Sulle differenze tra le posizioni della sinistra comunista e del partito comunista internazionale e le posizioni dei gruppi che pretendono di esserne «eredi»

(«il comunista»; N° 115; Novembre 2009 - Gennaio 2010)

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Questo tema, sollecitato più volte e in tempi diversi da compagni e lettori, è già stato trattato in precedenza, qualche anno dopo la nostra riorganizzazione (RG, 1988-89) nel corso del bilancio delle crisi di partito e,  successivamente, incentrando la critica sulle diverse posizioni a proposito, ad  esempio, della «questione palestinese» («il comunista», n. 80-81, agosto 2002).

Alla scorsa riunione generale di partito si è voluto, invece, dare un taglio  più generale e, a questo scopo, ci siamo rifatti ai documenti che i diversi raggruppamenti hanno redatto nella forma del «Chi siamo», documenti che, almeno nelle intenzioni, dovrebbero dare gli elementi teorici, programmatici, politici, tattici e organizzativi attraverso i quali ognuno di quei gruppi intende caratterizzarsi rispetto agli altri raggruppamenti politici che si rifanno alla corrente della Sinistra comunista.

Abbiamo iniziato dai due gruppi che riteniamo più contraddittori e, nello stesso tempo, più affini tra di loro: «battaglia comunista» e il nuovo «programma comunista».

Il primo, formatosi nella scissione storica del 1952, dalla quale datiamo la vera nascita organizzativa del nostro partito nel secondo dopoguerra; il secondo, nato trent’anni dopo in seguito alla crisi esplosiva del 1982-84, come sua controfigura sfalsata. Se coloro che seguirono Damen (che si accaparrò la testata di partito «battaglia comunista»), all’epoca, si caratterizzarono per alcune posizioni teoriche e politiche piuttosto chiare, anche se si precisarono meglio successivamente (sulla questione dell’organizzazione di partito, sulla valutazione della situazione seguita alla fine della guerra, sulla questione sindacale e nazionale/coloniale, sulla stessa Russia), coloro che seguirono, durante e dopo la crisi esplosiva del partito nel 1982-84, Bruno Maffi (che si accaparrò la testata di partito «il programma comunista»), non assunsero posizioni politiche chiare, limitandosi a rivendicare genericamente quel che il partito aveva sostenuto nei trent’anni precedenti. I «damenisti», nel 1951-52,  svilupparono una lotta politica interna, sia apertamente che di nascosto, tutta rivolta a far passare nel partito la posizione secondo la quale si doveva affidare ad un congresso (e quindi alla presentazione di diverse posizioni) la scelta della linea da seguire (fino al congresso successivo) e, dato che questa posizione non trovava “voce” nel giornale di partito, essi utilizzarono la casuale “proprietà commerciale” della testata di partito per un’azione legale atta a togliere il giornale di partito dal controllo politico del centro di allora (chiamato Comitato Esecutivo), considerato avversario e, soprattutto, espressione di una minoranza sebbene particolarmente compatta. I «maffisti», invece, nel 1982-84, si astennero da qualsiasi lotta politica aperta contro le deviazioni liquidatorie che erano emerse nella crisi interna e, all’insorgere di ulteriore deviazione liquidatoria da parte di un sedicente Comitato Centrale (instauratosi al posto del Centro nel giugno 1983), si collegarono fra di loro di nascosto al solo scopo di utilizzare a loro volta la casuale “proprietà commerciale” della testata di partito per un’azione legale atta e riprendere in mano il controllo totale del giornale togliendolo dalle mani di quelli che consideravano una “cricca” infiltratasi nell’organizzazione allo scopo di distruggerla. Inutile dire che in un caso come nell’altro, l’azione legale a difesa di una “proprietà commerciale” che è solo ed esclusivamente borghese ha, in definitiva, caratterizzato coloro che se ne sono avvalsi, mettendoli insieme nel girone di coloro che «non potranno più venire sul terreno del partito rivoluzionario» come si può leggere nella famosa avvertenza “Al lettore” pubblicata nei primissimi numeri de «il programma comunista» del 1952 immediatamente dopo la scissione da «battaglia comunista».

L’approfondimento delle posizioni dei due gruppi, attraverso appunto i loro documenti, colloca le loro posizioni al di fuori non soltanto delle linee che caratterizzano da sempre la Sinistra Comunista, ma dello stesso marxismo. Vi sono comunque delle differenze tra di loro di cui bisogna tener conto nella nostra critica. I documenti presi in esame sono i seguenti:

· per il «Partito comunista internazionalista-battaglia comunista»: O. Damen, A. Bordiga, validità e limiti d’una esperienza (1971); Quaderno di battaglia comunista n. 8 sulla Questione nazionale e coloniale; O. Damen, Scritti scelti (2000); Chi siamo, da dove veniamo, cosa vogliamo, Ed. Prometeo 2001; Tesi e documenti del VI Congresso, giugno 1997 e Piattaforma del BIPR e del PCInt (1997)

· per il nuovo «Partito comunista internazionale-programma comunista»: Che cos’è il partito comunista internazionale (1995); Come poniamo oggi le Questioni nazionale e coloniale e dell’autodeterminazione dei popoli (1998); Il marxismo e la questione nazionale (2004); Per la difesa intransigente delle condizioni di vita e di lavoro dei proletari. Forme di organizzazione, metodi e obiettivi di lotta (2008)

 

Concezione del partito

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Il gruppo di «battaglia comunista» [d'ora in poi «b.c.»] , che si dichiara erede diretta della Sinistra comunista, concepisce il partito come una guida “spirituale” del proletariato al quale addossa tutti i compiti relativi alla preparazione rivoluzionaria, alla conduzione della rivoluzione e conseguente presa del potere, alla formazione di un nuovo Stato (o meglio: semi-Stato) al posto di quello borghese e all’esercizio di quella che chiama ancora “dittatura proletaria” per la quale prevede come atto significativo la promulgazione di leggi che impediscano formalmente la riorganizzazione dei borghesi in partito o in associazioni di difesa dei loro interessi (senza minimamente accennare alla necessaria coercizione, al terrorismo, alla violenta repressione dei tentativi borghesi di riprendere il potere perso). Come abbiamo avuto già modo di scrivere (vedi «il comunista» n. 64-65/1999: «Battaglia comunista»: doppio misto di volontarismo e intellettualismo, di democratismo militante e partito «virtuale»), per «b.c.» il partito è solo virtuale. Essa, dal punto di vista organizzativo interno, rivendica apertamente il centralismo democratico, e la democrazia interna fino a giungere a sostenere che il partito di domani che “guiderà” il proletariato nella rivoluzione dovrà essere il risultato dell’incontro fra organizzazioni diverse. E non si limita più al cosiddetto BIPR (Bureau International per il Partito Rivoluzionario), di cui si definivano sezione italiana, costruito insieme con il gruppo britannico CWO, ma ora («b.c.» nov/dic.2009) dichiara che il Bipr si è trasformato in Tendenza Comunista Internazionalista. Insomma, avevano iniziato con il rivendicare come “partito” l’eredità della Sinistra Comunista italiana e del Partito Comunista d’Italia per diventare uno dei tanti gruppi che fa parte di una sedicente Tendenza con l’obiettivo ufficiale di attendere che «l’ultima fase della crisi» getti «sulla scena nuovi raggruppamenti di classe operaia» che, prima o poi, «potrebbero cambiare le nostre prospettive». Più codismo di questo, che altro? Il partito, secondo questi nuovi/vecchi opportunisti, non si forma sulla base di una teoria e di un programma unici e validi per tutto il corso storico fino alla completa vittoria del comunismo rivoluzionario, e su di un’organizzazione ad essi vincolata e coerente, ma sulla base di trattative fra gruppi con programmi, visioni e tattiche disomogenei; non per nulla i gruppi sono chiamati “organizzazioni affiliate”. Gli elementi decisivi non sono quindi legati alla teoria marxista e al programma politico del partito, ma alla forma da dare all’organizzazione “internazionalista”. Infatti, al punto 4. del comunicato del loro Bureau Internazionale (BI) del 26-27 settembre 2009, affermano: «Al nuovo BI sono stati subito affidati un certo numero di compiti. Per prima cosa dovrà cominciare a preparare gli statuti, basati sui principi del centralismo democratico, per le organizzazioni affiliate e i membri individuali»; e al punto 5.: «Per seconda cosa, dovrà redarre un bollettino o una newletter interna»; al punto 7: «Al BI è stato inoltre affidato l’incarico di cominciare la scrittura (o delegarla a qualche compagno) di un certo numero di documenti che ci sembrano necessari per rapportarsi alla classe nel secolo attuale». Come affermavamo fin dal 1952, «b.c.» privilegia la forma rispetto al contenuto, con buona pace dell’invarianza del marxismo, del programma politico del partito e delle sue norme tattiche per i quali la Sinistra Comunista italiana aveva dato battaglia per anni sia all’interno della Terza Internazionale che al suo esterno e nel lavoro di restaurazione della teoria marxista e dell’organizzazione di partito nel dopoguerra contro ogni deviazione opportunista, quindi non solo contro lo stalinismo. I miti dello statuto di partito e del bollettino interno col quale far girare democraticamente le opinioni dei singoli militanti, sono ancora al centro delle loro maggiori preoccupazioni.

Il gruppo del nuovo «programma comunista» [d'ora in poi «p.c.»] si definisce partito, ma, in realtà, non spiega che tipo di partito intende essere o diventare; si limita a dire che, come per la borghesia, così anche il proletariato «ha bisogno di un partito che rappresenti i suoi interessi storici, che l’aiuti a riconquistare quell’unità e identità necessarie oggi per difendersi e domani per contrattaccare». Quali sono gli interessi storici del proletariato non è detto, come non è detto da che cosa il proletariato si deve difendere “oggi” e per quale obiettivo deve “contrattaccare” domani. E’ così superfluo  richiamare i concetti fondamentali del marxismo sul «proletariato che si costituisce in classe, quindi in partito» e sull’obiettivo rivoluzionario del «proletariato che si costituisce classe dominante»? Il partito di classe si limita a rappresentare gli interessi di classe, a proclamare le «necessità storiche» e ad «aiutare» il proletariato a difendersi e a contrattaccare – con che obiettivi, con che metodi e mezzi? – o si pone come la guida del movimento proletario, la guida del proletariato nella rivoluzione anticapitalistica, che prepara, organizza e dirige il movimento rivoluzionario per la conquista violenta del potere politico, l’abbattimento dello Stato borghese e l’instaurazione della dittatura del proletariato che esercita con monopolio politico assoluto? Perché non dichiarare subito i principi basilari del comunismo rivoluzionario per la realizzazione dei quali, e soltanto per la realizzazione dei quali è necessaria la formazione del partito di classe del proletariato? In verità questi concetti non sono mai dichiarati con chiarezza e priorità in tutto il testo che abbiamo preso ad esempio, ma sono molto mimetizzati e accennati di sfuggita – forse per non spaventare i lettori?

Un raggruppamento politico che si definisce partito di classe e che, oltretutto, pretende di essere riconosciuto come l’unico erede della corrente della Sinistra comunista, come prima cosa dovrebbe presentarsi attraverso il suo programma politico dato che il partito di classe si definisce prima di tutto dal contenuto del suo programma; senza programma politico non ci si organizza in partito (partito bolscevico, Internazionale Comunista, partito comunista d’Italia, il nostro partito di ieri lo insegnano, ma basterebbe rifarsi al Manifesto del 1848 per capire che senza esplicitare il proprio programma politico, il partito di classe non si distingue dagli altri partiti). Certo, non basta scrivere e vincolarsi ad un ben preciso programma politico per essere il partito comunista rivoluzionario e agire nella realtà storica come tale; è necessario dimostrare con i fatti, le prese di posizione, le azioni, le critiche, le battaglie di classe che quel determinato gruppo politico merita il nome che si è dato di partito comunista rivoluzionario. Ma è altrettanto certo che nascondendo il proprio programma e la volontà pubblicamente dichiarata di vincolarsi ad esso si afferma implicitamente che il programma comunista non è basilare, non è un elemento fondamentale del partito di classe e che oggi può contenere certi obiettivi e certe indicazioni ma domani potrebbe contenerne altri e non necessariamente coerenti con quelli precedenti. Meno male che il raggruppamento di cui stiamo parlando ha per testata «il programma comunista»; evidentemente per loro basta il nome, basta dirsi partito comunista internazionale per esserlo o per diventarlo effettivamente. In effetti, iniziano il loro opuscoletto proprio così: «il nostro nome è il nostro programma», mettendo così in evidenza che per loro è più importante apparire che essere; non si sarebbe dovuto scrivere, al contrario, che è il nostro programma a dare il nome al nostro partito?

In un periodo storico in cui la confusione sui concetti di partito di classe, partito comunista, comunismo, rivoluzione, Stato, violenza, terrorismo, tattica, metodi organizzativi, rapporti tra partito e classe ecc., è la più profonda ed estesa, è assolutamente necessario per l’organizzazione politica che si definisce partito comunista rivoluzionario mettere sempre in grande evidenza, costantemente, sistematicamente, gli elementi programmatici che distinguono il «partito comunista internazionale» da qualsiasi altro partito. In un opuscolo che ha il compito di spiegare che cos’è il partito comunista internazionale, porre come primo elemento distintivo il programma del partito è la prima cosa da fare. Invece, il nuovo «programma comunista» smentisce se stesso e cerca gli elementi di distinzione nella forma e non nel contenuto (come «battaglia comunista»).

Nel loro opuscolo, dopo aver detto quel che abbiamo ora visto sul perché si chiamano “partito”, cercano di motivare perché il loro partito si dichiara “comunista” e “internazionale”. Ne viene fuori all’inizio una spiegazione del tutto banale, basata su una dichiarata «necessità del comunismo» poiché il capitalismo ha esaurito la sua forza di progresso per l’umanità e deve essere sostituito da un «sistema economico e sociale diverso – un sistema che fondandosi sull’elevatissimo livello raggiunto dalle forze produttive, le liberi però da quei vincoli che le rendono distruttive, le indirizzi verso finalità che non siano quelle della corsa al profitto, della competizione di tutti contro tutti, di un mercato che è strutturalmente (geneticamente) pazzo», ma poi in un capitolo successivo (“Che cosa vuol dire comunismo…”) viene tracciata una spiegazione sui generis dalla quale non appare mai in modo inequivocabile che il movimento del proletariato deve porsi sul terreno della rivoluzione violenta per conquistare il potere e instaurare la propria dittatura di classe, e che il partito di classe non è solo la guida della lotta della moderna classe operaia, ma è l’organo principale e indispensabile della rivoluzione e della dittatura proletarie. Si dice e non si dice, come dal brano seguente: «Per arrivare a ciò [cioè alla “liberazione” del proletariato dal giogo capitalista, ndr], la lotta della moderna classe operaia, condotta sotto la guida del partito comunista (dotato di un programma e di una strategia mondiali) [programma e strategia di cui non si dà alcuna notizia, ndr] deve spingersi fino alla conquista del potere politico. Il proletariato instaurerà allora la sua dittatura di classe per il tempo necessario a schiacciare con il terrore qualunque tentativo di opposizione delle classi vinte e ormai inutili, a concentrare nelle proprie mani i mezzi di produzione e di scambio, a spezzare i rapporti di produzione esistenti, a cancellare inerzie e abitudini secolari».Era così difficile usare il termine rivoluzione? La lotta della moderna classe operaia per la conquista del potere politico e per l’instaurazione della dittatura di classe può essere una cosa diversa dalla rivoluzione proletaria e comunista? E perché non spiegare quali sono le condizioni oggettive e soggettive che definiscono un periodo storico come periodo rivoluzionario e che la lotta proletaria sul terreno rivoluzionario prevede lo sbocco nella  rivoluzione – dunque nell’insurrezione, nella conquista violenta del potere politico, nell’abbattimento dello Stato borghese, nella formazione dello Stato proletario e nell’instaurazione della dittatura proletaria esercitata dal solo partito comunista rivoluzionario che utilizza ogni mezzo fino al terrore per vincere la resistenza delle classi borghesi vinte e contrastarne la riorganizzazione e ogni tentativo militare di restaurazione del potere perso? Mimetizzando tutti questi concetti e questi passaggi si dà l’idea che il processo storico che porterà la lotta del proletariato dalla società capitalistica al comunismo sia qualcosa di scontato, che avverrà comunque e per il quale il partito comunista rivoluzionario ha un ruolo assegnatogli dalla “storia” e che espleterà al di là delle vicende che lo hanno portato o lo portano a sbagliare, a deviare dalla rotta rivoluzionaria, a stravolgere la prassi e la tattica, a trasformarsi in altro da sé.

Quanto all’organizzazione interna del partito, il nuovo «p.c.», se rivendica a parole il centralismo organico, lo smentisce nella pratica, come ha dimostrato in diverse occasioni sia durante la crisi esplosiva del partito che dopo, e nel tentativo di rafforzarsi numericamente attraverso l’affiliazione di intere ex sezioni di partito staccatesi su posizioni generalmente attendiste e accademiche (in Italia e all'estero) o di interi gruppi con cui è venuto in contatto. A parole si dichiara antidemocratico, nei fatti utilizza il meccanismo democratico e personalistico, come nel caso dell’azione legale per impadronirsi della testata del giornale di partito, o della partecipazione dei capi del nuovo «programma comunista» alla Fondazione Amadeo Bordiga verso la quale, ma solo oggi (vedi «il programma comunista» n.5/2009), sostengono che «come organizzazione, il nostro Partito non ha mai avuto a che fare con essa, e tanto meno ne è stato “promotore”», salvo il fatto che da quando esiste questa Fondazione la loro «organizzazione come Partito» non ha mai espresso una critica accettando che loro militanti prendessero decisioni personali al di fuori della prassi di partito partecipando dal 2000 in poi attivamente alla costituzione e alla promozione di questa Fondazione (a proposito della quale vedi «il comunista» n. 71-72 - le prolétaire, n. 455/2000 – el programa comunista, n.45/2004). Ieri hanno ammesso, non pubblicamente, questa distinzione fra comportamento dei singoli militanti del tutto incoerente con la prassi elementare di partito; domani potrebbero ammettere, magari in silenzio, che loro singoli militanti partecipino ad iniziative politiche con altri gruppi (d’altra parte l’hanno già fatto come «Partito» nel caso della conferenza milanese dello stalinista Ligaciov, nel 1993, vedi «il comunista» n. 37) o magari a qualche altra carnevalata democratica.

Essi si dichiarano i soli eredi della corrente della Sinistra Comunista le cui origini fanno risalire addirittura al 1892, quando nacque il PSI; declinano poi in modo molto sintetico – nel loro opuscolo «Che cos’è il partito comunista internazionale – una cronologia storica dello sviluppo della corrente della Sinistra Comunista ma solo fino alla scissione del 1952, quando nasce il «partito comunista internazionalista-programma comunista». La vita reale del partito dal 1952 in avanti sparisce del tutto, negli sviluppi come nelle crisi; vi è solo un accenno a Bordiga, per il quale scrivono che «fino alla morte nel 1970, Bordiga svilupperà l’enorme lavoro di ricostruzione teorico-politica del Partito, che a metà anni ’60 diventerà “Internazionale” di fatto e non solo di nome», elevando in questo modo il singolo militante Bordiga al rango di demiurgo e distruggendo nello stesso tempo il lavoro di ricostruzione teorico-politica della collettività-partito al quale, in effetti e solo in quanto collettività-partito, Amadeo ha dato il suo indiscutibile contributo. L’accenno che essi fanno alle Tesi caratteristiche del Partito del 1951 e alle Tesi di Napoli e di Milano sulla questione di organizzazione del 1965 e 1966, sembra che serva semplicemente a ribadire che il lavoro di ricostruzione teorico-politica valido per il partito e da «rivendicare» è solo quello che proviene dalla penna di Amadeo Bordiga, Tesi d’altra parte contraddette nel loro atteggiamento pratico più e più volte. Gli “anti-individualisti” sono così diventati individualisti con il pretesto di riconoscere ad Amadeo Bordiga l’apporto dato al partito durante tutto l’arco della sua militanza nelle file della Sinistra Comunista, dell’Internazionale Comunista, del Partito comunista d’Italia, e del partito nato nel secondo dopoguerra. In pratica, qui scorgiamo lo stesso meccanismo utilizzato rispetto alla testata del giornale: ci si impossessa dell’eredità del partito vantando la proprietà commerciale della testata «il programma comunista» e fatta valere presso il tribunale borghese; ci si impossessa dell’apporto di Amadeo Bordiga al lavoro della collettività-partito vantando la pubblicazione dei suoi lavori nel giornale di partito «il programma comunista» di cui vantano la proprietà esclusiva. Inoltre, saltando completamente i trent’anni di vita e di attività del partito dal 1952 al 1982, e gli ulteriori 28 anni dopo la crisi esplosiva del 1982, i furbetti del nuovo «p.c.» hanno scansato l’obbligo di trattare le crisi che hanno cadenzato lo sviluppo del partito (1964-65, 1972-73, 1979-80, 1982-84, per citare quelle più importanti) e soprattutto l’ultima crisi esplosiva dalla quale sono nati, oltre a diversi gruppi e spezzoni, anche loro. Anche in questo emerge la loro attitudine a falsare sistematicamente la storia del partito: mentre vestono i panni dei militanti “coraggiosi” e “puri” che “resistono” sulle imperiture posizioni della Sinistra Comunista al di là dello scorrere del tempo e dei periodi del tutto sfavorevoli della controrivoluzione, negano la vita reale di un partito che loro stessi hanno contribuito a liquidare, restando solo dei meschini sofisticatori delle battaglie della Sinistra Comunista e del Partito Comunista Internazionale.

Ma non è soltanto sulla concezione del partito che siamo diametralmente opposti a questi due gruppi, il che basterebbe per scartare qualsiasi possibilità di incontro come auspicano i fautori del cosiddetto «milieu révolutionnaire».

Da parte di «b.c.» non è mai stato avanzato, a onor del vero, un tentativo di avvicinamento nemmeno sul terreno immediato (a parte il tentativo fatto negli anni 1975-76, insieme a «Lotta comunista», nei confronti del nostro partito di ieri, tentativo caduto miseramente fin dall’inizio perché il loro obiettivo era quello di costituire i “gruppi comunisti” misti tra noi e loro, all’interno e “fuori” dei sindacati tricolore, mentre «Lotta comunista» fece da spettatrice all’incontro senza proporre nulla e probabilmente mossa solo dalla forzatura che in quel periodo cercava di fare Fortichiari nei confronti dei gruppi che rivendicavano le stesse origini di Sinistra comunista al fine di sollecitarne l’unificazione); il loro giudizio più gentile nei nostri confronti  è stato di considerarci «epigoni del bordighismo» votati all’insuccesso e perciò poco “appetibili”.

Da parte del nuovo «p.c.», per un lungo periodo dopo la crisi dell’82-84, la risposta che ricevevano lettori o simpatizzanti che chiedevano quali fossero le posizioni che li distinguevano da noi e quali i motivi della crisi, è stata sempre questa: le posizioni sono le stesse, le differenze sono provocate soltanto da “beghe personali” avanzate da noi nei confronti di Bruno M. mentre la crisi del partito era stata provocata da una “cricca” che si era infiltrata nel partito con l’obiettivo di distruggerlo. Da queste considerazioni traevano motivo per sostenere che non era necessario fare alcun “bilancio politico della crisi”, che si trattava di liberarsi definitivamente del cancro movimentista portato dai cattivi soggetti della “cricca” e di “riprendere il cammino” da dove era stato…interrotto. Utilizzare, quindi, il mezzo dell’azione legale per non lasciare la testata del giornale nelle mani sporche di chi voleva distruggere il partito, diventava una mossa “necessaria” e “giustificata” visto che “altri mezzi” – come il tentativo di convincimento personale nei confronti dei membri del Comitato Centrale installatosi al posto del vecchio Centro – non portavano al risultato voluto. Bruno M. e i suoi seguaci non hanno pensato nemmeno per un momento che l’unico “mezzo” per “salvare l’onore del partito” e quindi anche il suo trentennale giornale doveva essere la lotta politica contro le posizioni sbagliate e distruttive del partito, coerente con la lotta politica che si fece già nel 1951-52 sulla linea proprio di quella Sinistra Comunista che ormai è diventata per loro una bandierina da sventolare per infinocchiare gli ingenui. In Francia, questa lotta politica ottenne un risultato: “le prolétaire” e “programme communiste”, in seguito a quella lotta politica, sono stati formalmente “ceduti” ai nostri compagni dal precedente “proprietario legale”, il quale si convinse onestamente che il gruppo di compagni con i quali riorganizzammo le forze sane del partito era molto più coerentemente in linea con la storia politica delle testate di quanto non lo fossero gli altri. Per quanto ci dividessero le posizioni tratte dalla crisi del partito, in Francia non si cadde nel personalismo più spinto come in Italia, e non si cadde nemmeno nella ripicca vendicativa di chi, non avendo più forza e voglia di continuare a lottare politicamente, avrebbe potuto legalmente conservare la proprietà delle testate per chissà quali fini commerciali o personali. O semplicemente per fare un dispetto, a posteriori, al partito di ieri.

 

Questione nazionale

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Questione di tattica e di impostazione programmatica ardua, certamente, e di non semplice assimilazione. E’ stata indigesta nell’Internazionale Comunista nei suoi primi anni, lo è stata successivamente nella Frazione del PCd’I all’estero, lo è stata per i seguaci di Damen e quindi per il gruppo di «battaglia comunista» dopo la scissione; e lo è stata anche all’interno del nostro partito di ieri. Ma lo è anche, e parecchio, per i nuovi “programmisti”.

Il gruppo «b.c.» nega che esista, fin dal 1914 (!!!), una «questione nazionale» alla quale i comunisti rivoluzionari devono dare risposte politiche e tattiche ben precise; nega che esista, quindi, dallo scoppio della prima guerra mondiale imperialistica. La loro tesi è che l’imperialismo, imponendosi come forza dominante sul mercato mondiale fino a scatenare una guerra mondiale per la spartizione del mercato mondiale fra poche potenze imperialistiche, avrebbe di fatto eliminato dalla realtà storica le questioni «nazionali» ancora aperte nel mondo dopo le sistemazioni nazionali avvenute in Europa e nelle Americhe. Secondo questa visione, la rivoluzione proletaria non ha più, fin dalla prima guerra mondiale, alcun compito “borghese” da accollarsi, senza eccezioni (perciò vale anche per la Russia, la Cina, il continente asiatico e il continente africano), ma deve perseguire esclusivamente gli obiettivi proletari e comunisti, intesi nel senso che o vi sono le condizioni per passare immediatamente alla trasformazione economica dal capitalismo al comunismo e quindi la rivoluzione proletaria in tutto il mondo è matura per espletare i suoi compiti economici, oppure quelle condizioni non esistono ancora e quindi la rivoluzione proletaria non è “matura” e non va nemmeno tentata. Basta questa affermazione per stracciare d’un colpo le tesi marxiste sulla rivoluzione proletaria che è innanzitutto una rivoluzione politica, e le tesi di Lenin non solo sulla questione nazionale ma sulla guerra, sulla rivoluzione in Russia, sul movimento rivoluzionario internazionale, sulla costituzione dell’Internazionale Comunista ecc. Non ha dunque alcun senso che «b.c.» insista a richiamarsi alla Sinistra comunista e al Partito comunista d’Italia, a Lenin e all’Internazionale Comunista, se non quello di dare il proprio contributo a falsificare le posizioni marxiste e rivoluzionarie facendo passare le proprie posizioni mensceviche e volgarmente opportuniste per posizioni “marxiste”.

Il nuovo «programma comunista» non arriva ad escludere in assoluto l’esistenza di «questioni nazionali» anche in epoca imperialista; esso ha però posizioni oscillanti che lasciano aperta la possibilità di modificare l’ultima posizione sostenuta… strada facendo. Sulla posizione del nuovo «p.c.»  ci dobbiamo trattenere per un po’ perché è molto contorta e insidiosa.

Dopo aver richiamato le posizioni di Lenin e del nostro partito di ieri sulla questione dell’«autodecisione dei popoli», indicando che il partito proletario sostiene questo “diritto” in funzione dello sviluppo della lotta di classe del proletariato contro le classi borghesi (sia del proletariato del paese oppressore, che deve lottare in modo del tutto indipendente da ogni altra classe o mezza classe contro la propria borghesia perché conceda il diritto alla separazione della nazione oppressa; sia del proletariato della nazione oppressa, che deve lottare sul terreno nazionalrivoluzionario contro la borghesia opprimente a fianco anche della borghesia e della piccola borghesia oppresse, in modo del tutto indipendente e pronto però a rivolgersi contro di loro nella sua lotta di classe antiborghese; in entrambi i fronti, il partito proletario agisce a favore della solidarietà di classe soltanto fra proletariati), il nuovo «p.c.» sostiene, in netta contraddizione con quanto richiamato, quanto segue:

«Oggi, la direttiva del Partito al proletariato internazionale [dunque, al proletariato sia degli Stati che opprimono altri popoli, sia dei popoli oppressi, come se fosse già oggi un corpo sociale unitario, ndr] sul terreno della “questione nazionale” non può che essere innanzitutto quella di respingere ogni appello alla lotta e alla guerra per l’indipendenza della propria nazione in qualsiasi punto del globo esso venga lanciato e denunziare qualunque alleanza con altre classi venga a tal fine proposta. Questa e non altra è la conseguenza politica che andrebbe tirata dal bilancio dell’avvenuta chiusura del ciclo post-bellico delle lotte nazionali e anti-coloniali» (il programma comunista, n.6/2004). In altre parole, si afferma che la “questione nazionale”, con la chiusura del ciclo post-bellico delle lotte nazionali e anticoloniali (seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso), non è più una questione che riguarda il proletariato internazionale e quindi il partito di classe, sia negli Stati che opprimono altri popoli sia dei popoli oppressi. Le parole d’ordine – in qualsiasi punto del globo – dovranno escludere ogni rivendicazione relativa al “diritto all’autodecisione delle nazioni” portata fino al conseguente “diritto alla separazione”, sia questa separazione effettivamente perseguibile e realizzabile o meno (ma questa è la posizione di Lenin). Riferendosi alla situazione odierna, infatti, il nuovo «p.c.» scrive all’inizio del capitoletto intitolato appunto “La situazione odierna”:

«Rispetto alla fase postbellica delle lotte di liberazione nazionale nelle aree asiatica e africana, conclusasi prima dell’ultimo quarto di secolo, altra e ben diversa è la situazione odierna, risultato del compimento del ciclo della rivoluzione borghese in tutto il pianeta» (ibidem). Qui, dunque, si concepisce la questione “nazionale” soltanto dal punto di vista del progresso storico economico, soltanto dal punto di vista della necessità storica dell’impianto del capitalismo come nuovo modo di produzione; e non si comprende la tattica leninista sulla questione che pone per l’appunto la questione dell’autodecisione dei popoli come questione essenzialmente politica (infatti Lenin, non a caso, porta l’esempio della Norvegia e della Svezia nello scritto sull’economismo imperialista).

Per il nuovo «p.c.» il quadro storico generale è così cambiato da non poter più ribadire le classiche tesi sulla questione nazionale e coloniale dell’Internazionale Comunista 1920, e nemmeno le tesi del partito di ieri ribadite più e più volte in tutti i lavori a questo tema dedicati. «Oggi – scrive il nuovo “p.c.” – quando in certe aree si manifestano lotte e guerre cosiddette “nazionali”, anche se possono talvolta poggiare su conflitti e oppressioni nazionali realmente esistenti, esse vanno comunque caratterizzate e denunziate generalmente come un riflesso della lotta tra i differenti imperialismi per la spartizione delle materie prime a livello mondiale e per la conquista di avamposti strategici in vista del futuro conflitto bellico generalizzato, come sta accadendo ad esempio nel Corno d’Africa, ma anche nell’Asia Centrale e in Medio Oriente» (ibidem).

Come conciliare, quindi, la rivendicazione delle tesi di Lenin e del nostro stesso partito di ieri, con la nuova posizione? Il nuovo «p.c.» trova una scappatoia: consegnare al proletariato delle nazioni oppresse solo compiti di lotta economica immediata, e al proletariato dei paesi oppressori compiti di lotta “politica”, come vi fosse una semplice divisione di compiti all’interno dell’unico corpo unitario chiamato “proletariato internazionale”! Come se nel proletariato non vi fossero più, dalla fine del ciclo delle lotte anticoloniali, non solo enormi differenze tra proletari delle popolazioni oppresse e proletari dei popoli che opprimono, ma anche differenze tra i vari strati in cui la società borghese divide i proletari in tutti i paesi avanzati (masse arretrate, aristocrazia proletaria, proletari immigrati ecc.).

«Il proletariato delle nazioni oppresse, in particolare, - continua il nuovo «p.c.» - deve cercare l’unione col proletariato delle metropoli imperialiste e deve avversare le rivendicazioni indipendentiste, lottando oggi, per la difesa delle proprie condizioni materiali di vita; mentre il proletariato dei paesi del centro del capitalismo mondiale e delle nazioni che opprimono deve adoperarsi contro la propria borghesia allo scopo di far cessare ogni forma di oppressione nazionale o razziale, che di fatto si trasforma in un potente ostacolo materiale all’unità internazionale del proletariato».

Da questo semplice ultimo brano si possono dedurre alcune conseguenze:

· Al proletariato delle nazioni oppresse va il compito più gravoso: cercare l’unione col proletariato delle metropoli imperialiste (su quali basi? con quali rivendicazioni?), avversare le rivendicazioni indipendentiste (dunque non lottare, sebbene in piena autonomia di classe, per il diritto alla separazione dal paese oppressore, lasciando questa rivendicazione esclusivamente alla borghesia?) ma lottare in quanto proletariato soltanto sul terreno economico immediato; al proletariato dei paesi oppressori il compito “più civile” di avanzare rivendicazioni politiche ma limitatamente a “far cessare l’oppressione nazionale” da parte della propria borghesia (senza portare alle estreme conseguenze la rivendicazione del diritto di “autodecisione”).

· Il proletariato delle nazioni oppresse, per potersi scrollare di dosso l’oppressione straniera, deve quindi attendere che il proletariato degli Stati oppressori “si adoperi” contro la propria borghesia perché cessi “ogni forma di oppressione nazionale o razziale”. E mentre il proletariato delle metropoli imperialistiche deve adoperarsi per spingere la propria borghesia e non opprimere più altri popoli, il proletariato delle nazioni oppresse lotta ma solo sul terreno della difesa delle proprie condizioni materiali immediate di vita! Perché usare il verbo lottare per il proletariato delle nazioni oppresse e il verbo adoperarsi per il proletariato delle metropoli imperialiste? Ma poi, lottare come? con che mezzi? sotto la guida di quale partito?

· Il proletariato degli Stati oppressori, dunque, non lotta contro la propria borghesia, ma “si adopera”, non si sa bene con quali mezzi, perché la borghesia cessi di opprimere altri popoli! Si è mai visto una borghesia colonialista e imperialista cessare di opprimere altre nazioni senza dover cedere di fronte a movimenti rivoluzionari armati delle popolazioni oppresse? Si è mai visto un proletariato ottenere dalla propria borghesia colonialista e imperialista di recedere dall’«oppressione nazionale o razziale» e di lasciare che un popolo oppresso raggiunga la sua “autodecisione” soltanto attraverso una “pressione” politica non accompagnata da azioni di forza e dalla violenza di classe? Si è mai visto un proletariato delle metropoli imperialistiche ottenere, attraverso le vie legali e parlamentari, la soddisfazione di una rivendicazione politica importante senza una lunga stagione di lotte non pacifiche?

· È d’altra parte molto singolare che un gruppo, come il nuovo «p.c.», che affonda le sue radici in un paese imperialista, carichi sulle spalle del proletariato delle nazioni oppresse l’intero peso della lotta contro l’oppressione nazionale che subisce da moltissimo tempo, invece di mettere in testa alle parole d’ordine del proletariato metropolitano le rivendicazioni che sole possono dimostrare al proletariato delle nazioni oppresse che il proletariato metropolitano sia il vero e unico alleato di classe su cui contare, ossia le rivendicazioni del diritto all’autodecisione dei popoli fino alla separazione e alla formazione di uno Stato indipendente (Lenin) lottando incondizionatamente contro l’oppressione nazionale esercitata su altri popoli dalla propria borghesia. La posizione che assume il nuovo «p.c.» è posizione da “grande russo”, da aristocrazia proletaria colonialista che, pur proclamando a parole la propria opposizione all’oppressione nazionale da parte della propria borghesia, non muove un dito sul terreno politico e pratico per dimostrare – con i fatti – di aver rotto con la propria borghesia che usa i benefici dell’oppressione nazionale su altri popoli per corrompere il “proprio” proletariato. Oltretutto, sul terreno politico e pratico, altra dimostrazione coi fatti di essere il vero e unico alleato del proletariato delle nazioni oppresse è la sua lotta contro le spedizioni militari che la propria borghesia organizza anche con altre borghesia imeprialiste per andare ad opprimere altri popoli.

· I nostri aggiornatori (già attivi nel loro precedente studio del 1998) citano Lenin e la parole d’ordine dell’autodecisione, confinandole però alla sola Russia di allora, in questo modo: «Nella Russia di Lenin non vi fu nessuna utilizzazione tatticista della parola d’ordine dell’autodecisione. Il riconoscimento del diritto delle nazioni all’autodeterminazione era infatti la forma naturale che i compiti economici [economici, ci risiamo!, ndr] borghesi della doppia rivoluzione dettavano al potere politico socialista e che esso quindi era chiamato ad assumere» (da: Come poniamo oggi le Questioni nazionale e coloniale e dell’autodeterminazione dei popoli, “il programma comunista”, n.7/1998). Ma Lenin non si limita a far gli esempi delle nazioni oppresse dallo zarismo, o gli esempi dell’area asiatica, dove, all’ordine del giorno, non vi era solo la questione dell’oppressione “nazionale” ma vi erano i compiti storici più profondi relativi all’impianto e allo sviluppo del nuovo modo di produzione capitalistico, ossia della rivoluzione borghese non soltanto “politica” ma economica e sociale. L’esempio della Norvegia e della Svezia che Lenin fa nel suo scritto “Intorno a una caricatura del marxismo e all’«economismo imperialistico»”, del 1916, richiama l’esempio dell’Irlanda e dell’Inghilterra portato da Marx ed Engels già settant’anni prima. Norvegia e Svezia, a quell’epoca, erano già in pieno capitalismo e all’ordine del giorno non vi era la distruzione del modo di produzione pre-capitalistico. Lenin sottolinea contro i suoi critici che «l’indipendenza della Norvegia, “realizzata” nel 1905, è puramente politica. Essa non ha scosso e non poteva scuotere la sua dipendenza economica. Questo sostengono appunto le nostre tesi. Noi abbiamo indicato che l’autodecisione riguarda solo la politica e che è quindi sbagliato porre il problema dell’irrealizzabilità economica» (paragrafo 4. dello scritto).

· Il nuovo «p.c.» riprende molte citazioni da Lenin e dai testi di partito, ma si astiene dal citare questo scritto di Lenin, et pour cause! L’autodecisione è una rivendicazione politica, non economica, e riguarda sia il proletariato del paese che opprime che il proletariato delle nazioni oppresse (al quale quindi non è richiesta la sola lotta economica e immediata). Lenin precisa che per il proletariato del paese oppressore è una rivendicazione incondizionata, mentre per il proletariato della nazione oppressa è una rivendicazione condizionata (condizionata in quanto la possibile “alleanza”, non organizzativa né programmatica né tanto meno partitica, con le frazioni “rivoluzionarie” della borghesia “nazionale”  è dichiaratamente transitoria perché l’obiettivo proletario è la comunità di classe e non la comunità nazionale). Per i nostri aggiornatori, invece, la rivendicazione finché aveva un “valore storico” (fino al 1976 con la fine del ciclo delle lotte anticoloniali) era soprattutto economica, e per conseguenza anche politica; finito quel ciclo storico, questa rivendicazione perde del tutto il suo “valore economico” e decade automaticamente anche la sua valenza politica (Lenin viene drasticamente bocciato!).

· Per Lenin l’indicazione politica dell’autodecisione è unitaria per il partito proletario, ma viene avanzata in due modi diversi a seconda che il partito si rivolga al proletariato del paese oppressore  o si rivolga al proletariato del paese oppresso. Per i nostri aggiornatori, è lo stesso termine  “autodecisione” che  non va bene, evidentemente troppo “concreto”; poteva andar bene ai tempi della Russia di Lenin, ma oggi lo considerano superato. Essi, parlando di “far cessare l’oppressione nazionale”, pongono il problema esattamente alla stessa maniera sia per i proletari del  paese oppressore che per i proletari del paese oppresso, ma escogitano una “divisione dei compiti”: il proletariato del paese oppressore si deve “adoperare” perché la propria borghesia cessi l’oppressione nazionale su altri popoli e quindi su altri proletariati, mentre i proletari della nazione oppressa si devono tenere alla larga dal cadere nel nazionalismo della propria borghesia lottando sul terreno immediato in difesa delle proprie condizioni materiali di vita... E come si fa a non cedere al nazionalismo? Grazie al proletariato del paese oppressore che… “si adopera” perché la propria borghesia si astenga dall’oppressione nazionale su altri popoli... Campa cavallo….Parole vuote, oltre che ridicole! 

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La questione «nazionale» fa parte delle grandi questioni tattiche che il movimento comunista internazionale ha dovuto affrontare e risolvere; a differenza, ad esempio, della questione «parlamentare», la questione «nazionale» è molto più complessa poiché riguarda paesi che, nella storia dello sviluppo capitalistico, hanno accumulato un ritardo notevole, proprio a causa dello sviluppo ineguale del capitalismo nel mondo. La questione nazionale può essere questione economica, sociale o politica, ma non è detto che presenti, in ogni paese in cui si pone, tutti e tre questi aspetti allo stesso grado di sviluppo o di arretratezza. Lenin infatti, proprio per la forza rappresentata dall’imperialismo e dal suo dominio sul mercato mondiale, insiste su queste differenze condensandole nella rivendicazione politica dell’ «autodecisione dei popoli oppressi»; e non esclude nemmeno la decisione politica del potere proletario conquistato in un paese che opprime altri popoli il riconoscimento non solo formale ma pratico del diritto alla separazione nazionale nel caso in cui la lotta rivoluzionaria del proletariato non abbia “risolto” al calor bianco della rivoluzione la questione “nazionale”; da questo punto di vista prende forza contemporaneamente la parola d’ordine del rifiuto di ogni annessione. La Russia non solo zarista, ma la Russia borghese, è stata il campo storico in cui le nazioni oppresse si attendevano dalla rivoluzione antizarista il diritto alla separazione, e tale diritto è stato riconosciuto nella pratica non dai governi borghesi ma dal solo potere proletario che si prese in carico, inevitabilmente e doverosamente, i problemi dell’indipendenza «nazionale» maturati all’interno della Russia dei 100 popoli. La grandezza del partito bolscevico guidato da Lenin non stava tanto nel riconoscere il diritto alla separazione nazionale dei popoli che imbracciarono le armi contro lo zarismo – cosa già di grande levatura marxista – ma nell’agire nello stesso tempo, sia sul terreno della propaganda, che dell’organizzazione proletaria immediata, sia sul piano dell’organizzazione di partito che delle parole d’ordine della rivoluzione proletaria internazionale, sul piano della solidarietà di classe tra il proletariato del paese oppressore e il proletariato dei popoli oppressi come sul piano dell’alleanza rivoluzionaria tra i proletariati di tutti i paesi (costituzione dell’Internazionale Comunista e Tesi sulla questione nazionale e coloniale), dimostrando nell’azione pratica di perseguire l’unione del proletariato mondiale al di sopra di ogni frontiera, di ogni nazionalità, contro ogni classe borghese (e preborghese), ma prima di tutto contro le classi dominanti dei paesi oppressori che sono le più forti e che determinano la persistenza dell’oppressione nazionale dei popoli.

Noi affermiamo che questa impostazione della questione «nazionale» è valida tuttora, anche se il quadro storico è cambiato nel senso che molti paesi, e grandi paesi, sono giunti all’indipendenza nazionale attraverso lotte anticoloniali di segno borghese e non proletario. Cina e India prima di tutto, ma molti altri come l’Iran, l’Algeria, l’Egitto, il Congo, il Sudafrica, i paesi del Sud Est asiatico, e molti altri in Africa. Il grande disegno della congiunzione delle lotte anticoloniali con la rivoluzione proletaria nei paesi imperialisti non si è realizzato secondo le prospettive scritte nelle tesi dell’Internazionale Comunista. Le oscillazioni politiche e teoriche di quest’ultima portarono a sbagliare la delicatissima tattica comunista su questo terreno, appiattendola sugli obiettivi borghesi; si rinunciò alla «doppia tattica» (verso il proletariato dei paesi oppressori e verso il proletariato dei popoli oppressi), indicando al proletariato dei popoli oppressi di confondersi nella politica della propria borghesia (vedi Cina e scioglimento del PCC nel Kuomintang) e di mantenere viva solo la lotta immediata di difesa delle condizioni materiali di vita! Di conseguenza, al proletariato dei paesi oppressori fu indicato di «adoperarsi» perché facesse pressione sulla propria borghesia affinché …cessasse di opprimere altri popoli, il che significò semplicemente abbandonare la lotta internazionalista contro l’oppressione nazionale e razziale da parte di ogni paese imperialista gettando di fatto i proletari dei popoli oppressi nelle fauci delle rispettive borghesie (e della loro capacità o meno di condurre una lotta nazionalrivoluzionaria) e negare ogni velleità rivoluzionaria nei paesi imperialisti verso le cui borghesie dominanti ci si piegava limitando la propria azione nei recinti della lotta immediata e delle rivendicazioni politiche democratiche (per lo più parlamentari).

I teorici del nuovo «p.c.» non hanno bisogno di ripercorrere il tormentato cammino percorso dalla degenerazione dell’IC; giungono facilmente allo stesso risultato semplicemente negando che nella fase imperialista del capitalismo esista l’eventualità che le grandi questioni borghesi irrisolte – come la questione “nazionale” – debbano essere prese in carico dalla lotta rivoluzionaria del proletariato per la quale il partito di classe ha l’obbligo di mantenere vive le posizioni di classe che lo contraddistinguono in tutta la storia moderna. Non si può escludere a priori che si ripresenti, nello sviluppo delle contraddizioni della società borghese  e nello sviluppo della lotta di classe proletaria, una situazione in cui i contrasti fra nazionalità oppresse e paesi oppressori prendano la forma della lotta nazionalrivoluzionaria e che su questa lotta si innesti la lotta rivoluzionaria del proletariato della nazionalità oppressa, unica lotta in grado di superare i limiti politici del movimento nazionalrivoluzionario; e che tale situazione veda coinvolti uno o più d’uno dei paesi imperialisti più importanti.

In ogni caso, anche in assenza di movimenti nazionalrivoluzionari, come certamente è il caso di oggi, restano aperte tutte le questioni legate all’oppressione sistematica di nazionalità che storicamente hanno dimostrato una continua ribellione sociale e armata e verso le quali il partito proletario degno di questo nome non può ridursi a posizioni del tipo: quel popolo, non avendo avuto la forza di conquistare la propria indipendenza nel periodo storico precedente [ad es. nel periodo che si è chiuso con il 1976, ndr] è condannato a subire l’oppressione fino alla fine dei suoi giorni (e con lui il suo proletariato) a meno che non scoppi la rivoluzione proletaria «pura» nell’area interessata direttamente. In un'area alla quale quel popolo appartiene o nell’area dei paesi imperialisti e alla quale rivoluzione quel proletariato, oppresso doppiamente dalla propria borghesia e dalla borghesia straniera, si dovrà agganciare. Di più, a meno che non sia proprio il proletariato del popolo oppresso a gettare alle ortiche ogni influenza borghese e ogni aspirazione nazionalrivoluzionaria e incamminarsi sicuro verso la rivoluzione proletaria e comunista (come fece il proletariato russo nella rivoluzione del 1917)! Come dire che il partito proletario ha una sola indicazione da dare: o rivoluzione proletaria pura e vittoriosa conquista del potere, oppure nessun’altra lotta perché sarebbe inevitabilmente manovrata dalla borghesia della propria nazionalità o dalla borghesia imperialista straniera. Con una indicazione del genere il proletariato dei paesi imperialisti e oppressori non ha in sostanza alcun motivo di lotta contro l’oppressione che la propria borghesia esercita su altri popoli, e abbandona in pratica il proletariato che subisce la doppia oppressione – nazionale e salariale – al suo destino offrendo  così una sponda politica alla collaborazione di classe poiché la sua «partecipazione» all’oppressione di altri popoli, pur non esprimendosi in aperta dichiarazione colonialista, si realizza sul piano della corruzione economica attraverso salari e trattamenti sociali molto più alti e vantaggiosi di quanto non venga percepito dai proletari dei popoli oppressi. E così, non solo assistiamo ad un sostanziale indifferentismo politico nei confronti dei proletari dei popoli oppressi, ma anche alla conservazione e al rafforzamento della concorrenza fra proletari! Da qui inevitabilmente si cade nell’indifferentismo anche nelle questioni legate alla lotta immediata dei proletari provenienti dai paesi della periferia dell’imperialismo e dalle popolazioni oppresse, immigrati nei paesi industrializzati; verso questi proletari si avrà lo stesso atteggiamento: o le loro rivendicazioni di parità salariale e normativa e parità di trattamento sociale fanno parte delle rivendicazioni avanzate dai proletari autoctoni (e privilegiati per il fatto di appartenere alla nazionalità opprimente), o la loro lotta fa parte fin dall’inizio della lotta più generale di «tutto il proletariato», oppure è inutile che lottino perché, da un lato, presterebbero il fianco alla divisione tra proletari che la borghesia cerca di approfondire continuamente e, dall’altro, non otterrebbero alcun risultato poiché in partenza sono già discriminati e deboli. Alla faccia della solidarietà di classe fra proletari!

Con un atteggiamento del genere si nega, praticamente, ogni valore di classe alla lotta di difesa immediata per qualsiasi gruppo di proletari, ponendo un drammatico aut aut: o lottano tutti, o è inutile lottare!

Il nuovo «p.c.», nel trattare la questione “nazionale” (Marxismo e questione nazionale, il programma comunista, n. 6/2004, già citato), parla  anche delle «questioni» curda e palestinese, sulle quali è più volte caduto malamente.

Sulla «questione curda», nel n. 1 del 1994, il nuovo «p.c.» aveva preso posizioni del tutto anti-Sinistra comunista e quindi antimarxista (vedi l’articolo Curdi: emancipazione del popolo curdo o del proletariato curdo? ne «il comunista» n. 43-44/1994-1995) : nella valutazione, del tutto visionaria, di una situazione rivoluzionaria che stava maturando nel Medio Oriente, consegnava ai curdi (e in seconda istanza, ai palestinesi) il compito di avviare la rivoluzione proletaria internazionale; però mancava il partito di classe sia internazionalmente che soprattutto nel Kurdistan, in Turchia o in Iran, perciò – data «l’urgenza» della situazione storica – aveva individuato nell’ala sinistra del PKK  l’ala da cui avrebbe dovuto sorgere il partito di classe! Questo gruppo non ha mai ammesso di aver assunto questa  posizione sbagliata, nemmeno nel suo nuovo articolo del 2004.

La nuova «posizione» è questa:

«L’opportunità per il Partito di lanciare la parola d’ordine dell’autodeterminazione – e quindi della separazione politica di una nazione – è legata sempre alla creazione di condizioni più favorevoli per la rivoluzione mondiale, fra le quali rientrano, l’indebolimento dell’imperialismo più potente e la rimozione di fattori di divisione fra segmenti della classe interna a una compagine  statale (che peraltro, nel caso della Turchia, si presenta fin dall’inizio, a causa di una rivoluzione borghese avvenuta in ritardo, come Stato nazionalmente eterogeneo). Su queste basi avevamo valutato l’utilità della formula dell’autodecisione applicato al caso Kurdistan turco. La dinamica degli eventi ci porta oggi a riconsiderare il modo di porre la questione, peraltro sempre più limitata alla sola Turchia. La formula dell’autodecisione – in assenza di un movimento di massa e intransigente a favore dell’indipendenza delle regioni curde – rischia infatti di essere fuorviante, fermo restando che è dovere del proletariato turco quello di adoperarsi con ogni mezzo per far cessare l’oppressione dei proletari curdi (giustificata dalla diversa nazionalità), se non vuole essere complice delle infamie della propria classe borghese, che pure non si è mai dimostrata molto tenera con la classe proletaria indigena».

Riconsiderare il modo di porre la questione, che cosa vuol dire in sostanza?: Sospensione della parola d’ordine dell’autodeterminazione, fino a quando non vi sarà nuovamente un movimento curdo «di massa e intransigente» che la richieda? Ma come!, hanno appena sostenuto che la questione «nazionale» è chiusa dalla fine del ciclo delle lotte coloniali… Si passa poi ad affermare che «i comunisti non possono essere affatto astrattamente e incondizionatamente a favore di un Kurdistan indipendente», in quanto «sostenere il diritto di un popolo a separarsi se lo desidera non significa essere favorevoli allo spezzettamento, degli Stati o del proletariato, né significa ritenere tale soluzione un fatto storicamente realizzabile» (ma Lenin la pensa esattamente al contrario!).

Insomma, la nuova posizione consiste nel non prendere posizione, lasciando la questione nelle mani di un invito al proletariato turco ad «adoperarsi con ogni mezzo» (con ogni mezzo?, vuol dire anche con mezzi violenti, con la lotta armata? O solo con mezzi legali e pacifici? Non è dato sapere. Una frase del genere dà la sensazione di essere forte, di esprimere grande decisione, ma in realtà è la più vaga e inconsistente che potevano trovare!) perché cessi l’oppressione «dei proletari curdi» (dunque, solo dei «proletari curdi»?, ma l’oppressione nazionale esercitata dalla borghesia turca non riguarda esclusivamente i proletari, ma l’intero popolo curdo). Così, da un lato si sospende la parola d’ordine dell’autodecisione (quindi si dice al proletariato turco di non avanzare alcuna rivendicazione politica contro l’oppressione nazionale dei curdi) e, dall’altro, si dice ai proletari turchi di darsi da fare (non è dato sapere come) con «ogni mezzo» (ma equivale a dire con nessun mezzo) perché cessi l’oppressione turca sui proletari curdi (senza curarsi del fatto che proprio l’oppressione nazionale contro il popolo curdo fa da base all’influenza della borghesia curda sui proletari curdi e quindi sulla divisione del proletariato curdo dal proletariato turco cui è interessata la borghesia curda quanto la borghesia turca). Nei fatti, si dà un’indicazione al proletariato turco come se non esistesse l’oppressione nazionale sull’intero popolo curdo, ma esistesse soltanto un problema legato all’oppressione salariale, e quindi di lotta economica per la quale chiamare i proletari indigeni (in questo caso, turchi) a chiedere alla propria borghesia di non discriminare i proletari curdi come si dovrebbe chiedere in Francia, in Italia o in Germania nei confronti dei proletari immigrati. 

Se la parola d’ordine dell’autodecisione – nel senso dato da Lenin – è giusta, il partito proletario non procede a zig zag: un giorno la sostiene, un giorno la sospende, poi la riprende e così via zigzagando.

Lenin, nello scritto sull’economismo imperialistico, parte dal fatto che la situazione reale degli operai delle nazioni dominanti non è identica a quella degli operai delle nazioni oppresse, e per dare forza alla parole d’ordine dell’autodecisione dal punto di vista della lotta proletaria e di classe anche nella fase imperialista dello sviluppo capitalistico, egli porta l’esempio della Norvegia e della Svezia. Egli afferma che l’azione degli operai norvegesi e svedesi «è stata internazionalistica solo perché e in quanto gli operai svedesi hanno incondizionatamente sostenuto la libertà di separazione della Norvegia, e gli operai norvegesi hanno posto condizionatamente il problema di questa separazione. Se gli operai svedesi non si fossero schierati senza condizioni per la libertà di separazione dei norvegesi, sarebbero stati degli sciovinisti, dei complici dei grandi proprietari terrieri svedesi, che volevano “trattenere” la Norvegia con la violenza e la guerra. Se gli operai norvegesi non avessero posto il problema della separazione a certe condizioni, a patto cioè che anche gli iscritti al partito socialdemocratico potessero votare e far propaganda contro la separazione, avrebbero trasgredito il loro dovere di internazionalisti e sarebbero caduti nell’angusto nazionalismo borghese della Norvegia». E’ questo il «dualismo» della posizione del partito proletario: il proletariato del paese oppressore deve sostenere incondizionatamente la libertà di separazione della nazione oppressa, il proletariato della nazione oppressa lotta per la libertà di questa separazione a condizione che la sua parte avanzata (i proletari comunisti rivoluzionari) possano agire sul terreno della lotta di classe per l’unità di classe dei proletari di entrambe le nazioni e contro il nazionalismo attraverso il quale la borghesia della nazione oppressa intende contrapporre gli operai del “suo” paese agli operai del paese oppressore e “straniero”.

Per l’ennesima volta, si ribadisce che l’autodecisione, la libertà di separazione, non sono in sé parole d’ordine proletarie, ma hanno una valenza politica decisiva nell’opera di propaganda e nell’azione del partito proletario perché – se poste alla maniera di Lenin – tendono a far sì che gli operai della nazione oppressa riconoscano gli operai del paese oppressore come effettivi fratelli di classe in quanto questi ultimi si sono battuti in modo sistematico, coerente e costante contro il governo del proprio paese per la libertà di separazione della nazione oppressa.

Il nuovo «p.c.», come dicevamo, riprende anche la questione «palestinese», nello stesso articolo del 2004: Il marxismo e la questione nazionale.

Si parte col dire che lo Stato di Israele «rappresenta un’entità statale creata artificiosamente dall’imperialismo americano, allo scopo di funzionare da gendarmeria controrivoluzionaria in tutto il Medio Oriente», [ma molti Stati mediorientali sono stati creati “artificiosamente” dalle potenze imperialistiche che dovevano lasciare la loro potente presa colonialista sull’intera area dopo la fine della seconda guerra mondiale, ndr], per sottolineare che «la specificità di Israele è di essere nato come Stato-colono, caratteristica questa che non discende affatto dal suo carattere confessionale (tutti gli Stati della regione lo sono) ma dal fatto che la sua economia è fortemente dipendente da enormi finanziamenti esteri, in parte provenienti direttamente dagli Stati Uniti e in parte imposti da questi ultimi alla Germania col pretesto dell’Olocausto» [ma ciò non toglie che Israele sia diventato un paese capitalistico avanzato, ndr]. Si sostiene che «il suo stesso atto di nascita [di Israele] contiene la radice materiale, fisica, dell’oppressione nazionale dei palestinesi, oltre ad aver rappresentato la conferma materiale dell’inconseguenza della borghesia palestinese ed araba fin da quel frangente storico». Si afferma che «Israele è stato una leva essenziale per la trasformazione in senso capitalistico del Medio Oriente», si denuncia il fatto che «i palestinesi sono stati vittime di una persecuzione e di una oppressione nazionale di inusitata violenza, spossessati delle loro terre e quindi fortemente proletarizzati e dispersi in tutta l’area», ma che questa proletarizzazione e dispersione nell’area mediorientale «costituisce una base potente per l’affasciamento proletario sotto la bandiera del suo programma internazionale di lotta al capitalismo» [in realtà, la costituirebbe non automaticamente ma solo se il partito di classe agisse praticamente nell’area e le organizzazioni classiste dei proletari dei diversi paesi dell’area - che non esistono ancora -  tendessero effettivamente ad una lotta comune, ndr]. Si sostiene quindi che il proletariato israeliano costituisce una aristocrazia operaia e se ne spiega il perché in questo modo: «sono salariati per i quali – per condizioni materiali – la solidarietà con lo Stato israeliano viene prima di ogni sia pur vaga identità e appartenenza di classe», collaborazione di classe che può essere spezzata «solo in caso di collasso generale dello Stato» cosa che può avvenire, sempre secondo il nuovo «p.c.», o «economicamente con la cessazione dei finanziamenti gratuiti della Trilaterale imperialista» o «politicamente attraverso una sconfitta militare».  E, visto che «nella situazione attuale, questa sconfitta è impensabile» quanto evidentemente la cessazione dei finanziamenti esteri, i teorici del nuovo «p.c.» non trovano di meglio che caricare per l’ennesima volta sulle spalle del solo proletariato palestinese ogni possibilità anche minima di lottare contro l’oppressione nazionale da parte israeliana. Al proletariato israeliano che, “poverino”, è condannato al ruolo di aristocrazia operaia e alla collaborazione di classe con la propria borghesia, non si può chiedere nulla né ci si permette di denunciarne l’azione vigliacca di profittatore del bestiale  sfruttamento e della brutale e sistematica oppressione armata svolti sulla pelle dei proletari e dei contadini poveri e diseredati palestinesi.

Al proletariato palestinese, invece, dall’alto della cattedra professorale in marxismo applicato alla questione nazionale, i teorici del nuovo «p.c.» declamano la propria ricetta: il Partito indica alle masse proletarie palestinesi «un’unica soluzione, che contiene anche la possibilità dello scioglimento del nodo dell’oppressione e della discriminazione nazionale: quello di attestarsi sul terreno della aperta lotta di classe contro tutte le esose borghesie della regione in difesa delle proprie condizioni materiali di vita e di lavoro, una lotta capace di affasciare in un unico fronte proletari di qualunque nazionalità e che dovrà saldarsi con la lotta aperta e anticapitalistica del proletariato delle metropoli imperialiste». Dunque, nessuna indicazione di lotta politica ai proletari palestinesi che contrasti l’influenza nazionalista borghese sulle masse proletarie palestinesi (si dice solo che “non devono cadere nel nazionalismo”), nessuna indicazione di lotta politica ai proletari israeliani che contrasti l’oppressione nazionale nei confronti dei palestinesi da parte della borghesia israeliana (“giustificati” nella loro collaborazione interclassista perché sono “nati” come aristocrazia operaia nel momento stesso in cui è nato lo Stato di Israele), ma semplici indicazioni di lotta economica sul terreno immediato. E si sostiene, infine, che il Partito di classe deve: «rivendicare per i proletari palestinesi non una “difesa nazionale”, ma la possibilità di ritornare entro i confini israeliani con totale parità di diritti (e quindi anche di trattamento salariale e normativo) rispetto agli israeliani: il che costituirebbe la fine del privilegio ebraico e delle forme materiali dell’oppressione nazionale palestinese. Si tratta, in questo caso, della necessità di garantire all’interno dello stesso Stato d’Israele parità di diritti materiali ai proletari arabi. Solo sulla base di questa condizione, i proletari arabi potranno domani riconoscere nei proletari israeliani i loro alleati naturali, o – meglio – i loro fratelli di classe».

In pratica, si dichiara che lo Stato-colono Israele è giustificato storicamente perché le forze imperialiste hanno avuto la forza di imporlo alla popolazione palestinese e alle popolazioni arabe del Medio Oriente senza che ci fosse da parte della borghesia palestinese o delle borghesie arabe medio-orientali la forza di opporsi alla sua costituzione; si dichiara che la borghesia palestinese, non avendo avuto la forza di costituire il proprio Stato non ha dato la possibilità al suo proletariato di avere una nazione indipendente nella quale crescere, svilupparsi e lottare per se stesso, e che perciò il proletariato palestinese deve battersi perché la borghesia israeliana – che lo opprime non solo dal punto di vista economico ma anche politico e nazionale – gli riconosca parità di diritti [immaginiamo democratici, perciò di voto, di associazione, di organizzazione sia politica che sindacale, di lingua, di religione, ecc., ndr] con i proletari israeliani. E tutto questo come risultato della sola lotta economica in difesa delle condizioni immediate di vita e di lavoro!

Mentre si nega la lotta per l'autodecisione dei palestinesi e la tattica leninista del partito di classe rispetto a questa lotta, si punta tutto sulla lotta economica, immediata, che di per sè non ha mai risolto nessuna rivendicazione politica.

Naturalmente non poteva mancare la frase parafulmine: «per il movimento proletario internazionale, nessuna soluzione di nessuna questione deve essere collocata al di sopra degli interessi di classe e della propria lotta, entrambi internazionali». Ma quali sono gli interessi di classe e della «propria lotta»?: gli interessi di classe dei proletari palestinesi coincidono con gli interessi di classe dei proletari israeliani sul piano storico e delle grandi finalità della rivoluzione proletaria, ma sul terreno politico immediato si distinguono a causa dell’esistente oppressione nazionale da  parte israeliana e dell’esistente saldatura fra proletariato e borghesia israeliani. Ed è questa diversa posizione del proletariato israeliano e del proletariato palestinese rispetto all’oppressione nazionale esercitata dalla borghesia israeliana su tutto il popolo palestinese che obbliga il partito proletario a lanciare parole d’ordine diverse ai due proletariati. Sono due proletariati che si scontrano perché spinti da interessi immediati contrapposti sui quali agiscono entrambe le borghesie: la borghesia israeliana per ottenere la più forte collaborazione interclassista dal “suo” proletariato (che, se di origine araba, è discriminato dai proletari di origine ebrea, ma trattato meglio dei proletari palestinesi), usa le leve del privilegio politico e confessionale di una nazione e di uno Stato con propria identità e territorio (anche se in perenne estensione) e del privilegio economico tipico di una aristocrazia operaia. La borghesia palestinese, a sua volta, per ottenere la più forte collaborazione interclassista dal proletariato palestinese usa la leva del nazionalismo e della lotta contro l’oppressione israeliana. Questa divisione dei proletari generata dalla politica delle rispettive borghesie non la si supera negandola, né tanto meno caricando uno solo dei due proletariati – nella fattispecie quello palestinese, che è nelle condizioni materiali e storiche più deboli – di una lotta per i diritti democratici, per di più solo pacifica e legalitaria (nell’articolo del nuovo «p.c.» non si  accenna minimamente alla lotta armata). La posizione del nuovo «p.c.» è una colossale presa in giro. Quel che con la lotta armata non si è ottenuto in decenni di scontri con la borghesia israeliana e col suo esercito, essi pretendono che sia possibile ottenere con la lotta economica, con gli scioperi, e da parte dei soli proletari palestinesi, in una situazione in cui l’oppressione nazionale si è sempre accompagnata con la repressione più brutale anche delle forme più elementari di sopravvivenza!

Al di là della effettiva realizzabilità della indipendenza nazionale palestinese e della costituzione di uno Stato palestinese politicamente indipendente, l’indicazione politica ribadita incessantemente da Lenin per noi non cambia anche se sono passati 95 anni dal 1915. I proletari israeliani, prima di tutti, e insieme a loro i proletari americani e i proletari europei possono esprimere la loro solidarietà di classe con i proletari palestinesi solo lottando, al di fuori e contro le manovre diplomatiche dei propri governi, per il diritto alla separazione del popolo palestinese dal popolo israeliano, riconoscendo questo diritto di separazione fino alla costituzione di uno Stato indipendente. Questa rivendicazione, che non è certo l’unica che il partito di classe sostiene, tende a dimostrare in pratica che i proletari israeliani, e al loro fianco i proletari americani e europei, stanno dalla parte dei proletari palestinesi e praticano la rottura dei legami che le rispettive borghesie hanno tessuto in tutti questi decenni per attirare i proletari nelle proprie politiche di potenza. Ogni altro modo di “adoperarsi” perché cessi l’oppressione nazionale contro i palestinesi è solo indifferenza o mistificazione. Sono in grado oggi i proletari israeliani, i proletari americani ed europei, di lottare per una rivendicazione di questo genere? NO, questo è davanti agli occhi di tutti. D’altra parte non lo erano nemmeno i proletari inglesi rispetto alla lotta degli irlandesi per l’indipendenza dell’Irlanda dalla Gran Bretagna, ma Marx ed Engels, e poi Lenin, si sono comunque battuti su questa linea politica. E se l’Irlanda raggiunse successivamente una forma di indipendenza politica, anche se non su tutto il territorio dell’isola, lo si deve certamente alla lotta armata e lungamente condotta dagli irlandesi più che alla lotta dei proletari inglesi contro l’oppressione nazionale che la propria borghesia esercitava sul popolo irlandese. Ciò non toglie che il partito di classe, il partito comunista rivoluzionario sostenga la giusta tattica - come nell'esempio di Lenin su Norvegia e Svezia - e inciti i proletari della nazione oppressa e della nazione che opprime a schierarsi su di un fronte di lotta che non automaticamente lo stesso all'inizio, ma diventa lo stesso fronte di lotta nella misura in cui i due proletariati - grazie alla doppia tattica del partito di classe - si riconoscono ad un certo grado di sviluppo della lotta per l'autodecisione come parti integranti dello stesso fronte proletario internazionale.

La posizione del nuovo «p.c.» è semplicemente la posizione da economismo imperialistico staffilato da Lenin più di novant’anni fa. Il nuovo «p.c.» giunge alla conclusione, zigzagando molto come abbiamo visto, secondo la quale oggi le contraddizioni di cui il partito proletario si deve occupare sono soltanto quelle storicamente decisive, quelle che contrappongono chiaramente la classe del proletariato alla classe borghese per affrontare le quali esiste la lotta immediata sul terreno della difesa delle condizioni di vita e di lavoro, e la lotta politica rivoluzionaria per la conquista del potere politico; ogni altra contraddizione – che sorge da questioni storicamente irrisolte, come la questione «nazionale» – per il partito proletario non ha alcun interesse e viene semplicemente «assorbita» dalla lotta proletaria di difesa immediata o dalla lotta proletaria rivoluzionaria (da rivoluzione «pura», per intenderci). Una, la lotta immediata, è lotta che ha per ambito i confini nazionali, l’altra, la lotta per la rivoluzione proletaria, non può che essere «internazionale». E lo schemino è bell’e disegnato. A questo punto la questione «nazionale» non è più di interesse del partito proletario per come lo concepisce il nuovo «p.c.», e quindi nemmeno la questione dell’autodecisione come impostata da Lenin; nell'opuscolo “Che cos’è il partito comunista internazionale” non vi è cenno alcuno: la questione “nazionale”, per il nuovo «p.c.» non esiste, da nessun punto di vista!

In effetti, nei lavori che il nuovo «p.c.» ha fatto nel 1998, nel 2002 e nel 2004 sulla questione «nazionale» e sulla questione «palestinese» in particolare, si è continuato a ribadire una posizione che nega validità attuale alla posizione richiamata da Lenin sulla tattica differenziata che il partito proletario è chiamato ad attuare  nei confronti dei proletari del paese oppressore e dei proletari della nazione oppressa. Rigettando la posizione di Lenin si rigetta la stessa posizione del nostro partito di ieri, anche se – a differenza di «b.c.» – ci si prende il lusso di rivendicare queste posizioni fino al 1976, periodo in cui termina il grande ciclo delle lotte anticoloniali del secondo dopoguerra, che però mai è stata assunta dal partito di ieri come la data in cui la questione «nazionale» aveva finito di esistere in tutto il mondo.

(1 - continua)

 

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