Tunisi, Algeri, Il Cairo…

Le mobilitazioni di massa, partite da un malcontento generalizzato per la crisi economica ma prigioniere delle illusioni democratiche, nazionali e pacifiste, fanno cadere qualche governante ma non cambiano il corso del dominio capitalistico e delle manovre imperialistiche che temono solo una cosa:

la lotta di classe proletaria, indipendente e internazionalista

(«il comunista»; N° 119; Dicembre 2010 / Gennaio 2011)

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L’ondata delle sommosse sociali che ha investito i paesi della sponda mediterranea del Nord Africa e del Medio Oriente dalla metà di dicembre dello scorso anno, sta scuotendo i palazzi del potere di Tunisi, di Algeri, del Cairo o della periferica San’na, con effetti per nulla conclusi sugli altri paesi del vasto mondo arabo, i cui riflessi si fanno sentire minacciosi nelle stesse cancellerie dei grandi paesi imperialisti a Washington, Londra, Parigi, Berlino, Roma.

Indiscutibilmente, la crisi economica che ha scosso tra il 2008 e il 2010 la stragrande maggioranza dei paesi capitalistici avanzati, e che ancora vi produce effetti notevolmente critici, non poteva non riversare le sue drammatiche conseguenze – in termini di aumento crescente della disoccupazione proletaria, soprattutto giovanile, e crescente immiserimento degli strati piccolo borghesi, dai piccoli contadini ai piccoli artigiani, bottegai, ambulanti – sui paesi dell’immediata periferia imperialistica. E la immediata periferia imperialistica d’Europa è costituita, per l’appunto, soprattutto dai paesi che si affacciano sul Mediterraneo.

Nei decenni precedenti, da questi paesi sono partiti, a ondate cicliche, masse di proletari migranti che sfuggivano alla fame, alla disoccupazione, alla repressione poliziesca, alla guerra; a gruppi di decine o di qualche centinaio di proletari e di disperati, questo vero e proprio esercito migrante si è riversato sulle sponde d’Europa, in Spagna, in Italia, in Grecia per poter poi raggiungere con mezzi di fortuna la Germania, la Francia, il Belgio, la Gran Bretagna. Da sempre, nei nostri civilissimi paesi poggianti su costituzioni repubblicane che mettono in primissimo piano parole solenni sul “diritto alla vita”, “al lavoro”, “alla dignità delle persone”, i proletari migranti sono trattati peggio delle bestie, schiavizzati nel lavoro nero e sottopagato, marchiati come clandestini e considerati delinquenti, sottoposti a interminabili vessazioni burocratiche e poliziesche; ma anche considerati “preziosi” per la crescita economica dell’opulenta Europa alla condizione di sottostare docili docili alle regole discriminatorie con le quali le prepotenti borghesie europee amministrano… i flussi migratori.

Fratelli di classe, proletari senza patria, membri di una classe che sotto qualsiasi cielo viene sistematicamente sfruttata dal capitale, sia che venga impiegata in modo più o meno temporaneo e precario nel “mondo del lavoro” – a salari più bassi –, sia che vada ad aggiungersi alla massa di disoccupati – aumentando così la pressione sui salari dei proletari autoctoni e dei proletari immigrati che hanno trovato lavoro – oggi, in Tunisia, in Algeria, in Egitto, i proletari non scappano più dalla miseria e dalla disoccupazione, ma le portano, vestite di rabbia e di indomita determinazione, nelle piazze delle capitali dei loro paesi. E un domani potrebbe essere il tempo delle piazze delle capitali europee, in un’unione generale di lotta di proletari di tutte le nazionalità contro il nemico di classe per eccellenza, la borghesia dominante, di qua e di là del Mediterraneo.

Ma lo scossone che le rivolte dei proletari e degli strati più poveri dei paesi arabi stanno dando ai palazzi dei poteri locali ha effetti ben più lontani fino a toccare le stanze della borghesia imperialista ancor oggi più forte del mondo, gli Stati Uniti d’America. Washington, insieme alle altre capitali imperialiste, tiene in mano i fili del potere al Cairo come a Gerusalemme; ed ogni minaccia alla stabilità dei governi dei paesi più importanti dell’area, come Egitto, Israele o Arabia Saudita – governi con i quali nel tempo sono stati costruiti rapporti di alleanza molto forti e di reciproco interesse – è di fatto una minaccia agli equilibri nell’ambito dei quali gli USA giocano un ruolo di primaria importanza, non fosse che per il petrolio mediorientale. Le rivolte di questi mesi, perciò, al di là degli obiettivi immediati che i rivoltosi si sono dati – la cacciata dei governanti ladri e corrotti, fine del regime di polizia, lavoro e pane per tutti – portano con sé pericoli ben più seri per le classi borghesi dominanti nei propri paesi e nei paesi imperialisti direttamente interessati all’area mediorientale.

In Tunisia, il movimento di rivolta di masse proletarie e contadine immiserite e precipitate nella fame, iniziato a metà dicembre scorso e indirizzato spontaneamente contro i palazzi del governo e contro il potere oligarchico del presidente Ben Alì e del suo entourage, in qualche settimana è talmente lievitato, portando nelle piazze centinaia di migliaia di rivoltosi, da mettere in fuga il più che ventennale “raìs” tunisino. Lo scoppio di rabbia per condizioni di vita intollerabili, nella sua spontaneità e nella sua espressione immediata e laica, dunque non vestita o “strumentalizzata” dall’islamismo, ha affrontato a viso aperto e a mani nude la repressione poliziesca e dell’esercito, ma la sua spinta è stata sufficiente per far emergere l’effettiva debolezza del regime di Ben Alì. Questo risultato è costato morti e feriti, ma in realtà il sistema economico e politico su cui poggiava il proprio potere il clan di Ben Alì non è stato spazzato via, tutt’al contrario. Il movimento dei rivoltosi rivendicava pane e democrazia!, lottava contro la corruzione sfacciata di un gruppo di governanti che rubava a man salva, ma chiedere “più democrazia” ad un regime borghese che usa normalmente la democrazia per tutelare meglio i propri affari, i propri interessi di classe, i propri privilegi, non cambia sostanzialmente la situazione dei milioni di proletari e di contadini poveri che in un momento di rabbia generalizzata hanno detto “basta!” a governanti che si sono appropriati in modo esagerato di una parte consistente delle ricchezze del paese. D’altra parte, storicamente, quando contro il governo in carica si uniscono in un unico movimento i proletari, i piccolo borghesi urbani, i contadini, gli strati intellettuali e professionali della società borghese, movimento che trova solitamente un improvviso alleato nelle frazioni borghesi in contrasto con quelle che sono al governo, questo movimento riesce a dare una scossa più o meno potente alle forze politiche al potere in quel frangente, ma non riesce – perché non ne ha la forza di classe – a rivoluzionare effettivamente la situazione.

Più democrazia, può voler dire nuove elezioni, maggiore libertà di organizzazione politica e sindacale, maggiore libertà di opinione e di espressione, qualche riforma sociale finalmente attuata dopo averla per molto tempo promessa, ma nulla più. Il sistema economico non cambia, e quindi non spariscono le cause dello sfruttamento del lavoro salariato, della miseria crescente, della disoccupazione, della fame; e non spariscono gli antagonismi di classe fra proletariato e borghesia, come non spariscono i contrasti tra frazioni borghesi e fra Stati dovuti alla concorrenza economica e politica che avvolge tutti gli Stati del mondo. Le cause che hanno determinato la crisi economica mondiale del 2008-2010, stante il modo di produzione capitalistico, sebbene possano esserne attenuati gli effetti più dirompenti – soprattutto nei paesi capitalistici più avanzati, perché posseggono più risorse con cui tacitare i bisogni più elementari del proletariato – restano sempre attive, pronte a riproporre crisi anche più violente e generalizzate delle precedenti fino a portare il mondo intero alla soglia di una terza guerra mondiale. E qui non si tratta di profezie elaborate sulla base di paure o sensazioni negative; è pura applicazione del marxismo, teoria scientifica del comunismo rivoluzionario che, fin dalla crisi capitalistica del 1847 in Inghilterra (e, quindi, per l’epoca, nel mondo) e dalle rivoluzioni in Europa del 1848, ha affermato: “Sono decenni ormai che la storia dell’industria e del commercio è soltanto storia della rivolta delle forze produttive moderne [il proletariato, ndr] contro i rapporti moderni della produzione, cioè contro i rapporti di proprietà che costituiscono le condizioni di esistenza della borghesia e del suo dominio [il capitalismo, ndr]. Basti ricordare le crisi commerciali che col loro periodico ritorno mettono in forse sempre più minacciosamente l’esistenza di tutta la società borghese (…). Con quale mezzo la borghesia supera la crisi? Da un lato, con la distruzione coatta di una massa di forze produttive; dall’altro, con la conquista di nuovi mercati e con lo sfruttamento più intenso dei vecchi. Dunque, con quali mezzi? Mediante la preparazione di crisi più generali e più violente e la diminuzione dei mezzi per prevenire le crisi stesse” (Manifesto del Partito Comunista, Marx-Engels, 1848).

Nella richiesta di “più democrazia” da parte del movimento di rivolta vi è contemporaneamente la dimostrazione che il sistema borghese, per quanto democratico anche in economia, non riesce a soddisfare adeguatamente il disagio sociale che, oltre un certo limite, si trasforma in malcontento generalizzato per scoppiare poi in rivolta sociale; e la dimostrazione che il sistema politico borghese – in assenza di un movimento di classe del proletariato che attiri sul proprio terreno, e sotto la propria guida, il malcontento generalizzato – riesce a ingannare i movimenti di protesta sociale offrendo loro una delle tante versioni di democrazia che la società borghese ha prodotto nella sua storia di dominio di classe. Il disagio sociale che è provocato da forte disoccupazione, salari troppo bassi, disoccupazione e miseria crescente, e che riguarda le forze produttive della società che vengono distrutte dalla crisi capitalistica, soprattutto quando si trasforma in rivolta sociale, viene affrontato dal potere borghese normalmente con la repressione poliziesca accompagnata, prima o poi, da un’offerta di forme democratiche fino a quel momento non concesse. E’ questo il gioco sporco che la borghesia attua ogni volta contro le masse lavoratrici che si ribellano: se la repressione non soffoca il movimento di ribellione, entrano in campo i paladini della “vera democrazia”, della “libertà”, dell’”eguaglianza”, degli “interessi comuni” della “nazione”.

Altro scenario si presenterebbe se fossimo in presenza di un movimento proletario di classe. Lo sviluppo capitalistico, anche dopo la fine del colonialismo classico, è stato tale per cui i paesi ex coloniali non hanno più l’obiettivo primario di rompere definitivamente con i vincoli economici e politici di tipo feudale; essi sono ormai diventati paesi capitalistici e le classi al potere sono le classi borghesi, le classi che detengono il dominio economico e politico anche se lo sviluppo economico del paese non corrisponde ad una eccezionale industrializzazione. Ciò significa che in questi paesi, alla presenza dei borghesi capitalisti si accompagna la presenza di masse proletarie e di masse di contadini poveri e di piccola borghesia commerciante e artigiana che va a riempire gli spazi di produzione e di distribuzione non coperti dalla produzione industriale. Un proletariato, dunque, esiste da tempo in tutti questi paesi, in Tunisia, in Marocco, in Egitto, come in Libia in Arabia Saudita, in Giordania ecc. Ma il fatto che esista un proletariato non significa che esista un suo movimento di classe, o che esista un movimento indipendente di classe; il che non vuol dire che il proletariato di questi paesi non abbia partecipato, e con vigore, alle lotte contro il colonialismo bianco o che non abbia ancora dei compiti rivoluzionari contro i residui delle vecchie classi sociali rappresentate dagli sceicchi; ma non ha avuto la possibilità di radicare nella propria lotta l’esperienza di classe che, ad esempio, riuscì a radicare il proletariato russo a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento nelle sue lotte sia contro i padroni capitalisti che contro lo zarismo e, in seguito, contro la classe borghese che sostituì al potere lo zar e l’aristocrazia russa.

Per noi è superconfermata la responsabilità dell’opportunismo stalinista e post-stalinista nella decapitazione e nella degenerazione dei partiti comunisti fin dalla metà degli anni Venti del secolo scorso, e in seguito precipitando sempre più nel nazionalismo e nel collaborazionismo socialimperialista. Ciò significa che, non solo il proletariato europeo non poté contare sulla guida teoricamente salda e politicamente ferma dell’Internazionale Comunista e delle sue sezioni nazionali, ma che lo stesso giovane proletariato dei paesi coloniali, a partire dalla Cina e dalla Persia, fu fin dall’inizio indirizzato nel pantano del nazionalcomunismo. Non si può certo  pretendere che i proletari dei paesi ex coloniali imbocchino sicuri la strada della lotta di classe lasciandosi alle spalle tutti gli orpelli della democrazia borghese, peraltro importata nei loro paesi dai movimenti politici della democrazia imperialista post-fascista – perciò da movimenti politici di democrazia fascistizzata – quando i proletari europei, intossicati fino al midollo di democrazia e di collaborazionismo, non sono ancora in grado di difendersi con mezzi e metodi classisti sul terreno delle condizioni di vita e di lavoro immediate. I proletari europei hanno un vantaggio storico rispetto a tutti gli altri proletari del mondo: per primi hanno lottato insieme alla borghesia, e quasi sempre al posto della borghesia, per far fuori feudalesimo e feudali, re e regnanti; per primi hanno pagato col sangue le illusioni della democrazia borghese nelle rivoluzioni del 1848-1850; per primi hanno dato l’assalto al cielo con la Comune di Parigi nel 1871 ma, nell’isolamento più tremendo, caddero nel bagno di sangue controrivoluzionario; per primi, con la rivoluzione in Russia, conquistarono il potere instaurando la dittatura proletaria e comunista che fece tremare il mondo, costituendosi in partito comunista internazionale, chiamato Internazionale Comunista, e che resse lo scontro con le classi borghesi di tutto il mondo in una micidiale guerra civile durata per tre lunghi anni. L’esperienza storica di questa lunga serie di lotte classiste e rivoluzionarie, condensata nelle Tesi dei primi due congressi dell’Internazionale Comunista e nelle tesi e nelle battaglie di classe della Sinistra comunista d’Italia, è un formidabile patrimonio di classe del proletariato internazionale su cui poggiare la rinascita del movimento di classe e comunista di oggi e di domani. I proletari dei paesi ex coloniali e di giovane capitalismo hanno, a loro volta, un vantaggio rispetto ai proletari europei e ai proletari americani: hanno sulle spalle 100 anni in meno di intossicazione democratica, e portano con sé un vigore di classe che i proletari europei e americani hanno perso a causa di ciò che Marx descrive brevemente ma efficacemente nel suo “Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850”. Egli scrive infatti, dopo aver descritto con grandissima lucidità la sconfitta della rivoluzione di febbraio 1848, quanto segue: “Come sul continente il periodo della crisi sopravviene più tardi che in Inghilterra, così quello della prosperità. Il processo iniziale lo si trova sempre in Inghilterra; essa è il demiurgo del cosmo borghese. Sul continente le diverse fasi del ciclo, che la società borghese ricomincia sempre a percorrere, appaiono in forma secondaria e terziaria. Prima di tutto il continente esporta in Inghilterra enormemente più che in qualsiasi altro paese. Questa esportazione in Inghilterra dipende però anch’essa dalla posizione dell’Inghilterra, specialmente verso il mercato d’oltremare. Poi l’Inghilterra esporta nei paesi d’oltremare enormemente più che il continente intero, cosicché la quantità dell’esportazione continentali in quei paesi è sempre dipendente dalla contemporanea esportazione d’oltremare dell’Inghilterra. Se quindi le crisi originano rivoluzioni prima nel continente, la loro causa si deve tuttavia trovare sempre in Inghilterra. E’ naturale che le esplosioni violente si manifestano prima alle estremità del corpo borghese che nel suo cuore, perché qui le possibilità di un compenso sono più grandi” (1).

I paesi di più vecchio e avanzato capitalismo hanno più risorse a disposizione, non solo perché sono più avanzati tecnicamente nell’industria ma perché hanno sfruttato, e sfruttano, selvaggiamente le colonie e i paesi più deboli ricavandone giganteschi profitti, e quindi hanno più possibilità materiali per compensare gli effetti delle crisi capitalistiche sulle proprie masse proletarie (l’Inghilterra, all’epoca, rappresentava il capitalismo più avanzato, rispetto al “continente”, ossia ai paesi dell’Europa continentale, Francia compresa). Qui Marx parla di rivoluzioni, perché nel 1848-50 i movimenti sociali erano appunto delle vere rivoluzioni in cui i proletari lottavano armi alla mano; ma il discorso vale egualmente per il disagio sociale che si trasforma in malcontento generalizzato e in rivolte sociali, come è il caso oggi di Tunisia, Algeria, Egitto. Questi sommovimenti sociali, caratterizzati da una reale pressione fisica di masse immense anche se non ancora armate, sono per l’appunto quelle “esplosioni violente che si manifestano prima alle estremità del corpo borghese che nel suo cuore”, di cui parla Marx.

L’incendio dell’esplosione sociale tunisina si è esteso ai paesi vicini, toccando l’Algeria e successivamente l’Egitto, altre “estremità del corpo borghese” imperialista.

In Algeria non si è avuta la repressione repentina e brutale come in Tunisia, sebbene la mobilitazione degli strati proletari e piccolo borghesi rovinati dalla crisi non si sia fermata. Il presidente Bouteflika e il suo entourage, più “esperti” di rivolte sociali di Ben Alì, ha immediatamente preso posizione a favore delle riforme, pensando soprattutto ai giovani più disagiati. Egli infatti intende “alleggerire le formalità e le procedure relative al trasferimento del piccolo commercio informale dalla strada a luoghi attrezzati in accordo con le associazioni e i rappresentanti di questi settori” (il manifesto, 5.2.2011), il che potrebbe voler dire che i venditori ambulanti non avranno più i poliziotti alle calcagna; e il che induce a pensare che l’alta disoccupazione operaia  ha prodotto una massa di ambulanti tale da dover provvedere a regolamentarne l’attività se non si vuole incorrere in ulteriori esplosioni sociali! Sempre ai giovani, Bouteflika ha promesso  che verrà facilitato l’accesso al microcredito e l’assegnazione delle case urbane e rurali, altro gravissimo problema per la maggioranza della gioventù algerina. Non si può dimenticare che in Algeria dal 1992 vige lo stato d’emergenza grazie al quale tutti gli spazi della cosiddetta libertà di circolazione delle persone, delle idee, delle opinioni, di manifestazione ecc. sono praticamente chiusi. La rivolta di gennaio e le mobilitazioni annunciate si vanno a scontrare proprio con le norme dello stato d’emergenza, di cui si chiede semplicemente la revoca, ma su cui il governo sembra non cedere.

In Egitto, dal 25 gennaio è in corso una continua e gigantesca mobilitazione di masse proletarie  e piccoloborghesi al Cairo, oltre che ad Alessandria, a Suez e in molte altre città della Valle del Nilo, ribellatesi anche qui a condizioni di vita intollerabili data la miseria in cui è precipitata una parte considerevole della popolazione. Anche in Egitto, il movimento di piazza Tahrir – la piazza principale del Cairo – rappresenta contemporaneamente l’espressione di un malcontento generalizzato per gli effetti devastanti della crisi economica che si è abbattuta anche in Egitto, e la speranza di ottenere più democrazia, più libertà, e condizioni di vita migliori lottando a mani nude. L’Egitto è uno dei più importanti paesi del Medio Oriente e del mondo arabo. In un quindicennio è passato da 60 a 80 milioni di abitanti che, per la morfologia del paese, sono tutti concentrati praticamente nella Valle del Nilo; il 96% del territorio è incolto e in buona parte desertico, e pur avendo dei giacimenti di petrolio e di gas naturale non è tra i maggiori paesi “petroliferi”. Ma è situato in una delle più importanti cerniere del commercio internazionale, possedendo il Canale di Suez dai cui pedaggi ricava buona parte delle risorse in valuta pregiata; è d’altra parte un  paese soprattutto agricolo produttore di cotone, frumento, mais, riso, zucchero e agrumi, prodotti che esporta soprattutto verso i paesi del Mediterraneo e gli Usa. Ma ciò che caratterizza l’economia egiziana sono i finanziamenti internazionali da parte degli Stati Uniti e della Banca Mondiale, mentre dal punto di vista degli equilibri mediorientali, da quando gli Stati Uniti hanno organizzato a Camp David l’incontro pacificatore tra Sadat e Begin col quale Egitto e Israele terminavano la loro lunga guerra, l’Egitto è diventato sempre più la pedina più importante della politica imperialistica americana in Medio Oriente, sia per l’influenza che storicamente ha sempre avuto verso la popolazione palestinese che per il peso politico nella Lega Araba.

Da 30anni il generale Hosni Mubarak è alla guida del paese e da 30anni assicura agli Stati Uniti un rapporto d’alleanza stabile tra Usa ed Egitto. Ed è a questo rapporto stabile che si riferiva Hillary Clinton quando, qualche giorno dopo le marce di protesta contro Mubarak, insisteva nel dire che il regime di Mubarak era “stabile”, probabilmente su suggerimento di Nietanyahu, egualmente interessato a difendere un rapporto di buon vicinato e “antipalestinese” con il raìs egiziano. Il timore di Washington e di Gerusalemme è che la rivolta delle masse egiziane di questi giorni possa peggiorare sensibilmente gli squilibri che tormentano il Medio Oriente, non solo per la storica contrapposizione tra israeliani e palestinesi, ma per le vicende legate alla pressione dell’Iran su tutta l’area, all’instabilità congenita del Libano, alla possibile esplosione di una guerra interna in Iraq appena le truppe americane se ne siano andate. La rivolta delle masse egiziane non ha carattere religioso, è spontaneamente laica e candidamente democratica; ma è sufficientemente determinata ad ottenere un cambiamento di governo col movimento di piazza, visto che in parlamento – controllato ferreamente dal partito di Mubarak - non è stato possibile finora alcun avvicendamento con i partiti di opposizione dal peso insignificante e tollerati proprio per questo. Anche la piazza Tahrir, diventata il centro nevralgico del movimento di rivolta, come già a Tunisi, chiede più democrazia, riforme e lancia il monito: Mubarak, vattene! Mubarak è però il rappresentante di una sistema di potere, molto legato alle forze armate da cui proviene, forze armate che hanno assicurato in tutta la storia dell’Egitto indipendente forme di governo borghese stabili. Non per nulla, tutti avevano gli occhi puntati sull’esercito e sui suoi carri armati cercando di capire quali mosse avrebbe attuato. Mubarak, oltre all’esercito che conta ben 450.000 soldati, ha contato in tutti questi anni su due forze paramilitari grazie alle quali ha potuto governare praticamente senza opposizioni e rintuzzando facilmente i tentativi terroristici con cui Al Qaeda ha tentato di farlo fuori: le Forze di sicurezza centrali (ben 232.000 uomini) e la Guardia Nazionale (60.000 uomini). Qualcosa evidentemente si è spezzato nei legami tra Mubarak e l’esercito poiché quest’ultimo non ha sparato un colpo, almeno finora, contro le masse che protestavano; ma non ha nemmeno mosso un dito il giorno in cui qualche migliaio di fedelissimi di Mubarak, poliziotti in borghese, agenti dei servizi segreti e sottoproletari pagati appositamente per aggredire con bastoni, coltelli e bottiglie incendiarie, intimidire, spaventare e far fuggire i manifestanti di piazza Tahrir. Sembrava che l’esercito attendesse di vedere quanto resisteva il movimento di protesta anti-Mubarak, nonostante le aggressioni, i morti e feriti, e nonostante le aggressioni anche ai giornalisti stranieri, e attendesse un segnale da parte degli Stati Uniti che ancora a 10 giorni dall’inizio della mobilitazione anti-Mubarak non avevano preso una chiara posizione. La piazza però ha tenuto, il movimento aggredito violentemente non si è dissolto, anzi si è rafforzato.

La situazione in Egitto, mentre scriviamo, ha preso questa piega: Mubarak ha dovuto promettere di non presentarsi più alle elezioni di settembre, quando era prevista la successiva  tornata elettorale per le presidenziali; ha nominato un vice-presidente, il capo dei servizi segreti Suleiman al quale gli Stati Uniti, e dietro di loro l’Unione Europea, hanno chiesto di gestire la “transizione” a quello che chiamano il “dopo-Mubarak”, mentre l’esercito continua a presidiare i punti nevralgici del Cairo – e in primis Piazza Tahrir – e delle altre città importanti continuando a non intervenire contro i manifestanti. Inizieranno i colloqui tra Suleiman e i partiti dell’opposizione, dal “Movimento 6 aprile” al “comitato dei saggi” rappresentato da El Baradei, ad Amr Moussa, segretario generale della lega Araba e compresi i Fratelli Musulmani, tollerati finora sebbene illegali, i quali ultimi hanno dichiarato che non intendono presentare un proprio candidato alle prossime elezioni. La piazza chiede che Mubarak si dimetta e se ne vada in esilio, ma Mubarak non ha alcuna intenzione di andarsene mentre ha già detto che intende mantenere la carica di presidente della repubblica fino a fine mandato pur essendosi tolto dalla carica di capo del governo; e di questo avviso sarebbero pure gli imperialisti protettori americani ed europei che hanno interesse ad evitare che l’Egitto finisca in un caos di tipo libanese.

Ordine!, è questo l’imperativo categorico di ogni borghesia dominante, in Egitto come a Washington, a Tunisi o ad Algeri come a Berlino, a Parigi o a Roma. I giorni della “rivoluzione dei gelsomini” a Tunisi sono passati, Bel Alì se n’è andato con moglie e figli, e la “transizione” ad un governo “più democratico” stenta a mettersi in moto; e i proletari e i contadini poveri tunisini si ritroveranno magari con un “diritto democratico” in più, ma con una condizione materiale di vita peggiore. I “giorni dell’ira”, la “bella rivoluzione” egiziana in cui le diverse classi, dai proletari ai borghesi più o meno illuminati alla piccola borghesia urbana e ai contadini poveri, si sono affratellati per cacciare “il faraone”, stanno finendo lasciando il posto all’esercito “figlio del popolo” che si è guadagnato stima e rispetto per non aver sparato un colpo contro nessun manifestante, sia anti che pro Mubarak, ma che è pronto ad intervenire arrestando e reprimendo nel caso la “transizione” richiedesse velocemente ordine e vita quotidiana normalizzata (la Borsa ha perso parecchio in questi giorni, così come la produzione, il commercio, il turismo). Il caos sociale, finché è favorevole a frazioni borghesi di peso la cui prospettiva vicina è il cambio della guardia alle leve del potere, può anche essere sopportato, ma se la perdita di profitto si dovesse coniugare con la perdita di controllo politico allora l’azione dell’esercito per ripristinare l’ordine! diventa prioritaria. E se guardiamo la storia dell’Egitto è esattamente quello che è successo nel 1954 con Nasser dopo la detronizzazione di re Faruk e nel 1981 dopo l’assassinio di Sadat al quale è succeduto Hosni Mubarak.

La “transizione” al dopo-Mubarak potrà anche avere qualche  ritinteggiatura democratica di facciata, qualche riforma con cui tacitare all’immediato i bisogni più impellenti delle masse proletarie e diseredate, ma sostanzialmente non cambierà in meglio le condizioni di sfruttamento e di immiserimento delle grandi masse lavoratrici perché la crisi, che ha gettato una parte considerevole di giovani e non solo giovani nella condizione di vita estremamente precaria, si ripresenterà di qui a qualche anno con effetti ancora più acuti e peggiorativi. Il capitalismo non si fa piegare alle esigenze di vita della maggioranza della popolazione; sono queste esigenze di vita della maggioranza della popolazione che vengono piegate agli interessi del capitalismo, ed è relativo che sul ponte di comando vi sia un “faraone” come Mubarak o un “democratico” come El Baradei: comandano in realtà le leggi del capitalismo, le leggi del profitto capitalistico e della concorrenza capitalistica.

Al proletariato d’Egitto o di qualsiasi altro paese in cui queste rivolte sociali hanno risvegliato aspirazioni di emancipazione dal gioco della dittatura borghese, la democrazia borghese non può che riproporre la prospettiva di un regime borghese che modifichi il proprio atteggiamento repressivo allargando gli spazi di “libertà” nella vita quotidiana e concedendo qualche riforma sociale che non scalfisca in nulla la produzione di profitto capitalistico; la democrazia borghese non è che la veste parlamentare ed elezionista della dittatura di classe della borghesia. Lo è in modo più raffinato nei paesi capitalistici più vecchi, lo è in modo più rozzo nei paesi capitalistici più giovani, ma di fatto non potrà mai dare alle masse lavoratrici una prospettiva se non di maggiore sfruttamento, maggiore miseria, maggiore fame e maggiore repressione. L’unica e vera prospettiva che il proletariato e le masse povere possono avere è storicamente la prospettiva della rivoluzione anticapitalistica, della rivoluzione proletaria contro il potere borghese, nella quale far convergere tutte le forze sociali che soffrono economicamente, politicamente e socialmente sotto il dominio della borghesia capitalistica. Ma la rivoluzione proletaria, come scrive Marx nelle Lotte di classe in Francia, “è possibile solamente in periodi in cui entrambi questi fattori, le forze moderne di produzione e le forme borghesi di produzione, entrano in conflitto tra di loro” (2), ossia quando il proletariato organizzato e diretto dal suo partito di classe si solleva contro i rapporti sociali borghesi; e si solleva armi alla mano perché di contro si trova l’intera struttura armata dello Stato borghese a difesa della proprietà privata e dell’appropriazione privata dell’intera produzione sociale. La rivoluzione proletaria, d’altra parte, è in ogni caso il coronamento del processo di lotte di classe che conducono un acerrimo conflitto contro le forme borghesi della produzione, forme che politicamente possono essere le più varie, dalle monarchie costituzionali alle repubbliche monarchiche, dalle democrazie presidenziali e plebiscitarie alle democrazie parlamentari, alle dittature militari o fasciste. Ed è storicamente assodato che a tale conflitto sociale vi concorrono fattori di carattere internazionale, perché internazionale è il capitalismo, internazionale è la concorrenza capitalistica, internazionali sono i legami economici, politici, diplomatici e militari tra gli Stati capitalisti, sebbene ogni classe borghese nazionale abbia e difenda propri interessi nazionali  contro ogni altra classe borghese nazionale; e perché il proletariato è l’unica classe internazionale che non ha nulla da difendere della e nella nazione in cui viene sistematicamente sfruttato, immiserito e, quando la sua forza lavoro è sovrabbondante rispetto alle esigenze di profitto capitalistico, distrutto.

Le rivolte sociali, di cui abbiamo parlato, non sono nemmeno lontanamente una anticipazione della rivoluzione proletaria; in realtà non sono nemmeno l’anticipazione della ripresa della lotta di classe proletaria. Sono però un segnale importante di un malcontento generalizzato che inizia ad esprimere una mobilitazione fisica che non teme la repressione, che non teme l’aggressione mortale delle forze dell’ordine, che trova la forza di resistere nel fatto stesso di mobilitarsi. Data la mancanza di un punto di riferimento di classe che solo il proletariato organizzato in associazioni economiche classiste e in partito politico può dare, è inevitabile che queste mobilitazioni rivoltose esprimano negli atteggiamenti e nelle rivendicazioni “politiche” degli obiettivi democratici, che sono obiettivi borghesi; come è inevitabile che i momenti di fratellanza di tutte le classi che hanno caratterizzato le manifestazioni a Tunisi, ad Algeri, al Cairo, siano momenti destinati a cedere ben presto nuovamente il passo alle contraddizioni sociali e agli antagonismi di classe: il proletario sarà sempre uno schiavo salariato, il contadino povero sarà sempre strozzato dagli usurai ma sarà sempre avvinghiato al suo fazzoletto di terra, il bottegaio e il piccolo borghese della città continuerà ad oscillare tra la grande borghesia e il proletariato a seconda della modificazione dei rapporti di forza, e il borghese continuerà ad ingannare i proletari sulla possibilità di vivere in un capitalismo “dal volto umano” e pacificamente.

Può sembrare, ancor oggi, tanto è lontano il proletariato sia dei paesi capitalisti avanzati che dei paesi capitalisti arretrati dal diventare il vero protagonista dei conflitti sociali, che la rivoluzione proletaria sia un miraggio, un’utopia, un innamoramento idealistico che non potrà mai concretizzarsi in realtà storica. Ma è lo stesso corso storico del capitalismo a dimostrare che la sua società, così gonfia ormai di contraddizioni e di antagonismi sociali, non ha alcuna possibilità di mantenere la promessa ideologica fatta nell’epoca gloriosa della sua rivoluzione borghese: liberté, égalité fraternité. L’armonia sociale non sarà mai data dal capitalismo che, per mantenersi in vita e svilupparsi, ha bisogno di divorare in quantità sempre più gigantesche lavoro vivo dal quale estorcere il massimo possibile di pluslavoro, e quindi di plusvalore. La società, dal punto di vista economico, è più che pronta per finirla con il capitalismo e superarlo definitivamente; le forze produttive moderne entrano in conflitto regolarmente con le forme borghesi di produzione, ma all’appello manca l’iniziativa di classe del proletariato. Le rivoluzioni non avvengono su ordinazione, né a comando, ma tra i fattori determinanti ci deve anche essere un proletariato che abbia maturato esperienza di lotta classista a tal punto da poter contendere alla borghesia il potere politico e un partito proletario di classe che abbia avuto l’opportunità di influenzare in maniera determinante gli strati proletari d’avanguardia. E sono in genere proprio le situazioni di crisi economica generalizzata che fanno avanzare il processo di maturazione dei fattori oggettivi della lotta di classe e rivoluzionaria del proletariato, e, come afferma Marx, è più probabile che tali fattori si presentino prima alle estremità del corpo borghese prima che al cuore, anche se sarà ovviamente decisivo colpire al cuore il capitalismo per poterlo vincere definitivamente.

Salutiamo perciò le esplosioni sociali nei paesi della sponda africana e mediorientale del Mediterraneo non per le rivendicazioni di democrazia che lanciano, ma per il malcontento generalizzato di cui sono portatrici, base materiale per lo sviluppo della lotta di classe, e rivoluzionaria, del loro giovane e coraggioso proletariato.

 


 

1)    Vedi K. Marx, Le lotte di classe in Francia, 1848-1850, Opere, vol. X, Editori Riuniti, Roma 1977, pp. 134-5.

2)    Ibidem, p. 135.

 

Partito comunista internazionale

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