La concertazione tra sindacati operai, padronato e governo è stato il cappio intorno al collo del proletariato italiano

(«il comunista»; N° 126-127; ottobre 2012)

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Ecco un sintetico elenco di ciò che ha prodotto la tanto decantata stagione della concertazione sindacale in Italia, ripudiata sembra ora dal governo “Monti” ma difesa dalla Cgil come “salvifica” del paese.

 

- Nel ’93 si è fatto l’accordo tra sindacati-governo-padronato per eliminare definitivamente la scala mobile, un meccanismo automatico che serviva almeno in parte ogni 6 mesi a recuperare il salario eroso dall’inflazione. Si disse allora, addirittura, che questo meccanismo di difesa era in realtà la causa stessa dell’inflazione…

- Si è allungata la durata dei contratti collettivi a 4 anni, prima era di 3 anni, sostenendo, però, che ogni 2 anni si sarebbe recuperato il salario eventualmente eroso dall’inflazione reale chiedendo un aumento di salario secondo meccanismi prestabiliti e concordati con il governo e i padroni, tali per cui non sarebbe stato necessario addirittura fare sciopero!

- Si è trasformato il contratto di livello aziendale, che andava a recuperare in molti casi il salario non ottenuto sul piano del contratto nazionale, con un meccanismo che legava una quota di salario una tantum decisa fondamentalmente in base ai risultati di bilancio aziendali, quindi dal padrone, erogata sulla base dell’aumento della produttività, della presenza, della qualità del lavoro svolta dagli operai.

 

In sostanza prima del ‘93 si aveva un recupero sia pure parziale del salario (circa il 60% del salario perso dall’aumento del costo della vita avvenuto) ogni sei mesi automaticamente in busta paga; esisteva poi la contrattazione nazionale di categoria che ogni tre anni in base anche alla lotta espressa dai lavoratori otteneva un aumento che in certi periodi tendeva anche ad aumentare il tenore di vita operaio; oltre a ciò, là dove la forza combattiva e organizzata degli operai era più vigorosa, soprattutto nelle grandi aziende e nei poli industriali più sviluppati, esisteva la possibilità, attraverso il contratto aziendale, di recuperare ulteriormente salario stabile in busta paga, sempre sulla base della lotta espressa.

Dopo il ’93, l’unico possibile recupero del salario avviene ogni 2 anni stabilito dalla concertazione tra sindacati-governo e padronato sulla base di un’inflazione che è sempre molto più bassa di quella reale (inflazione programmata dal governo); ulteriori aumenti a livello aziendale vengono stabiliti sempre dai sindacati in accordo con i padroni, ma sulla base dell’aumento della produttività effettiva registrata dalle aziende: se c’è crisi economica e l’azienda afferma di non produrre e vendere abbastanza… nulla viene erogato ai lavoratori. Quindi, in 20 anni, non solo non si è più neanche parlato di aumentare il tenore di vita dei lavoratori attraverso la contrattazione, ma il salario, grazie a questi accordi, si è più che dimezzato rispetto all’aumento reale del costo della vita. Inoltre, le condizioni di lavoro, ad esempio quelle sulla prevenzione dagli infortuni e dalle malattie professionali, cioè misure, mezzi, sistemi di lavoro da introdurre sul posto di lavoro per evitarli, non sono state più contrattate né sul piano nazionale e nemmeno sul piano aziendale, ma tutto è stato delegato alla legge dello Stato borghese, come se questa – quando anche venisse applicata seriamente – avesse mai difeso effettivamente i lavoratori da infortuni, malattie professionali e morti sul lavoro.

Nel ’93 si è anche dato il via all’introduzione del lavoro interinale in Italia, cioè una forma che si è sviluppata come il “caporalato” – già esistente al sud – ma questa volta completamente legalizzato, quindi è stato dato il via all’estrema precarizzazione del lavoro attraverso le agenzie interinali che sono diventate il secondo padrone dei proletari: essi vengono sfruttati e ricattati in maniera “legale”, ma in questo modo aumenta la concorrenza tra proletari nello stesso luogo di lavoro per le diverse condizioni di garanzia nel mantenimento del posto di lavoro, producendo l’abbassamento dei salari e la divisione ulteriore della forza dei lavoratori prima espressa nella contrattazione collettiva. Anche allora i sindacati tricolore, per far passare questo accordo, dissero che ciò sarebbe servito a dare una possibilità per i giovani disoccupati di trovare un lavoro; in realtà è stata, ed è dimostrato, una possibilità di ricatto ulteriore in mano ai padroni che possono licenziare questi operai una volta scaduto il contratto, e dopo averli spremuti per bene, per periodi che sono arrivati anche alla durata di 3 mesi.

Mentre nel ’95, sempre grazie alla concertazione, è stata fatta una delle riforme più dure nei confronti dei lavoratori in fatto di pensioni. Questa riforma è stata fatta passare con un metodo classico del collaborazionismo, cioè in maniera graduale per permettere ai lavoratori più anziani e combattivi di uscire in qualche misura nell’immediato con più garanzie, mentre per i proletari più giovani è stata usata la scure: si è arrivati infatti ad un allungamento del periodo di permanenza al lavoro di 5 anni abbassando, contemporaneamente, l’importo della pensione che, in futuro, ha significato per i proletari una pensione di miseria. Si è passati, infatti, a un metodo che calcola i contributi effettivamente versati nell’arco dell’intera vita lavorativa senza una rivalutazione adeguata all’aumento del costo della vita avvenuto nel frattempo: in pratica, prima, con 35 anni di contributi si andava in pensione con il 70% del salario, dopo la riforma si va in pensione solo con 40 anni di contributi effettivi e percependo meno del 50% del salario. Anche in quest’occasione la collaborazione del sindacato con il governo e i padroni è stata preziosa, perché ha permesso di dividere i proletari più anziani da quelli più giovani, “garantendo” i primi per un periodo necessario a farli uscire dalle galere-fabbrica senza lasciare che trasferissero la loro rabbia e la loro esperienza di lotta, fatta negli anni ’70 e per quanto inficiata dall’intossicazione concertativa, ai giovani proletari che, ignari, venivano infilati in questa nuova riforma delle pensioni. Inoltre, nelle assemblee operaie, i bonzi sindacali hanno avuto la spudoratezza di strombazzare a chi si opponeva che questa riforma concordata da loro con il governo avrebbe di sicuro garantito la pensione futura ai proletari…

Il fatto che la borghesia italiana, oggi, “squalifichi” il valore della stagione della concertazione con la quale sono stati fatti passare sacrifici molto pesanti per alcune generazioni di proletari - grazie all’opera preziosa dei sindacati tricolore che sono riusciti continuamente a portare i proletari sull’altare dei sacrifici per “salvare” l’economia nazionale e le aziende, in cambio della “salvaguardia del posto di lavoro” anche se a condizioni sempre più dure e sempre più precarie in futuro - è la manifestazione evidente di una nuova fase nei rapporti di forza fra la classe borghese dominante, i sindacati e i partiti collaborazionisti e il proletariato.

La crisi economica, la concorrenza internazionale sui mercati, la contrapposizione con i paesi imperialisti più forti economicamente, spinge la borghesia italiana ad accelerare il raggiungimento di obiettivi che vanno inevitabilmente a peggiorare le condizioni di vita e di lavoro operaie già misere: il suo obiettivo è di recuperare quote di profitti importanti e vitali per il capitale e il padronato, approfittando del fatto che il proletariato non ha la forza, oggi, di opporre una reale resistenza, cosa di cui si deve ringraziare l’opera pluridecennale del collaborazionismo sindacale e politico che ha contribuito a spaccarlo, frantumarlo in una miriade di condizioni frammentate e disomogenee tali da creare una concorrenza spietata nei posti di lavoro e tale da lasciare in mano al padronato – grazie anche alla pressione della disoccupazione crescente – la possibilità di un ricatto bestiale che permette di far passare qualsiasi misura senza bisogno di concertarla con i sindacati tricolore. In sostanza è il metodo “Marchionne”, già messo in pratica alla Fiat e che si vuole estendere a livello generale. Il governo borghese si fa carico anche di questo modo di agire, cioè di “contrattare” i peggioramenti delle condizioni operaie direttamente con chi ci sta ed è disponibile a convincere i proletari della loro necessità come unica via percorribile, nei tempi e con costi minori possibili. Ciò non significa che la classe dominante borghese non abbia più bisogno dell’opera dei collaborazionisti, per lei sempre preziosa, ma che, in prospettiva, può tradursi in una riduzione del costo e del numero dei funzionari del sindacato tricolore nella misura in cui, e là dove, la loro opera non risulta decisiva, o non riescano a far passare più velocemente i peggioramenti tra i proletari o a disinnescare e isolare eventuali settori di resistenza del proletariato.

La borghesia tenderà, dunque, ad utilizzare in modo sempre più vasto e specifico il collaborazionismo sindacale non più soltanto come utile strumento di gestione delle masse operaie spinte a lottare per ottenere miglioramenti salariali e di condizioni di lavoro, e non più solo come strumento di gestione dei sacrifici economici e sociali fatti passare col minimo di reazione proletaria, ma come strumento di prevenzione sistematica della lotta operaia e classista che non può mai essere annullata del tutto data la formidabile pressione sulle condizioni di esistenza proletarie. I sindacalisti tricolore assumono così sempre più ufficialmente il ruolo di guardiani dell’economia aziendale contro gli interessi immediati e a più lunga scadenza dei proletari, poggiando in particolare sugli strati di aristocrazia operaia già ampiamente venduti al nemico di classe; e in questa vile bisogna, i sindacalisti collaborazionisti non possono che trovare sostegno nei partiti cosiddetti “operai” che delle riforme e della pace sociale hanno fatto da lungo tempo i propri principi cardine.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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