Morire per il capitale o lottare per vivere!

Taranto, città ad alta concentrazione industriale: Ilva, Eni, Cementir.

Taranto, città ad alta concentrazione di veleni, di infortuni, di intossicati, di morti da lavoro, per il lavoro, sul lavoro.

(«il comunista»; N° 126-127; ottobre 2012)

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La vicenda ILVA ha riportato, in queste settimane, sulle prime pagine dei media, la tragica situazione di un’intera città sulla quale è piombata da anni la voracità capitalistica. Taranto non è una mosca bianca: Augusta-Priolo, Gioia Tauro, Porto Marghera, Genova-Sestri/Cornigliano, Napoli-Bagnoli, Civitavecchia, tanto per citare alcuni siti sul mare che sono stati, negli anni, e in parte lo sono ancora, sedi di installazioni industriali gigantesche come le acciaierie, i petrolchimici, le raffinerie petrolifere, le centrali elettriche. Una ricerca ufficiale, chiamata “Sentieri” (Studio epidemiologico nazionale dei territori e degli insediamenti esposti a rischio da inquinamento), censisce 44 su 57 siti con agglomerati industriali pericolosi, fra i quali cita anche Gela, Porto Torres, Massa Carrara, Falconara, Milazzo, Portovesme, Borgo Valsugana, e riscontra, secondo il Corriere della sera del 13 agosto scorso, che “gli incrementi di patologie tumorali e respiratorie legate ad emissioni di stabilimenti metallurgici sono all’ordine del giorno” (1).

L’Italsider, un tempo industria statale dell’acciaio, per anni punta di diamante della siderurgia italiana ed europea, ha dovuto soccombere di fronte alla concorrenza non solo euro-americana e giapponese, ma, soprattutto negli ultimi decenni, delle economie così dette emergenti come quella cinese, indiana, russa dove i costi della manodopera sono molto più bassi che in Europa e i costi per le misure di sicurezza sul lavoro e per l’ambiente sono, se non quasi inesistenti, molto più ridotti che non in Italia. Se in Italia un certo livello di misure di sicurezza sul lavoro è stato raggiunto e i salari operai sono più alti che in Cina o in Russia ciò è dovuto non alla “miglior coscienza” dei capitalisti italiani, ma alle lotte operaie che per decenni – nonostante l’opera disfattista dei sindacati tricolore – hanno messo al centro delle loro rivendicazioni non solo il salario e il posto di lavoro, ma anche la salute.

La ragione principale della smobilitazione degli stabilimenti Italsider è sempre la stessa: aldilà del valore “strategico” della produzione di acciaio, è normale che ogni attività capitalistica abbia per scopo il profitto; se il tasso medio di profitto è così basso da non rendere più redditizio il capitale investito, che il capitale sia pubblico o privato non cambia, il mantenimento in attività risulta troppo oneroso: si sfruttano fino allo stremo gli impianti esistenti molti dei quali obsoleti e destinati a scomparire, ma sempre più pericolosi (dice niente la Thyssen Krupp di Torino?), e poi si cerca di vendere. Chi compra, acquista a prezzo agevolato, se non di svendita, e coglie l’occasione per tagliare drasticamente sulla manodopera e sui suoi costi: chi vuol lavorare deve accettare condizioni di lavoro e di salario peggiori di quelle precedenti. La Fiat di Marchionne a Pomigliano non ha inventato nulla: è un classico per i capitalisti.

Oggi, la produzione d’acciaio, considerata sempre strategica, ma non più controllata direttamente dallo Stato, è nelle mani del capitale privato della famiglia Riva che ha rilevato dallo Stato gli impianti meno obsoleti: Taranto, Genova e Civitavecchia. L’Ilva di Taranto, è diventata così la più grande acciaieria d’Europa. 15 kmq di superficie all’interno della quale vi sono 200 km di rete ferroviaria, 50 km di rete stradale, 190 kmq di nastri trasportatori, 6 moli portuali. Vi lavorano attualmente 12.859 dipendenti di cui 11.454 operai, 1.386 impiegati e 19 dirigenti. Il ciclo produttivo è integrale ed ha una capacità di trasformazione di oltre 20 milioni di tonnellate di materie prime raccolte in 8 parchi minerari.

Questi i numeri dell’Ilva di Taranto (la Repubblica, 12/8/12, Corriere della sera, 13/8/12 ), che, se rappresentano la vita stessa della città, nascondono una sequenza interminabile di infortuni e di morti. Infortuni e morti che non hanno mai abbandonato l’acciaieria di Taranto: all’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso, quando cominciò la costruzione dello stabilimento Italsider, l’infortunio e la morte colpivano i lavoratori edili costretti al lavoro nero, con controlli e misure di sicurezza inesistenti. Questo faceva parte di un vero e proprio sistema ricattatorio, favorito dalla stessa Italsider (quindi dallo Stato che ne era il padrone) per accorciare il più possibile i tempi di realizzazione dello stabilimento, per tagliare i costi del lavoro e avere manodopera sottomessa. Il dispotismo in fabbrica non è mai stato e non è un atteggiamento personale di qualche capo o dirigente: è un sistema adottato dal capitalismo, pubblico o privato che sia, che crea a sua volta un indotto molto particolare, ossia la rete di appalti e subappalti gestita, in genere, da organizzazioni malavitose o da organizzazioni che adottano i metodi malavitosi e che, al dispotismo di fabbrica, aggiungono un controllo capillare del territorio e dei suoi abitanti che va a rafforzare il dispotismo sociale caratteristico della società borghese.

La costruzione di un grande impianto siderurgico come quello dell’Italsider rappresentava però, in aree notoriamente depresse come sono da sempre le aree del sud Italia, un’occasione di lavoro per migliaia di operai, e quindi di famiglie che campano solo sul salario operaio. In fabbrica il lavoro, però, non equivale soltanto ad un salario per vivere, ma va a braccetto costantemente col pericolo di infortunarsi, di ammalarsi, di lasciarci la pelle. Nel 1970 (il manifesto, 4/8/2012) il tasso di infortuni compresi quelli mortali raggiunse quota 1694 ogni 1000 operai, quasi due infortuni per operaio; oggi, la proporzione è di certo cambiata, ma non di molto perché, col tempo, agli infortuni e alle morti che colpivano gli operai a causa di incidenti “meccanici” si è aggiunto anche l’inquinamento interno ed esterno alla fabbrica provocato dalle lavorazioni a caldo per produrre l’acciaio, dai fumi degli altiforni e dalle polveri dei parchi minerari che il vento trasporta in città, nell’adiacente quartiere Tamburi per cominciare, per poi diffondersi molto più lontano. L’inquinamento aereo – si tratta di diossine e di Pcb – colpisce polmoni e vie respiratorie e ciò è causa dell’alta incidenza di tumori fra gli operai e i dipendenti dell’Italsider-Ilva e fra gli abitanti del quartiere Tamburi e della città, e molti bambini a causa del cancro non arrivano a un anno di età ; ma vi è anche l’inquinamento delle acque tanto da trasformare la mitilicoltura (un tempo molto fiorente a Taranto, tanto da essere soprannominata “oro nero”) da industria alimentare in un veicolo di intossicazione.

Il capitale ha portato lavoro a Taranto, ma nello stesso tempo ha portato una fonte permanente di infortunio, di morte, di avvelenamento per chi è vivo oggi e per chi deve ancora nascere.

Come hanno risposto i partiti cosiddetti operai, e i sindacati in una città che un tempo era un feudo del PCI? Sostanzialmente chiudendo occhi e orecchie. Non c’è come mettere al primo posto gli interessi economici dell’azienda (“è l’azienda che dà lavoro, e dà lavoro solo se fa profitto”), soprattutto al sud dove la disoccupazione è da sempre ai più alti livelli, per giustificare qualsiasi “mancanza”, qualsiasi “inadempienza”, qualsiasi “irregolarità”; ci si fa sentire soltanto quando ci scappa il morto o quando la pressione della base operaia potrebbe portare la lotta operaia fuori dallo stretto controllo del collaborazionismo. E questo controllo, non c’è dubbio, se “in fabbrica” sono i “sindacalisti” ad esercitarlo, fuori della fabbrica chi “detta legge” sono le organizzazioni malavitose che hanno infiltrato la politica oltre l’economia. Già nel 1958, si può leggere in un lavoro citato dal manifesto del 4 agosto scorso (2) – quando il governo centrale doveva decidere sul sito del polo siderurgico e sul fatto che sarebbe stato realizzato a ridosso della città rendendo estremamente critica la cosiddetta “sostenibilità ambientale” – “si saldò a livello locale un’ampia intesa  tra istituzioni, forze politiche di diverso colore, associazioni imprenditoriali e le stesse organizzazioni sindacali”. L’acciaieria, da quando nacque, è dunque la dimostrazione che gli interessi del capitale prevalevano e prevalgono su tutto. E non può essere altrimenti, poiché il capitale si muove solo per difendere e sviluppare i propri interessi di profitto, utilizzando ogni situazione che può essere volta a proprio favore in tempi rapidi e senza troppi ostacoli.

Oggi, a distanza di decenni, alcuni magistrati si sono presi la briga di alzare uno stop nei confronti della proprietà dell’Ilva, di mandare agli arresti domiciliari padroni e dirigenti della fabbrica e di mettere sotto sequestro 5 impianti di lavorazione dell’acciaio e i parchi minerari. L’accusa è disastro ambientale e, dietro l’angolo, corruzione e omicidio colposo. Un’azione della magistratura contro la dirigenza dello stabilimento era già stata fatta nel 1982, obbligando la proprietà ad una serie di interventi per bonificare l’inquinamento già allora ad uno stadio insopportabile; evidentemente gli interventi fatti non sono serviti a nulla visto che, secondo i dati ufficiali – e si sa che i dati ufficiali sono sempre lontani per difetto dalla realtà –, la mortalità per tumore a Taranto è sempre altissima e la causa è l’Ilva. Fermare lo stabilimento significa, secondo la proprietà, togliere il lavoro agli oltre 12mila dipendenti e a tutto l’indotto, il che significa altre migliaia di lavoratori; non solo, per la proprietà fermare lo stabilimento di Taranto vuol dire mettere in pericolo di chiusura anche gli altri due stabilimenti Ilva, a Genova e Civitavecchia. Gira e rigira, l’aut aut è sempre presente: o il capitale è libero di sfruttare lavoro umano, inquinare e distruggere l’ambiente, fottersene delle leggi emanate dalla stessa classe che detiene il potere, uccidere non solo nell’immediato ma anche a distanza di anni (come la vicenda dell’amianto insegna) e allora “c’è lavoro”, oppure il “lavoro” – e dunque il salario, la miseria per sopravvivere – sparisce; il fatto è che, anche quando il lavoro c’è, è sempre accompagnato da fatica, infortuni, malattie, morti. Non c’è voluto molto perché i padroni dell’Ilva passassero subito al contrattacco, e non solo per vie legali: il ricatto dei capitalisti in genere funziona sempre. Infatti si sono mobilitate tutte le forze interessate, unite in uno stesso grido: l’Ilva non deve chiudere! E in questo grido si sono uniti anche i sindacati che, dal profondo della loro anima collaborazionista, e legati mani e piedi come sono per i decenni di svendita della pelle operaia al “bene dell’azienda”, non riescono a imbastire nemmeno l’ombra di una lotta proletaria in difesa del salario e della salute contemporaneamente! Il signor Landini, esimio segretario della Fiom, ad un giornalista di Repubblica che lo intervistava, risponde: “Il sindacato deve ora fare un passo avanti: noi siamo pronti a iniziare un percorso nuovo, che coniughi il lavoro con la salute e avvii una vertenza sindacale con al centro gli investimenti necessari per la messa a norma degli impianti” (la Repubblica, 18/8/12). Sono parole che non hanno bisogno di tante spiegazioni: un sindacato operaio che si vanta di essere “duro” e “fermo” a difesa degli interessi proletari comincia solo ora a porsi il problema di “coniugare” lavoro e salute? Quanti infortuni e quanti morti ci sono voluti finora e quanti ce ne vogliono ancora perché la Fiom agisca come sindacato dei lavoratori? Ci voleva la magistratura di Taranto che minacciasse con le sue ordinanze la chiusura dello stabilimento perché la Fiom, non diciamo organizzasse finalmente una dura lotta operaia contro una fabbrica di veleni e di morti – cosa di cui è notoriamente incapace – ma si ponesse almeno il problema di coniugare lavoro e salute? E come coniugherebbe lavoro e salute? “A questo punto – declama il signor Landini – serve una vertenza sindacale che agisca sul terreno del risanamento accompagnato dalla continuità produttiva”. Ma, attenzione a non equivocare, quando parla di vertenza sindacale: la vertenza, spiega immediatamente, “va intesa non come un atto ostile ma come un modo per risolvere il problema. Vogliamo procedere sul terreno del dialogo e non certo dello scontro frontale o del conflitto”. Come si devono considerare gli infortuni e i morti dell’Ilva, e gli ammalati di tumore fra i suoi dipendenti e fra gli abitanti ad esempio del quartiere Tamburi, come un fatale incidente?, come effetti collaterali imprevisti?, come un normale prezzo da pagare se si vuole lavoro? O come atto ostile del capitalismo sotto le sembianze dei padroni e dei dirigenti dell’Ilva contro i proletari e le loro famiglie trasformati in semplice prolungamento degli impianti di produzione pronti ad essere sostituiti come si sostituiscono i pezzi rotti di un macchinario?

All’atto ostile dei capitalisti il sindacato collaborazionista risponde con l’offerta di dialogo. I capitalisti hanno cominciato a tremare…  

All’inizio degli anni Sessanta imprenditori e sindacati, amministratori pubblici e forze politiche erano tutti uniti a favore della costruzione dello stabilimento e chiudevano occhi e orecchie sul lavoro nero, sugli infortuni e sui morti. Oggi si ritrovano per l’ennesima volta tutti uniti, nonostante le voci diverse che rispondono in realtà ad una naturale divisione dei compiti, per “salvare” l’Ilva perché così si “salvano i posti di lavoro” e l’economia di un’intera città. Giusto qualche magistrato, più ligio del solito rispetto alle leggi dello stesso Stato che le ha scritte, e dimenticate, e il rappresentante dei Verdi che ha finalmente l’occasione per farsi pubblicità, alzano la voce e pretendono che l’Ilva rispetti la legge e inizi al più presto i lavori di bonifica dell’emissione di inquinanti o, per dirla in gergo politichese, i lavori per “rendere l’acciaieria compatibile” con l’ambiente.

Naturalmente, data l’importanza strategica dell’acciaieria il governo non poteva starsene in disparte di fronte all’azione della magistratura tarantina, iniziata il 26 luglio col sequestro degli impianti dell’area a caldo e con i sei arresti fra dirigenti e proprietari, e che con la nuova ordinanza del 10 agosto decreta il fermo dello stabilimento in attesa della bonifica: l’Ilva dovrà risanare i sei impianti dell’area a caldo sequestrati per disastro ambientale “senza prevedere alcuna facoltà d’uso” degli stessi “a fini produttivi”, riporta la Repubblica del 10 agosto. La magistratura tende ad interrompere una produzione disastrosa per l’ambiente e la salute dei lavoratori e degli abitanti della città, obbligando l’impresa a risanare a proprie spese gli impianti inquinanti; imprenditori, forze politiche, governo, sindacati, commercianti, chiesa, tendono a cercare una strada che “convinca” la magistratura a giungere ad un compromesso che, alla fine, significherà inquinare un po’ meno di quanto è stato fatto finora. E’ nato così l’ormai noto “conflitto di interessi” tra amministrazione pubblica e magistratura, tra “potere politico” e “potere giudiziario”. In effetti, come succede ogni volta che qualche magistrato interpreta in modo perentorio il suo ruolo di ultimo difensore dei “diritti” previsti dalla legge dello Stato e ci sono di mezzo interessi di notevole rilevanza, esplode il conflitto di interessi; in una società che si vuole civile e giusta e nella quale il motto principale è sintetizzato nella frase che si può leggere in ogni aula di  tribunale: “la legge è uguale per tutti”, quando vengono toccati gli interessi dei cosiddetti “poteri forti”, la “legge” si scontra con “l’interesse di parte” e, in genere, l’interesse di parte prima o poi la vince, perché lo Stato borghese è al servizio del capitale, e non viceversa né, tantomeno, al di sopra delle parti.

La vicenda italiana di tangentopoli ne è stata una evidente dimostrazione; la vicenda, tutta italiana, della cosiddetta “trattativa” tra mafia e Stato è la dimostrazione più nascosta ma molto più pesante di un sistema che è caratteristico del capitalismo: il capitale pulito, buono, leale, che fa il giusto profitto rispettando tutti i diritti delle parti coinvolte (capitalisti, amministratori, lavoratori, concorrenti, consumatori, ambiente ecc.) non esiste. Il capitale nasce, cresce, vive e si nutre costantemente di estorsione, di prevaricazione, di truffa, di sopraffazione, di inganno, di corruzione, di guerra economica, commerciale, finanziaria, politica e di guerra guerreggiata; non esiste capitale e sviluppo capitalistico se non a queste condizioni. Ciò non vuol dire che ogni attività capitalistica sia di per sé illegale, vuol solo dire che la legalità che ogni Stato borghese si dà è condizionata e piegata agli interessi generali e particolari del capitale, è una legalità falsa, utile e utilizzata in generale solo per difendere il capitale e i suoi interessi. Il richiamo costante alla legalità che fa la democrazia è un’operazione di propaganda permanente a difesa di un metodo di governo – quello democratico, appunto – che ha l’obiettivo di intrappolare la forza proletaria in un ambito ideologico e politico nel quale si ha solo l’illusione di potersi esprimere al meglio e di poter contare affinché le decisioni prese tengano conto degli interessi proletari. L’Ilva, e prima l’Italsider, hanno continuato per decenni a rispettare le misure di sicurezza al minimo indispensabile e l’hanno fatto solo perché la lotta proletaria le ha obbligate a non fregarsene del tutto; ed hanno continuato ad inquinare l’ambiente di lavoro, la città e il mare circostanti senza ritegno, fregandosene delle leggi: il profitto, prima di tutto! Da oggi, dato il clamore che la vicenda sollevata dall’azione giudiziaria a livello nazionale e internazionale, potrà essere davvero così diverso da ieri? “Ripartire guardando ad una fase nuova che rompa col passato”, declama nei suoi buoni propositi il segretario della Fiom. Quante volte l’abbiamo sentito dire? Quante volte gli operai si sono sentiti dire che bisognava aprire una fase nuova nei rapporti col padronato e poi hanno dovuto ingoiare condizioni di lavoro e di salario peggiori, aumento della precarietà del lavoro e della vita, aumento della disoccupazione soprattutto giovanile, aumento del lavoro nero per sopravvivere, il taglio costante e sempre più violento degli ammortizzatori sociali e l’aumento del dispotismo in fabbrica e fuori di essa, senza poter contare con fiducia su organizzazioni sindacali di difesa effettivamente efficaci ed efficienti e,  tanto meno, su partiti che si sono per decenni vantati di rappresentare la classe lavoratrice? Ed hanno mai sentito dalla bocca dei dirigenti dei partiti cosiddetti operai pronunciare la parola lotta senza abbinarla alle parole “pace sociale”, “rispetto delle regole” (borghesi!), “dialogo”, “democrazia”, “riforma”, “sviluppo”, “equità” e via cantando? Organizzazioni sindacali e politiche votate alla conciliazione con la classe dei capitalisti non potevano, non possono e non potranno mai agire con efficacia ed efficienza in difesa esclusiva degli interessi proletari, nemmeno nei casi in cui la rabbia proletaria li spinga ad agire contro le loro attitudini! 

La vita del capitalismo sviluppato è un coacervo di contraddizioni economiche e sociali sempre più acute, nelle quali chi ci guadagna – fino a quando non vi si inserisce la lotta di classe del proletariato – è sempre il capitale, e non importa se un singolo capitalista o un gruppo di capitalisti perdono temporaneamente la partita, poiché è il sistema del capitale, nella sua logica impersonale e sociale, che vince e che permette agli altri capitalisti di continuare a far sopravvivere il sistema del profitto capitalistico difendendolo attraverso lo Stato con ogni mezzo, dal più pacifico al più violento. E’ per questa ragione che il capitalismo non morirà mai per mano della “legalità”, né le sue punte più violente e criminali potranno essere sconfitte e ridotte a zero da qualche magistrato zelante che ha il compito, alla fin fine, di mostrare soprattutto al proletariato, ingannandolo, che il sistema sociale capitalistico ha un fondo valido e positivo e che per farlo emergere basta rifarsi al suo presunto nucleo originario di “giustizia” e di “umanità” e alle leggi, mandando in galera ogni tanto qualche capitalista che l’ha fatta troppo sporca.

Il capitale, per esistere, divora lavoro umano, divora tempo di lavoro umano, divora vite umane e con esse la vita stessa dell’ambiente in cui esercita la sua più spietata guerra di rapina. La “compatibilità ambientale”, che vorrebbe permettere di fare il massimo profitto ai minimi costi ambientali (minimo inquinamento, minimo impatto sulla natura esistente, ecc.), non è un obiettivo del capitalismo semplicemente perché il massimo profitto si ottiene riducendo, in partenza, al minimo i costi di produzione e i costi del lavoro umano e mettendo all’ultimo posto il famoso “impatto ambientale”. Interesse del capitalista è di ridurre i costi del lavoro umano al minimo possibile, e ovviamente di ridurre al minimo possibile i costi di produzione (dalle materie prime ai macchinari, dalle misure di sicurezza all’ambiente di lavoro ecc.). La storia del capitalismo insegna che sul mercato le materie prime, i macchinari, i sistemi di produzione più avanzati ecc. oltre un certo valore non scendono e perciò possono essere preventivabili e definiti come costi fissi, mentre sul mercato del lavoro il valore delle braccia e dei cervelli degli uomini può variare in modo consistente a seconda del rapporto di forze stabilito fra capitalisti e lavoratori salariati. Più il lavoro salariato viene schiacciato nelle condizioni di schiavitù, più il suo costo è minimo. L’unico problema reale che si pone, quindi, è dato dalla resistenza e dalla ribellione dei salariati: la lotta fra le classi risulta così decisiva, sui due versanti. Sul versante del proletariato: per non farsi ridurre nelle condizioni di schiavitù e di impotenza, per impedire il peggioramento nelle condizioni di esistenza o per ottenerne dei miglioramenti, per ampliare la lotta di classe a livello politico generale per farla finita con il potere borghese abbattendone la forza concentrata nel suo Stato. Sul versante della borghesia capitalistica: per ottenere nell’immediato e nel lungo periodo una forza lavoro capace ma sottomessa, controllata non solo in fabbrica ma nella vita sociale, timorosa del dio religioso e del dio denaro, per utilizzarla in quantità e qualità necessarie di volta in volta a seconda dell’andamento economico delle aziende e della concorrenza sul mercato, per averla disponibile a sopportare sacrifici di ogni tipo fino al sacrificio della vita per il bene dell’azienda, del mercato, della patria, per continuare a mantenere saldamente in mano, nelle forme di governo più adatte alle diverse situazioni storiche, il potere politico, determinante per poter difendere il sistema economico capitalistico e, con lui, il dominio di classe sulla società.

A Taranto, la vicenda dell’Ilva ha aperto obiettivamente uno squarcio su tutti questi aspetti. Il bene dell’azienda è proposto come il bene dei lavoratori salariati, e nello stesso tempo come il bene della patria perché l’Italia “non può” non avere la “sua” produzione di acciaio (acciaio vuol dire armamenti), poiché dipendere dall’estero anche per l’acciaio, oltre che per il petrolio, il gas e le derrate agricole significherebbe abbandonare del tutto ogni velleità imperialistica e mettersi supinamente al servizio di un qualsiasi altro paese in grado di brandire il proprio ferro! Il bene dell’azienda è l’obiettivo principale dei capitalisti che la possiedono, ma lo è anche degli amministratori e dei politici che sugli effetti sociali di quell’attività industriale fondano le loro carriere e il loro benessere; e lo è dei sindacati tricolore, fedeli esecutori della politica collaborazionista e, quindi, interclassista grazie alla quale si sono ritagliati un “ruolo” tra il padronato, gli operai, gli amministratori pubblici, la chiesa e la cittadinanza, costituendosi in una delle “parti sociali” con cui svolgere trattative. Il bene dell’azienda è un obiettivo, ovviamente, del governo locale come del governo centrale, ed è un obiettivo anche della magistratura che è uno dei poteri dello Stato, anche se in questa estate 2012 qualche suo esponente locale l’ha svegliata da un lunghissimo torpore e da una obiettiva connivenza con l’attività criminale del gigante industriale. L’accusa di insistito disastro ambientale che cos’è se non un’accusa di attività criminale?

L’azione giudiziaria intrapresa dal gip di Taranto contro la proprietà dell’Ilva, ponendo sotto sequestro le sei aree identificate come aree ad alto rischio per la salute degli operai e degli abitanti di Taranto, ha provocato una tempesta a tutti i livelli – economici e politici – non solo perché si tratta del più grande sito siderurgico italiano, ed europeo, ma perché si è intrecciata con un’indagine della guardia di finanza lunga due anni dalla quale emerge un sistema di corruzione attivato dalla proprietà dell’Ilva per falsificare i dati ufficiali Aia (Autorizzazione integrata ambientale) rilasciati solo un anno fa, il 4 agosto 2011: dall’indagine risulterebbe che i limiti di inquinamento degli impianti Ilva di Taranto siano  stati disegnati appositamente sulle emissioni dell’Ilva (la Repubblica, 15/8/12). La questione, quindi, si è complicata notevolmente non solo per i padroni Riva e i dirigenti vecchi e nuovi dello stabilimento, ma anche per gli amministratori locali e per il governo Monti che ha spedito a Taranto i suoi ministri a monitorare direttamente la vicenda per cercare un compromesso tra gli interessi dell’azienda e le ordinanze del gip e del tribunale del Riesame.

Quando l’azione giudiziaria era iniziata, due settimane fa, il governo era intervenuto immediatamente sbloccando un primo fondo di ben 336 milioni di euro per la bonifica delle aree inquinate di Taranto; tale iniziativa, insieme alla nomina del presidente dell’Ilva Ferrante – ex prefetto di Milano, e presidente dell’Ilva dal 10 luglio scorso – come custode giudiziario dell’acciaieria (cioè colui che ha l’incarico di far rispettare all’interno dello stabilimento le ordinanze del gip), potevano sembrare sufficienti per avviare la vicenda giudiziaria verso una mediazione accettabile da tutte le parti coinvolte e il dissequestro delle aree bloccate nel caso in cui l’azienda avesse adottato da subito le misure di bonifica necessarie. Niente da fare, il presidente dell’Ilva non poteva certo essere super partes; infatti, dichiarando che avrebbe impugnato il provvedimento di sequestro “in ogni sede che l’ordinamento ci consente” (la Repubblica, 14/8/12), non poteva essere allo stesso tempo il custode giudiziario dell’acciaieria, ossia difendere le ragioni del sequestro ordinato dal gip. Il conflitto di interessi, per il quale gli è stato revocato questo incarico, esisteva però anche prima dell’incarico affidatogli…

Sotto la pressione, e l’impegno del governo nel cercare un compromesso con la magistratura tarantina, la proprietà dell’Ilva dichiarava di essere pronta a investire 146 milioni di euro per iniziare la bonifica degli impianti inquinanti. Ma è evidente a tutti che si tratta di una miseria rispetto alla quantità di soldi che ci vorranno per bonificare effettivamente tutti gli impianti dell’area a caldo interessati; e trovare finanziamenti a tassi non strangolanti, di questi tempi, è cosa piuttosto difficile, perciò governo e azienda puntano ad ottenere i fondi europei per ottenere i quali però la condizione è che l’Ilva adotti le cosiddette Bat, best avaliable tecnologies, le migliori tecnologie disponibili per il settore dell’acciaio adottate, ad esempio, in Germania. E quando l’incontro fra ministri, dirigenti dell’Ilva, amministratori pubblici locali, partiti e sindacati si è chiuso, tutto appariva indirizzato nel giusto compromesso; la “festa” è stata però guastata, come ricordavamo sopra, dai risultati delle indagini della guardia di finanza sulla corruzione da parte della dirigenza Ilva degli ispettori dell’Aia. E così, si dimostra una volta di più come il profitto capitalistico vada a braccetto non solo con l’inosservanza delle leggi, con il più spietato sfruttamento del lavoro proletario e la più assoluta e cinica volontà di guadagnare sulla pelle dei proletari in fabbrica e della popolazione della città adiacente, ma anche con la corruzione di coloro che dovrebbero controllare l’applicazione rigorosa delle norme di sicurezza degli impianti pericolosi. Si scopre così, ad esempio, che la direzione dell’Ilva non ha mai installato le centraline di monitoraggio delle emissioni di diossine e Pcb nelle aree della produzione a caldo proprio perché sapeva che le emissioni erano pericolose, e che gli ispettori dell’Aia non ispezionavano ma si limitavano a prendere per buone, burocraticamente, le dichiarazioni dell’azienda. Oggi, il provvedimento dei giudici del Riesame, scrive il Corriere della sera del 21 agosto scorso, dipinge gli ex dirigenti e i proprietari dell’Ilva come un gruppo di persone  senza scrupoli pronto a chiudere gli occhi davanti ad un inquinamento crescente e ad una emergenza sanitaria e ambientale ancora in corso. E questo non va che a confermare ciò che gli operai dell’Ilva e gli abitanti di Taranto sanno da anni – le malattie respiratorie, il cancro, i decessi parlavano per loro – ma di fronte a cui né i sindacati “operai” né i partiti “operai” hanno mai organizzato una seria, determinata e dura lotta perché la fabbrica applicasse, come minimo, i dispositivi di sicurezza sul lavoro e contro le emissioni velenose.  

Nel frattempo gli operai che fanno?

Hanno fatto qualche ora di sciopero, sia in difesa del posto di lavoro sia in difesa della salute, ma è inevitabile che su tutti è calata la paura di perdere il posto di lavoro. I sindacati ufficiali non sanno che pesci pigliare, impigliati come sono nella rete di collaborazione che hanno costruito in decenni di tradimento della causa dei lavoratori e, come sempre succede, per ragioni di bottega, si sono divisi, chi apertamente dalla parte dell’azienda perché non fermi la produzione, chi in appoggio all’azione della magistratura. Oggi la Fiom, dopo aver fatto la voce grossa in difesa dell’azione giudiziaria perché vuole farsi passare come miglior difensore della salute dei lavoratori e dei cittadini, cerca di frenare la rabbia dei lavoratori ammonendo che finché la fabbrica resta aperta non si sciopera. “Diritto alla salute” e “diritto al lavoro”: come farli andare d’accordo?, come farli combaciare? Quale dei due “diritti” deve prevalere sull’altro? O tutti e due, o niente?

Il capitale agisce secondo un diritto non scritto, il diritto che deriva dal dominio che ha sulla società, dalla forza con la quale costringe i proletari – ossia la stragrande maggioranza della popolazione – a vivere secondo le condizioni che il capitale considera compatibili con i suoi interessi, con il suo profitto. I proletari, veri schiavi del salario, possono conquistare condizioni di esistenza meno sacrificate, meno rischiose per sé e i propri familiari, solo opponendosi con la forza alle condizioni imposte dal capitale. Questo ormai lo sa anche un bambino, ma saperlo non basta. La forza che possono opporre i proletari alla forza dei capitalisti non poggia sul “diritto” scritto dalle leggi borghesi, ma sull’organizzazione indipendente dei propri interessi di classe. Il “diritto” dei proletari, il diritto alla salute, al lavoro, alla vita, si conquista e si mantiene soltanto lottando: anche questo lo sa un bambino. Ma c’è lotta e lotta, sciopero e sciopero, organizzazione e organizzazione, sindacato e sindacato, partito e partito.

La lotta proletaria, di classe, affonda le radici in una lunga e lontana tradizione storica. Essa risponde ad obiettivi che non si fanno definire dalle “compatibilità” con gli interessi del capitale perché riconosce la realtà economica e sociale dell’antagonismo degli interessi tra proletari e borghesi. Tutti gli obiettivi che tendono a conciliare gli interessi di classe del proletariato con gli interessi di classe della borghesia sono, di fatto, obiettivi borghesi perché la “conciliazione” o è una tregua nella lotta permanente tra le due classi, o è una sconfitta per i proletari che subiscono, fin dall’inizio della “lotta”, la prevalenza dell’interesse borghese sull’interesse proletario: in questo caso, “si lotta” per decretare la sconfitta invece che per tentare la vittoria.

Per lottare per i propri obiettivi di classe, i proletari devono organizzare le proprie forze in modo indipendente dalle organizzazioni e dagli organismi dipendenti dalla borghesia e dalle sue istituzioni. I sindacati di classe, che organizzano la lotta proletaria in difesa degli interessi immediati proletari, sono perciò indipendenti dalle istituzioni e dalle associazioni borghesi; essi organizzano esclusivamente proletari e adottano mezzi e metodi di lotta classisti, ossia non condizionati dai principi della pace sociale, del consenso democratico, della conciliazione con la borghesia e il suo potere. In caso contrario, non sono sindacati di classe ma sindacati tricolore, collaborazionisti, che al massimo, se il capitalismo nazionale gode di buona salute e le condizioni economiche generali lo consentono, si spingono ad una politica riformista per ottenere qualche temporaneo miglioramento salariale e nelle condizioni di lavoro. Ma in periodi di crisi economica, quando i capitalisti stringono le masse proletarie nella tenaglia del ricatto: posto di lavoro e quindi salario, ma a condizioni sempre più precarie e peggiorative, oppure disoccupazione e miseria, l’opera del sindacalismo collaborazionista diventa ancora più importante per la borghesia, perché deve far passare nelle masse proletarie questo ricatto come una fatalità, come qualcosa a cui non si può dire di no perché non ci sono altre vie d’uscita, mentre alla “lotta” preferisce il negoziato, il tavolo di conciliazione, allo sciopero che provoca un danno agli interessi dei capitalisti la manifestazione di “protesta”, pacifica, rispettosa dei confini entro i quali le questure stabiliscono che si tenga, tipo processione religiosa. Il sindacalismo collaborazionista ha il compito di strappare dalla memoria dei proletari la tradizione classista della loro lotta contro la schiavitù salariale, per la propria emancipazione dallo sfruttamento capitalistico; ha il compito di far dimenticare ai proletari che le condizioni di schiavitù in cui vivono e muoiono dipendono dal dominio del capitale sulla società, ha il compito di inoculare nei crani proletari l’idea che non vi sia altra vita che quella determinata dal dominio del capitalismo e che la loro sorte dipende esclusivamente dal benessere economico dei capitalisti: se questi intascano profitti allora ci sarà salario anche per i proletari occupati, mentre per gli altri proletari ci dovrà pensare …lo Stato. Il sindacalismo collaborazionista è prodotto dall’opera corruttrice della borghesia che ha tutto l’interesse ad avere a disposizione una classe operaia sottomessa, timorosa del dio denaro, rinunciataria rispetto ai propri interessi storici e immediati ma pronta al sacrificio per il bene dell’azienda, oggi, della patria, domani.   

Il sindacato di classe organizza la lotta operaia contro gli interessi dei capitalisti, e del capitale in generale; il sindacato tricolore, collaborazionista, usa la lotta operaia per conciliare gli interessi operai con quelli dei capitalisti. Il sindacato di classe nella lotta contro gli interessi dei capitalisti può non raggiungere tutti i propri obiettivi, proposti agli operai e concordati con gli operai prima della lotta, o può anche essere sconfitto, ma grazie alla sua linea di classe è grado di riorganizzare le forze operaie per la lotta successiva facendo tesoro delle lezioni da tirare dalla sconfitta; il sindacato tricolore definisce i propri obiettivi prima di chiamare allo sciopero gli operai, concordandoli sostanzialmente con gli imprenditori e con le amministrazioni pubbliche, inserendo negli obiettivi già definiti, e a seconda della forza con cui la base operaia spinge, anche obiettivi sentiti e voluti dalla base operaia ma condizionandoli sempre agli obiettivi concertati con le “controparti”. Il sindacato di classe non fa dipendere obiettivi, mezzi e metodi della lotta operaia dalle compatibilità con l’economia aziendale o nazionale, né dal rispetto della pace sociale e del consenso delle parti sociali coinvolte, ma dalla difesa esclusiva degli interessi immediati e più generali dei proletari. Adotta i mezzi e i metodi di lotta più adeguati alla situazione e ai rapporti di forza esistenti. Il sindacato collaborazionista fa prevalere gli interessi dell’economia aziendale e nazionale sugli interessi proletari e adotta i mezzi e i metodi di contenimento della lotta più adeguati al mantenimento della pace sociale e alla compatibilità con gli interessi capitalistici.

I mezzi e i metodi di lotta adottati dagli organismi operai, anche se gli obiettivi immediati della lotta sono modesti, definiscono in realtà se la lotta è classista oppure no. Tutte le volte che i mezzi e i metodi di lotta adottati rispondono in primis al principio della conciliazione degli interessi proletari con quelli borghesi e al principio della pace sociale, sono mezzi e metodi della collaborazione di classe, perciò antiproletari, e portano non a rafforzare la lotta operaia ma a devitalizzarla, demoralizzarla, sconfiggerla. Di esempi in questi sette decenni che ci dividono dalla fine della seconda guerra mondiale ce ne sono a iosa, e i proletari ne sono consapevoli perché hanno subito sulla propria pelle, di generazione in generazione, gli effetti del collaborazionismo sindacale e politico. Le sconfitte che il proletariato ha subito in tutti questi decenni lo hanno fatto indietreggiare a tal punto da non essere in grado nemmeno di difendere in modo collettivo ed organizzato gli elementari interessi immediati riguardo la giornata di lavoro, il salario, la nocività, e ciò è dovuto non tanto alla mancanza di volontà a lottare ma all’azione disorganizzatrice, demoralizzatrice e divisoria del collaborazionismo. La via da intraprendere da parte dei proletari, quindi, non può essere che quella che rimette i loro interessi di classe al centro delle loro lotte; ma per fare questo è necessario organizzarsi in modo indipendente dagli interessi borghesi e dal collaborazionismo. Cosa che oggi, in verità, i proletari non sono ancora in grado di fare, prigionieri come sono delle illusioni di un benessere derivante solo dai buoni rapporti col padronato e delle pratiche collaborazioniste. Rompere con queste illusioni e con queste pratiche è la cosa più difficile perché non è solo una questione di idee, è una questione soprattutto materiale: quelle illusioni e quelle pratiche poggiano da decenni su una rete di ammortizzatori sociali che la democrazia post-fascista ha ereditato dal fascismo, e che le lotte operaie hanno infittito approfittando del periodo di grande espansione del capitalismo post-guerra. Rete di ammortizzatori sociali, però, che si va sempre più lacerando sotto i colpi delle misure d’austerità governative e che “protegge” sempre meno gli operai di fronte alle crisi economiche e sociali esponendo strati sempre più ampi della popolazione lavoratrice alla precarietà, alla disoccupazione, alla miseria, alla fame, all’abbrutimento dell’esistenza. La reazione operaia a questo abbrutimento però non potrà mancare.           

  La vicenda dell’Ilva, come quella dell’Alcoa di Portovesme o del Petrolchimico di Marghera o dell’Ichmesa di Seveso e di centinaia di altre situazioni simili, ha messo in primo piano la questione della salute non solo dei lavoratori della fabbrica ma di tutti gli abitanti del territorio su cui si stendono i veleni delle rispettive produzioni. E la questione della salute si è sempre opposta alla questione del posto di lavoro, come succede in questi giorni nel caso dell’Ilva, perché salute, benessere fisico e mentale degli esseri umani, soprattutto se lavoratori salariati, e salute dell’ambiente sono in realtà un intralcio agli affari, al profitto capitalistico. Il progresso industriale è stato storicamente un enorme passo avanti della civiltà umana e i marxisti di tutti i tempi l’hanno riconosciuto come una necessità storica dell’evoluzione della società. Ma non è mai stato nascosto il fatto che tale progresso è stato pagato ad un prezzo sempre più alto nella misura in cui l’industrializzazione avanzava nei singoli paesi e nel mondo. La realtà, da quando il capitalismo non contiene più la spinta rivoluzionaria che distruggeva i modi di produzione precedenti e i vincoli politici e burocratici delle precedenti società di classe, è che lo sviluppo capitalistico non può più esserci – e questo in Europa e in America dalla metà dell’Ottocento – se non distruggendo vite umane e ambiente naturale. Per quanto l’Ilva di Taranto possa bonificare i propri impianti a caldo, non riuscirà mai ad azzerare l’inquinamento prodotto perché il costo per eliminare le cause dell’inquinamento sarebbe troppo alto rispetto ai profitti derivanti da una produzione “pulita”. Se la vicenda Ilva di Taranto terminerà non con la chiusura dello stabilimento o con la sua conversione alla produzione a freddo (come è avvenuto a Genova-Cornigliano), ridimensionando drasticamente l’attività di questo stabilimento e il numero degli addetti, ma con la continuazione dell’attuale attività solo “bonificata”, si può pensare che l’inquinamento diminuirà in modo da non essere causa di aumento notevole dei tumori come riscontrato in questi decenni? In ogni caso sarà causa di tumori che le statistiche considereranno “nella media”, e i profitti potranno viaggiare liberamente in attesa di minori controlli e di occasioni per aumentarli fregandosene per l’ennesima volta dei limiti di legge, delle regole, degli accordi sottoscritti ecc. ecc. I capitalisti cambiano il pelo ma non il vizio! Solo la lotta di classe del proletariato portata alle estreme conseguenze, all’abbattimento del potere politico del capitale e della sua dittatura sull’intera società sostituendoli col potere politico proletario e, quindi, con la dittatura di classe del proletariato esercitata dal suo partito di classe, potrà avviare gli indispensabili e drastici interventi sulla produzione capitalistica, sulla sua esclusiva finalità di valorizzazione del capitale, sul suo sistema di spreco di risorse materiali e umane a fini esclusivamente mercantili, sulla sua sempre più alta nocività per la salute umana e dell’ambiente, indirizzando la produzione ai reali bisogni sociali e non alle esigenze del mercato. A questo storico obiettivo il proletariato non ci può arrivare se non riconquista il terreno della lotta di classe, dell’antagonismo di classe che lo oppone storicamente alla classe borghese, e se non si allena nella lotta in difesa dei suoi interessi immediati organizzandosi in modo indipendente, adottando mezzi e metodi di classe: lotta che, nel suo sviluppo, trascresce in lotta politica per conquistare il potere politico da cui lanciarsi verso la vera emancipazione dalla schiavitù del lavoro salariato.

(21 agosto 2012)                                      

 


 

(1) Il quotidiano La Sicilia, del 13 agosto, scrive che la ricerca ha trovato in particolare per l’area di Taranto un “eccesso di circa il 30% nella mortalità per tumore del polmone, per entrambi i generi, un eccesso compreso tra il 50% (uomini) e il 40% (donne) di decessi per malattie respiratorie acute”, e un aumento del 10% nella mortalità per le malattie dell’apparato respiratorio. Ma l’Italia avvelenata – continua La Sicilia – è ampia. Ad esempio, per gli incrementi di mortalità per tumore polmonare e malattie respiratorie non tumorali a Gela e Porto Torres il ruolo ce l’hanno le emissioni di raffinerie e poli-petrolchimici, a Taranto e nel Sulcis-Inglesiente-Guspinese le emissioni degli stabilimenti siderurgici. A Massa-Carrara, Falconara, Milazzo e Porto Torres gli eccessi di mortalità per malformazioni congenite e condizioni morbose perinatali sono causati dall’inquinamento ambientale. In ogni caso, e contro coloro che sostengono che i dati su cui i magistrati di Taranto si sono basati per ordinare il sequestro dei sei impianti a caldo dell’Ilva sarebbero dati molto vecchi, lo stesso quotidiano citato rileva che l’Associazione Italiana di Epidemiologia considera “solidi e affidabili i risultati della perizia epidemiologica che ha permesso al gip di Taranto di quantificare i danni sanitari determinati, sia nel passato sia nel presente, dalle emissioni nocive degli impianti Ilva”. Nel petrolchimico di Gela, che dà lavoro a 2000 persone, “l’eredità delle lavorazioni – scrive la Repubblica dell’8 agosto scorso, da cui riprendiamo anche le notizie successive – è dentro le ossa dei contemporanei: venti operai su settantacinque nel reparto Clorosoda, chiuso dal 1994, sono morti per tumore, altrettanti hanno il sistema immunitario distrutto dal mercurio”, e non è finita. Il genetista Sebastiano Bianca oggi dice: “Il problema non sono le generazioni presenti, ma quelle che verranno”. Centrale a carbone dell’Enel, a Brindisi: “le polveri del nastro trasportatore – ancora dal quotidiano ora citato – hanno avvelenato 400 ettari di terreni agricoli” e un’altra inchiesta sta accertando le ragioni della morte di alcuni operai; nel frattempo, la magistratura ha rinviato a giudizio tredici dirigenti dell’Enel. Sempre nella regione del governatore “di sinistra” Vendola, che ha interrotto la costruzione di rigassificatore nel porto di Brindisi da parte della British Gas nel 2002, “inciampata” in processo per corruzione, è stato dato però il via libera al raddoppio degli stabilimenti Cementir ed Eni, sulla costa tarantina, oltre a due nuovi inceneritori. A Civitavecchia, “la centrale Enel – riconvertita da olio a carbone – se ne infischia di ogni indicazione”, dice il sindaco; i fanghi vengono essicati senza essere depurati, stendendo sulla città una nebbia costante che “è gialla, frutto delle polveri dell’impianto”. In Sardegna non va meglio. A Portovesme, salita alle cronache da tempo per la lotta degli operai dell’Alcoa, un giudice ha contestato all’altra grande industria, l’Eurallumina, il “disastro ambientale doloso con inquinamento delle acque di falda”; hanno trovato fluoruri, manganese, boro, arsenico. Borgo Valsugana, nella ridente provincia di Trento, ha visto finora quattro inchieste della magistratura sulle emissioni di diossine e monossidi dell’Acciaieria Valsugana.

(2) Cfr. Ornella Bianchi, Il diritto dimezzato, Annali della Fondazione G. Di Vittorio, 2011.

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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