Auto, dalla crisi di sovraproduzione alla riproduzione della crisi

(«il comunista»; N° 118; Ottobre 2010)

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L'industria automobilistica è sempre stata uno dei fattori fondamentali dell'economia capitalistica moderna, sia per il gigantismo delle grandi aziende del settore, che per la miriade di industrie che formano l'indotto, per lo slancio dato all'industria petrolifera e per le quantità di capitali mossi in corrispondenza in tutte le borse del mondo. Nel 2006, l'industria dei veicoli a motore (auto e veicoli commerciali) con la produzione di 69 milioni di unità, rappresentava il primo settore manifatturiero nel mondo, ma è stato anche il settore industriale maggiormente colpito dalla crisi economica del 2008-2009 (1).

Dire General Motors, Chrysler, Ford era dire Stati Uniti, e richiamava i grandi marchi petroliferi diventati familiari in tutto il mondo con la definizione che ne diede Enrico Mattei - le Sette Sorelle -. Dire Volkswagen, Mercedes o Bmw voleva dire Germania, Fiat voleva dire Italia, Renault, Citroen o Peugeot voleva dire Francia, Toyota o Honda voleva dire Giappone. Insomma, i maggiori marchi di automobili, pur diventando nel corso del tempo, in una continua girandola di fusioni, acquisizioni e sparizioni, delle multinazionali - come lo sviluppo imperialistico impone - hanno continuato a rappresentare la prosperità industriale dei rispettivi paesi; e la crisi di questo settore significava in generale crisi dell'industria del paese principale di appartenenza.

Anche dal punto di vista delle cosiddette "relazioni industriali", ossia dei rapporti fra lavoratori e aziende del settore, mediati dai sindacati metalmeccanici, ciò che succede in questo settore influenza l'intera "politica sindacale": se i lavoratori ottengono dei miglioramenti contrattuali questi in una certa misura, e con una certa difficoltà, fanno da "apripista" anche per gli altri settori industriali - ad esempio i siderurgici e i chimici -, ma se gli industriali del settore riescono a peggiorare le condizioni di lavoro dei propri lavoratori, questo peggioramento si diffonde negli altri settori, e non solo industriali, a velocità raddoppiata. Da anni il settore manifatturiero in generale subisce una ristrutturazione tecnica e organizzativa importante e una sempre più incisiva concentrazione capitalistica, tali da aver provocato chiusure di stabilimenti e  forti ondate di licenziamenti. Basti l'esempio della Fiat che, dopo essersi ingoiata la quasi totalità delle aziende automobilistiche italiane del settore (Alfa Romeo e Lancia, i marchi più noti e rappresentativi), negli anni Settanta dava lavoro in Italia a più di 120.000 dipendenti nei diversi stabilimenti, mentre oggi dà lavoro a meno di 80.000 dipendenti di cui solo 29.000 lavorano nei 5 stabilimenti auto italiani già diminuiti dei 1300 lavoratori di Termini Imerese a causa della chiusura dello stabilimento nel 2011.

La crisi di sovraproduzione capitalistica mondiale del 2008-2009 ha ridotto drasticamente le vendite di automibili in tutti i paesi, affondando con il settore dell'auto tutti i settori produttivi collegati. Solo alcuni paesi che nel mercato mondiale dell'automobile si sono affacciati da un paio di decenni come Cina, India, Iran, Brasile hanno registrato un aumento della produzione (o una "tenuta" come il Brasile che ha perso solo l'1%) assorbita soprattutto dai propri mercati interni che hanno continuato a svilupparsi. Ma andiamo a vedere i dati di produzione automobilistica confrontandoli nel decennio 1999-2009.

La produzione automobilistica mondiale (auto, veicoli commerciali e camion) nel 1999 era di 56 mln 259mila; nel 2009 è stata di 61 mln 715mila, quindi ha registrato il 9,69% di incremento; ma questo incremento è dovuto in grandissima parte all'esplosione produttiva di paesi capitalistici più giovani, come Cina, India, Brasile, Iran, incremento assoribito, come si diceva, soprattutto dai propri mercati interni; mentre i paesi che tradizionalmente producono ed esportano in tutto il mondo i propri veicoli a motore in questo decennio hanno in generale subito un pesante decremento. Questa è la situazione della produzione, per un buon numero di paesi, nel 1999 e nel 2009:

 

Paese

Mln unità

Mln unità

1999

2009

USA

13.025

5.709

Giappone

9.895

7.935

Germania

5.688

5.210

Francia

3.180

2.048

Canada

3.059

1.491

Spagna

2.852

2.170

Sud Corea

2.843

3.513

Regno.Unito  

1.974

1.090

Cina

1.830

13.791

Italia

1.701

0.843

Messico

1.550

1.561

Brasile

1.351

3.183

Russia

1.170

0.722

Belgio

1.017

0.537

India

0.818

2.633

Polonia

0.575

0.884

Rep..Ceca          

0.373

0.975

Taiwan

0.353

0.226

Tailandia

0.322

0.999

Sud Africa

0.317

0.373

Argentina

0.304

0.513

Turchia

0.298

0.870

Malaysia

0.254

0.489

Svezia

0.251

0.156

Iran

0.119

1.395

Slovenia

0.118

0.213

Romania

0.107

0.296

E' immediatamente visibile il tracollo delle potenze industriali del blocco occidentale, in particolare gli USA che hanno perso il 56% di produzione, il Giappone che ha perso il 19,8%, il Regno Unito il 44,7%, l'Italia il 50,4%, il Canada il 51,2%, la Francia il 35,6%; mentre è altrettanto evidente il balzo in avanti della Cina che ha più che sestuplicato la propria potenzialità industriale portandosi agli stessi livelli produttivi del settore che avevano dieci anni prima gli USA, seguita dall'India che ha triplicato la sua produzione di dieci anni prima, l'Iran che nel 1999 aveva una produzione molto limitata, in dieci anni più che decuplicata, il Brasile con una produzione più che raddoppiata.

Tutto ciò potrebbe far pensare che il calo produttivo di alcuni paesi nel periodo di crisi fosse compensato dall'incremento produttivo di altri e che, in generale, la ripresa industriale potesse essere assicurata, dopo il punto più acuto della crisi, proprio dai paesi che non avevano subito il crollo della produzione. Ma da un secolo e mezzo il capitalismo è entrato nel ciclo delle crisi di sovraproduzione; ciò non significa che non vi sia sviluppo capitalistico, perché questo sviluppo è determinato da molti fattori legati sia alla produzione capitalistica tout court, sia all'accumulazione sempre più gigantesca di capitali, sia all'allargamento dei mercati di sbocco delle merci prodotte al quale contribuiscono i sempre più moderni mezzi di comunicazione. Le stesse crisi di sovraproduzione, mentre mandano in rovina numeri sempre più grandi di aziende costrette a chiudere o a ridurre drasticamente le proprie ambizioni, distruggendo ingenti quantità di merci, di capitali e di posti di lavoro salariato facendo precipitare in miseria masse sempre più vaste di lavoratori, nel corso della loro evoluzione generano una situazione di più acuta contraddizione: da un lato, la distruzione di merci e di capitali "libera" il campo a rinnovate produzioni di merci e di capitali che si attuano non solo nei paesi di vecchio impianto capitalistico ma anche nei paesi di più recente, e sicuramente selvaggio, capitalismo rampante. Le crisi di sovraproduzione, se quindi da un lato interrompono il progredire della follia produttiva capitalistica distruggendo ricchezza sociale sempre più corposa, dall'altro costituiscono un'occasione per nuovi capitali e per la ripresa del diabolico ciclo produttivo capitalistico che non potrà fare altro che riprodurre fattori di crisi di sovraproduzione a livello sempre più vasto e acuto. Sì perché il cuore del problema della sovraproduzione non sta tanto nella quantità di merci prodotte o nel potenziale produttivo del modo di produzione capitalistico, quanto nel fatto che la quantità di merci prodotte, ad un certo punto, non è più assorbita dal mercato, ossia non è più vendibile al prezzo a cui è conveniente per i capitalisti produrle e distribuirle (con brutta parola tutta borghese si può dire commercializzarle), in modo da ricavarne il famoso profitto. E ai capitalisti, ai loro governi e ai loro esperti di marketing industriale o ambientale, non importa un fico secco se quelle produzioni sono dannose, tossiche, inutili, inquinanti, dispendiose, e se gli operai che negli anni sono stati obbligatoriamente istruiti professionalmente in un determinato modo vengono a trovarsi ad un certo punto inadatti ai nuovi cicli produttivi, alle nuove tecnologie e quindi vengono semplicemente espulsi dalla produzione precipitando nella disoccupazione; l'importante per loro è il profitto d'impresa, produrre merci attraverso le quali intascare profitti. Le auto a benzina o a gasolio inquinano e rendono l'aria irrespirabile? Resa ormai "indispensabile" per la vita quotidiana, l'auto nella società borghese è diventata un bene "vitale" che ha priorità su ogni altra cosa, anche sull'inquinamento; i ritmi che la produzione e la distribuzione capitalistica imprimono alla vita quotidiana dell'umanità, ai quali nessuno riesce più a sfuggire, sono la via drogata attraverso la quale il capitalismo soffoca ogni tentativo di riprendere un ritmo umano nei rapporti sociali e nello svolgimento naturale delle funzioni fisiche e nervose di ogni essere umano. La velocità è il metro di misura con il quale il capitale  pesa la sua capacità di circolazione e, quindi, di riproduzione. L'auto deve perciò essere prima di tutto veloce, prima ancora che sicura. I ritmi di lavoro, e quindi di vita, devono essere sempre più veloci, non importa se a scapito della sicurezza sul lavoro, perché il tempo è denaro, e il capitale più velocemente riesce a riprodursi più aumenta, e più aumenta più forte è il suo dominio sulla società e sugli uomini. L'auto, il veicolo commerciale, il camion, perciò devono contribuire a ridurre i tempi "morti" (morti per il capitale, perché "improduttivi"), devono collegare il più velocemente possibile il luogo di produzione al luogo della vendita, devono nello stesso tempo essere essi stessi fonte di valorizzazione del capitale, perciò non vengono prodotti secondo una pianificazione scientifica dei bisogni reali di trasporto di beni e di persone, ma vengono prodotti come qualsiasi altra merce che va, ad un certo punto, ad intasare quel mercato al cui allargamento, e inevitabile intasamento, contribuiscono i veicoli a motore.    

Un'ottima dimostrazione della tesi marxista per la quale il limite del capitalismo è la produzione capitalistica stessa, è quella offerta proprio dall'industria che contribuisce in modo determinante alla prosperità o alla rovina della società borghese, l'industria dell'automobile.

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Consideriamo la Cina, per un momento, come nuova potenza industriale - a parte la distanza anche gigantesca fra la Cina odierna e gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, il Giappone o la Germania, dal punto di vista della potenzialità industriale del paese nel suo complesso - e quindi come nuovo mercato capitalistico in grado di attrarre merci di ogni tipo e capitali da ogni parte del mondo. Se si prende il dato dell'industria automobilistica si potrebbe credere che nel giro di un paio di decenni la Cina prenderà il posto che è stato occupato per un secolo dagli Stati Uniti. Il suo vorticoso sviluppo nel decennio che sta passando peserebbe a favore di questa ipotesi. Come abbiamo visto, nel 1999 la produzione automobilistica cinese era il 14% di quella nordamericana; nel 2009 la produzione automobilistica degli USA è stata il 41% di quella cinese, ed è stato un anno di crisi economica importante; la distanza di 27 punti è comunque enorme poiché la differenza tra il mercato americano, sviluppatissimo dal punto di vista capitalistico, e il mercato cinese, sviluppato sì soprattutto nelle zone costiere che comprendono all'incirca 300 milioni di persone (su 1 miliardo e 300 milioni di abitanti), ma molto arretrato in gran parte del paese, non è facilmente colmabile. Un altro dato può dare l'idea della distanza non solo tra questi due paesi, ma anche tra la Cina e i paesi di vecchio capitalismo: il PIL pro capite della Cina (2005) è di 1.705 $Usa, quello pro capite degli USA, stesso anno, è di 42.101 $Usa, mentre il PIL pro capite del Regno Unito è di 36.599 $Usa, del Giappone di 35.787 $Usa, della Germania di 33.922$Usa  e della Francia di  33.734$Usa. Su questa base l'ineguale sviluppo capitalistico tra Cina e USA è simile a quello tra gli USA e il Congo, l'Angola o il Marocco.

Ma quel che è ormai chiaro a tutti, è il fatto che il vorticoso sviluppo industriale cinese poggia sullo sfruttamento brutale e schiavistico delle masse proletarie. Non è solo una questione di assenza di "diritti sindacali", come si affannano a ricordare i nostri sindacalisti collaborazionisti che, pur contando su "diritti sindacali" e su una legislazione che ha recepito una serie di riforme e di ammortizzatori sociali che permettono nei nostri paesi occidentali una schiavitù salariale vestita di democrazia e di illusioni benesseriste, contribuiscono da decenni allo smantellamento di quei "diritti". La questione si pone come si era posta negli anni di avvio selvaggio dello sviluppo capitalistico in Inghilterra, in America, in Francia, in Germania, in Italia a cominciare dagli ultimi decenni del Settecento e per tutto l'Ottocento, e in Russia a cavallo tra l'Ottocento e il Novecento. Ogni giovane capitalismo si impone sulle strutture economiche precapitalistiche e sulla corrispondente organizzazione sociale con tutta la violenza di cui dispone in loco alla quale si aggiunge la violenza dei paesi capitalisti già radicati nel mercato mondiale; e più tardi il giovane capitalismo appare sulla scena, più violenza deve usare per accelerare al massimo lo sviluppo del capitale (la velocità, la velocità!) nella società nazionale e per contrastare la violenta aggressione degli altri capitalismi. La lotta di concorrenza non è mai limitata al di fuori dei confini nazionali; fa parte del modo di produzione capitalistico e fa parte del suo inesorabile sviluppo contraddittorio. In tutti i paesi in cui il capitalismo si è imposto ha avuto bisogno di un periodo più o meno lungo di aperta dittatura borghese; è avvenuto in Inghilterra, prima che in ogni altro paese, è poi avvenuto in Francia, in Germania e in tutta Europa; anche in America ci sono volute le guerre, prima di indipendenza e poi di secessione per imporre ad una parte consistente del paese, e non solo alle popolazioni indiane, il tallone di ferro del capitalismo. In Russia, il capitalismo aveva cominciato a radicarsi sotto la dittatura zarista abbattuta poi dalla rivoluzione proletaria e bolscevica per dirigere lo sviluppo economico verso il socialismo in forza di una rivoluzione proletaria internazionale che non c'è stata, facilitando in questo modo la restaurazione della dittatura borghese sotto le false spoglie del comunismo staliniano. In Cina la rivoluzione borghese e anticoloniale vinse finalmente nel 1949 col maoismo che, a sua volta, come lo stalinismo, utilizzò la propaganda di un falso socialismo, questa volta in salsa cinese in un primo periodo teorizzando le "quattro classi", poi con la teoria dei "tre mondi", finalizzandola in ogni caso al radicamento e alla diffusione del capitalismo nel grande paese attraverso una ferrea dittatura monopartitica. D'altronde, se ci vollero ferree dittature borghesi in Europa per sradicare la struttura economica feudale sostituendola completamente con il modo di produzione capitalistico, in un periodo storico in cui questi rivolgimenti si alimentavano l'uno con l'altro, in un paese come la Cina, in cui bisognava, e bisogna ancora, sradicare economie, abitudini e sovrastrutture precapitalistiche in vastissime zone contadine, un tale sviluppo economico non poteva avvenire che in due maniere: o con la dittatura borghese e capitalistica, finalizzata allo sviluppo forsennato di un capitalismo vorace e aggressivo poggiante su masse infinite di braccia da sfruttare, o con la dittatura rossa e proletaria, completamente diversa da quella falsamente rappresentata dal Partito comunista cinese, che avrebbe avuto il compito di agganciare il movimento proletario cinese alla rivoluzione proletaria internazionale adoperandosi nel territorio cinese come i bolscevichi guidati da Lenin in Russia negli anni 1917-1924. Cioè indirizzando la società e la sua economia verso il socialismo sviluppando nello stesso tempo, e fino a quando l'apporto economico di paesi sviluppati conquistati dalla rivoluzione comunista non permetta di superarle, forme di capitalismo di Stato che sono quelle più controllabili e gestibili dal potere politico centralizzato.

Non vinse la rivoluzione proletaria in Cina, stroncata sul nascere dallo stalinismo. Vinse la controrivoluzione borghese, e il capitalismo si innestò con le forme sociali e politiche caratteristiche dell'aperta dittatura borghese che ancor oggi resistono.

I proletari cinesi, come d'altra parte i proletari di tutti gli altri paesi, per le vicende storiche avverse, hanno dovuto imboccare la via dell'orrore capitalistico di cui il "diritto alla vita" è l'ultimo diritto riconosciuto e difeso. Il bestiale sfruttamento cui sono sottoposti sta facendo grande la Cina, come ieri fece grande la Russia, e prima ancora l'America, la Germania, la Francia, la Gran Bretagna. Sotto ogni cielo, il proletario è schiavo del lavoro salariato: se un padrone gli dà lavoro - che sia un capitalista privato o la pubblica amministrazione -, cioè lo sfrutta il più possibile, il proletario può vivere e vive male o meno peggio a seconda della forza che la sua classe mette in campo per opporsi alla pressione capitalistica; se il lavoro lo perde o non lo trova, semplicemente non vive, o sopravvive nelle misere condizioni in cui "la società" decide di sopportarlo!

Nonostante la fitta coltre di censura, arrivano ogni tanto notizie dalla Cina di operai in lotta, contadini in lotta, disoccupati in lotta, per un salario più alto, per non morire di fame, perché la propria dignità di esseri umani non sia cancellata del tutto. E questo fa ben sperare per il futuro che non sappiamo quanto lontano sia, anche se ...la Cina è sempre più vicina.

Ciò non toglie che l'esempio dello sfruttamento bestiale dei proletari cinesi venga utilizzato in ogni occasione dai nostri democratici capitalisti che hanno in bocca sempre il solito ritornello: sono ragioni di mercato, di competitività, quelle che ci fanno derogare dai "diritti" esistenti, che ci "obbligano" a gestire la ripresa economica, per uscire dalla crisi, fuori dalle vecchie e ormai obsolete "relazioni industriali" innestando "nuovi" rapporti di collaborazione e di "partecipazione" tra manodopera e padroni.

Il caso Fiat, e ovviamente il "caso Marchionne", è illuminante a questo proposito.

Cominciamo col dire che Marchionne si vanta di aver concordato, solidale il presidente degli Stati Uniti Barak Obama, con il sindacato United Auto Workers (UAW), al fine di mantenere in vita la Chrysler acquisita dal Gruppo Fiat, salari più bassi per i nuovi assunti, turni di lavoro più adatti alle esigenze di produzione e, soprattutto, la rinuncia ad ogni forma di sciopero fino al 2015! (2). Ed è con questo biglietto da visita che si è presentato alla trattativa in Italia su Pomigliano, dopo aver cancellato dal proprio piano produttivo, con l'aiuto del governo Berlusconi, lo stabilimento siciliano di Termini Imerese (3).

Ciò che Marchionne pretende di imporre a Pomigliano è noto, e l'abbiamo trattato nella nostra presa di posizione dello scorso giugno e pubblicata in questo stesso numero. La vicenda di Pomigliano si può condensare in due concetti fondamentali per il Gruppo Fiat: ottenimento rapido dell'efficienza lavorativa nello stabilimento e raggiungimento di un'alta competitività della produzione dello stabilimento. Al fine di raggiungere questi risultati, Marchionne ha imposto il terzo turno, la diminuzione delle pause, l'aumento dei salari solo a fronte di livelli di competitività molto più alti, abbattimento dell'assenteismo ecc. Il tutto, condito con la richiesta implicita di non scioperare - come in America -. La reazione degli operai con le lotte e le manifestazioni si è conclusa nel referendum voluto dalla Fiat con un 36% di no all'accordo e un 62% di sì. In termini numerici l'accordo "è passato", ma in sostanza quel 36% di no al referendum costituisce uno scoglio troppo grande contro il quale l'operazione in velocità  voluta dalla Fiat rischia di andare a sbattere. Ma un altro tassello di quello che potremmo chiamare "Lodo Marchionne" si è inserito nella vicenda generale che riguarda gli investimenti Fiat in Italia: il licenziamento di tre sindacalisti Fiom allo stabilimento di Melfi, accusati di aver sabotato tre linee di produzione durante uno sciopero indetto dalla Fiom. Sulla linea della legalità o meno dei licenziamenti stanno ancora dibattendo gli avvocati delle due parti; nel frattempo, ottemperando alla sentenza del Tar, la Fiat ha accolto in fabbrica i tre "licenziati" ficcandoli però per 8 ore nella stanza adibita agli incontri sindacali e rifiutandosi di rimetterli al lavoro sulle linee di produzione.

Il "braccio di ferro" tra la Fiom e la Fiat sembra tuttora in pieno svolgimento, ma sappiamo per esperienza che questo genere di contrasto lo vince il padrone, è solo questione di tempo. E lo vincerà perché, purtroppo, tutti i sindacati, compresa la Cgil, meno temporaneamente la Fiom, sono dalla parte degli investimenti Fiat, dalla parte del capitale che promette lavoro solo a prezzo di un consistente peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita dei proletari, dalla parte di una pacifica, civile, dialogante "soluzione della vertenza". I proletari, la loro esistenza quotidiana, per l'ennesima volta, sono rimasti soli contro tutte le osannate parti sociali e contro le promesse che sempre i padroni sono in grado di fare quando hanno bisogno di spremere lavoro salariato per aumentare la loro quota di profitto!

Il collaborazionismo che caratterizza da decenni i sindacati tricolore è diventato ormai una bandiera apertamente sventolata anche dal padronato in faccia ai proletari: Marchionne non li chiama quasi più operai, ma collaboratori. Il suo disegno è di far sentire il lavoro obbligato secondo le regole imposte dal padrone come un "affare" per ogni proletario, come un "progetto" all'attuazione del quale ogni operaio "collabora" con la sua mano d'opera. E' molto istruttivo questo passaggio, perché la collaborazione comporta una scelta cosciente, una volontà cosciente di cooperare al medesimo risultato: azienda e proletari dipendenti messi idealmente "sullo stesso piano", ognuno portando le proprie risorse per raggiungere gli obiettivi "comuni". In altre parole è corporativismo fascista, nulla di diverso.

La crisi economica generale, e la crisi dell'industria automobilistica in particolare, fa rinascere nei capitalisti d'avaguardia, come l'italo-canadese Marchionne, il gusto di unire al "tallone di ferro" dell'imposizione senza discussioni delle esigenze primarie dell'azienda capitalistica, la paternalistica disponibilità a stimolare, ed accettare, la libera e cosciente collaborazione di ogni operaio. Il ricatto sostanziale che "senza lavoro non si mangia" e che lega in un minimo comune denominatore tutti i capitalisti   "datori di lavoro", è sempre in ogni caso presente, pronto a trasformarsi da minaccia virtuale a rischio effettivo, come nel caso dei 3 sindacalisti di Melfi e nel caso di tutti i licenziati e licenziandi in ogni settore di attività economica.

Il proletariato è ancora paralizzato, confuso e impaurito dalla gragnuola di licenziamenti che stanno  continuando, dalla serie interminabile di piccoli e lenti, ma inesorabili, passi verso un peggioramento generalizzato delle condizioni di lavoro e di vita, dalla vera e propria mancanza di sbocco lavorativo per centinaia di migliaia di giovani. I ricatti padronali sul posto di lavoro uniti alla gragnuola di misure antiproletarie che il governo nazionale e i governi locali stanno continuando a prendere, e nello sfondo una crisi economica e sociale che non dà segni di finire presto come vorrebbero i magnati dell'industria e della borsa, costituiscono il terreno in cui la borghesia coltiva l'insicurezza sociale che colpisce in grandissima parte il proletariato e in piccola parte anche strati di piccola borghesia. Di fronte a questo scenario, e all'assenza ormai pluridecennale di organizzazioni classiste, il proletariato si trova ancora disarmato delle sue classiche armi immediate di lotta che convogliano tutte verso lo sciopero.

Lo sciopero non deve essere semplicemente una astensione dal lavoro per protestare contro il padrone che pretende troppo dalle sue maestranze; lo sciopero non deve essere una marcia di protesta, pacifica, civile, timorata del dio religioso come del dio capitale; lo sciopero non deve essere uno sfogatoio di rabbia accumulata nel tempo per riportare i lavoratori alla calma e all'ordine in modo da creare meno danni e per meno tempo possibile all'azienda.

Lo sciopero operaio deve essere il traguardo parziale dell'organizzazione della lotta di resistenza operaia alla pressione del capitale; parziale perché non può durare in eterno, ma dell'organizzazione della lotta operaia perché va preparato per tempo e  diretto con intelligenza, con arte su obiettivi e con metodi e mezzi coerenti con la lotta di difesa esclusiva degli interessi immediati operai. Lo sciopero operaio deve incidere sugli interessi del padrone, deve apportare un danno agli interessi dell'azienda, deve tendere a contrastare la pressione capitalistica sul terreno dello scontro di classe che è il terreno sul quale il padronato esercita la sua pressione ma dal quale il padronato si tiene lontano cercando invece di portare i proletari - e a nome loro, i sindacati - sul  terreno di difesa delle esigenze aziendali. I sindacati sono collaborazionisti non per "scelta" ideologica, ma perché condividono con il padronato la lotta contro l'aperto antagonismo di classe in modo da portare il proletariato alla trattativa col padrone in parte già vinto.

Lo sciopero è un'arma della lotta operaia solo alla condizione di rispondere all'esigenza di unificare le forze proletarie per la comune difesa dei propri interessi immediati, e all'esigenza di solidarizzare fra operai dello stesso stabilimento, dello stesso settore e di tutti gli altri settori, riconoscendo in tutti i proletari, in quanto tali, occupati o disoccupati, autoctoni o immigrati, i fratelli di classe.

Lo sciopero, per questi motivi, è un'arma della lotta operaia se è dichiarato senza preavviso e senza limiti preventivi di tempo; se i suoi obiettivi, siano salariali o di tempo di lavoro o di normative dei processi lavorativi o di sicurezza o di qualsiasi altro aspetto che riguardi la vita lavorativa in fabbrica, discendono non dalle esigenze di produttività, di efficienza lavorativa o di competitività aziendale, ma dalla difesa della salute fisica e nervosa dei lavoratori e delle condizioni generali di lavoro. E' in questo senso che Lenin affermava che lo sciopero operaio è un allenamento alla "guerra di classe", una "scuola" in cui gli operai imparano ad organizzarsi e a lottare insieme, a scontrarsi con i nemici di classe e a riorganizzarsi ad ogni lotta conclusa, perché le lotte immediate non risolvono mai la generale "questione operaia", poichè alle volte gli operai vincono, ma spesso perdono nello scontro con i padroni i quali possono contare sul potere politico e militare chela classe borghese detiene sulla società e con il quale difende a tutti i livelli e in ogni occasione gli interessi generali e particolare dei capitalisti.

Questo fa capire agli operai che la loro lotta immediata ha bisogno di trasformarsi in un'altra lotta, in una lotta più specificamente politica perché è il potere politico di classe detenuto dalla borghesia il vero bastione di difesa di tutti gli interessi capitalisti. Ma, come ricordano Marx ed Engels, se il proletariato non è in grado di lottare per i suoi interessi immediati, tanto meno sarà in grado di lottare per l'interesse generale della classe del proletariato al fine di emanciparsi dalla schiavitù salariale, da un capitalismo che a cicli ripetitivi ripresenta crisi economiche e sociali sempre più acute e di vaste proporzioni fino alla più devastante distruzione di uomini e beni che è la guerra guerreggiata.

Le crisi di sovraproduzione di cui soffre il capitalismo a livello mondiale portano inevitabilmente verso la guerra guerreggiata. E già successo ben due volte a livello mondiale, e succede tutti i giorni a livello locale. Da questa spirale incontrollata le classi borghesi al potere non sono in grado di sganciarsi e di avviare la vita sociale verso uno sviluppo armonico e di pace della popolazione umana che abita il pianeta. L'unica pace che conosce il capitalismo è la pace dei morti, e quando gli Stati capitalisti più forti non si fanno direttamente la guerra per il dominio sui mercati del mondo, la preparano "allenandosi" a fare la guerra nei diversi angoli del mondo!

Allora, l'industria automobilistica, come qualsiasi altra industria, passerà rapidamente dalla produzione "di pace" alla produzione "di guerra" contribuendo in questo modo, dopo aver intasato i mercati di auto non più vendibili, alla distruzione di milioni di veicoli a motore, e di navi, di aerei, di treni, di edifici, di centrali elettriche, di dighe, di ponti, di strade, di ferrovie e così all'infinito, per poter un giorno ricominciare a produrre esattamente con lo stesso modo di produzione che riporterà i mercati a rifiutare per l'ennesima volta la folle massa di merci prodotte.

La rivoluzione proletaria sarà la risposta, l'unica risposta in grado di fermare questa inesauribile spirale distruttiva che caratterizza il modo di produzione capitalistico. Oggi quello scenario appare improponibile, tanto sembra potente e invincibile il mostro capitalistico. Appariva impossibile anche nel bel mezzo della prima guerra mondiale quando scoppiò la rivoluzione in Russia, la rivoluzione degli ignoranti, degli analfabeti, dei contadini barbaricamente aggrappati alle loro zolle di terra e di un proletariato così "incivile" e "rozzo" che mai nessun illustre letterato e politico europeo avrebbe ritenuto capace non solo e non tanto di "prendere il palazzo d'Inverno" ma addirittura di "governare"!

La storia ha sbattuto in faccia ai civilissimi letterati e politici europei la magnifica  rivoluzione dei barbari, mai vinti nemmeno dall'alleanza di tutti gli eserciti europei con le guardie bianche russe; ci volle il tumore portato dall'interno del movimento proletario attraverso le cellule cancerogene della socialdemocrazia, del massimalismo, del socialimperialismo, per debilitare il corpo proletario rivoluzionario e, infine, schiantarlo. L'incubo della rivoluzione proletaria, del terrore rosso, sembrò passaato e superato con la vittoria controrivoluzionaria che prese il nome di stalinismo, e quando nel 1989 crollò il "muro di Berlino" e nel 1991 si afflosciò su se stessa l'URSS, tutti gridarono: il comunismo è morto!

Stolti, quel crollo non segnava che l'inizio di un'altra crisi del capitalismo internazionale, con la quale si aprivano nuovamente i giochi per una diversa spartizione dei mercati. Solo che oggi, nella lotta di spartizione non sono diminuiti i contendenti, ma aumentati e la Cina è lì a dimostrarlo. Il lato positivo, in prospettiva, è che alle masse proletarie d'Europa e d'America si aggiungono le masse proletarie d'Asia; i capitalisti hanno poco da rallegrarsi...   

  

 


 

(1) World Motor Vehicle Production by Country, 2005-2006, pubblicato da www.oica.net. Nel 1986 il Gruppo Fiat, nel mondo aveva il più alto numero di dipendenti, 224.000. Nel 2008 i dipendenti globali era poco meno di 199.000 di cui solo 95.000 in Italia diventati nel 2009 poco meno di 80.000.

(2) Cfr. Financial Times, riportato da Internazionale, n. 867, del 8-14.10.2010.

(3) Nello stabilimento di Termini Imerese si produce la Lancia Ypsilon con motori Euro5 fino alla fine del 2011, poi lo stabilimento chiude licenziando circa 1400 dipendenti.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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