Alcuni cenni sulla Siria (3)

LA SIRIA INDIPENDENTE

(«il comunista»; N° 126-127; ottobre 2012)

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Una volta ottenuta l’indipendenza, dopo la partenza delle truppe coloniali francesi, la Siria ha dovuto affrontare una serie di problemi economici, sociali e politici. Privata di una parte del suo territorio, e in particolare dei suoi sbocchi naturali al Mediterraneo, cioè il porto di Beirut e, per la regione di Aleppo, la capitale economica del paese, quello di Alexandrette (Antiochia, oggi nota con il nome turco di Iskenderun), la debolezza del paese lo rendeva facile bersaglio della cupidigia degli Stati rivali della regione e dei vari imperialismi. L’organizzazione politica del nuovo Stato sotto forma di una democrazia parlamentare all’europea non poteva supplire all’arretratezza economica e sociale del paese. La classe dirigente, composta essenzialmente da grandi proprietari terrieri assenteisti, da capi religiosi e da grandi commercianti, e frammentata sulla base delle divisioni regionali tipiche della Siria, mostra rapidamente il suo vero volto dedicandosi a uno spudorato saccheggio del paese.

La vergognosa sconfitta nella guerra intrapresa nel maggio del ’48 dalla Lega Araba contro Israele (ricordiamo che la Palestina faceva parte della Grande Siria sognata dai nazionalisti) fu un fattore aggravante della crisi di regime che covava e il cui fattore scatenante risiedeva nel deterioramento della situazione delle grandi masse, in particolare a causa dell’impennata dei prezzi determinata dai cattivi raccolti.

Un nuovo partito, il partito Baas (“Rinascita”), che legava il nazionalismo arabo a discorsi “socializzanti” (1), comparve per la prima volta sul proscenio ponendosi, alla fine del 1948, alla testa degli scioperi studenteschi che ben presto si estesero alla popolazione attiva di tutto il paese; le rivendicazioni mescolavano i temi nazionalisti e le rivendicazioni sociali, dalla ripresa immediata della guerra contro Israele alla riduzione del prezzo del pane… La repressione fu sanguinosa e, dato che la polizia non era in grado di fronteggiare la situazione, il governo fece ricorso all’esercito e all’mposizione della legge marziale.

Per superare le difficoltà economiche, il governo progettava un accordo finanziario con la Francia e un altro con gli Stati Uniti per la costruzione di un oleodotto destinato al passaggio del petrolio iracheno, estratto dall’Aramco, verso il Mediterraneo. Nell’ambiente surriscaldato del momento era impossibile che il parlamento desse il suo consenso a questo progetto. Nel marzo del 1949 un colpo di Stato militare, ispirato dagli imperialisti (2), permise di risolvere il problema e di ratificare questi accordi. Questo colpo di Stato fu solo il primo di un’interminabile serie: appena qualche mese più tardi seguì un secondo colpo di Stato ispirato dagli interessi imperialisti e regionali rivali…

 

Dall’«unità» con l’Egitto…

 

Non serve raccontare in dettaglio la storia dell’instabilità politica cronica della Siria nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta.

È utile però ricordare l’episodio dell’unione fra Siria ed Egitto (la cosiddetta «Repubblica Araba Unita», RAU, che durò dal 1958 al 1961) in quanto è l’espressione della politica egiziana tradizionale che consisteva nel prevenire la comparsa nel mondo arabo di una potenza che potesse metterlo in ombra; in questo caso specifico si trattava di impedire qualunque alleanza della Siria con l’Irak (prospettiva definita come unità della «Mezzaluna fertile») o con la Giordania (prospettiva definita «Hashemita»): ciò dimostra quanto valessero gli infiammati discorsi di Nasser  sull’unità araba!

Da parte siriana, la prospettiva di un’unione con il grande Stato egiziano si spiegava con l’appoggio che quest’ultimo poteva fornirle di fronte alle crescenti difficoltà interne (3) e alle preoccupanti minacce esterne. Temendo che la Russia potesse mettere le mani sul Medio Oriente favorita dall’eliminazione degli imperialismi inglese e francese dopo l’insuccesso del loro attacco contro l’Egitto nel 1956, gli Stati Uniti volevano infatti intimidire la Siria (e anche l’Egitto) inviando la VI flotta a incrociare nel Mediterraneo orientale, fornendo armi alla Giordania, minacciando un intervento militare turco e perfino fomentando un colpo di Stato a Damasco. Ma queste minacce provocarono l’avvicinamento siro-egiziano, che d’altronde era concepito dai suoi fautori come un mezzo per evitare un allineamento troppo marcato con Mosca (la RAU, come l’Egitto, si presenterà sempre come «non allineata»).

Questa unione fra Egitto e Siria poteva sembrare inserirsi nella prospettiva di unificazione della 'nazione araba' agitata dal nazionalismo arabo di cui il partito Baas era il fautore più fervente. Essa mostra, in realtà, quanto valgono i tentativi borghesi di unificazione fra gli Stati. Ben presto apparvero le rivalità; i borghesi siriani allettati dal grande mercato egiziano rimasero delusi di fronte alla concorrenza venuta da questo paese, gli sperati investimenti egiziani brillarono per la loro assenza, mentre le autorità del Cairo si sforzavano di imporre un controllo burocratico e poliziesco su un paese nei confronti del quale non potevano considerare un’unità se non sotto forma di sottomissione; i principali partiti siriani, compreso il Baas, furono obbligati a sciogliersi nel partito unico di Nasser o a entrare in clandestinità, cadendo così sotto i colpi della brutale repressione dei servizi egiziani che si abbandonavano a ripetute atrocità.

Per quanto riguarda il proletariato, una serie di misure legali, simili a quelle decretate dal regime di Nasser in Egitto, portarono sulla carta dei miglioramenti alle condizioni operaie: un sistema di assicurazione sociale, un nuovo codice del lavoro che riconosceva un periodo di ferie annuali, che prevedeva alcune garanzie in caso di malattia o di incidente sul lavoro, contro il licenziamento ecc. Ma al tempo stesso crebbe la repressione contro ogni attività sindacale reale: i sindacati furono posti sotto stretto controllo, si diede la caccia ai militanti sindacali (in particolare dove negli anni precedenti c’erano stati scioperi, come nel settore tessile ad Aleppo nel 1955-56, o nel settore dell’elettricità a Homs e Hama nel 1954 ecc.). Questa politica antioperaia si accompagnò in generale a una diminuzione dei salari per allinearli al livello dei salari egiziani. È chiaro che il fascino del nasserismo fra i proletari siriani svanì molto più rapidamente che fra gli strati borghesi…

Secondo il marxismo, essendo lo Stato una macchina di difesa del modo di produzione capitalistico e dei privilegi della classe dominante eretti su questo modo di produzione, è impossibile unire due Stati senza l’impiego della forza (che si tratti di una rivoluzione o di una guerra) per spezzare uno dei due e assicurare il dominio dell’altro. Infatti, mai una classe dominante abbandonerà (o condividerà) senza opporre resistenza l’apparato che garantisce la sua situazione sociale e il suo dominio.

Alla fine, nel settembre del 1961, un colpo di Stato a Damasco pose fine all’unione fra i due paesi. Lo Stato è, in definitiva, una banda di uomini armati – come afferma Engels – che nei paesi capitalisti ricchi è mascherata dall’esistenza di tutto un apparato di istituzioni democratiche, mentre è di un’evidenza immediata nei paesi più poveri, che non possono permettersi questo lusso. Tutta la storia della Siria è lì a dimostrarlo e a dimostrare anche che gli stessi conflitti d’interesse in seno alla classe dominante che si ripercuotono sull’orientamento dello Stato si risolvono sul terreno della violenza e della forza militare.

 

…alla «rivoluzione» baasista

 

 Nella propaganda ufficiale il colpo di Stato che nel marzo del ’63 pose fine al tormentato intermezzo di pseudodemocrazia parlamentare apertosi nel ’61 viene presentato come l’inizio della “rivoluzione”. Scoppiato un mese dopo l’ascesa al potere in Irak dei militari baasisti, questo primo colpo di Stato baasista in Siria (ce ne saranno parecchi a seconda degli scontri tra le fazioni) segna, se non una “rivoluzione”, che non ha mai avuto luogo, per lo meno una svolta nella storia economica e politica del paese.

A partire da questa data tutti i gruppi che si succederanno al potere a seconda delle vicissitudini dei conflitti fra le cerchie dei dirigenti si richiameranno al Baas.

Ma, fattore ben più importante, i dirigenti delle varie fazioni baasiste riusciranno a guidare una modernizzazione dei rapporti economici e sociali siriani che permetterà un innegabile sviluppo economico, sulla cui base il paese ha potuto in sostanza godere di una stabilità politica che, nonostante le guerre, è durata parecchi decenni sotto il pugno di ferro del regime militar-poliziesco privo di scrupoli di Hafez el Assad.

È tuttavia dopo aver, in un primo momento, soffocato nel sangue dei moti scoppiati sotto la bandiera islamista e dopo aver liquidato diverse opposizioni che il regime baasista ha iniziato a dedicarsi alle riforme economiche: nazionalizzazione delle risorse minerarie, delle grandi industrie e di varie società straniere.

A partire dal 1966 il regime si è «radicalizzato» a livello di una propaganda «socializzante», ma soprattutto avvicinandosi a Mosca. Verso l’estero ha seguito una politica che si voleva distinguere con la bandiera del panarabismo e il sostegno alla causa palestinese (scelta che gli costerà il coinvolgimento nella «guerra dei 6 giorni» del 1967, in cui la Siria perderà la regione strategica dell’altopiano del Golan). Per quanto riguarda la politica interna si è sforzato di dare impulso a uno sviluppo economico sul modello russo; d’altronde la debolezza del capitalismo privato, investito soprattutto nel commercio, non lasciava altra alternativa che il ricorso allo Stato per gettare le basi di un’industrializzazione locale, senza parlare della costruzione di infrastrutture moderne, in particolare per quanto riguarda le vie di comunicazione.

In agricoltura, che all’epoca rappresentava il principale settore economico, viene rilanciata la riforma agraria che era stata iniziata nel 1958, all’epoca della RAU. Lo scopo era quello di liquidare la grande proprietà latifondista parassitaria e di promuovere uno sviluppo capitalistico dell’agricoltura. Per quanto non rivoluzionarie, queste trasformazioni furono reali: i grandi proprietari fondiari, che prima possedevano il 50% delle terre, dopo la riforma arrivarono a possederne meno del 18%, mentre i contadini senza terra che prima rappresentavano il 60% del contadiname, dopo la riforma si ridussero al 36%.

Si trattò di una riforma capitalistica, abbiamo detto, non solo perché la proprietà privata della terra chiaramente non è stata soppressa, ma anche perché fu lo strato dei contadini medi (da 10 a 100 ettari di terra) il grosso beneficiario della ridistribuzione delle grandi proprietà. Pur rappresentando solo il 15% dei contadini, dopo la riforma essi possedevano il 59% delle terre, mentre i piccoli proprietari, che costituivano il 48% della popolazione contadina, ne possedevano solo il 23,6%. Circa la metà dei piccoli proprietari aveva terreni talmente piccoli che, nonostante gli aiuti statali, non poteva sopravvivere se non cercando lavori temporanei in città o sulle terre dei contadini ricchi (4).

La riforma agraria, dunque, non ha rivoluzionato i rapporti sociali nelle campagne; in realtà ha riguardato solo poco più di un quinto delle terre coltivabili (mentre lo Stato rimaneva il più grosso proprietario terriero e non si è mai parlato di distribuire le terre demaniali ai contadini senza terra). La riforma ha comunque consentito un certo sviluppo dell’agricoltura capitalistica con un uso maggiore dei moderni mezzi tecnici e con l’impiego di manodopera salariata, e questi proprietari terrieri sono divenuti fra i più fedeli sostenitori del regime, in particolare nelle regioni un tempo trascurate dal potere centrale.

 

L’ascesa al potere di Hafez el Assad o l’allineamento del regime baasista con l’imperialismo mondiale

 

Oltre all’ostilità dei grandi proprietari latifondisti, ormai marginalizzati, l’orientamento “socializzante” (leggi: capitalismo di Stato) del regime baasista siriano ha rapidamente determinato, dopo la sconfitta militare del 1967, una serie di frizioni con la borghesia tradizionale. Un’ala “destra”, difendendo i propri interessi, si è costituita intorno al ministro della difesa, il generale el Assad, che iniziò a contestare gli orientamenti della maggioranza del gruppo dirigente. Dopo un primo tentativo di imporre la propria linea nel 1969, probabilmente fallito a causa dell’opposizione dell’URSS, principale alleata della Siria e principale fornitrice di armi, sono gli avvenimenti esteri che aprono ad Assad le porte del potere.

Nel settembre del 1970, dopo un dirottamento aereo in Giordania da parte del FPLP, le truppe giordane si sono lanciate all’assalto dei campi palestinesi del paese. Questa iniziativa del re Hussein aveva ricevuto apertamente l’appoggio degli americani, ma anche della maggior parte degli Stati arabi, spaventati dal fatto che i rifugiati palestinesi presenti nei loro paesi avessero preso le armi, cosa che rappresentava una grave minaccia per il mantenimento dell’ordine. Uno slogan delle frange palestinesi più radicali era, infatti, “la strada per Gerusalemme passa per le capitali arabe”, in altre parole: bisogna prima di tutto rovesciare i regimi arabi filoimperialisti per potersi dare una forza sufficiente a rovesciare il colonialismo israeliano (5).

 La sola eccezione a questo sentimento era praticamente costituita dal governo di Damasco (6) che, dopo la sconfitta militare del 1967 si poneva come irriducibile avversario di Israele, come deciso sostenitore della lotta palestinese  e come accusatore degli altri Stati arabi. Decise, dunque, di inviare i suoi carri armati in soccorso ai palestinesi. Non vi è alcun dubbio che l’entrata in battaglia delle truppe siriane avrebbe significato la sconfitta dell’esercito di re Hussein, che avrebbe dovuto fare i conti con una resistenza più forte del previsto della guerriglia palestinese, già padrona del nord del paese, e con un probabile rovesciamento del regime giordano, che già doveva far fronte all’ostilità della maggioranza della popolazione, di origine palestinese. E se la pedina giordana fosse caduta, tutto l’ordine capitalista nella regione sarebbe finito a brandelli, con conseguenze incalcolabili.

I russi resero nota la loro opposizione a questa operazione militare, e Assad ordinò ai carri armati siriani di fare dietrofront. Da parte sua, l’OLP di Arafat si sottomise anch’essa al rispetto dell’ordine imperialista nella regione, chiedendo ai palestinesi di deporre le armi in nome della “non ingerenza negli affari interni dei paesi arabi”. Le vittime palestinesi dei soldati beduini, nei bombardamenti indiscriminati dei campi palestinesi, nelle sparatorie contro combattenti disarmati ecc., sono state calcolate intorno a 10.000 e i feriti a più di 100.000 (principalmente civili); i campi furono rasi al suolo e i combattenti palestinesi che riuscirono a farlo furono costretti a scappare dal paese (essenzialmente in Libano) per sfuggire ai massacri.

Il “settembre nero” giordano segnò una vittoria della Santa Alleanza controrivoluzionaria, unita, dell’URSS con gli Stati Uniti, di Israele con gli Stati arabi, nonostante i sanguinosi scontri interni, contro ogni movimento delle masse oppresse e diseredate: gli Stati borghesi fanno fronte unico dinanzi alla minaccia che gli sfruttati possono rappresentare, come scrisse Marx all’epoca della Comune di Parigi.

       Messo sotto accusa durante il congresso del partito Baas tenutosi poco dopo, Assad rispose con un colpo di Stato che lo porterà al potere fino alla sua morte, avvenuta trent’anni dopo: la via del potere a Damasco passava per il rispetto dell’ordine imperialista e l’abbandono dei palestinesi ai loro carnefici giordani. Alcuni anni dopo, il regime di Assad che, durante la guerra del 1973, si era guadagnata, in confronto all’atteggiamento dell’Egitto, una reputazione di “fermezza” di fronte a Israele (7), ha reso ancora una volta un buon servizio all’ordine imperialista mondiale; con il consenso implicito o esplicito degli Stati Uniti, di Israele, dell’URSS e, a mezza voce, degli Stati arabi, le truppe siriane intervennero nel 1976 nella guerra civile libanese per salvare un regime reazionario in pericolo e impedire la vittoria dei palestinesi e dei loro alleati del “campo progressista” che avrebbe rischiato di destabilizzare tutta la regione.

Il famoso “asse della resistenza” contro Israele e l’imperialismo, di cui la Siria sarebbe stata l’incarnazione, non è mai esistito se non nella propaganda ufficiale di Damasco...

 


 

(1) I fondatori del partito Baas, Michel Aflak  e Saleh Bitar hanno raccontato di aver scoperto il “socialismo” quando erano studenti a Parigi negli anni Trenta, ma un socialismo non marxista, perché il marxismo era un fattore di divisione della nazione araba. In realtà erano stati inizialmente sedotti dal “socialismo” staliniano, quando questo si identificava in Siria con il nazionalismo. Ruppero con il PC siriano quando quest’ultimo, uniformandosi alla politica staliniana, abbandonò la rivendicazione nazionale per la difesa dell’imperialismo francese in nome della lotta della Germania nazista.

(2) Patrick Seale, grande esperto britannico di questioni siriane, si dichiara poco convinto di un ruolo degli Stati Uniti nell’istigare il colpo di Stato, ma scrive che non è possibile affermare la stessa cosa riguardo a una partecipazione francese. Sostiene tuttavia che gli Stati Uniti erano al corrente della preparazione di tale colpo di Stato. Cfr. P. Seale, The struggle for Syria, Oxford University Press, p.36.

Comunque sia, il regime del colonnello Zaim sarà decisamente filofrancese. È per questo motivo, d’altronde, che verrà fucilato così come il suo primo ministro, anch’esso curdo, dagli uomini del colonnello Hennaoui (??Hennaui), fervente sostenitore di un avvicinamenti agli interessi inglesi. Rovesciato nel giro di pochi mesi a causa della sua intenzione di riunire la Siria con l’Irak (sotto il dominio britannico), questo militare druso sarà assassinato a Beirut da curdi che volevano vendicare l’uccisione del loro correligionario (??o corregionale??).

(3) P. Seale scrive: “A fine estate del 1957 la Siria era giunta sull’orlo della disintegrazione in quanto comunità politica organizzata. Non solo perché non esisteva un consenso generale sulle regole del comportamento politico, ma, cosa ancor più grave, perché molti siriani avevano perso fiducia nel futuro del loro paese come entità indipendente”. Op. cit., p.308.

Non si tratta di psicologia, ma del riflesso fra i circoli dirigenti dei problemi causati dall’instabilità politica interna: “ I disordini si moltiplicano; le fazioni vengono alle mani; vince l’anarchia e l’ordine pubblico non può più essere mantenuto” scrive Claude Palazzoli in “La Syrie. Le rêve e la rupture”, Le Sycomore, Parigi 1977, p. 169. Michel Aflak, il dirigente storico del Baas, partito che fu il più caloroso artefice dell’unificazione con l’Egitto, spiegava: “volevamo uno Stato federale abbastanza forte e centralizzato da resistere alle manovre degli oppositori all’interno e  dei governi stranieri all’estero”. Cfr. P. Seale, op. cit., p. 318.

(4) Statistica citata in “Syria. Society, culture and polity” State University of New York Press, 1991, p. 37.

(5) Queste organizzazioni, anche le più estremiste, non avendo mai superato il quadro del nazionalismo borghese, non potevano in realtà considerare la sola prospettiva storicamente possibile di rovesciamento degli Stati della regione: quella della rivoluzione proletaria a coronamento della lotta di classe anticapitalista. Parlavano di rovesciare questi regimi (come, per esempio, il FNLP a proposito della Giordania) perché erano ostacoli alla lotta palestinese, perché erano asserviti all’imperialismo, perché erano corrotti ecc., non perché erano capitalisti. Si vietavano così di mobilitare i proletari e le masse sfruttate e oppresse…

(6) Anche il regime irakeno si richiamava al baasismo (il capo storico del Baas si rifugiò in Irak dopo essere stato espulso dal Baas siriano), fece altisonanti dichiarazioni di sostegno ai palestinesi, ma si astenne dal compiere la benché minima azione concreta a loro favore…

(7) La sua “fermezza” di fronte a Israele e agli Stati Uniti fece sì che ricevesse finanziamenti arabi che gli permisero di superare le devastazioni causate da Israele a una parte delle sue infrastrutture economiche; ma questa fermezza assai relativa sfociò, durante i negoziati, in un impegno a impedire qualunque azione di guerriglia contro Israele che potesse partire dal proprio territorio. Questo impegno fu rigorosamente rispettato nei decenni successivi, rendendo la frontiera con la Siria la più sicura per Israele…

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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