La classe dominante borghese di ogni paese impone pesanti sacrifici ai  proletari

Ma i proletari hanno una sola risposta da dare: la lotta di classe anticapitalistica!

(«il comunista»; N° 123-124; novembre 2011 - febbraio 2012)

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Durante i mesi di  novembre e dicembre 2011 si sono tenuti, uno dopo l’altro, diversi summit per “salvare l’Europa”; ed altri se ne sono tenuti  a gennaio e febbraio  in vista del Consiglio europeo di marzo quando i governanti europei discuteranno di euro-bond e di un eventuale aumento del fondo “salva stati”. Quanti se ne sono tenuti prima, tutti “decisivi”? Se ne è perso il conto... E quanti se ne terranno ancora nei prossimi mesi? Non pochi, certamente.

Ogni vertice è preceduto da una attenta preparazione psicologica basata sulla drammatizzazione ultimatista della situazione: non ci resta che “qualche giorno”, “ora o mai più”, il salvataggio dell’euro, della “costruzione europea” e, perché no?, dell’economia mondiale!, dipende – di volta in volta – dall’ultimo vertice europeo, considerato sempre “cruciale”. Durante il vertice del week-end 8-9 dicembre scorsi la Gran Bretagna ha preferito ritirarsi dai negoziati in nome della difesa degli interessi del centro finanziario rappresentato dalla city di Londra (il premier Cameron si è rifiutato di firmare un’intesa con la UE perché mancavano “garanzie” sull’indipendenza delle banche e dell’industria finanziaria londinese), ma ciò non ha fermato le dichiarazioni di riuscita del summit tanto da far dire a Sarkozy che l’impegno di un ritorno rapido al pareggio di bilancio degli Stati avrebbe creato le condizioni dell’uscita dalla crisi attuale e addirittura la nascita di una “nuova Europa”!

A pochissimi giorni dalla fine di quel vertice, secondo l’espressione di Le Monde, “i mercati disconoscono l’accordo di Bruxelles” (1): le borse sono andate nuovamente sotto, i tassi d’interesse offerti dagli Stati che chiedono prestiti sono cresciuti, l’euro ha ceduto rispetto al dollaro ecc.

I mercati, cioè le grandi banche, le grandi istituzioni e i fondi finanziari, compresi gli Stati, i grandi investitori che dopo la crisi dei subprime americani avevano creduto di non correre rischi offrendo denaro in prestito agli Stati europei, non sono stati per niente “rassicurati”  dagli accordi di quel summit europeo e dei successivi. I responsabili economici americani (e anche quelli dei paesi che esportano in Europa come la Cina e il Brasile) esercitano da tempo forti pressioni sugli europei perché garantiscano il rimborso dei loro prestiti e perché prendano misure di risanamento del debito e di rilancio economico in modo da evitare il più possibile la ricaduta dell’economia mondiale nella recessione (l’Unione Europea presa nel suo insieme costituisce il più grosso mercato mondiale).

Le critiche dei piani di restrizione budgetaria risuonano negli stessi paesi europei colpiti più seriamente dall’austerità o che più la temono: economisti e politici, soprattutto di sinistra, e sindacalisti, chiedono “un’altra politica” che permetterebbe, secondo loro, di ritrovare la crescita economica, e di rimandare nel tempo la diminuzione dei deficit di bilancio. Una variante di questa posizione è chiedere che la Banca Centrale Europea (BCE) prenda grandi misure per ostacolare la “speculazione” e per rilanciare la macchina produttiva, come fanno le consorelle americana, giapponese e britannica: prestare in maniera illimitata agli Stati europei, che hanno sempre più problemi a rastrellare denaro sui mercati finanziari, “quantitative easing” (elasticità monetaria), eurobonds ecc., in una parola essere in grado di stampare euro a volontà per abbassare i tassi d’interesse e fare da palliativo alle difficoltà di finanziamento dei differenti “attori economici” (banche, imprese). Ma il governo tedesco, seguito da qualche altro, è categoricamente contrario a che la BCE s’impegni in questa direzione, che invece è sollecitata dalla Francia e ora dal governo italiano Monti (e dai partiti di sinistra), anche se, da un altro punto di vista, essi sono obbligati a ricollegarsi alla posizione tedesca secondo la quale i diversi Stati europei devono fare lo sforzo per ristabilire le loro finanze, a qualsiasi costo. E su questo piano, i più recenti vertici tra Merkel, Sarkozy e Monti hanno già prodotto il risultato voluto dalla Germania: inserire il pareggio di bilancio statale nelle reciproche costituzioni, a “garanzia” degli impegni verbali presi sul risanamento del deficit.

 

Il capitalismo farà pagare la sua crisi, come sempre, ai proletari!

 

La posizione tedesca è spesso spiegata con delle ragioni psicologiche o soggettive: l’influenza di teorici dell’economia “ortodossi” o, più spesso ancora, il ricordo dell’iper-inflazione della Germania negli anni Venti del secolo scorso. Ma la verità è del tutto diversa. La Germania è attualmente in posizione migliore rispetto a tutti gli altri Stati europei: continua ad ammassare eccedenze commerciali, il suo deficit di bilancio non è elevato e il suo debito totale è meno importante degli altri; la Germania è, oltretutto, il più grosso azionista della BCE ed è quindi essa che corre più rischi nel caso in cui la BCE si lanciasse in operazioni pericolose per sostenere questo o quello Stato. I rapporti fra gli Stati borghesi non sono certo dettati dai buoni sentimenti, dall’altruismo o dalla generosità; anche nel seno di una “unione” come la zona euro o l’Unione Europea, sono sempre i rapporti di forza che dettano legge. La Germania, potenza economica dominante in Europa, intende far ricadere le spese della crisi e della rimessa in ordine della zona sulle economie europee più deboli: non va cercata altrove la spiegazione del suo rifiuto di far giocare alla BCE un ruolo simile a quello delle altre grandi banche centrali. Dopo la prima guerra imperialistica mondiale, la massima degli imperialisti francesi  era: la Germania pagherà! Ora, i giornali popolari tedeschi titolano: la Germania non pagherà proprio!, né per i Greci, né per i Portoghesi né per gli Italiani; ma la conclusione che si deve tirare dai fatti economici può ben essere: la Germania farà pagare! I politici che denunciano “l’egoismo tedesco” dimenticano semplicemente che non hanno trovato nulla da ridire, ad esempio, dell’egoismo francese: il governo francese non ha esitato, in accordo col governo tedesco, a imporre le prescrizioni ai governi greco, irlandese, portoghese o italiano...

La situazione tedesca non è comunque così brillante; anche se è più competitiva, perché ha già accresciuto da molto tempo lo sfruttamento dei suoi lavoratori, la salute dell’economia tedesca è strettamente dipendente da quella dei suoi partners commerciali, e il 40% delle sue esportazioni è destinato alla zona euro. I suoi 10 principali clienti sono, nell’ordine, Francia, Stati Uniti, Paesi Bassi, Gran Bretagna, Italia, Austria, Cina, Belgio e Svizzera. Le sue 10 eccedenze commerciali più importanti sono registrate con Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, Austria, Italia, Belgio, Spagna, Polonia e Svizzera (2). La Germania è dunque fortemente dipendente dai mercati europei e dalla zona dell’euro in particolare (3).

Il suo settore bancario risente ancora pesantemente della crisi dei subprime: la Commerzbank, seconda banca tedesca, è ad un passo dal fallimento e, per evitarlo, sarà probabilmente nazionalizzata, mentre anche le banche regionali non se la passano per niente bene. Infine, e non è un dato secondario, la Germania ha essa stessa bisogno di forti prestiti per l’anno in corso: 255 miliardi di euro, il che equivale al 9,8% del suo PIL.

Facendo un paragone a livello internazionale, ecco quali sono i bisogni di prestiti nel 2012 dei grandi Stati: Italia, 391 miliardi di euro (il 24,4% del PIL), e il giro vorticoso di Monti nelle capitali europee e a Washington, non solo da Obama, ma soprattutto a Wall Street, serviva per convincere gli investitori americani della sostanziale buona salute dei fondamentali economici italiani difesi dalle grandi misure di austerità finora varate dal suo governo e da quelle previste nei prossimi mesi; Francia, 295 miliardi (il 14,1% del PIL); Spagna, 175 miliardi (15,8%). Fuori della zona euro: Gran Bretagna, 257 miliardi di sterline (il 16,5% del PIL); Stati Uniti, 3.151 miliardi di dollari (19,8% del PIL); Giappone, 226.000 miliardi di yen (47,4% del PIL). (4)

La Germania ha dunque da chiedere ai mercati una somma di prestiti inferiore in rapporto al suo PIL, ed essa potrà pagare un tasso di interesse più basso di altri Stati perché gode di una più grande fiducia presso i mercati grazie alle sue superiori performances economiche. Tuttavia se, come tutti gli indicatori oggi segnalano, l’economia europea e mondiale entrano in recessione, il peso dei prestiti e il carico del debito si faranno sentire molto pesantemente in tutti gli Stati, compresa l’opulenta Germania: è per questo che le “agenzie di rating” hanno avvertito che degraderanno in questo caso il livello di tutti gli Stati europei che hanno ancora la famosa “tripla A” (la tripla A sta ad indicare l’assenza assoluta di problemi nel rimborsare i prestiti). Sarà perciò molto più difficile per loro ricorrere a misure che hanno permesso di sormontare la recessione che è seguita alla crisi finanziaria dei subprime (aumento dei deficit statali, ricorso ai prestiti ecc.), tanto più che gli Stati europei si sono impeganti a non ricorrervi più e a raggiungere al più presto il pareggio di bilancio. Un istituto di previsione economica si è deliziato nel calcolare quali sarebbero le conseguenze degli impegni di austerità presi al summit dell’8-9 dicembre (5): vi sarebbe una “recessione violenta” in Italia e in Gran Bretagna (calo del PIL del 3,7% in questi due paesi), una “recessione forte” in Spagna (-3,2%) e in Francia (-3%), e una più contenuta in Germania (-1,4%).

Il grado di credibilità di questo genere di stime è certamente limitato. Se la minaccia di crisi economica divenisse davvero importante per la Germania, questa cambierebbe di sicuro atteggiamento: la BCE, che è allineata in modo del tutto “indipendente” sulla politica tedesca, ha già mostrato, per quel che concerne le banche, di non storcere il naso nel fare ciò che essa finora rifiutava: concedere prestiti illimitatamente per far fronte al blocco di questo settore dell’economia. Tuttavia l’interesse di questo studio è di mostrare che la Germania è nelle condizioni di imporre la pozione amara dell’austerità ai suoi partner senza esserne troppo toccata; in breve, di far pagare a loro la crisi. Ma, in defintiva, chi pagherà? Dove gli Stati – compresa la Germania – troveranno le risorse necessarie al riordinamento delle loro finanze, su chi i capitalisti faranno pesare la loro cura di austerità? E’ evidente che sarà la classe salariata che verrà colpita per prima. Un alto responsabile europeo non aveva forse detto, a proposito della Grecia: bisogna abbassare i salari? La stessa medicina sarà somministrata a tutti i lavoratori europei e ai lavoratori di tutto il mondo: il capitalismo fa pagare sempre le proprie crisi ai proletari!

 

I capitalisti europei raddoppiano le misure antioperaie

 

La crisi economica svela in modo lampante i rapporti di forza fra gli Stati in funzione della loro potenza economica; essa aggrava le tensioni ammortizzate in qualche misura nel periodo di crescita, rendendo in questo modo visibili le contraddizioni dell’Unione Europea e, in particolare, della zona euro, tanto da rimettere in discussione la permanenza dell’euro come moneta unica per gli Stati che vi hanno aderito dieci anni fa, e sono gli stessi alti dirigenti europei oggi a non esitare nel moltiplicare le dichiarazioni su questa questione che un tempo era un vero e proprio tabù.

Per il momento si tratta, tattavia, di pressioni sugli Stati recalcitranti (recalcitranti perché temono un indebolimento della loro stabilità sociale e politica). Un’esplosione della zona euro sarebbe catastrofica non solo per gli Stati che ne fanno parte, ma per la stessa economia mondiale nel suo insieme nella quale l’euro si è conquistato, in un decennio di vita, uno spazio certo non marginale. I dirigenti tedeschi o polacchi non hanno torto nel dire che questa eventualità potrebbe sboccare in scontri militari in Europa, anche se brandiscono questa minaccia per impressionare le rispettive opinioni pubbliche: la guerra è l’alternativa verso la quale si dirige inevitabilmente il capitalismo quando ha esaurito ogni altro mezzo per superare le sue crisi, e se il proletariato non riesce ad abbatterlo attraverso la propria rivoluzione di classe prima che l’umanità piombi in un terzo macello mondiale.

Non siamo a quel punto: all’ordine del giorno in ogni paese,  i capitalisti hanno l’attacco economico e sociale contro il proprio proletariato nel tentativo di ritornare ad un conveniente tasso medio di profitto, sebbene le ricchezze e le forze produttive siano in soprannumero, e non l’attacco militare per distruggere gli Stati concorrenti.

Di fronte alla crisi economica, il capitalismo non ha altre soluzioni che aumentare il tasso di sfruttamento del proletariato – perché è da questo sfruttamento che ricava il pluslavoro, dunque il plusvalore e quindi il profitto –,  “ristrutturare” l’economia (liquidando le imprese meno redditizie),  diminuire i salari – iniziando dai salari “indiretti” (prestazioni sociali, pensioni d’anzianità ecc.) per passare subito dopo ai salari diretti come sta già avvenendo in Grecia, in Portogallo, in Spagna, in Italia e in tanti altri paesi – aumentare il prelievo fiscale, e tutto questo al solo scopo di salvare i profitti e rilanciare un nuovo ciclo d’accumulazione capitalistica. Non ci si deve fare alcuna illusione: i piani governativi ispirati al rigore e al pareggio di bilancio, e le diverse misure sull’IVA, le pensioni ecc., non sono che l’assaggio di ciò che i proletari si devono attendere da qui in avanti. E’ la stessa cancelliera tedesca Angela Merkel a dichiarare apertamente che la crisi che attraversa l’Europa “durerà degli anni”. In tutti i paesi europei, i borghesi si appellano agli sforzi da fare per difendere l’euro, l’economia nazionale pretendendo che questi siano interessi di tutti. La propaganda nazionalista, direttamente antiproletaria, ritorna con forza; sotto la formula della salvaguardia della “produzione nazionale”, si danno il cambio anche i partiti di sinistra e i sindacati compresi coloro che preconizzano altre soluzioni riformiste alla crisi. In effetti, è essenziale per il capitalismo impedire che i proletari, attraverso le loro lotte, ostacolino gli attacchi che i borghesi portano alle loro condizioni di esistenza e di lavoro. Lo sporco lavoro fatto in tanti decenni dai partiti di sinistra e cosiddetti “comunisti”, e dai sindacati collaborazionisti, nelle file del proletariato, ha avuto, ad esempio in Italia, un ulteriore risultato: il sostegno sostanziale, anche se mascherato da critiche formali, al governo Monti e alla sua politica sociale, tanto che Monti ha potuto vantarsi nella sua visita a Wall Street di aver fatto passare l’attacco brutale alle pensioni (rialzo dell’età pensionabile, riduzione dell’esborso statale passando dal metodo di calcolo sulle retribuzioni a quello sui contributi effettivamente versati, allungamento del periodo d’attesa per percepire effettivamente la pensione ecc.) “con solo tre ore di sciopero”! (6)

In Francia, la borghesia tenterà nei prossimi mesi la carta elettorale, con l’idea di scalzare il cattivo Sarkozy, ritenuto “responsabile di tutto”, per mettere al suo posto qualcuno che miracolosamente  faccia uscire il paese dalla crisi; cosa che in Spagna è stata già giocata col solito teatrino di incolpare degli effetti drammatici della crisi capitalistica chi governava nel periodo precedente riportando al governo la destra in un cambio della guardia visto mille volte e che è destinato semplicemente a far prendere ad un personale politico di ricambio le misure antioperaie che avrebbe dovuto prendere qualsiasi governante borghese, non importa di quale colore sia la maglia indossata. Cosa che in Italia si è risolta con un bizantinismo caratteristico della politica borghese italiana, cambiando in corsa il personale governativo senza mandare il paese ad elezioni anticipate: con il governo cosiddetto “tecnico” di Monti, al quale destra e sinistra hanno dato interessatamente la piena fiducia (tentando di salvare in questo modo una propria onorabile sopravvivenza parlamentare a fronte di un'impasse governativa conclamata), la borghesia italiana ha potuto dribblare gli ostacoli che i partiti della coalizione del governo Berlusconi non riuscivano a superare (mentre i partiti della cosiddetta opposizione parlamentare non erano per nulla interessati ad assumersi la gestione di una crisi particolarmente grave per la quale si sarebbero dovute prendere immediatamente misure d’austerità significative mettendo in pericolo la propria presa elettorale), avviando in poche settimane quelle misure che a gran voce Germania e Francia chiedevano affinché il debito pubblico dell’Italia fosse avviato al pareggio di bilancio in un paio d’anni, e prendendo le misure ritenute indispensabili (leggi: drastiche misure antiproletarie sul piano fiscale, pensionistico, delle prestazioni di servizi sociali ecc.) per frenare gli attacchi speculativi della finanza d’assalto internazionale sul cosiddetto debito sovrano dell’Italia e per difendere con più forza l’euro anch’esso sotto attacco da parte delle monete internazionali più forti, a partire dal dollaro. E’ evidente, d’altra parte, che il peso dell’economia produttiva dell’Italia (la seconda dopo la Germania) sulla tenuta dell’Unione Europea e dell’euro non poteva essere trascurato dagli alleati europei, e che, perciò, non poteva mancare la pressione franco-tedesca sul governo italiano affinché cambiasse atteggiamento e si decidesse a prendere le misure ritenute necessarie per “salvare” non solo l’Italia, ma, soprattutto, l’euro. Come è evidente che,  per l’Italia, l’Unione Europea, la BCE e la Germania si attendevano una soluzione governativa molto più decisa e decisiva di quanto non era già stato fatto in Grecia, dove le elezioni del novembre scorso hanno portato, sì, al cambio di governo tra il socialista  Papandreou e il “senza-partito” Papademos (che è stato, guarda il caso, vicepresidente della BCE) con una coalizione che unisce però  rappresentanti del Pasok, che resta il primo partito in parlamento, e dell’estrema destra accolti nel partito Nea Demokratia e, soprattutto, nel partito Laos, ma che, pur prendendo misure antiproletarie ancor più drastiche di quanto non avesse già fatto il governo Papandreou, resta invischiato in una situazione economica sempre sull’orlo del default.

In Francia, in aprile, si terranno le elezioni presidenziali. Senza dubbio i proletari non hanno dimenticato che solo qualche anno fa, quando era al potere, la sinistra parlamentare ha seguito una politica totalmente rispettosa degli interessi borghesi. Ma la caratteristica di ogni circo elettorale è quella di far emergere ogni volta un personaggio differente nel quale gli elettori vengono chiamati a riporre la loro fiducia. E visto che i proletari non lottano, visto che non hanno fiducia nelle proprie forze, sembra proprio che non resti altro da fare per loro che sperare in un salvatore qualsiasi... Ma la propaganda elettorale borghese e riformista non sarebbe sufficiente se non fosse spalleggiata dall’azione demoralizzante dei partiti cosiddetti “dei lavoratori” e degli apparati sindacali del collaborazionismo e dei loro satelliti. Le grandi e meno grandi confederazioni sindacali sono riuscite senza troppa fatica l’anno scorso a impedire che il movimento di opposizione all’attacco contro le pensioni si trasformasse in lotta reale; moltiplicando per dei mesi le inutili giornate d’azione e le inoffensive manifestazioni-processioni, l’intersindacale ha permesso l'approvazione della riforma delle pensioni senza che nemmeno una minoranza anche ridotta di proletari denunciasse quelle azioni e si opponesse agli attacchi antiproletari sul terreno della lotta classista. Il risultato di questa vittoria borghese è stato di rafforzare lo scoraggiamento, la rassegnazione, l’idea che la lotta non serva a nulla. Cavalcando questa demoralizzazione, di cui essi stessi sono stati gli autori, i sindacati collaborazionisti hanno potuto questa volta risparmiarsi la preoccupazione di organizzare una mascherata di lotta, e accontentarsi di insipidi e nauseanti appelli a “interpellare gli eletti e il governo”!!!

I proletari in Francia come in Italia, in Spagna come in Portogallo, in Irlanda come in Germania o in Grecia, al di là delle situazioni economiche e sociali specifiche, vengono tutti sollecitati dalle forze del riformismo e del collaborazionismo interclassista, e naturalmente dalle forze della conservazione borghese, a credere che l’economia capitalistica sia un bene comune a tutte le classi e che deve quindi essere difesa, in ogni paese, perché il salvataggio dell’economia e gli sforzi per la  ripresa della sua “crescita” riguardano tutti, indistintamente. Ciò non toglie che, nel frattempo, i padroni pongano la questione ai proletari in termini molto più prosaici: o accettano i sacrifici, o perdono il lavoro, e quindi il salario! La risposta proletaria non può che essere: lotta di classe, in difesa intransigente degli interessi immediati proletari!

 

La prospettiva per i proletari è soltanto nella ripresa della lotta di classe

 

E’ innegabile che i proletari risaliranno con difficoltà dal baratro della rassegnazione, della demoralizzazione, della disorganizzazione in cui il collaborazionismo politico e sindacale li ha fatti precipitare, ma saranno le condizioni materiali stesse in cui la crisi capitalistica inevitabilmente li sprofonda a far loro percepire che i sacrifici ai quali sono costantemente chiamati non li faranno risalire dai peggioramenti che stanno vivendo, ma serviranno esclusivamente a salvare i profitti capitalistici, i privilegi sociali delle classi possidenti, gli interessi dei borghesi che vengono difesi con ogni mezzo, pacifico o violento, legale o illegale, politico o militare. In prospettiva, i proletari non hanno che un’alternativa: o continuano a sacrificare la propria vita e la vita delle proprie famiglie immolando il loro sangue, le loro lacrime, la loro forza lavoro sull’altare dei profitti capitalistici, o imboccano la via della lotta di classe, riconoscendo finalmente ciò di cui la classe borghese è perfettamente cosciente: che proletariato e borghesia sono due classi antagoniste, nemiche, i cui interessi non si concilieranno mai e che alla lotta permanente che la classe borghese svolge quotidianamente contro la classe dei proletari si risponde solo con la lotta proletaria di classe che metta al centro dei suoi obiettivi la difesa intransigente ed esclusiva degli interessi di classe proletari, inconciliabili con gli interessi borghesi.

In prospettiva i proletari si devono aspettare un continuo peggioramento delle proprie condizioni di esistenza perché la crisi economica e sociale il capitalismo non la risolve a colpi di riforme e concertazioni tra le diverse “parti sociali”, ma schiacciando sempre più il proletariato nella condizione di totale asservimento agli interessi borghesi. Contro questa prospettiva, e contro il peggioramento quotidiano delle loro condizioni di esistenza, i proletari devono alzare le proprie difese di classe, ossia devono ricominciare a lottare al di fuori delle regole imposte dal collaborazionismo sindacale e politico, riprendendo in mano le sorti della propria vita e del proprio futuro lottando contro un sistema economico e politico di cui nessun appello alla difesa dell’economia aziendale, dell’economia nazionale, dell’euro, della patria o della civiltà occidentale, può mascherare la più cruda realtà che consiste nel mettere al centro della società il mercato, il profitto capitalistico, i privilegi di una minoranza di capitalisti sfruttando, gettando nella miseria e nella fame  e massacrando la maggioranza della popolazione mondiale che è fatta di proletari, di senza-riserve, di forza lavoro usata come merce da gettare nella spazzatura, o nei campi di guerra, quando non rende più profitto!

La ripresa della lotta di classe è l’unica via sulla quale i proletari possono darsi una speranza per il futuro, una prospettiva reale di cambiamento radicale delle condizioni sociali di esistenza che riguardano l’immensa maggioranza della popolazione umana.

La classe borghese, nel suo futuro, non ha che lotte di concorrenza, crisi economiche, scontri tra Stati, crisi di guerra ora locali ora generali e mondiali; e tutto questo a spese del proletariato di ogni paese, gettato ciclicamente nella disperazione della disoccupazione, della miseria, della fame, del massacro di guerra. Lo sviluppo della società capitalistica ha portato il ciclo pace-guerra nel girone infernale delle guerre interrotte saltuariamente da brevi periodi di pace; e questi periodi di pace non sono altro che il tempo che le classi borghesi utilizzano per prepararsi alla guerra fra Stati: mentre ne termina una in un punto del globo, ne scoppia un’altra in un diverso punto del globo, fino a quando la crisi di sovrapproduzione capitalistica non raggiunge una tale virulenza e profondità da unire i diversi punti caldi del globo in un’unica conflagrazione mondiale in cui le grandi potenze imperialiste rimettono in discussione tutti i loro rapporti e le loro relazioni al fine di spartirsi il mercato mondiale in un modo diverso rispetto a prima. E i proletari, assoggettati nei periodi di pace ai bisogni di mercato delle imprese capitalistiche che formano l’economia nazionale di ogni paese, sono destinati ad esser inquadrati e militarmente irreggimentati ai bisogni dell’economia di guerra quando i rapporti di forza fra Stati si trasformano in rapporti militari: oltre a costituire forza lavoro bestialmente sfruttata nelle aziende capitalistiche, i proletari vengono così  trasformati anche in carne da cannone! La classe borghese capitalistica ha, dunque, tutto l’interesse a mantenere la forza lavoro proletaria incatenata ai suoi interessi economici, politici, sociali, in pace e in guerra. Il futuro che la classe borghese dominante propone all’immensa maggioranza della popolazione umana è un futuro di schiavitù, di pauperismo crescente, di massacri di guerra al solo scopo di accumulare capitale e produrre profitto capitalistico, in una spirale senza fine; ma sono le stesse forze produttive, continuamente sollecitate dall’iperfolle modo di produzione capitalistico, a mettersi di traverso rispetto a questo futuro borghese e a porre materialmente il grande problema della risoluzione definitiva delle gigantesche contraddizioni materiali e sociali generate dal capitalismo e dal suo sviluppo: risoluzione che ha un solo nome, rivoluzione proletaria, comunista e internazionale.

La classe proletaria, al contrario, è l’unica classe di questa società che, nel proprio futuro, ha una prospettiva storica che supera completamente i limiti e le contraddizioni del capitalismo, perché al centro della società non ci sarà più il capitale, il mercato, il denaro, la merce, il profitto capitalistico, la concorrenza, la guerra, ma ci saranno i bisogni della società di specie in cui gli uomini non saranno più schiavi del mercato, del denaro, del profitto capitalistico e non esisterà più la schiavitù salariale, ma il lavoro e i prodotti del lavoro umano saranno messi a disposizione dell’intera società, finalmente organizzata razionalmente e nella quale ognuno darà secondo le sue capacità ed avrà secondo le proprie necessità.

Ma questo futuro, cioè la società comunista, non cade dal cielo come un regalo improvviso, né emerge dalla società attuale come una sua graduale e lenta trasformazione: è il risultato di uno sconvolgimento totale e profondo, violento e catastrofico che si chiama rivoluzione. Una rivoluzione completamente diversa da ogni altra che la storia delle società divise in classi ha conosciuto finora, perché è l’unica rivoluzione che apre la società umana ad una organizzazione sociale che non si fonderà più sullo sfruttamento di una classe sociale da parte di altre classi sociali, ma su di un sistema economico armoniosamente razionale, solidale, universale, basato sulle più alte cognizioni tecniche e scientifiche che lo sviluppo del lavoro umano potrà raggiungere e che, nel capitalismo, sono condizionate e limitate dagli interessi economici di mercato e di concorrenza, interessi che, di fatto, impediscono qualsiasi sviluppo che non sia strettamente indirizzato al guadagno capitalistico immediato.

La classe proletaria, oggi, appare lontanissima da questa prospettiva, tanto da far credere che la società comunista, intesa nel senso marxista che è l’unico senso in cui si può intendere, sia un’illusione, un’utopia, un sogno. Oggi è un sogno, come lo era nel 1871 all’epoca in cui i proletari di Parigi presero il potere instaurando la prima forma di dittatura del proletariato indirizzata a trasformare la società da cima a fondo e per questo motivo i proletari di tutto il mondo ricordano la Comune di Parigi come “l’assalto al cielo”; domani sarà una realtà, come lo è stata nell’Ottobre del 1917 a Pietrogrado e a Mosca, in forza del dialettico sviluppo delle contraddizioni del capitalismo che lubrificano continuamente l’antagonismo fra le classi borghesi e proletarie e che, raggiunto un punto di pressione sociale non più contenibile nelle forme sociali e politiche della società borghese, farà saltare in aria qualsiasi concertazione, qualsiasi conciliazione e collaborazione fra le classi, aprendo finalmente in un terremoto sociale di dimensioni planetarie la guerra fra le classi, e quindi la strada per la rivoluzione proletaria. A quell’appuntamento storico il proletariato deve prepararsi in modo adeguato, nella “scuola di guerra di classe” che, come affermava Lenin, è la lotta immediata di classe in difesa delle condizioni di vita e di lavoro, organizzata e sviluppata contro ogni deviazione e influenza opportunista; preparazione alla quale partecipa il partito politico di classe, il partito comunista che ha il compito storico di guidare il proletariato nella rivoluzione per rovesciare il potere borghese, instaurare ed esercitare la dittatura proletaria, distruggere il modo di produzione capitalistico e liberare lo sviluppo delle forze produttive al nuovo modo di produzione socialista. Questa è la via che dovrà imboccare il proletariato per riconoscersi come classe, come protagonista della propria lotta di emancipazione dalla schiavitù salariale, e nella quale incontrerà il suo partito comunista e internazionale.

I capitalisti preparano e continuano a preparare sempre nuovi attacchi alle condizioni di esistenza proletarie e avranno sempre al loro fianco le forze dell’opportunismo riformista e del collaborazionismo con il compito di frenare, deviare, demoralizzare, disorganizzare, contrastare e far reprimere – o reprimere direttamente – le lotte con cui gli operai cercano di resistere alla pressione capitalistica e di contrastarne la violenza economica, sociale e militare che sistematicamente il potere borghese applica per difendere i veri interessi ai quali è votato lo Stato: gli interessi borghesi e del capitale. I proletari si guardino indietro nel tempo e si accorgeranno che tutti i sacrifici che i governanti e il padronato hanno chiesto loro nei momenti di crisi economica non li hanno mai garantiti né nell’immediato né nel futuro prossimo dalla tendenza inesorabile alla miseria crescente, all’aumento della precarietà del salario e quindi della vita. Non esiste, in realtà, altra “garanzia” che la lotta di classe contro i padroni e il loro Stato. I sindacati collaborazionisti hanno trasformato la “difesa del posto di lavoro” in “difesa dell’azienda”, la “difesa del salario” in difesa della “economia nazionale”, soggiacendo in questo modo completamente agli interessi dei capitalisti, della loro economia, del loro Stato; ed è naturale, per loro, contrastare nelle stesse file operaie le spinte spontanee a rispondere con la lotta dura, classista, agli attacchi antioperai, deviandole sul terreno del “negoziato”, della “conciliazione”, dell’accordo, provocando il minor danno possibile agli interessi padronali. Ma i danni immediati, gravi, profondi e duraturi che i padroni provocano alle condizioni di esistenza proletarie non possono essere arginati e contrastati se non con una equivalente lotta dura, compatta e tendenzialmente allargata alle varie categorie contro di essi; ed è da questa lotta classista che emerge con evidenza per le grandi masse proletarie la coscienza dell’antagonismo di classe fra proletari e borghesi, fra lavoratori salariati e padroni chiarendo nei fatti, durante la stessa lotta, quali sono i sostenitori della lotta e quali i nemici. La forza dei padroni non sta soltanto nella proprietà dei mezzi di produzione e nella disponibilità del capitale per il loro utilizzo a fini mercantili e di profitto, e nelle loro associazioni, ma anche nello Stato e nelle sue molteplici istituzioni sempre più asserviti al capitale e alle sue leggi economiche. Perciò i proletari non possono fermarsi alla lotta di difesa immediata, terreno sul quale possono anche ottenere qualche risultato che però viene presto o tardi rimangiato dalla classe dominante borghese – come è dimostrato ampiamente in questi ultimi decenni. La prospettiva più ampia, di classe e, inevitabilmente, internazionale della lotta proletaria non può essere meglio sintetizzata se non dal grande grido di battaglia che Marx ed Engels hanno lanciato nel Manifesto del partito comunista del 1848:  proletari di tutto il mondo unitevi!

L’obiettivo storico della lotta di classe del proletariato non potrà mai essere quello di riformare il capitalismo, perché la storia stessa dello sviluppo del capitalismo ha dimostrato che ogni riforma non fa che rafforzare il potere capitalistico, sul piano politico come su quello economico e sociale. Ad un capitalismo che si è rafforzato, centralizzato, globalizzato, dando al potere economico e sociale della classe borghese la forma politica dell’imperialismo asservendo lo Stato al capitale, il proletariato non può rispondere implorando che lo Stato intervenga a sua difesa: in questo modo il proletariato, invece di rafforzarsi nella lotta contro la classe borghese, si indebolisce e si consegna nudo, inerme, mani e piedi legati, allo sfruttamento bestiale della propria forza lavoro e alla assoluta precarietà della propria vita perché la disoccupazione, la miseria, la fame, la morte sono le condizioni in cui ogni proletario può precipitare in un qualsiasi momento della sua esistenza.

L’obiettivo storico della lotta di classe del proletariato non è l’idea di una nuova società alla quale la lotta si deve uniformare, e nemmeno il prodotto dello sviluppo graduale e progressivo del capitalismo; è, e non può che essere, quanto era già scritto nel Manifesto del 1848: “I proletari possono conquistarsi le forze produttive della società soltanto abolendo il loro proprio sistema di appropriazione avuto sino a questo momento, e per ciò stesso l’intero sistema di appropriazione che c’è stato finora”; tale abolizione dell’appropriazione privata della produzione sociale si rende storicamente necessaria perché le diverse fasi dello sviluppo della lotta fra le classi hanno dimostrato che “Il proletariato, lo strato più basso della società odierna, non può sollevarsi, non può drizzarsi, senza che salti per aria l’intera soprastruttura degli strati che formano la società ufficiale (...). L’operaio moderno, invece di elevarsi man mano che l’industria progredisce, scende sempre più al disotto delle condizioni della sua propria classe. L’operaio diventa povero, e il pauperismo si sviluppa anche più rapidamente che la popolazione e la ricchezza. Da tutto ciò appare manifesto che la borghesia non è (...) capace di garantire l’esistenza al proprio schiavo neppure entro la sua schiavitù, perché è costretta a lasciarlo sprofondare in una situazione nella quale, invece di essere da lui nutrita, essa è costretta a nutrirlo. La società non può più vivere sotto la classe borghese, vale a dire la esistenza della classe borghese non è più compatibile con la società”. All’interno della società attuale, tra borghesia e proletariato, fin dall’inizio della comparsa del modo di produzione capitalistico e del potere borghese, esiste un antagonismo di classe che si svolge in una “guerra civile più o meno latente (...) fino al momento nel quale quella guerra erompe in aperta rivoluzione e nel quale il proletariato fonda il suo dominio attraverso il violento abbattimento della borghesia”.  I comunisti non dimenticano che è lo stesso sviluppo materiale della società borghese e, in particolare, della grande industria a togliere storicamente di sotto ai piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce e si appropria i prodotti. I comunisti sanno, perciò, che, dialetticamente, mentre produce e si appropria della ricchezza sociale, mentre riduce l’immensa maggioranza degli esseri umani nella schiavitù salariale, la borghesia produce, nello stesso tempo “i suoi seppellitori” (7).

 


 

(1)   Cfr. Le Monde, 16/12/2011

(2)   Cifre del 2010. Cfr. “Statistiches Bundesant, Foreign Trade”, Wiesbaden 2011

(3)   Secondo Le Monde del 31/11-1/12/2011, la Germania è stato il paese che ha guadagnato di più dall’euro. Di contro, i salariati hanno subito dei “sacrifici importanti”: i salari reali sono diminuiti, le prestazioni sociali anche. Il successo dei capitalisti tedeschi è stato pagato dai loro proletari.

(4)   Cfr. OFCE, Notes n.8, 16/12/2011.

(5)   Ibidem.

(6)   Giornale radio di Radio Popolare Milano, 10.2.2012

(7)   Cfr. Marx-Engels, Manifesto del partito comunista, 1848, capitolo I. Borghesi e proletari.

 

 

Partito comunista internazionale

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