Sentenza di condanna alla Thyssen-Krupp per i 7 morti del 6 dicembre 2007

Ai padroni il calcolo dei profitti capitalistici!

Agli operai la conta dei morti sul lavoro?

(«il comunista»; N° 121; luglio 2011)

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La sentenza del tribunale di Torino nei confronti dei padroni e dei dirigenti della Thyssen Krupp – per omicidio volontario perché, pur sapendo che l’impianto era a rischio, non sono intervenuti per la prevenzione e la manutenzione – è in realtà una ennesima presa in giro dei proletari (quelli che sono già morti e quelli che continueranno a morire sui posti di lavoro).

Per la prima volta, annunciano “vittoriosi” i sindacalisti collaborazionisti, i padroni e i dirigenti di un’azienda vengono condannati dalla magistratura con l’accusa di “omicidio volontario” per i lavoratori morti durante il lavoro. Questa sentenza dovrebbe cambiare il terribile andazzo di morti sul lavoro?

A parte il fatto che può essere solo salutare che i veri colpevoli delle morti sul lavoro, cioè i padroni e i dirigenti che impongono ritmi sempre più intensi di lavoro e che risparmiano sistematicamente sulle misure di prevenzione e sicurezza, assaggino per qualche tempo la galera, resta tutto da vedere – visti i tempi lunghi della sentenza definitiva che arriva dopo i vari gradi di ricorso da parte dei condannati, tempi che possono far scattare la prescrizione – se effettivamente sconteranno gli anni di carcere comminati. Ciò che non cambierà affatto è il diabolico meccanismo di schiavizzazione del lavoro operaio, perché il modo di produzione capitalistico richiede strutturalmente l’estorsione sistematica dal lavoro degli operai di ore di lavoro non pagate (il pluslavoro): è da queste ore di lavoro non pagate che il capitalista, in ultima analisi, trae i suoi profitti. Più la concorrenza tra capitalisti si accentua sul mercato, più i capitalisti devono abbattere i costi di produzione, perciò le ore di lavoro non pagate non bastano più per assicurare il tasso medio di profitto al capitalista di turno; allora il capitalista risparmia su tutte le voci “flessibili”, diminuendo il numero di operai impiegati in produzione, abbattendo i salari, aumentando i ritmi di lavoro e le mansioni per ciascun operaio, aumentando le ore di lavoro giornaliere e i turni, diminuendo o annullando i sistemi che servono a prevenire gli incidenti sul lavoro, risparmiando sulle misure di sicurezza ecc. E’ così che aumentano gli incidenti sul lavoro e le morti, come le malattie contratte. La crisi economica del 2008-2009 ha certamente aggravato la situazione generale di insicurezza e di pericolo sui posti di lavoro, nonostante la diminuzione dei posti di lavoro dovuta ai licenziamenti; e il ricatto del posto di lavoro che diventa sempre più precario, con un salario sempre più basso e che può mancare alla scadenza del contratto a termine, e con la pressione della massa di disoccupati sempre più numerosa sia di lavoratori autoctoni che di lavoratori immigrati, tutto ciò continuerà a rendere il lavoro sempre più a rischio. Queste le vere cause dei morti nelle acciaierie Thyssen-Krupp a Torino, come in tutti gli altri luoghi di lavoro.

La sentenza non cambia la nera statistica dei 3 morti di media al giorno per infortunio sul lavoro in Italia, per non contare le centinaia di migliaia di mutilati, invalidi, malati per le sostanze tossiche respirate per anni nei posti di lavoro, malati oggi che muoiono domani – perché colpiti da malattie a lungo decorso: come i tumori – nel “silenzio” più tremendo, magari poco dopo il pensionamento sfuggendo così dalle statistiche ufficiali dei morti sul lavoro e costituendo un concreto risparmio per le casse dello Stato borghese che non eroga più la dovuta, seppur misera, pensione...

Con la crisi economica, da cui l’economia nazionale non è ancora uscita, i padroni hanno approfittato per scaricare sui proletari rischi ancor maggiori dovuti ai tagli ulteriori sui sistemi di prevenzione, come indirettamente conferma la sentenza di Torino. I padroni e i dirigenti d’azienda sapevano benissimo che non investire nella manutenzione di un impianto che stavano per chiudere, significava mettere a rischio la vita degli operai, ma quel risparmio dava, evidentemente, un guadagno tale che anche l’eventuale indennizzo previsto per le vittime di incidenti era ben misera cosa. Ciò significa una sola cosa: l’incidente, anche mortale, era già messo nel conto!

Così i padroni non solo si sono presi un surplus di profitto, si sono presi, per vero cannibalismo padronale, anche la vita degli operai!

In decine d’anni, il collaborazionismo sindacale ha dimostrato agli operai anche più fiduciosi di non essere assolutamente in grado di prospettare e attuare una efficace difesa delle condizioni di lavoro e di vita operaie: i morti gli incidenti sul lavoro non sono diminuiti, e tendono invece a stabilizzarsi come fosse una tassa di sangue che il proletariato deve pagare ogni giorno ai voraci capitalisti. Il collaborazionismo sindacale e politico, la cui opera è quotidianamente messa al servizio della difesa dell’economia aziendale e dell’economia nazionale – dunque, dei capitalisti, non importa se in aziende pubbliche o private – è in realtà corresponsabile delle morti e degli incidenti sul lavoro, non perché li provochi, ma perché non agisce con determinazione e forza a difesa delle condizioni di vita e di salute dei lavoratori, in fabbrica e fuori della fabbrica, come invece devono fare organizzazioni che dichiarano di rappresentare gli interessi immediati degli operai. Lottare per il salario è vitale per ogni operaio, perché solo il salario, in questa società, consente di acquistare ciò che serve per sopravvivere; ma è altrettanto importante lottare per la difesa della salute nei posti di lavoro e nella vita sociale quotidiana: lottare per il salario e per la salute deve essere un’unica lotta, perché i capitalisti non sfruttano gli operai per il loro “lavoro”, ma per la loro forza-lavoro, per l’unica cosa che gli operai posseggono e possono vendere ai capitalisti, la loro forza vitale con cui mettono in movimento cuore, muscoli e cervello!   

Solo la lotta proletaria, autonoma e indipendente dal collaborazionismo sindacale, può ottenere un risultato anche nell’immediato sul fronte della guerra del lavoro: i proletari devono organizzarsi al di fuori e contro le politiche collaborazioniste mettendo al primo posto la salute insieme a un salario dignitoso per vivere. Questa lotta si scontra inevitabilmente con gli interessi capitalisti che, invece, mettono al primo posto i profitti, la lotta di concorrenza, le compatibilità aziendali di un’economia che divora risorse naturali e umane al solo scopo di mantenere il privilegio sociale della classe dominante che ha trovato e continua a trovare nel collaborazionismo sindacale e politico il suo più fidato alleato.

Le forze dell’opportunismo politico e sindacale tendono ad esaltare questa sentenza; arrivano a dire che, essendo la prima volta che dei dirigenti borghesi vengono condannati con l’accusa di omicidio volontario, d’ora in poi gli altri padroni staranno più attenti nel tagliare sui costi della sicurezza… In realtà, i giudici borghesi talvolta, come in questo caso, giungono a condannare le esagerazioni del sistema di sfruttamento capitalistico, ma non cambiano certo la natura stessa di un sistema economico e sociale che si basa sulla schiavitù salariale. Una sentenza di questo genere serve solo per illudere i proletari che la “giustizia” sia un’istituzione “al di sopra delle classi” e che, in base alle leggi che applica, li difenda.

I proletari devono invece rendersi conto che non esiste alcuna istituzione borghese, magistratura compresa, in grado di risolvere le enormi contraddizioni in cui essi sono immersi, perché la causa del loro sfruttamento, della loro schiavitù salariale, della loro oppressione continua e sistematica non è dei magistrati meno comprensibili o dei parlamentari più menefreghisti, ma è della struttura stessa della società capitalistica. I proletari devono riprendere fiducia nelle proprie forze e non delegare più ai professionisti del sindacalismo tricolore o della corruzione politica la difesa dei propri interessi; essi devono riorganizzarsi in maniera indipendente ed autonoma, sul terreno della difesa esclusiva dei propri interessi immediati di classe, fuori e contro ogni conciliazione e condivisione con gli interessi dei padroni. Solo su questa strada i proletari potranno incidere direttamente sulla situazione di soggezione che stanno vivendo, dando alla propria forza numerica la vitalità dinamica necessaria a modificare i rapporti di forza tra proletariato e classe dominante borghese.

La salute e un salario dignitoso per vivere non devono mai essere scambiati con la competitività dell’azienda “per stare sul mercato”, che è di esclusivo interesse dei padroni. Si va al lavoro per vivere non per morire!

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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