La continenza sarà una bella virtù, ma in verità essa è dura e molesta. Yves Guyot: Le teorie sociali del cristianesimo, II edizione, Parigi (Nota di A. Bebel).

(28) Engels: Le origini della famiglia, ecc. (Nota di A. Bebel).

(29) Ottimate, nel mondo classico, era il cittadino potente per nobiltà, dignità o ricchezza materiale.

(30) La Marca, a partire dal periodo carolingio – dalla metà del sec. VIII alla fine del sec. X – era un territorio che per la sua posizione di confine era sottoposto ad una particolare giurisdizione; era affidata a un funzionario con poteri civili e militari, detto marchese, la cui carica inizialmente temporanea, finì col diventare irrevocabile ed ereditaria.

(31) La legge salica era una raccolta di consuetudini giuridiche dei franchi salii (gli antichi franchi), la cui prima compilazione risale ai tempi di Clodoveo (466-511), re merovingio. Era essenzialmente una raccolta di norme di carattere penale, ma è nota soprattutto per la particolare disposizione che escludeva le donne dalla successione della proprietà fondiaria, dalla quale fu derivato il principio che escludeva le donne dalla successione dinastica al trono.

(32) Livello: era detto un contratto agrario, adottato diffusamente appunto nel Medio Evo, per il quale una terra veniva concessa in godimento per un certo periodo di tempo e a determinate condizioni. Bene livellare: bene, in questo caso la terra, sottoposto a contratto agrario livellare.

(33) Il diritto del signore di giacere la prima notte di matrimonio con ogni donna, dai quattordici anni in su, appena maritata.

(34) Legato: funzionario inviato, per incarico temporaneo, a rappresentare uno Stato o un sovrano; oggi, solo a proposito dell’ambasciatore pontificio.

(35) Dr. Carlo Bücher: La questione della donna nel medio evo, Tübingen (Nota di A. Bebel).

(36) Famulato: la condizione del servo nella Roma antica; nel Medio Evo indicava il contratto di lavoro e di servizio. Si usa ancora oggi per indicare la condizione o l’entità delle persone di servizio.

 

 

 

Partito comunista internazionale

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