Sulla situazione della classe operaia rispetto alla crisi capitalistica e alla riconquista del terreno della lotta di clase

(Rapporto alla riunione di partito del 2-3 luglio 2011)

(«il comunista»; N° 122; ottobre 2011)

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La pressione capitalistica sulla classe operaia – in periodo di crisi – aumenta considerevolmente portando un peggioramento generale delle condizioni di esistenza degli operai su diversi livelli (parliamo di condizioni di esistenza perché esse comprendono le condizioni di lavoro, di vita, di lotta); aumentano, nello stesso tempo, le sollecitazioni materiali e oggettive che spingono i proletari a reagire nelle diverse forme (sia con manifestazioni di protesta nell’ambito democratico, sia con la lotta più o meno decisa) e a scontrarsi con le pratiche opportuniste e con la repressione poliziesca; non svaniscono ma, al contrario, si rafforzano le illusioni democratiche in forza delle quali i proletari credono di potere ottenere il ritorno alle condizioni precedenti o, perlomeno, di fermare il progressivo peggioramento delle loro condizioni di esistenza. Ai tentativi di uscire dalla palude delle pratiche impotenti dell’opportunismo sindacale attraverso forme di resistenza alla pressione capitalistica come l’occupazione degli stabilimenti o i presidi permanenti davanti ai loro cancelli, il collocarsi per giorni e notti sulle gru o sulle torri, il manifestare con cadenza giornaliera per le strade e nei luoghi-simbolo delle proteste (le discariche nel napoletano, i cantieri dell’alta velocità in Val di Susa ecc.) ed altri episodi dello stesso tipo, si accompagnano tentativi parziali e isolati di autorganizzazione proletaria, molto spesso confusi e contraddittori, al di fuori degli apparati tricolori tradizionali, nelle diverse forme di sindacalismo alternativo con le quali cercare di dare alle loro lotte più efficacia anche se si limitano ad organizzare localmente e settorialmente gli strati proletari stanchi dell’impotenza dei sindacati ufficiali e decisi a trovare alternative più valide.

 

LE CONDIZIONI MATERIALI DI ESISTENZA DELLA CLASSE OPERAIA

 

1)  Diminuzione progressiva delle “garanzie” e degli ammortizzatori sociali che sono stati la leva materiale principale dell’assoggettamento del proletariato alle esigenze espansive e concorrenziali del capitalismo nazionale, in ogni paese, nel lungo secondo dopoguerra; periodo di espansione generale dei capitalismi più forti del mondo sboccato poi nella crisi economica generale del 1973-75; data da questa crisi una tendenza significativa a smantellare, lentamente ma inesorabilmente, il sistema di ammortizzatori sociali che ha dato la base materiale alle organizzazioni sindacali e politiche “operaie” per la loro politica di collaborazione interclassista.

 

2)  Aumento della concorrenza tra proletari “garantiti di vecchia data” contro semigarantiti più recenti, contro le prime forme di precariato ufficializzato, contro i disoccupati di vecchia data e di data più recente; aumento della concorrenza tra proletari anche per l’immissione – in Italia, Spagna – di proletari immigrati soprattutto dall’Africa, dal M.O., dai Balcani, mentre in Francia e Germania,  i flussi migratori aumentavano soprattutto dall’Europa dell’Est dopo l’implosione dell’URSS e il crollo del sistema dei suoi “satelliti”.

 

3)  Diminuzione progressiva dei salari e tendenza ad aumentare l’intensità di lavoro per unità di tempo: produttività e flessibilità sono le parole d’ordine dei capitalisti, in funzione della “crescita produttiva dell’economia” considerata la via maestra per non stagnare nella recessione ed “uscire definitivamente dalla crisi”. In realtà, vi è ulteriore conferma della tendenza alla miseria crescente, caratteristica dello sviluppo capitalistico scoperta dal marxismo in concomitanza della scoperta della legge del valore. A questa diminuzione progressiva dei salari si accompagna un aumento della precarietà del lavoro, un aumento della disoccupazione e della incertezza della stessa  vita quotidiana delle masse proletarie.

 

4)  Rivoluzione tecnica nella grande industria: fine dell’epoca dei grandi stabilimenti (e delle grandi concentrazioni di operai), introduzione delle ditte appaltatrici nella grande industria (es. nella cantieristica navale), esternalizzazione di varie attività produttive in precedenza concentrate negli stessi stabilimenti nei quali iniziava e terminava l’intero ciclo produttivo, delocalizzazione della produzione verso paesi in cui è abbondante la manodopera a costi bassissimi.

 

5)  Tendenza, nei paesi capitalistici più avanzati, a concentrare sempre più le attività inerenti il movimento del capitale finanziario e a delocalizzare le attività produttive in senso stretto: il mercato capitalistico è sempre più dominato dal capitale finanziario rispetto al capitale industriale e commerciale. Un tempo ogni paese capitalista tendeva a sviluppare sempre più l’industria di trasformazione per il proprio mercato interno e per l’esportazione. Dall’epoca in cui la sovrapproduzione di merci e di capitali ha cominciato a presentarsi con cadenze sempre più vicine, e con conseguenze critiche sempre più devastanti, i mercati nazionali hanno cominciato a perdere la tenuta dei loro specifici confini trasformandosi sempre più in mercati plurinazionali (e, come in ogni mercato, vi sono aree di maggiore attività e aree più depresse).

 

6)  La tendenza generale alla proletarizzazione di masse sempre più vaste anche nei paesi meno avanzati, se da un lato rappresenta uno sviluppo capitalistico inarrestabile, dall’altro è il segno della miseria crescente a livello mondiale perché aumenta l’indisponibilità dei mercati ad assorbire e consumare tutta la produzione che vi giunge, aumenta contemporaneamente l’impossibilità da parte di masse sempre più vaste di elevare il proprio tenore di vita, aumenta d’altra parte il tasso di sfruttamento della forza lavoro salariata. L’incessante sviluppo capitalistico, quindi l’incessante ricerca di valorizzazione del capitale, chiede un aumento relativo del consumo di merci (anche attraverso la loro distruzione, ad esempio con lo spreco e la guerra) e di impiego di capitali al tasso medio di profitto; la crisi di sovrapproduzione capitalistica è data non dall’abbondanza di prodotti nel mercato, ma dalla quantità di merci e di capitali che non si vendono e non si commerciano al tasso medio di profitto.

 

7)  Contraddizione irrisolvibile del capitalismo è quella per cui più si produce, più si deve vendere, e più si vende, più si consuma, perciò si continua a produrre per vendere sempre di più. Ma la vendita delle merci non si può realizzare al di sotto di una media per la quale sia garantito un certo profitto: il mercato, quindi, non è soltanto il grande contenitore di tutte le merci in vendita, ma è anche il luogo in cui tutti i prodotti vengono scambiati con denaro, in cui tutti i prodotti assumono la caratteristica di valore, in cui i capitali stessi circolano e vengono scambiati. L’anarchia del mercato consiste nel fatto che ogni azienda ha interesse a produrre di più per vendere di più e per guadagnare di più; ma il mercato, ad un certo punto, non riesce più a far scambiare merci con denaro, capitali con capitali, garantendo un tasso medio di profitto necessario al capitalista per guadagnare e per poter investire ulteriormente capitali nelle diverse attività capitalistiche, siano esse di produzione, di distribuzione o specificamente finanziarie e speculative. La crisi di sovrapproduzione è appunto l’impossibilità di tutte le merci e di tutti i capitali immessi nel mercato di essere scambiati (consumati, venduti, investiti), di essere valorizzati, ossia di aver realizzato il profitto previsto e per il quale scopo è stata avviata tutta l’attività di produzione e di distribuzione. Il capitalismo produce per il mercato, per la valorizzazione del capitale investito, in una spirale inarrestabile: il valore d’uso delle merci diventa così non il fine della produzione ma il mezzo per valorizzare il capitale investito; nel capitalismo comanda il valore di scambio, non il valore d’uso, dunque le esigenze della valorizzazione del capitale, non le esigenze della vita sociale umana. L’antagonismo tra economia mercantile e vita sociale umana è evidente, l’antagonismo tra interessi del capitale e interessi del lavoro salariato è altrettanto evidente.

 

8)  Nel capitalismo tutto è valore: qualsiasi bene, qualsiasi prodotto, qualsiasi mezzo di produzione assume la caratteristica di merce. Anche la forza-lavoro umana, che è nello stesso tempo mezzo di produzione e consumatrice di energia produttiva e di mezzi di sussistenza, prodotto e mezzo di consumo, è merce, ma molto particolare: la sua applicazione ai mezzi di produzione e di distribuzione, nel capitalismo, corrisponde ad un valore determinato non dall’effettivo tempo di lavoro individualmente profuso nella produzione o nella distribuzione, ma dal valore dei prodotti necessari alla sua riproduzione. Come spiega Marx, solo una parte del tempo di lavoro giornaliero dell’operaio corrisponde – in valore – alla somma dei beni necessari alla riproduzione della sua forza lavoro, mentre l’altra parte del tempo di lavoro giornaliero se la accaparra il capitalista. Questo plus-lavoro corrisponde al plus-valore che il capitalista estorce sistematicamente da ogni lavoratore salariato. Il plus-lavoro è il tempo di lavoro non pagato, è la base del guadagno, del profitto capitalistico.

Lo sviluppo dell’industria, le innovazioni e le scoperte tecniche applicate alla produzione, nel capitalismo significano ulteriori vantaggi per il capitalista perché gli permettono di diminuire progressivamente, e giornalmente, la quota di tempo di lavoro necessario alla riproduzione della forza lavoro (tempo di lavoro pagato col salario) e di aumentare la quota di plus-lavoro. La turnazione, l’intensità di lavoro per unità di tempo, l’aumento delle mansioni per ciascun lavoratore, la diminuzione delle pause, l’allungamento della giornata lavorativa, la meccanizzazione e l’aumento della velocità di esecuzione dei vari segmenti di lavorazione ecc., tutto ciò se, da un lato, aumenta la capacità produttiva dell’industria, dall’altro aumenta il tasso di sfruttamento giornaliero (perciò intensivo) di ogni singolo lavoratore salariato. Ciò vale sia che il numero di salariati impiegati resti lo stesso nei diversi cicli di produzione, sia che diminuisca in corrispondenza della più elevata capacità produttiva grazie alla meccanizzazione e all’automazione dei processi lavorativi,e , naturalmente, se il numero di salariati aumenta. A tutto questo si aggiunge la pressione sociale esercitata dal capitalismo sull’intera massa di lavoratori , e garantita dal dominio economico, sociale e politico della classe borghese che controlla la vita sociale in ogni paese attraverso lo Stato e le forze dell’ordine.

Lo sviluppo dell’industria, anche dal punto di vista tecnico e scientifico, se da un lato produce quantità di merci enormemente superiore rispetto a periodi precedenti e le produce a minor costo, abbattendo così i prezzi di vendita per battere la concorrenza sul mercato, dall’altro lato produce inevitabilmente un surplus di merci rispetto alla capacità del mercato di assorbirle. Lo spreco è praticamente garantito: spreco di materie prime estratte, lavorate e trasformate in prodotti per il mercato, spreco di forza lavoro e del suo tempo di lavoro per produrre quelle quantità e per distribuirle nel mercato, spreco di capitali investiti per produrre quelle quantità che non saranno vendute e che dovranno invece essere distrutte; il capitalismo, più si sviluppa, più spreca. Ma quel che succede a tutte le merci succede anche alla merce particolare chiamata forza lavoro: l’eccedenza di forza lavoro viene espulsa dalla produzione e dalla distribuzione, non è più sfruttabile con vantaggio da parte dei capitalisti perciò finisce nell’esercito industriale di riserva, nella disoccupazione. Pur disoccupata non perde la sua caratteristica fondamentale che è di essere forza lavoro viva, che ha bisogno di mangiare, vestirsi, dormire, ripararsi; perciò essa continuerà a proporsi sul “mercato del lavoro” come merce che ha perso valore, a prezzi molto più bassi della forza lavoro ancora occupata nella produzione e nella distribuzione: di questa pressione si avvantaggiano soltanto i capitalisti perché questa concorrenza tra proletari, tra lavoratori salariati, produce inevitabilmente un abbattimento generalizzato dei salari e, quindi, un aumento del tempo di lavoro giornaliero non pagato, dunque un aumento del plusvalore estorto alla classe operaia.

 

9)  Nel rapporto tra capitale e lavoro salariato non vi è soltanto la voracità del capitale (velocità e quantità di prodotto, velocità e quantità di immissione nel mercato, velocità e quantità di venduto, velocità e quantità di profitto), vi è anche la necessità di mantenere la forza lavoro salariata assoggettata al capitale, alle sue esigenze di produzione e riproduzione. Con lo sviluppo economico si sviluppa e si affina anche la gestione politica del potere capitalistico, e in questa gestione è prevista la lotta, il contrasto di interessi tra “capitale” e “lavoro”. Se tra capitale e capitale, tra azienda e azienda, tra gruppi di aziende e gruppi di aziende, tra Stato e Stato, e tra blocchi di Stati, vi è normalmente lotta di concorrenza attraverso la quale sostituirsi al concorrente sul mercato o non farsi sostituire, tra capitale e lavoro salariato vi è lotta di classe, ossia contrasto di interessi fondamentalmente inconciliabili. La politica di potere della borghesia tiene conto, per esperienza storica, di questa inconciliabilità di interessi, e attua tutta una serie di misure sociali, economiche, politiche, atte a facilitare o ad imporre la conciliabilità di interessi che significa, sostanzialmente, avvantaggiare i propri interessi rispetto a quelli proletari.

 

LA FORZA LAVORO SALARIATA STRETTA NELLA MORSA TRA BORGHESIA E OPPORTUNISMO

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10)  La forza lavoro salariata, storicamente, si è opposta alla pressione economica e sociale del capitalismo organizzandosi sul terreno della difesa immediata lottando non per conciliare i propri con gli interessi dei capitalisti, ma per imporre il riconoscimento dei propri interessi, sebbene sul limitato terreno economico immediato. Aumento del salario, diminuzione della giornata lavorativa: queste due grandi rivendicazioni sono state alla base della lotta operaia fin dall’inizio, e non è un caso che esse siano, in realtà, le due rivendicazioni base che da sempre interessano tutti i proletari, non importa a quale fabbrica, settore, paese appartengano. Ciò vuole anche dire che i proletari (i senza riserve, la forza lavoro), vivono in condizioni sociali che permettono loro di riconoscersi come un’unica grande massa di lavoratori uniti tendenzialmente dallo stesso interesse: farsi pagare un salario più alto e farsi sfruttare dai capitalisti per un tempo giornaliero meno lungo. Ma anche solo per ottenere questi due obiettivi gli operai hanno dovuto organizzarsi numerosi e lottare duramente contro tutte le forze di conservazione sociale. Nonostante le vittorie ottenute su questo terreno, esse non sono mai state definitive obbligando gli operai a lottare continuamente per riottenere quel che già in lotte precedenti avevano “conquistato” (questa è la caratteristica delle lotte immediate: si possono ottenere dei risultati, ma solo limitati e temporanei, e solitamente a prezzo di lotte molto dure, prolungate nel tempo e sacrificando molto, compresa la vita negli scontri con il potere borghese che non è mai stato e non sarà mai neutrale nel conflitto tra capitalisti e operai).

 

11)  Il corso storico del potere borghese, rispetto alle organizzazioni di difesa economica del proletariato, è cadenzato da tre grandi periodi: 1) loro divieto e repressione; 2) loro tolleranza; 3) loro integrazione nelle istituzioni borghesi e nello Stato. In tutti e tre i periodi vi è stata la tendenza a distruggere le organizzazioni operaie in quanto organizzazioni di classe, ma l’esperienza storica ha mostrato alla borghesia l’utilità della loro esistenza, e della loro influenza, a condizione che agiscano all’interno della lotta di concorrenza capitalistica, trasformandosi in un fattore economico e politico di conciliazione tra le classi, di pace sociale stabile e di gestione dell'assoggettamento della massa lavoratrice al comando capitalistico.

 

12)  I capitalisti, mentre combattono con tutte le armi a loro disposizione, legali e illegali, la lotta di concorrenza sul mercato, sanno che la concorrenza è essa stessa parte fondativa del mercato e che ne hanno bisogno per stimolare lo sviluppo economico stesso. Nella lotta di concorrenza sono sempre alla ricerca di alleati per rafforzare le proprie posizioni e per affrontare i concorrenti con più possibilità di vittoria. Uno degli alleati potenziali più vicini, e più ricattabili, è proprio il proletariato. Il ricatto fondamentale del capitalismo: o lavori contro salario alle mie condizioni, o crepi di fame, si trasforma così in interesse immediato dei proletari non solo a lavorare disciplinatamente per il capitalista, ma a rendersi disponibile alla difesa del capitalista e della sua azienda, dei suoi affari, dei suoi profitti, contro la concorrenza degli altri capitalisti nazionali o esteri. La lotta di concorrenza dei capitalisti diventa così la lotta operaia di difesa dei capitalisti che offrono lavoro (compreso lo Stato borghese). La concorrenza tra capitalisti si trasferisce, in campo operaio, in concorrenza tra operai  sulla base di due spinte: 1) ricatto del posto di lavoro e quindi del salario (concorrenza tra schiavo e schiavo), 2) ricatto del mercato nel quale le merci prodotte devono trovare smercio e consentire al capitalista di rinnovare continuamente i cicli produttivi, perciò l’acquisto di manodopera salariata. Sui due piani, uno individuale e l’altro collettivo, i proletari dell’azienda in cui sono sfruttati vengono obbligati a far dipendere la propria sopravvivenza dall’accettazione del ricatto capitalistico.  E se i proletari non si associano unendo le proprie forze per lottare contro i capitalisti allo scopo di ottenere miglioramenti salariali e migliori condizioni di lavoro con la diminuzione della giornata lavorativa e dell’intensità di lavoro per unità di tempo, essi sono costretti a rimanere classe per il capitale, eternando la propria condizione di schiavi salariati. Solo lottando per interessi contrapposti agli interessi borghesi i proletari imboccano la strada della lotta per l’emancipazione dal lavoro salariato, diventando perciò classe per sé.

 

13)  Nell’economia più evoluta e più ricca, il capitalista può destinare una certa quota del plusvalore estorto all’insieme della manodopera sfruttata per pagare una parte degli operai di più rispetto agli altri, aumentando in questo modo la concorrenza tra operai e, nello stesso tempo, attirando una parte di essi sul terreno della difesa attiva dei suoi interessi aziendali; costituisce, in questo modo, uno strato di operai privilegiati (più istruiti, meglio pagati, più protetti socialmente, destinati a lavori meno pesanti e abbrutenti, dando loro la responsabilità di controllare determinate fasi di lavorazione  con annessi gli operai ad esse addetti, ecc.) che chiamiamo, con Engels, aristocrazia operaia. "Aristocrazia", perché il loro privilegio è pagato con il plusvalore estorto a tutta la massa operaia; "operaia", perché loro stessi sono lavoratori salariati, sfruttati essi stessi dai capitalisti come forza lavoro salariata. Questo strato di operai rappresenta contemporaneamente: una condizione di privilegio rispetto alla massa operaia cui altri operai possono aspirare; una “garanzia” di attaccamento agli interessi dell’azienda (e quindi del padrone) dalla quale ottiene condizioni di lavoro e salariali migliori rispetto agli altri operai; un veicolo di influenzamento verso la massa degli altri operai per far accettare in un modo o in un altro (magari anche attraverso la lotta e lo sciopero, come valvole di sfogo non come armi per avanzare nella lotta di emancipazione di classe) i ricatti padronali di cui abbiamo parlato sopra, considerandoli come un sacrificio che conviene fare se si vuole mantenere il posto di lavoro e migliorare prima o poi le proprie condizioni di lavoro e di vita. Il riformismo e, successivamente, il collaborazionismo interclassista, sono stati veicolati nelle masse proletarie da questi strati di operai privilegiati, veri e propri operai-borghesi, complici del comando capitalista sulla forza lavoro salariata.

 

14)  Nelle economie capitalistiche più avanzate, agli strati di aristocrazia operaia provenienti da operai che salgono una ipotetica scala sociale dalla condizione più elementare e di manovalanza alla condizione di istruzione più elevata e di specializzazione che lo sviluppo tecnico capitalistico stesso richiede, si accompagnano gli strati di piccola borghesia artigianale e commerciante che, rovinati dalle crisi economiche capitalistiche, precipitano nelle condizioni di lavoratori salariati andando ad ingrossare, in parte,  in virtù della loro istruzione e della loro “specializzazione” artigianale o contabile, le file dell’aristocrazia operaia. E’ attraverso questa contaminazione tra operai degli strati più alti e piccoloborghesi proletarizzati che si forma la massa di manovra del riformismo operaio e, quindi, del collaborazionismo. La concorrenza tra operai serve, perciò, alla borghesia, non solo per tenere i salari operai più bassi possibile, ma anche per utilizzare gli strati operai corrotti come veicolo di propaganda e di influenzamento politico in grado di assicurarle un efficace controllo sociale dell’intero proletariato.

 

15)  L’opera del riformismo operaio porta a risultati differenti, e tutti antiproletari, a seconda dei periodi economici e politici. Soprattutto nei periodi di crisi economica o di guerra, l’opera corruttrice del riformismo operaio porta il massimo risultato favorevole alla classe dominante borghese e il risultato più devastante per la classe del proletariato. Uno degli obiettivi reali del riformismo, sebbene non scritto, è di convogliare le spinte operaie a lottare in difesa delle proprie condizioni di vita e di lavoro su obiettivi che il modo di produzione capitalistico e la società borghese eretta su di esso assumono come compatibili: la lotta operaia è intesa come pressione sociale utile al raggiungimento, in tempi più brevi, della conciliazione degli interessi fra operai e borghesi. I “miglioramenti” salariali, delle condizioni di lavoro e delle condizioni sociali di vita operaie, sono intesi come esclusivamente dipendenti dalle esigenze di profitto delle aziende capitalistiche.

Dal punto di vista dei principi, il riformismo parte dalla considerazione che è il capitale che “crea” lavoro, quindi se il capitale è in buona salute – ossia produce profitto e aumenta la sua potenza sul mercato – anche il lavoro gode di buona salute – ossia i lavoratori possono chiedere miglioramenti perché il capitale ha accumulato molti profitti – e, dunque, sviluppandosi la produzione , e la distribuzione, può aumentare la massa di lavoratori salariati utilizzati dal capitale.

Dal punto di vista politico, il riformismo parte dalla considerazione che lo sviluppo stesso del capitalismo, con le sue innovazioni tecniche e scientifiche, ha istruito buona parte della classe operaia a tal punto che essa è in grado di esprimere capacità di gestione aziendale, nell’interesse delle aziende, senza le quali la gestione aziendale risulterebbe monca, inadeguata. E tale capacità gestionale consisterebbe nell’organizzazione, nel controllo e nella gestione ottimale di un elemento fondamentale del processo lavorativo: la manodopera! Non per nulla, da sempre, le forze del riformismo si sono offerte alla classe dominante come le più adatte ed efficaci forze di controllo sociale della classe lavoratrice. Questa efficacia la si è potuta vedere in ogni periodo in cui l’economia capitalistica va in crisi e in ogni periodo in cui la società borghese nel suo insieme va in crisi e sbocca, alla fine, nella guerra. Il riformismo, infatti, sviluppa la sua azione su due piani principali: sul piano dell’associazionismo operaio (i sindacati, per dirla in sintesi, ma anche le cooperative ecc.) e sul piano dell’organizzazione politica (i partiti, ma anche le associazioni culturali ecc.). Questi sono i due piani sui quali il riformismo attua i suoi principi di conciliazione tra le classi e dimostra alla classe dominante l'efficacia e  l’indispensabilità del suo ruolo di mediatore dei conflitti sociali.

 

16)  Sul piano organizzativo immediato dell’associazione economica gli operai oscillano continuamente tra forme di lotta concilianti con gli interessi padronali e borghesi e forme di lotte che esprimono l’antagonismo che li oppone ai capitalisti e che tendono a superare politicamente i limiti della conciliazione fra le classi. Su tutte le forme di lotta operaia insiste la pressione e la propaganda della classe borghese, sia direttamente attraverso le organizzazioni sindacali e sociali che sono emanazione degli apparati di conservazione borghese, sia indirettamente attraverso le organizzazioni sindacali e sociali del riformismo. La natura stessa delle organizzazioni di difesa immediata, nella società borghese, impedisce loro di evolvere per forza propria verso il livello dell’antagonismo rivoluzionario comunista. Perché questo risultato sia raggiunto devono essere presenti alcuni fattori favorevoli: forte tensione sociale e maturazione della lotta operaia sul terreno dello scontro fra interessi esclusivamente operai e interessi borghesi, esperienza di lotta e organizzativa, influenza determinante del partito comunista rivoluzionario almeno sugli strati operai d’avanguardia. Nella storia vi sono state fasi, in genere di breve durata, in cui questi fattori favorevoli allo sviluppo della lotta di classe e al suo sbocco rivoluzionario erano presenti (una, per tutte, il periodo che va dalla prima guerra mondiale alla vittoria rivoluzionaria bolscevica in Russia e ai primi anni Venti), fasi che si sono alternate a lunghe fasi di depressione della lotta di classe operaia e di indietreggiamento del movimento proletario su posizioni non solo concilianti con gli interessi padronali e di conservazione borghese, ma perfino di collaborazionismo attivo.

Il periodo sfavorevole alla lotta di classe e al suo sviluppo per il proletariato dei paesi imperialisti occidentali, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, non ha rappresentato in assoluto un abbassamento del tenore di vita, anzi, vi è stato un generale elevamento medio del tenore di vita delle grandi masse proletarie dopo una prima fase di crisi postbellica e di “ricostruzione” postbellica nei paesi distrutti dalla guerra, elevamento dovuto alla nuova spinta economica data appunto dalla ricostruzione postbellica. Vi è stata inoltre l'applicazione di una politica generalizzata di ammortizzatori sociali ereditata nei paesi imperialisti occidentali dal fascismo vinto sì militarmente, ma dal quale i governi democratici hanno rilevato la sua politica corporativista e collaborazionista. In questa fase, la classe borghese dominante, con l’attuazione della politica sociale fascista, (dopo che questo ha distrutto i sindacati rossi diretti sì dai riformisti, ma organizzativamente ancora legati alla lunga esperienza delle lotte di classe, e averli sostituiti con i sindacati obbligatori fascisti imbevuti di corporativismo), trasferisce questa specifica esperienza di influenzamento e di dominio sulla classe operaia nelle rinate organizzazioni sindacali operaie democratiche che si impongono, sotto le vecchie vesti del sindacalismo ante-fascismo, come sindacati tricolore: il sindacato di classe, sconfitto nel periodo dell’avanzata proletaria sul terreno rivoluzionario dall’opportunismo e dalla controrivoluzione staliniana, e distrutto dal fascismo, viene definitivamente seppellito dal sindacalismo tricolore (democratico, non obbligatorio, e collaborazionista) che prende vita e si diffonde praticamente in tutto il mondo. Era inevitabile che la sconfitta della rivoluzione proletaria e del partito di classe (il partito bolscevico in primis, e, a seguire, la corrente della sinistra comunista in Italia e nel mondo), portasse nel baratro anche la sconfitta del sindacalismo di classe. Ciò conferma che il sindacalismo si mantiene di classe se agisce sotto l’influenza diretta del partito comunista rivoluzionario. La doppia vittoria della controrivoluzione staliniana – sul partito e sulle organizzazioni operaie di classe – ha allungato enormemente la durata del dominio politico e sociale della classe borghese, spezzando e distruggendo la tradizione classista del movimento operaio e rendendo, perciò, sempre più difficile la ricostituzione di organismi operai di difesa immediata classista, indipendenti dalle politiche e dagli apparati del collaborazionismo tricolore.

17)  La politica del collaborazionismo sindacale e politico fa dipendere la difesa degli interessi immediati della classe proletaria e il miglioramento delle sue condizioni di esistenza e di lavoro dalla loro compatibilità con le esigenze aziendali (competitività sul mercato, investimenti, produttività e riduzione del costo del lavoro ecc.) e tende a sostituire la lotta diretta degli operai a sostegno delle loro rivendicazioni con la negoziazione, gli accordi, la conciliazione degli interessi operai. I sindacalisti sono diventati non più i rappresentanti, anche se opportunisti, degli interessi operai presso i padroni e lo Stato centrale, ma i rappresentanti degli interessi aziendali e dello Stato centrale presso gli operai (e non solo dal punto di vista degli obiettivi e dei metodi, ma anche da punto di vista organizzativo visto che sono i padroni a gestire il denaro delle iscrizioni operaie ai sindacati). Gli operai sono stati in questo modo espropriati delle loro organizzazioni immediate che continuano a presentarsi come organizzazioni “operaie” ma lo sono solo dal punto di vista dell’iscrizione numerica visto che anche la “vita sindacale” di un tempo (assemblee in cui discutere e votare le piattaforme di lotta e gli obiettivi della lotta) è ormai morta e sostituita da comunicazioni asettiche nelle bacheche e dai referendum.

 

SOLO NELLA RIPRESA DELLA LOTTA DI CLASSE IL PROLETARIATO POTRÀ TORNARE AD ESSERE PROTAGONISTA DELLA SUA EMANCIPAZIONE DALLA SCHIAVITÙ DEL LAVORO SALARIATO

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18)  I proletari, se vogliono risalire dall'abisso in  cui l'alleanza della borghesia con l'opportunismo riformista e collaborazionista li ha precipitati, dovranno lottare in modo efficace a difesa dei loro interessi immediati e futuri contando necessariamente sulla spinta oggettiva, materiale, fisica e spontanea ad opporsi alla pressione padronale adottando forme di lotta che rompano con la tradizionale procedura del collaborazionismo che prevede la salvaguardia della pace sociale e lo sciopero solo come ultima forma di pressione e in ogni caso da attuare in modo che non sia dannoso per le esigenze aziendali. I proletari si trovano di fronte una serie di ostacoli che ancor oggi appaiono insormontabili e che attengono sia alla disabitudine a lottare direttamente per i propri interessi, sia all’inesperienza organizzativa della lotta. Disabitudine e inesperienza che ingigantiscono le difficoltà poiché provengono da decenni di pratiche collaborazioniste e conciliatorie, di delega ai “professionisti” [i bonzi sindacali, e i politicanti] del sindacato di decidere, in modo separato dagli operai, quali rivendicazioni avanzare e di quando e come avanzarle, e di occuparsi di tutte le norme di legge e gli articoli degli accordi; preovengono dall'abitudine a pensare alla lotta e allo sciopero solo come ultima carta da giocare e in ogni caso nei limiti e nei termini accettati o accettabili dal padronato. I proletari, se vogliono difendersi in modo efficace sul terreno immediato dovranno rompere con il legalitarismo e la sottomissione alle norme e ai tempi che i padroni impongono – ma che sono i primi a non rispettare soprattutto quando vanno incontro agli interessi operai – e porsi sul terreno dell’aperto scontro di interessi col padronato adottando mezzi e metodi di lotta che non sono condivisibili dai padroni perché portano un danno ai loro interessi e alle aziende.

I padroni, tra le tante armi che hanno a disposizione, ne hanno una che è micidiale per i proletari: la concorrenza fra proletari. Questa concorrenza è alla base di tutte le misure antioperaie che i padroni adottano, e che i sindacalisti collaborazionisti accettano e difendono come espressione della massima "libertà di mercato", libertà che però pretendono di “regolamentare” in modo da attenuare le sue punte più acute e contraddittorie, rafforzando così il loro ruolo di gestori del controllo sociale e di pacificatori dei conflitti.

 

19)  Il capitalismo nel suo sviluppo non ha cambiato il tipo di rapporto fondamentale tra capitale e lavoro salariato: il capitale cerca di estorcere sempre più plusvalore (assoluto e relativo) dal lavoro salariato per valorizzare in tempi sempre più veloci i capitali investiti e per combattere la caduta tendenziale del saggio medio di profitto. Al di là del giganteggiare del capitale finanziario sulla società borghese, e della sua circolazione sempre più voluminosa a livello mondiale, è dalla produzione e dalla distribuzione – ossia dallo sfruttamento del lavoro salariato, sempre più intensivo oltre che estensivo – che il capitalismo trae la sua linfa vitale. Lo sfruttamento della classe operaia  è sempre al centro dell’attività economica e sociale del capitale e i metodi del suo sfruttamento, del suo controllo, della sua gestione sociale restano i cardini principali del mantenimento al potere della classe borghese. In questa prospettiva, la borghesia usa, come ha usato e userà finché non verrà sconfitta e resa impotente a restaurare il suo dominio, tutti i mezzi che le possano assicurare il mantenimento del suo dominio di classe, dai mezzi più repressivi e apertamente dittatoriali ai mezzi più insidiosamente democratici e falsamente egualitari. Nei periodi di crisi economica e sociale, come l’attuale, che annunciano oltretutto periodi ancor più critici che aprono la strada alla guerra generale fra gli Stati, la classe dominante borghese volge le risorse economiche e finanziarie a disposizione alla salvaguardia dei suoi  privilegi sociali colpendo ancor più drasticamente le condizioni di esistenza delle masse proletarie, a cominciare dalle masse proletarie dei paesi della periferia imperialistica per arrivare a quelle dei paesi imperialisti più ricchi.  L’esempio della Fiat di Marchionne è uno dei tanti: grazie ai prestiti del governo americano e dei sindacati collaborazionisti americani Marchionne si vanta di aver “salvato” dalla chiusura la Chrysler; gli operai, per non perdere il posto di lavoro, hanno accettato il ricatto imposto dalla Fiat, restrizioni di ogni genere nelle condizioni di lavoro, divieto di sciopero e per i nuovi assunti metà salario per lo stesso tempo di lavoro giornaliero. A Pomigliano d’Arco, prima, e a Mirafiori poi, la Fiat ha piegato sindacati e operai a condizioni di lavoro simili e a salario ridotto, sebbene non alla metà, senza dover affrontare conflitti sociali di grande rilevanza (negli anni Cinquanta e Sessanta posizioni padronali di questo genere vedevano scioperi duri e scontri di strada). Continuando a fare l'esempio italiano, va sottolineata l'importanza della tappa nel giro micidiale di misure antioperaie costituita dall'accordo del 28 giugno di quest'anno tra i sindacati tricolore (questa volta Cgil compresa) e Confindustria per rendere le mani padronali sempre più libere nella gestione della manodopera quanto a normative interne d'azienda, orari di lavoro, licenziamenti, all'insegna delle primarie esigenze del mercato! Cosa che è stata recepita immediatamente anche dal governo col famoso articolo 8 sulla deroga dai contratti nazionali per far passare le decisioni padronali attraverso la contrattazione aziendale nella quale, ovviamente, ogni padrone si sente più forte. In queste situazioni è evidente la forza della borghesia che si esprime contemporaneamente sul piano del ricatto e della violenza economica (non sempre accompagnata da violenza repressiva e poliziesca) e sul piano della corruzione attraverso gli ammortizzatori sociali (cassa integrazione di livelli diversi, ecc.). Questa pressione riporta all’effetto paralizzante che ha la concorrenza fra proletari e, quindi, alla mancanza di organizzazioni di difesa adeguate e di solidarietà di classe. Le tradizionali rivendicazioni operaie: diminuzione della giornata lavorativa a parità di salario, aumenti di salario, più alti per le categorie peggio pagate, sono sempre fondamentali e unificanti ma non possono esprimere la forza di opposizione operaia alla pressione capitalistica se non vengono strettamente legate alla lotta contro la concorrenza fra proletari. La lotta di classe, il suo svolgimento e il suo sviluppo, non potrà non mettere al centro la grande questione della lotta contro la concorrenza fra proletari sebbene non sarà la prima rivendicazione da cui i proletari ricominceranno a lottare per difendere le loro condizioni immediate di vita e di lavoro.

 

20)  Le tendenze che attraversano il movimento della classe operaia nei paesi capitalistici avanzati sono in genere influenzate pesantemente dal collaborazionismo interclassista, e non può essere diverso vista la forza con cui esso ha imbrigliato più generazioni di operai portandole dal riformismo attivo e illusorio degli anni dell’espansione economica alla paralisi e alla demoralizzazione degli anni di declino economico delle economie più forti. Ciò nonostante, nella massa proletaria generale, di volta in volta si sono distinti strati più combattivi del proletariato come i minatori, che combattevano contro il pericolo di estinzione, i lavoratori dei trasporti che combattevano contro turni massacranti e salari da fame, i lavoratori della scuola, delle poste e della pubblica amministrazione sottoposti a tagli continui degli organici e ad una sempre più vasta precarizzazione. A questi strati si sono aggiunti successivamente ed episodicamente gruppi di lavoratori stranieri che si battevano contro le discriminazioni razziali, per i permessi di soggiorno e contro il supersfruttamento cui sono normalmente sottoposti perché stranieri, perché immigrati, perché clandestini (in Francia sono note le lotte dei sans-papiers, in Italia le lotte dei braccianti immigrati a Villa Literno, Castelvolturno, a Rosarno, a Lampedusa). Raramente vi sono stati esempi di organizzazione sindacale che  vede insieme proletari autoctoni e proletari immigrati, e quando succede avviene solo con immigrati ormai naturalizzati nel paese ospite o integrati nelle associazioni umanitarie e a sfondo religioso. Vi sono poi altri gruppi di proletari immigrati che rispondono alla categoria dei “rifugiati” e che provengono da paesi in guerra o in cui esiste la repressione durissima di qualsiasi voce in contrasto con quella del potere; da quando sono scoppiate le rivolte nei paesi arabi del Nord Africa e del Medio Oriente alle migliaia di proletari che già migravano verso i ricchi paesi dell’Europa si sono aggiunte decine di migliaia di proletari che fuggono dalla guerra, dalla miseria, dalla carestia. Di fronte alla pressione di questi consistenti flussi di immigrati e di proletari in cerca di lavoro per sopravvivere anche se a condizioni miserrime, gli strati più conservatori e arretrati del proletariato europeo, influenzati dalle forze politiche e sociali più conservatrici e reazionarie,  rispondono con il loro rifiuto e la loro emarginazione, accettando che i governi adottino misure di restrizione delle libertà democratiche (libertà di cui sempre si sono vantati) e di repressione. Aumentando la concorrenza fra proletari, in un clima sociale di depressione economica, di disgregazione sociale e di paura, aumentano anche nel proletariato gli atteggiamenti discriminatori nei confronti degli strati proletari più deboli e, dunque, soprattutto verso gli immigrati. Aumenta, di converso, la tendenza all’individualismo, all’ “ognuno per sé”, e al corporativismo, tipici della piccola borghesia che diventa ancor più reazionaria nella misura in cui la crisi economica e sociale la spinge verso la rovina, proletarizzandola. Ma, visto che il ricordo delle lotte proletarie del passato, pur nell’abito dell’opportunismo, non scompare mai del tutto – anche perché viene rivivificato periodicamente dalle stesse contraddizioni materiali della società  borghese che rimette i proletari di fronte all’alternativa: o ribellarsi e lottare, o morire di fatica, di stenti, di repressione o di guerra – possono passare cinque, dieci o vent’anni ma la lotta proletaria classista si ripresenta sul terreno sociale riproponendo oggettivamente il problema della sua efficacia, della sua organizzazione, della sua durata nel tempo, della sua estensione a più categorie e a livello sopranazionale. Sono i fatti materiali dello sviluppo capitalistico, e delle sue crisi, che spingono le masse proletarie a muoversi sul terreno dell’opposizione al feroce sfruttamento che subiscono e dell’antagonismo rispetto agli interessi capitalistici.

Il partito di classe sa per esperienza storica, condensata nella teoria del comunismo rivoluzionario, che il proletariato, pur vinto, sconfitto, schiacciato anche per lungo tempo nelle condizioni di schiavo salariato sottomesso alle esigenze del capitale, quando l’intolleranza di vivere nelle condizioni di schiavo rompe la pacifica e forzata sottomissione al dominio del capitale e della classe borghese, si ribella e riacquista coraggio e forza di ribellarsi e lottare, spesso anche violentemente, contro tutto ciò che rappresenta all’immediato il dominio diretto dei capitalisti e della loro società. E’ nella lotta che i proletari fanno esperienza, ritrovano, sebbene con difficoltà, confusamente e inconsciamente, il terreno dello scontro di classe e la necessità di organizzare la propria difesa immediata su tutti i piani, su quello dell’associazionismo operaio indipendente dal collaborazionismo interclassista come su quello degli obiettivi della lotta, su quello dei mezzi e dei metodi da utilizzare sia per resistere e rafforzare la lotta sia per non cadere nelle mille trappole che la borghesia e le forze di conservazione sociale – a partire dai riformisti e collaborazionisti per allungarsi alle forze pacifiste e religiose e giungere alle forze del falso rivoluzionarismo comunista – continueranno a mettere sulla strada della ripresa della lotta di classe. Per rimontare dalla situazione di paralisi e disgregazione in cui sono stati precipitati dal collaborazionismo, i proletari hanno e avranno bisogno di fare esperienza diretta sul terreno della contrapposizione di interessi immediati con i borghesi; soltanto rimettendosi a lottare in difesa esclusiva dei propri interessi, non importa se parzialissimi e limitati, i proletari hanno la possibilità di ritrovare la forza che li conduce alla riconquista del terreno della lotta di classe, ossia il terreno sul quale le parole e le azioni del partito politico di classe possono essere riconosciute come le più appropriate ed efficaci tanto nel campo della difesa immediata degli interessi proletari quanto nel campo politico più generale.

 

PARTITO DI CLASSE E LOTTA PROLETARIA

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21) Il partito di classe, da parte sua, non sospende mai l’attività di propaganda degli obiettivi, dei mezzi e dei metodi della lotta di classe, anche in situazioni e periodi in cui essa non ha alcun esito o viene recepita e fatta propria solo da pochissimi elementi della classe. Il partito, nello stesso tempo, combatte non solo le tendenze riformiste, collaborazioniste, rinunciatarie che paralizzano le spinte di lotta dei proletari demoralizzandola, ma anche le pratiche attivistiche e organizzativistiche con le quali gruppi e formazioni politiche di estremismo infantile illudono i proletari di poter accorciare i tempi di maturazione della lotta di classe attraverso espedienti di carattere formale che avrebbero di per sé la forza di rovesciare le sorti della lotta.

Il riformismo “dal basso” è pernicioso per la lotta operaia quanto il riformismo “dall’alto”, ed è brodo di coltura del riformismo “con la pistola” (leggi lottarmatismo di tipo brigatista) con il quale le spinte spontanee dei gruppi proletari più combattivi vengono deviate e sprecate sul terreno impotente dell’ultimatismo e dell’individualismo piccoloborghese. Le indicazioni che il partito di classe dà e deve dare al proletariato – al di là della possibilità che vengano seguite e fatte proprie da piccoli gruppi di proletari, da larghe  masse o da nessuno – devono tener sempre conto del dato materiale oggettivo da cui i proletari sono spinti a lottare sul terreno immediato e ad organizzarsi per queste lotte; nello stesso tempo, sono rivendicazioni, indicazioni, obiettivi, che tendono ad unire i proletari, a far loro superare le mille stratificazioni e divisioni in cui i borghesi e i collaborazionisti sindacali e politici li vogliono mantenere, e a far fare loro esperienza diretta di organizzazione e direzione delle loro lotte immediate. In realtà, l’autonomia delle organizzazioni proletarie di difesa immediata dalle politiche e dalle pratiche opportuniste e dagli apparati borghesi non è una qualità che si possa innestare dall’esterno della lotta proletaria, ma è una conquista che la lotta proletaria raggiunge al suo livello di maturazione classista, livello che produce, allo stesso modo, le avanguardie di lotta che si caricheranno del compito di organizzare e dirigere gli organismi proletari di difesa immediata indipendenti.

 

22)  Il partito di classe non ha il compito di organizzare i sindacati operai, e i suoi militanti non hanno il compito di diventare sindacalisti “di classe”; ciò non vuol dire  che il partito si deve disinteressare di questo campo di attività proletaria – come  sostengono alcuni gruppi politici che si rifanno anche alla "sinistra comunista italiana", teorizzando l’inutilità ai fini rivoluzionari dell’intervento del partito nei sindacati operai poiché questi non potranno mai diventare o essere “di classe”, e perciò influenzabili dal partito comunista rivoluzionario – e nemmeno che il partito avrà la possibilità di influenzare la classe proletaria solo se organizza direttamente, o insieme ad altre forze ritenute non collaborazioniste o addirittura “rivoluzionarie”, dei sindacati operai, ritenendo questo l’unico modo per assicurarsi che essi sarebbero fin dall’inizio già “di classe”; tantomeno diamo la patente “di classe” ai sindacati alternativi odierni (come i cobas e simili) verso i quali indirizzare i proletari sollecitandoli ad uscire dai sindacati tricolore per iscriversi a quelli , patente di classe giustificata in quanto si tratterebbe di  organizzazioni operaie “di base” nate “fuori e contro” i sindacati tricolori tradizionali.

Il partito di classe, seguendo la linea storica della sinistra comunista, non darà mai al proletariato l’indicazione di boicottare gli scioperi indetti dai sindacati tricolore o dai sindacati di base, né di uscire da un sindacato per iscriversi ad un altro; il partito non scende sul terreno della lotta di concorrenza tra organizzazioni sindacali che, di fatto, si affittano direttamente o indirettamente al padronato e alle istituzioni borghesi, ma si mantiene sul terreno della lotta proletaria di classe chiamando i proletari – iscritti o meno a questo o quel sindacato attuale, o non iscritti ad alcun sindacato – alla lotta con mezzi, metodi ed obiettivi di classe, ossia coerenti con la difesa esclusiva degli interessi immediati proletari. Solo così è possibile per il partito legare le rivendicazioni, anche molto parziali, sul terreno immediato alle parole d’ordine della solidarietà operaia, alla lotta contro la concorrenza fra proletari, all’internazionalismo proletario; anche così il partito combatte contro il pericolo di cadere nell’immediatismo, nel volontarismo organizzativistico, nell’attivismo e nel particolarismo, che sono la tomba della lotta di classe.

 

23)  D’altra parte, il partito combatte anche contro la tendenza che pretende di fare delle organizzazioni della lotta immediata organizzazioni che si assumono compiti politici e rivoluzionari, con le quali si pensa di poter scartare l’eventualità, in verità sempre attuale, che le organizzazioni a tipo sindacale sebbene nate sulla spinta proletaria classista si evolvano in organizzazioni riformiste e collaborazioniste. Anche questa è una vecchia battaglia della Sinistra, come si può leggere nelle Tesi di Lione della Sinistra (1926) che a questo riguardo affermano: “Una organizzazione immediata di tutti i lavoratori in quanto economicamente tali non può assurgere a compiti politici, ossia rivoluzionari, in quanto i singoli gruppi professionali e locali non risentiranno che impulsi limitati per la soddisfazione di esigenze parziali determinate dalle conseguenze dirette dello sfruttamento capitalista. Solo facendo intervenire alla testa della classe operaia un partito politico, definito dalla adesione politica dei suoi membri, si realizza la progressiva sintetizzazione di quegli impulsi particolari in una visione ed azione comune, nella quale individui e gruppi riescono a superare ogni particolarismo, accettando difficoltà e sacrifici per il trionfo generale e finale della causa della classe operaia” (1). Di quella tendenza abbiamo un esempio anche recente, ed è il “Sindacato dei Lavoratori in Lotta per il sindacato di classe” di Napoli. La sua piattaforma costitutiva esprime chiaramente di assumere il compito di organizzare “i lavoratori in quanto economicamente tali” non solo per difendersi più efficacemente sul terreno della lotta immediata ma anche per tendere ad obiettivi politici “rivoluzionari” indicati in questo caso come obiettivi per trasformare il paese in un “paese socialista” (alla maniera tradizionale dello stalinismo), obiettivo “finale” da raggiungere attraverso una serie di “tappe” fra le quali, naturalmente, non poteva mancare la tappa elettorale per la formazione di un “governo di blocco popolare”, versione attualizzata del vecchio e mefitico governo “operaio e contadino” di staliniana memoria. Questa è un’ulteriore dimostrazione che le tendenze revisioniste e antimarxiste si ripresentano sempre sulla scena vestite magari in modo diverso ma sostanzialmente mai “nuove”.

 

24)  E’ da molto tempo che i proletari, per la maggior parte, sono consapevoli del fatto che i sindacati tricolore non sono in grado di guidarli in lotte che riescano a strappare alla “controparte” padronale o istituzionale migliori condizioni salariali, difesa del posto di lavoro e migliori condizioni di lavoro; sono coscienti del fatto che le organizzazioni sindacali tradizionali hanno una forza contrattuale che le organizzazioni sindacali “alternative” non posseggono e che tale forza contrattuale deriva dal riconoscimento che è loro riservato dal padronato e dalle istituzioni pubbliche, prima fra tutte lo Stato. I proletari, abituati per decenni a delegare qualsiasi decisione che riguardi le loro condizioni di vita, di lavoro e di lotta ai “professionisti del sindacato”, tentano sempre di spingere questi professionisti a “fare il loro dovere”, a darsi da fare per difendere le condizioni operaie utilizzando la pressione della massa operaia e la minaccia dello sciopero come armi “principali” per convincere le “controparti” a discutere e negoziare le richieste operaie. Tale è l’abitudine al “confronto democratico”, alla “trattativa verbale”, ad usare la mobilitazione e lo sciopero come ultima chance, che i proletari, sebbene siano spinti a forzare i limiti alle trattative poste dal padronato e dalle istituzioni, ne sono comunque notevolmente condizionati. Essi, d'altra parte,  non possono pescare nella loro diretta esperienza forme di lotta conseguenti ed efficaci al posto di quelle in cui il sindacalismo tricolore ha per decenni continuato ad indirizzarli e che rispondevano all'esigenze borghese di non danneggiare, o danneggiare in misura molto ridotta, gli interessi aziendali, gli interessi padronali, gli interessi dell'economia nazionale....

Rompere questa tradizionale rinuncia alla lotta operaia di classe è la cosa più difficile per i proletari, perché questa rinuncia poggia su fatti materiali che si combinano tra di loro: - acquisizione per lungo tempo di “garanzie” date dall’applicazione degli ammortizzatori sociali, - attitudine ad usare la leva della difesa dei diritti acquisiti attraverso l’azione legale, la pratica negoziale e della trattativa con i vertici aziendali delegata ai “professionisti del sindacato”, - fiducia nel legalitarismo e cioè nel fatto che i diritti acquisiti e le garanzie normative e contrattuali definite negli accordi sottoscritti da entrambe le parti abbiano di per sé una forza oggettiva di fronte alla quale tutte le parti coinvolte debbano piegarsi. In questo senso, l’abitudine a sottomettersi democraticamente, di volta in volta, alle decisioni e alla “volontà del sindacato”, che per lungo tempo è stata scambiata per “volontà della maggioranza”, ha portato i proletari a trasformare la delusione per i risultati delle lotte non ottenuti in rinuncia della lotta stessa spingendoli nell’individualismo, nell’ognuno per sé, ossia esattamente dove i capitalisti vogliono perché terreno fertile per alimentare la concorrenza sempre più acuta tra proletari. La consapevolezza di questa loro debolezza di fondo non porta i proletari automaticamente a cercare una strada diversa e più efficace sul terreno della lotta, ma li spinge tendenzialmente sempre più nel ripiegamento su se stessi, nel cercare soluzioni personali – che appaiono meno faticose e rischiose – provocando in realtà la diffusione della demoralizzazione per la lotta operaia e la disgregazione della forza di pressione che la massa proletaria può avere se unita e compatta nella lotta per i suoi interessi immediati. In questo modo viene offerta al padronato, privato e pubblico, minore resistenza all’attacco portato alle sue condizioni di lavoro e di esistenza, facilitando così, oggettivamente, il loro peggioramento. Ed è questa debolezza di fondo che spinge i proletari a credere di poter ottenere qualche risultato andando ad ingrossare le fila di movimenti spuri, pacifici, di "popolo", a partecipazione diretta e personale al di fuori dei tradizionali sindacati o partiti, di movimenti di "scontenti", di "indignati", di "disobbedienti", non rendendosi conto che confondendosi in movimenti cosiddetti popolari essi non solo non acquiscono una forza che non hanno trovato nel movimento sindacale, ma si allontanano ancor di più dal terreno di classe che è l'unico sul quale i proletari hanno la possibilità reale di costruire e costituire una forza dirompente sul piano sociale.

E’ facile per il sindacalismo tricolore, allora, accusare i proletari di non avere la forza, o la volontà, di lottare, di scioperare, date le difficili condizioni di esistenza che attraversano, giustificando in questo modo anche il loro operato inconcludente.

 

25)  Contro questo profondo e generale arretramento del proletariato dal livello di lotta classista che lo caratterizzava negli anni Venti del secolo scorso e che ancora affiorava, nonostante la presa notevole su di esso dell’opportunismo stalinista, nelle lotte del primo quindicennio dopo la fine della seconda guerra mondiale, non vi sono ricette ed espedienti particolari da trovare, né sul piano delle forme organizzative né sul piano delle rivendicazioni. Se forme associative diverse da quelle storicamente già date finora vi saranno – come lo furono ad esempio i soviet rispetto alle cooperative e alle leghe contadine – lo saranno soltanto come prodotto dello sviluppo della lotta di classe di domani. Il partito di classe ha e avrà il compito di analizzare e valutare le forme associative del proletariato in lotta e anche di individuare preventivamente le forme associative più rispondenti alle esigenze della lotta di classe e alla loro resistenza nel tempo sul fronte della lotta classista, ma non ha avuto, non ha e non avrà mai il compito di costituire determinate associazioni proletarie di difesa economica e di lotta immediata come emanazione del partito stesso pretendendo di vivificarle sollecitando i proletari ad iscriversi ad esse. Ciò non significa che i militanti di partito non debbano contribuire anche alla nascita, se sono nelle condizioni oggettive di parteciparvi con altri proletari, di forme associative economiche di difesa immediate più rispondenti alle esigenze della lotta proletaria; i militanti comunisti, dato l’abisso opportunista in cui è precipitato il proletariato, sono certamente i proletari più decisi, coerenti, tenaci e affidabili su cui i proletari più combattivi possono contare, ma la riorganizzazione classista proletaria sul terreno della difesa immediata deve scaturire dalla lotta in cui la massa proletaria sperimenta direttamente la sua forza, la sua capacità di reazione e di resistenza contro le forze avverse, la sua maturazione “politica” oltre che organizzativa. E per maturazione politica intendiamo qui non la politica di partito che presuppone l’adesione al programma rivoluzionario marxista, ma la politica immediata di classe che può essere condensata nella formula: tutto ciò che risponde alla difesa esclusiva degli interessi proletari immediati – organizzazione, mezzi, metodi, obiettivi di lotta – è politica immediata di classe (ad es., assemblee ed organismi di soli proletari, da cui sono esclusi capi, capetti o rappresentanti della direzione aziendale, da cui sono esclusi preti, piccoli imprenditori, commercianti, rappresentanti delle istituzioni civili e militari; obiettivi immediati e rivendicazioni parziali che tendono ad unificare i proletari in un’unica lotta e che contrastano le divisioni dei proletari in compartimenti stagni – per categoria, fra occupati e disoccupati, fra autoctoni e immigrati ecc.), ossia l’insieme di interessi immediati che coinvolgono i proletari in quanto proletari, non importa a quale categoria, settore economico, razza, nazione, sesso, età appartengano: l’importante che siano lavoratori salariati – occupati, precari o disoccupati, autoctoni o immigrati – organizzati insieme, senza barriere tra una condizione specifica e l’altra. La politica immediata di classe combatte, infatti, la separazione, e quindi la concorrenza, tra proletari.

Il partito comunista rivoluzionario non può che essere fautore e sostenitore della prospettiva in cui i proletari spingano le proprie forze e la propria lotta in questa direzione, senza sostituirsi ad essi. Potrà ripresentarsi, un domani, in periodo rivoluzionario, come successe già nel periodo 1920-21 presente e agente l’Internazionale Comunista, una situazione in cui i sindacati “di classe” evolvano in sindacati “rivoluzionari”, ossia in organismi della lotta immediata del proletariato influenzati e diretti da proletari rivoluzionari aderenti al partito comunista rivoluzionario; ma ciò è difficile che  avvenga se non in un periodo storico di grande tensione rivoluzionaria e nel quale il proletariato abbia già conquistato il potere in qualche paese, poiché sarebbe proprio questa conquista rivoluzionaria a funzionare come potente catalizzatore delle masse proletarie a livello internazionale già presenti ampiamente sul terreno della lotta di classe e rivoluzionaria.

 

26)  L’esperienza fatta dal nostro partito nella sua storia in campo sindacale è stata anche esperienza di errori. L’errore più grosso è stato di aver preteso di applicare, formalmente e direttamente, alla situazione degli anni che precedevano la prevista crisi capitalistica mondiale del 1975, le indicazioni del Partito comunista d’Italia del 1921-22 in merito al “fronte unico sindacale”, alla pressione sul sindacato CGL – all’epoca effettivamente sindacato “di classe” diretto da vertici opportunisti –, alla lotta interna alla CGL contro i suoi vertici e alla generale situazione di forte tensione sociale e di lotte operaie indirizzabili verso gli obiettivi rivoluzionari chiaramente annunciati all’epoca dal partito. Non torneremo qui sulle valutazioni e sull’analisi di quel periodo già trattate in occasioni precedenti (2).

Importa qui, ora, mettere in rilievo sinteticamente gli errori in cui il partito è caduto tra il 1968 e il 1972 sulla cosiddetta “questione sindacale”, perché la radice di quegli errori ha generato altri errori successivamente (fino alla crisi esplosiva del partito nel 1982-84) ed è causa di errori che i gruppi/partiti usciti dal partito in quegli anni (a partire dai fiorentini de “il partito comunista” per finire al nuovo “programma comunista”) continuano a fare.

In sintesi, gli errori erano: 1) valutazione estremamente ottimistica delle lotte proletarie del 1968-69 e successive, scambiate per una reale e duratura ripresa della lotta di classe; 2) illusione nella forza di influenzamento del partito che, sebbene ridotto ad un gruppo modestissimo di militanti agenti nella CGIL italiana o nella CGT francese e nelle lotte operaie, credeva di poter indirizzare gli operai verso obiettivi e rivendicazioni di classe in forza soprattutto di quegli stessi obiettivi parziali, invertendo in questo modo l’ordine dei fattori di maturazione classista dei proletari.

Secondo l’impostazione errata della “politica sindacale” del partito, il tragitto che i proletari avrebbero dovuto fare per riconquistare il terreno della lotta di classe era graduato in questo modo:

 

► presa di coscienza degli obiettivi di classe da contrapporre agli obiettivi opportunisti 

definizione di una piattaforma di lotta

► decisione assembleare di lottare con mezzi e metodi di classe,

per poi passare alla fase organizzativa:

► direzione della lotta attraverso le strutture sindacali esistenti o, se impossibilitati,  attraverso nuovi organismi di lotta costituiti ad hoc ma sempre interni al sindacato ufficiale

► allargamento della lotta ad altre categorie e settori proletari

► trattative con le direzioni aziendali o con le istituzioni pubbliche senza sospendere la lotta e attraverso delegati eletti dalle assemblee operaie.

 

L’errore stava nel pretendere che i proletari  scendessero in lotta solo dopo aver consapevolmente abbracciato gli obiettivi di classe che il partito indicava loro, e nel credere che una volta acquisiti questi obiettivi di classe i proletari avrebbero più facilmente seguito le indicazioni pratiche e organizzative del partito. In realtà, i proletari si muovono e si muoveranno sul terreno della lotta spinti non da convincimenti ideologici, ma dai bisogni materiali elementari, fisici, immediati, riconoscendo se stessi come forza d’urto nella misura in cui si uniscono nella lotta e agiscono per ottenere  obiettivi immediati comuni.

A questo errore se ne aggiungeva anche un altro: 3) il partito, dopo aver preteso che i proletari si mettessero in lotta sul terreno di classe solo grazie alla “coscienza di classe” somministrata attraverso piattaforme di lotta contenenti obiettivi, mezzi e metodi classisti, riduceva in realtà il suo intervento nella classe ad una attività di tipo sindacale. Questi errori erano, per di più, incastonati in una valutazione storicamente e teoricamente sbagliata secondo la quale la CGIL, come la CGT francese, veniva considerata un sindacato “rosso” ma dai vertici opportunisti, sindacato che doveva essere “difeso” contro quei vertici che volevano trasfigurarlo completamente attraverso l’unificazione con CISL e UIL, trasformandolo in un sindacato “fascista”, in un sindacato “di regime”. Da qui la rivendicazione della “difesa della CGIL rossa” e della campagna politica del partito contro l’unificazione sindacale. Il grande obiettivo del fronte unico dal basso, o sindacale, che si pretendeva riesumare dagli anni Venti in una situazione storica completamente modificata rispetto a quella di quegli anni, veniva così richiamato soltanto propagandisticamente ma, in realtà, disatteso e messo da parte in quanto i sindacati pretesi “rossi”, ma in realtà tricolori e collaborazionisti non potevano e non avrebbero mai potuto fare da base alla ripresa della lotta proletaria di classe, e perciò, nemmeno all’allargamento del fronte di lotta proletario a tutti i proletari, anche a quelli degli altri sindacati. Dato che l’obiettivo dell’unificazione sindacale tricolore che Cgil, Cisl e Uil si erano date, era a breve scadenza, nel partito si generò una vera e propria febbre attivista in campo sindacale (estesasi poi nel campo dell’attività sociale), che trovava, in parte, una sua giustificazione negli stessi fermenti che agitavano gruppi consistenti di operai spinti a lottare e a scioperare dalla situazione economica e sociale che stava deteriorandosi iniziando ad erodere il castello di “garanzie” e di ammortizzatori sociali costruito dopo la fine della seconda guerra mondiale (castello di ammortizzatori sociali che faceva da base materiale al sindacalismo tricolore e collaborazionista della Cgil e che aveva facilitato la presa dell’opportunismo stalinista e post-stalinista sulle masse proletarie).

Gli spiragli che si stavano oggettivamente aprendo nella cappa soffocante dell’opportunismo tricolore sul terreno sindacale, come su quello politico più generale, venivano giustamente sfruttati dal partito per stringere con gli strati proletari più combattivi un rapporto più diretto, ma la sua impostazione sbagliata si rivoltò contro lo stesso partito il quale, pur di ottenere qualche risultato in tempi brevi (bisognava convincere i proletari della Cgil ad impedire che i loro vertici giungessero alla fatidica unificazione con Cisl e Uil, sennò tutto sarebbe stato perduto!), si tuffò in una fretentica attività di intervento pratico e sindacalista che aveva l’obiettivo non solo di influenzare i proletari, e i gruppi di proletari politicizzati che si creavano continuamente, ma anche di fare proseliti ingrossando le file del partito con elementi provenienti per l’appunto dalla lotta sindacale attraverso la quale questi elementi si aspettavano di ottenere risultati concreti immediati grazie all’intervento del partito.

L’immediatismo che il partito combatteva da anni e contro il quale aveva eretto solide barriere politiche e organizzative, entrava così per la porta dell’intervento pratico che rischiava di diventare la porta principale di adesione al partito. La reazione nel partito a questa impostazione sbagliata si fece sentire con ritardo e la si deve alla ripresa dei testi fondamentali del partito (1946-1952) con la quale si voleva testimoniare la continuità teorica, programmatica, politica, tattica e organizzativa del partito in occasione della morte di Amadeo Bordiga (luglio 1970). Si potrebbe dire che Amadeo diede un valido ed essenziale contributo al partito non solo da vivo, ma anche da morto.

 

27)  La rimessa della “questione sindacale” sulle basi teoriche, politiche e storiche giuste, testimoniata dalle Tesi del 1972, riportò in evidenza la necessità di riqualificare tutta la tattica del partito e l’attività di intervento ad essa legata; furono perciò interessati i diversi campi, dalla questione nazionale e coloniale alle questioni sociali (femminile, casa, repressione, sanità, droga ecc.) fino alla questione centrale del partito (la sua organizzazione interna, la sua strutturazione, i criteri di adesione o di “espulsione”, la questione legale e illegale ecc.). La scissione del 1973 dai “fiorentini”, che si rioganizzarono intorno al giornale "il partito comunista", portò sufficiente chiarezza nel partito che riprese la sua attività correttamente documentata nelle circolari del 1974 e del 1976 (3) che a loro volta fecero da base ai problemi dello sviluppo dell’attività di partito a livello internazionale ed extra-europeo. Il periodo che si stava attraversando era il periodo della prima grande crisi capitalistica mondiale (1975) e delle sue conseguenze che rimisero il partito a dura prova tanto più che si dovette affrontare la particolare complicatezza sociale e politica data dall’apparire del terrorismo lottarmatista e dal suo sviluppo per un decennio abbondante. Ma di questo, si tratterà in altra sede. Qui ci interessa, ora, riconoscere il filo continuo delle posizioni di partito corrette rispetto alla questione dell’intervento pratico sul terreno immediato che abitualmente viene condensato nella “questione sindacale” ma che in realtà ha un’ampiezza ben più larga comprendendo tutte le questioni sociali che fanno da contorno – e spesso soffocandola – alla centrale “questione operaia” alla quale il partito dedica particolare attenzione, ma non esclusiva. Non si può prescindere, d’altra parte, dal fatto che oggi la nostra organizzazione è ridotta a pochissimi elementi e che la sua attività di intervento nelle fle proletarie è anch’essa molto ridotta. Ma, come si ricordava riprendendo le tesi di partito, il partito non rinuncia volontariamente alla sua attività pratica di intervento nelle lotte del proletariato, per quanto parziali e locali esse siano, assumendo il compito innanzitutto di critica delle posizioni collaborazioniste e opportuniste e continuando ad importare nella classe i risultati dei bilanci delle lotte del passato affinché i proletari più combattivi ed avanzati abbiano la possibilità di ricollegarsi ad una tradizione di classe che fa parte storicamente della lotta del proletariato internazionale e che le forze di conservazione sociale hanno tutto l’interesse a seppellire.

Oggi ancora il partito si deve limitare alle indicazioni di carattere generale (ricordate anche di recente nella nostra stampa) senza per questo impedirsi di agire, cosa che ha fatto e continuerà a fare, anche sul terreno della costituzione e del rafforzamento di organismi di difesa immediata a carattere classista originati dall’iniziativa di proletari combattivi che non trovano spiragli all’interno degli apparati sindacali tricolore. I compagni, d’altra parte, non devono attendersi da queste esperienze quel che esse non possono dare; esse rappresentano dei tentativi di organizzazione classista che possono attraversare fasi di entusiasmo e di iniziative positive come fasi di stanca, di routine, di depressione. In quanto organismi immediati, pur nel tentativo di essere indipendenti dal collaborazionismo interclassista, essi sono comunque sottoposti alla pressione dell’opportunismo sotto la cui influenza possono sempre cadere. Ciò, se dimostra che non vi sono stratagemmi particolari per impedire che gli organismi proletari di difesa economica indipendenti cadano nell’opportunismo, ma che solo la lotta contro le tendenze opportuniste ne può salvare la linea tendenzialmente classista su cui sono nati, non deve impedire nemmeno ai compagni e ai proletari avanzati coi quali si lavora per rafforzare questo tipo di esperienze, di svolgere l’attività di difesa immediata di questi organismi come se essi dovessero durare e svilupparsi sempre più, sebbene non possano essere considerati come i nuclei originanti il “sindacato di classe” di domani per la nascita del quale è necessario un ritorno potente delle lotte operaie in rottura netta con le politiche e le pratiche del collaborazionismo interclassista.

 

28) Un altro aspetto che interessa la prospettiva di ripresa della lotta operaia sul terreno di classe è dato dall’irruzione sulla scena europea (in particolare, oggi, per l’Italia, la Grecia, la Spagna e la Francia) delle masse di immigrati che provengono dall’Africa – soprattutto dal Nord ma anche dall’Africa sub-sahariana e dal Corno d’Africa – sfuggendo sia alla miseria e alla fame, sia alla guerra e alle persecuzioni di regimi polizieschi e criminali. Abbiamo già trattato ampiamente questo argomento nella nostra stampa, in particolare per le rivolte delle masse proletarie e proletarizzate dei paesi arabi, e ci dovremo certamente tornare, insistendo anche sulla critica delle posizioni sostenute dai gruppi/partiti che si rifanno alla Sinistra comunista (vedi in specifico la critica al nuovo “programma comunista” nei due articoli pubblicati nel numero scorso de “il comunista”). Il partito considera le lotte dei proletari immigrati, e dei proletari “rifugiati”, come possibili innesti di un contagio che all’inizio non può essere che confuso e “disordinato”, ma in seguito potrebbe svilupparsi in qualcosa di meno disgregato se si agganciasse alle lotte degli operai autoctoni portando con sé non solo la carica di forza e violenza che le condizioni oggettive di esistenza dei proletari immigrati esprimono oggettivamente, ma anche la necessità di unire le forze proletarie al di sopra delle differenze nazionali e della concorrenza tra proletari. (1. continua)

 

 

Partito comunista internazionale

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