Viva lo sciopero dei lavoratori immigrati !

(«il comunista»; N° 115; Novembre 2009 - Gennaio 2010)

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Lo sviluppo del capitalismo che, dall'area originale europea ed euroamericana,  ha conquistato il mondo intero ha proletarizzato con brutale forza la stragrande maggioranza delle popolazioni mondiali. Lo sfruttamento capitalistico che ormai è esteso e domina incontrastato in tutto il mondo, va di pari passo con il suo sviluppo ineguale nei diversi paesi, a tal punto ineguale che la forbice tra paesi avanzati e industrializzati e paesi sottoindustrializzati tende ad allargarsi aumentando la distanza tra le condizioni di vita e di lavoro dei proletari dei diversi paesi arretrati e dei diversi paesi industrializzati. Ciò provoca inevitabilmente un sempre più profondo immiserimento delle masse proletarizzate dei paesi della periferia dell'imperialismo. E queste masse, spinte a fuggire dalla miseria, dalla fame, da condizioni di sopravvivenza negate, dalle guerre generate costantemente dalla concorrenza capitalistica sia locale e regionale che mondiale, si dirigono inesorabilmente verso i paesi più ricchi alla ricerca di condizioni di sopravvivenza più accettabili. Si aggiunge in questo modo un'ulteriore e più profonda discriminazione tra i proletari delle diverse nazionalità che fa da base alla ghettizzazione dei proletari immigrati.

Ogni periodo storico ha conosciuto ondate di migranti in cerca di sollevarsi dalla misera condizione di vita in cui si trovavano. Ieri, tra quei migranti c'erano anche milioni di italiani, regolari e irregolari, che hanno invaso la Svizzera, la Francia, la Germania, gli Stati Uniti, l'Argentina, l'Australia. L'Italia, oggi, da paese "esportatore" di migranti è diventata meta di migranti dai Balcani, dall'Europa dell'Est, dall'Estremo e Medio Oriente, dall'Africa. I dati ufficiali registrano circa 4 milioni di immigrati residenti sul territorio nazionale, ma la realtà è certamente più consistente almeno di 1 milione - 1 milione e mezzo in più. E sono le farraginose difficoltà burocratiche che "regolano" l'immigrazione nei paesi industrializzati a generare inevitabilmente masse sempre numerose di cosiddetti "irregolari". Le rivendicazioni che come partito avanziamo da sempre in difesa dei proletari immigrati sono: regolarizzazione per tutti, no alle espulsioni, salari uguali ai proletari autoctoni e immigrati rispetto allo stesso lavoro, no ad ogni discriminazione razziale, nazionale, religiosa, eguali diritti di associazione, di sindacalizzazione, di libera circolazione sul territorio nazionale. La classe dominante borghese non ha interesse ad accogliere questo tipo di richieste semplicemente perché ha un interesse opposto: più mantiene e approfondisce la discriminazione nei confronti dei proletari immigrati e più allarga la concorrenza tra i proletari autoctoni e i proletari immigrati, avvantaggiandosi su tutti i piani: quello strettamente economico relativo al tasso di sfruttamento di masse proletarie a bassissimo costo, quello sociale relativo allo spezzettamento in tanti strati separati delle masse proletarie in generale e alla facilità nel criminalizzare di volta in volta gruppi di immigrati diversi, quello politico relativo ad una legislazione che col pretesto degli immigrati irregolari tende a stringere tutto il proletariato nelle morse di una  normalizzazione a sfondo poliziesco della vita quotidiana, quello culturale relativo all'esaltazione di una superiorità artificiosa data da un passato di civiltà cristiana e borghese che fa da collante dell'interclassismo  usato in tempo di pace per impedire al proletariato di riconoscersi in interessi di classe contrapposti a quelli borghesi e, in tempo di guerra, irreggimentarlo in carne da cannone!

Ma i borghesi, in generale, e quindi anche i capitalisti nostrani, hanno bisogno dei proletari immigrati come hanno bisogno dei proletari autoctoni disoccupati, perché usano queste masse per aumentare la concorrenza tra proletari e abbattere i livelli salariali precedenti. Perciò sono disposti a "regolarizzare" - ma a condizioni sempre vessatorie - una parte delle masse di migranti. Il migrare di intere popolazioni proletarie non è una "scelta di vita", ma una necessità di sopravvivenza; questo lo capisce bene anche la chiesa cattolica che sui migranti, e ancor di più sui migranti più disperati, sviluppa la sua arte consolatoria e caritatevole atta a far accettare, in un modo o nell'altro, la sofferenza umana come condizione inevitabile della vita (sottoposta alle leggi del capitale!) su questa terra.

Il fatto che alcune frazioni borghesi siano visceralmente anti-immigrati, come è il caso dei leghisti e degli estremisti di destra in Italia, non incide minimamente sul continuo flusso migratorio di masse immiserite e disperate che affollano i confini dei paesi più ricchi. Lo spostamento delle masse dalla miseria, dalla fame e dalle guerre verso territori anche solo apparentemente meno ostili, è una conseguenza materiale dell'accumularsi nei decenni di condizioni invivibili che il capitalismo, sviluppandosi, ha universalizzato imponendo la legge del profittto capitalistico e del mercato in ogni angolo della terra. E' talmente continuo questo spostamento, talmente massificato, da sembrare addirittura un fenomeno "naturale".

Così, i proletari migranti, oltre a trovarsi nelle condizioni peggiori per la sopravvivenza nei propri paesi d'origine, sono costretti a prolungare il peggioramento delle loro condizioni di vita in paesi che sono sì più ricchi di quelli che hanno lasciato, ma nei quali la loro sopravvivenza quotidiana sarà. ed è, altrettanto dura e bestiale, da schiavi perdipiù rifiutati e ghettizzati.

Il lavoro che viene loro offerto è in genere pagato malissimo, ultraprecario, con orari giornalieri maledettamente lunghi e sottoposto costantemente agli strozzini di ogni genere, dai "caporali" ai padroni che danno lavoro in "nero" senza alcuna certezza di percepire effettivamente il salario a lavoro eseguito, dai padroni di stamberghe che affittano a prezzi esosi ai maneggioni che parlano le loro stesse lingue e che si sono ritagliati funzioni da "mediatori" con le istituzioni burocratiche.

I proletari immigrati, oltre alle enormi difficoltà che incontrano nella sopravvivenza quotidiana, si trovano contro molto spesso  gli stessi proletari autoctoni che sono indotti dalla propaganda borghese a colpevolizzarli del peggioramento di vita che subiscono anch'essi. E l'atteggiamento ostile o indifferente dei proletari autoctoni verso i proletari immigrati è il risultato della concorrenza instillata e alimentata dalle forze borghesi e da tutte le forze della conservazione sociale compresi i partiti politici e i sindacati tricolore.

La rivolta dei proletari africani di Rosarno ha però fatto emergere un sentimento d'orgoglio e una volontà di lotta che covava da molto tempo e sui quali le organizzazioni sindacali tricolore si sono ben guardate di far leva per creare una solidarietà di classe tesa a combattere proprio quella concorrenza fra proletari che è una delle armi antiproletarie più micidiali in mano alla classe dei capitalisti.

Troppe sono state finora le vessazioni , le umiliazioni, le azioni di discriminazione verso di loro perché i proletari immigrati non reagissero. E finalmente hanno reagito! Hanno usato un'oncia della violenza che normalmente viene usata contro di loro per gridare alta la loro rabbia e la loro volontà di non subire più, in silenzio e ai margini nascosti delle città e della vita civile, le violenze sistematiche con cui bravi e civilissimi italiani li costringono a vivere nella miseria e nella paura! E questa reazione di sana origine classista deve insegnare qualcosa ai proletari italiani, e in genere ai proletari autoctoni: la maggiore pressione capitalistica sulle condizioni di vita e di lavoro dei proletari immigrati apre, in realtà, una maggiore pressione sulle condizioni di vita e di lavoro - finora ancora "privilegiate" - dei proletari autoctoni. Il peggioramento di vita degli immigrati si allarga inesorabilmente anche ai proletari autoctoni, e non sono gli atteggiamenti ostili nei confronti degli immigrati che salveranno i proletari autoctoni dal precipitare nel precariato, nella disoccupazione, nella disperazione di una vita appesa alle "condizioni di mercato".

Ora, diverse associazioni di immigrati in Italia, seguendo l'esempio di quel che già hanno iniziato a fare in Francia, stanno organizzando anch'esse una manifestazione   generale di una giornata per il prossimo 1° di marzo, manifestazione che da molte parti è stata classificata come uno sciopero generale degli immigrati.. L'obiettivo è quello di fermare il lavoro di tutti gli immigrati in Italia, in Francia e magari anche in altri paesi europei come la Sopagna, la Grecia ecc., per "dimostrare" che il loro lavoro è indispensabile per la produzione nazionale e per far funzionare a pieno regime l'intera macchina capitalistica e che, per questa ragione, è perfettamente giustificata la richiesta di uguali diritti e di una vita dignitosa per i milioni di immigrati che «lavorano duramente e svolgono funzioni essenziali per la tenuta di una società complessa e articolata come la nostra» (1). Questa iniziativa, a priori rivendicante legalità e non-violenza, intende convogliare in una grande manifestazione gli immigrati soprattutto, ma anche gli stessi lavoratori autoctoni, in diversi modi: con l'astensione dal lavoro, lo sciopero degli acquisti o la presenza in piazza. E' quindi evidente l'intenzione e la pratica pacifista e interclassista di questo "movimento" che nasce dal basso - per lo più attraverso la rete internet - ma è indiscutibile che vada a toccare un punto nevralgico della situazione sociale nei paesi industrializzati, quello della discriminazione sistematica di cui soffrono gli immigrati, e in particolare i proletari immigrati.  

E', d'altra parte, caratteristica dell'ideologia democratica e dei movimenti che ad essa fanno riferimento, tentare di indirizzare i movimenti sociali nell'alveo della legalità, del pacifismo, della non-violenza, del rispetto delle istituzioni e delle leggi vigenti anche se queste sono discriminatorie e "ingiuste". Ed è ovvio che, di fronte al pericolo di un movimento duro, rabbioso, di classe da parte di settori proletari combattivi e non più intenzionati a subire in silenzio ogni tipo di violenza e di angheria - come i fatti di Rosarno, e prima ancora di Castel Volturno,  fanno percepire - le anime buone democratiche, antirazziste, si muovano a compassione, e tendano a suonare tutti i possibili campanelli d'allarme avvertendo le autorità che i 4 milioni di immigrati che in Italia contribuiscono con il loro lavoro al 9-10% del tanto agognato PIL, è più conveniente trattarli in modo «più civile» e «più umano».

Ciò non toglie che il problema dei proletari immigrati e della lotta perché le loro condizioni di vita e di lavoro diventi patrimonio della lotta operaia dei proletari italiani sia un problema fondamentale per la stessa lotta immediata di difesa delle condizioni operaie dei proletari italiani. Combattere la concorrenza tra proletari non è più da tempo un problema tra i soli proletari autoctoni (tra categoria e categoria, tra proletari di origine meridionale o isolana e proletari di origine settentrionale), ma è diventato un problema esteso ai proletari di qualsiasi provenienza geografica o etnica. E' d'altra parte indiscutibile che una delle manifestazioni di solidarietà tra operai, di solidarietà di classe, è quella di scioperare insieme per obiettivi condivisi anche se parziali.

Ecco perché, per noi comunisti rivoluzionari, qualsiasi spiraglio si apra nella cappa sociale e interclassista perché i proletari si riconoscano in una identità di classe, anche se elementare e a livello della lotta immediata e parziale, è comunque un segno positivo. Se poi è lo sciopero il mezzo perché i proletari più combattivi, anche se soltanto o per la stragrande maggioranza immigrati, scendano sul terreno della lotta, è un segno positivo in più.

Sappiamo bene che lo sciopero in quanto tale non è risolutivo e può non ottenere alcun risultato economico immediato. Ma, come ribadisce il Manifesto del 1848, il vero risultato della lotta operaia è la solidarietà di classe, tra operai di diversa provenienza, è vincere la concorrenza che la borghesia frappone sistematicamente tra i proletari.

Lo sciopero è l'arma tipica, non l'unica, della lotta immediata dei proletari a qualunque nazionalità, età, sesso appartengano e di qualunque categoria o settore di produzione e di distribuzione siano.

Ma, perché lo sciopero sia una effettiva arma di pressione sui padroni, singoli o associati, deve incidere sugli interessi immediati dei padroni, deve raggruppare un certo numero di lavoratori salariati, deve durare un tempo sufficiente per indurre i padroni a trattare sulle rivendicazioni operaie, deve essere organizzato in funzione della difesa esclusiva delle rivendicazioni operaie che sono incentrate sul miglioramento delle condizioni proletarie di lavoro e di vita. Tutto questo è del tutto normale e assodato per qualsiasi operaio, anche il più arretrato. Per scendere in sciopero, per resistere alle contromosse del padronato e delle forze che ne difendono gli interessi (lo Stato con le sue polizie, le diverse istituzioni locali, le banche, le associazioni padronali e tutte le forze di conservazione sociale sia politiche che sindacali, religiose e culturali) agli operai non basta la spinta materiale ed economica delle condizioni di vita e di lavoro insopportabili, spinta oggettiva e indispensabile, ma non sufficiente. Ci vuole organizzazione, coscienza della necessità di lottare per migliorare le proprie condizioni, volontà di lottare e solidarietà fra gli operai. Tutto questo fa parte della lotta di resistenza alla pressione e alla repressione del capitale e della sua società, lotta che generazioni e generazioni di  operai hanno sviluppato nella loro vita di lavoratori salariati; della lotta contro condizioni di sfruttamento capitalistico che nel tempo sono destinate ad aumentare peggiorando per masse sempre più vaste la miseria della loro vita.

La classe operaia in Italia, nei paesi più industrializzati, è saldamente radicata su questo terreno di lotta? E' in grado di porsi obiettivi più ambiziosi sul piano dell'unificazione delle lotte parziali e sul pinao più generale e politico? In una parola, sul piano della lotta di classe? Purtroppo NO!

I proletari italiani, intossicati da decenni di interclassismo, e di opportunismo riformista che prometteva un benessere progressivo e sicuro contro i sacrifici che i padroni e lo Stato borghese chiedevano, oggi  si trovano in condizioni di estrema debolezza di fronte ad attacchi sempre più generalizzati e violenti alle loro condizioni di vita e di lavoro. Lasciati in balia degli andamenti critici delle aziende e praticamente abbandonati dai sindacati ufficiali alla loro sorte, azienda per azienda, salgono sui tetti e sui carriponte per protestare la loro rabbia di fronte a padroni che cinicamente chiudono fabbriche e licenziano operai perché la loro attività non rende più i profitti di prima. Ma queste forme di protesta e di lotta non fanno paura a nessun padrone, e raramente ottengono una risposta positiva oltretutto solo per pochi. Non si sa quanto tempo e che cosa ancora deve succedere alle condizioni di sopravvivenza perché i proletari italiani ritornino alle tradizioni classiste degli anni Venti del secolo scorso. Intanto sono i proletari immigrati a rompere la pace sociale e a chiamare alla solidarietà i proletari italiani, anche se le forme attuali sono inevitabilmente quelle delle manifestazioni interclassiste.

A questa chiamata i proletari italiani devono rispondere sul terreno di classe, devono rispondere sull'unico terreno nel quale la forza proletaria può esprimersi in tutta la sua potenza e difendere più efficamente le proprie condizioni di vita e di lavoro. Perché, lo ripetiamo, il nemico più insidioso e difficile da vincere è la concorrenza fra proletari. I passi da fare per risalire dalla china in cui è stata fatta precipitare la lotta classista, saranno grezzi, all'inizio malsicuri e confusi, pieni di errori e di illusioni, ma se vengono fatti nella direzione della lotta contro la concorrenza fra proletari saranno passi positivi che porteranno esperienza e segneranno l'inizio della ripresa della lotta di classe.

Ecco perché gridiamo: viva lo sciopero dei proletari immigrati! Non siamo ancora all'inizio della ripresa della lotta di classe, ma questo potrebbe essere un passo importante per il risveglio delle tradizioni classiste del proletariato italiano, e non solo italiano.

A questo proposito, non possiamo passare sotto silenzio la posizione che ha preso un gruppo politico che si fa passare come l'erede della Sinistra comunista italiana e che si definisce «partito comunista internazionale-programma comunista».

Si legge nel loro sito una presa di posizione, a proposito dello sciopero dei proletari immigrati del 1° marzo, con la quale questo gruppo sostiene la propria netta avversione allo sciopero dei «soli» lavoratori immigrati! I professori del nuovo «programma comunista» sostengono che «lanciare la parola d'ordine dello "sciopero dei lavoratori immigrati" vuol dire procedere lungo la strada del tradimento». E giustificano il loro giudizio, dopo aver descritto in sintesi le condizioni peggiorative di vita e di lavoro cui stanno sempre più precipitando i proletari e l'azione antioperaia dell'opportunismo politico e sindacale, in questo modo: «Per essere vincente anche solo nell'immediato, la risposta può solo essere la ripresa della lotta di classe aperta e intransigente, e insofferente di ogni separazione e ghettizzazione, di ogni divisione all'interno di quell'enorme esercito che non fa che gonfiarsi a dismisura mentre procede la crisi e che si chiama proletariato mondiale»!

In pratica, i professori del nuovo «programma comunista» affermano che la lotta immediata, la lotta parziale, la lotta anche soltanto di gruppi proletari più combattivi o semplicemente spinti in quel determinato frangente da situazione insopportabile a lottare, non serve assolutamente a nulla; che, anzi, lanciare la parola d'ordine dello sciopero anche solo in un'azienda, o di una categoria, di un settore di produzione o, come nel caso di cui stiamo parlando, di una parte di proletariato materialmente e per legge discriminato dal resto dei proletari, significa tradire la «lotta di classe»!

Essi affermano che nessun gruppo di operai deve lottare in difesa delle proprie condizioni materiali di vita e di lavoro, perché questo aumenterebbe la frammentazione che già esiste all'interno dell'intero proletariato. Spariscono così i criteri materialisti di interpretazione dei fenomeni sociali, e quindi il concetto che la maturazione della «coscienza tradunionista» nel proletariato non avviene  simultaneamente su tutti i componenti del proletariato, ma attraverso un suo sviluppo ineguale e che il proletariato è diviso in strati più «coscienti» e più «arretrati» non per "scelta" ma a causa dello stesso sviluppo capitalistico e delle esperienze di lotta accumulate o meno, delle eventuali vittorie e delle sconfitte subite nel corso delle lotte, del grado di sviluppo politico delle lotte e dell'influenza del partito di classe all'interno delle file proletarie. E sparisce così il concetto stesso di lotta immediata, di lotta parziale, nella quale i proletari imparano a lottare, imparano ad organizzarsi, imparano a riconoscere mezzi e metodi di lotta più o meno efficaci, imparano a riconoscere i nemici e gli alleati nella lotta e i limiti della stessa lotta immediata.

Di colpo, in una situazione storica oltretutto particolarmente sfavorevole non solo alla lotta rivoluzionaria ma alla stessa  lotta di classe e alla sua ripresa, nel proletariato dei paesi industrializzati, intossicato da generazioni dalla droga dell'interclassismo e del democratismo, dovrebbe rinascere la coscienza della lotta generale anticapitalistica su un unico e unificante fronte di lotta! Parole, parole sprecate malamente in una artificiosa esaltazione di un desiderio scambiato per realtà.

Si può tradire in tanti modi la lotta di classe, ad esempio tradire la consegna che i comunisti si sono presi nel compito di portare nelle file proletarie le lezioni delle lotte non solo rivoluzionarie di ieri ma delle stesse lotte operaie sul terreno immediato. Come  sosteneva Lenin, la lotta operaia sul terreno immediato è una scuola di guerra di classe; senza questa scuola i proletari non raggiungeranno mai la capacità di lottare sul terreno politico più generale, e quindi sul terreno dello scontro rivoluzionario. I professori del nuovo «programma comunista» vorrebbero che i proletari, senza passare attraverso l'arduo e difficile terreno della lotta parziale e immediata, fossero già pronti per la lotta di classe generale; non solo, ma fosse già pronto non solo come proletariato immigrato o italiano, ma nella sua dimensione mondiale!

Che razza di comunista può essere chi nega ai proletari combattivi di scendere in lotta? Che razza di comunista può essere chi dà del traditore ai proletari che intendono lottare senza dover aspettare che i proletari più arretrati... o semplicemente vincolati al carro capitalista dalla loro condizione di aristocrazia operaia o di sottoproletariato, raggiungano in combattività classista i proletari più avanzati?

I professori del nuovo «programma comunista» possono dormire sonni tranquilli: la lotta di classe e la rivoluzione non batteranno mai alla loro porta!

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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