Il capitalismo si nutre di sudore e sangue proletario!

Sete di profitto e guerra di concorrenza capitalistica continuano ad uccidere i lavoratori in ogni paese del mondo!

Solo organizzandosi sul terreno della lotta di classe e per la rivoluzione anticapitalistica i proletari possono fermare questa inesorabile carneficina!

(«il comunista»; N° 130-131; aprile - luglio 2013)

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Le continue stragi di lavoratori in tutti i paesi del mondo sono la dimostrazione che la società borghese può assicurare al proletariato mondiale un futuro solo di miseria, di disperazione e di morte.Le continue stragi di lavoratori in tutti i paesi del mondo sono la dimostrazione che la società borghese può assicurare al proletariato mondiale un futuro solo di miseria, di disperazione e di morte.

Negli ultimi mesi una serie tragica di crolli, incendi, di cosiddetti “incidenti sul lavoro”, ha riempito i servizi tv e le pagine dei giornali documentando cinicamente, tra le notizie di gossip, di politica, di borsa, di sport e di meteo, quella che è ormai una strage sistematica di lavoratori.Negli ultimi mesi una serie tragica di crolli, incendi, di cosiddetti incidentisullavoro, ha riempito i servizi tv e le pagine dei giornali documentando cinicamente, tra le notizie di gossip, di politica, di borsa, di sport e di meteo, quella che è ormai una strage sistematica di lavoratori.

I proletari europei e americani hanno cominciato così a conoscere in quali drammatiche condizioni sono costretti a lavorare, e a sopravvivere, milioni di proletari in paesi come il Bangladesh, il Pakistan, la Cambogia, il Vietnam, paesi lontani che di solito venivano citati a causa delle guerre che l’imperialismo vi scatenava o di catastrofi “naturali”, come le inondazioni o i terremoti. Ultimamente è il Bangladesh, in particolare, ad avere il tristissimo onore di riempire, con una continua carneficina di proletari, le prime pagine dei giornali e della tv. I proletari europei e americani hanno cominciato così a conoscere in quali drammatiche condizioni sono costretti a lavorare, e a sopravvivere, milioni di proletari in paesi come il Bangladesh, il Pakistan, la Cambogia, il Vietnam, paesi lontani che di solito venivano citati a causa delle guerre che l’imperialismo vi scatenava o di catastrofi naturali, come le inondazioni o i terremoti. Ultimamente è il Bangladesh, in particolare, ad avere il tristissimo onore di riempire, con una continua carneficina di proletari, le prime pagine dei giornali e della TV.

Il Bangladesh è uno dei paesi più densamente popolati al mondo (circa 900 abitanti per kmq), ma nello stesso tempo è uno dei paesi capitalisticamente più poveri. Qui il capitalismo internazionale, dopo aver distrutto i vecchi equilibri di un’agricoltura tradizionale ed enormemente frammentata, dopo aver scovato un po’ di petrolio e di gas naturale, ha iniziato ad investire, soprattutto nell’ultimo decennio, ingenti quantità di denaro nell’industria dell’abbigliamento e del tessile in generale; qui, come in altri paesi vicini (Pakistan, Vietnam, Cambogia, Myanmar) poteva e può contare su una massa enorme di lavoratori abili nella tessitura ma affamati come non mai. Infatti, nel giro di pochi anni, sono sorti, soprattutto nei dintorni della capitale Dhaka, distretti industriali costituiti da un numero sempre più grande di edifici che si sviluppavano in altezza ospitando migliaia di piccole e medie fabbriche tessili. In veri e propri palazzi-fabbrica alti 8, 10, 12 piani, vengono ammassati migliaia di operai con turni di lavoro di 12-15 ore al giorno, e con salari che si aggirano tra i 350 e i 400 dollari all’anno! Il settore tessile è diventato decisivo per il Bangladesh: vi lavorano circa 3 milioni di operai, su 4.500 fabbriche, e produce capi d’abbigliamento dei marchi più noti al mondo. Non c’è firma occidentale che non  faccia produrre i propri capi in Bangladesh, e i gravissimi episodi di crolli e incendi hanno svelato – se mai ce ne fosse stato bisogno – come i jeans, le t-short, le felpe che vanno tanto di moda a Londra e a Berlino, a Roma a Milano e a Parigi, a Madrid a Barcellona e ad Amsterdam, a Vienna a Stoccolma e a Copenhagen, a New York a Los Angeles, a Rio de Janeiro a Buenos Aires e a Tokio – che quei capi che si comprano a 9,90 euro sono intrisi di sangue bangladeshi, ma anche pakistano, vietnamita, indiano, cambogiano o peruviano. Il Bangladesh è uno dei paesi più densamente popolati al mondo (circa 900 abitanti per kmq), ma nello stesso tempo è uno dei paesi capitalisticamente più poveri. Qui il capitalismo internazionale, dopo aver distrutto i vecchi equilibri di un’agricoltura tradizionale ed enormemente frammentata, dopo aver scovato un po’ di petrolio e di gas naturale, ha iniziato ad investire, soprattutto nell’ultimo decennio, ingenti quantità di denaro nell’industria dell’abbigliamento e del tessile in generale; qui, come in altri paesi vicini (Pakistan, Vietnam, Cambogia, Myanmar) poteva e può contare su una massa enorme di lavoratori abili nella tessitura ma affamati come non mai. Infatti, nel giro di pochi anni, sono sorti, soprattutto nei dintorni della capitale Dhaka, distretti industriali costituiti da un numero sempre più grande di edifici che si sviluppavano in altezza ospitando migliaia di piccole e medie fabbriche tessili. In veri e propri palazzi-fabbrica alti 8, 10, 12 piani, vengono ammassati migliaia di operai con turni di lavoro di 12-15 ore al giorno, e con salari che si aggirano tra i 350 e i 400 dollari all’anno! Il settore tessile è diventato decisivo per il Bangladesh: vi lavorano circa 3 milioni di operai, su 4.500 fabbriche, e produce capi d’abbigliamento dei marchi più noti al mondo. Non c’è firma occidentale che non  faccia produrre i propri capi in Bangladesh, e i gravissimi episodi di crolli e incendi hanno svelato – se mai ce ne fosse stato bisogno – come i jeans, le t-short, le felpe che vanno tanto di moda a Londra e a Berlino, a Roma a Milano e a Parigi, a Madrid a Barcellona e ad Amsterdam, a Vienna a Stoccolma e a Copenhagen, a New York a Los Angeles, a Rio de Janeiro a Buenos Aires e a Tokio – che quei capi che si comprano a 9,90 euro sono intrisi di sangue bangladeshi, ma anche pakistano, vietnamita, indiano, cambogiano o peruviano.

Tutto il mondo sa perfettamente che le stragi di proletari a Dhaka o a Karachi, a Città del Messico o in Texas o a Phnom Penh, sono dovute ad un unico sistema di produzione: il modo di produzione capitalistico secondo le cui leggi la concorrenza sempre più acuta sui mercati spinge ogni azienda , e a maggior ragione, ogni grande società multinazionale, a ridurre all’osso i costi di produzione delle merci. Risparmiare sui materiali e sulla manodopera, sui trasporti e sui macchinari, sulla manutenzione e sulle misure di sicurezza: per il capitalismo è un principio assoluto! La concorrenza sui mercati è una guerra, e questa guerra ogni capitalista la vuole vincere abbattendo i costi di produzione delle proprie merci e, quindi, abbattendo soprattutto il costo della manodopera perché è dal crescente sfruttamento del lavoro salariato che essi possono salvaguardare il tasso medio di profitto e difendere contro i concorrenti le proprie “quote di mercato”. Il sacrificio della vita dei proletari rientra quindi fin dall’origine del capitalismo nei cosiddetti “rischi d’impresa” come vi rientrano i crediti non esigibili, i guasti dei macchinari, le perdite di merci a causa di furto, incendio, incidente nel trasporto, il fallimento ecc.Tutto il mondo sa perfettamente che le stragi di proletari a Dhaka o a Karachi, a Città del Messico o in Texas o a Phnom Penh, sono dovute ad un unico sistema di produzione: il modo di produzione capitalistico secondo le cui leggi la concorrenza sempre più acuta sui mercati spinge ogni azienda , e a maggior ragione, ogni grande società multinazionale, a ridurre all’osso i costi di produzione delle merci. Risparmiare sui materiali e sulla manodopera, sui trasporti e sui macchinari, sulla manutenzione e sulle misure di sicurezza: per il capitalismo è un principio assoluto! La concorrenza sui mercati è una guerra, e questa guerra ogni capitalista la vuole vincere abbattendo i costi di produzione delle proprie merci e, quindi, abbattendo soprattutto il costo della manodopera perché è dal crescente sfruttamento del lavoro salariato che essi possono salvaguardare il tasso medio di profitto e difendere contro i concorrenti le proprie quotedimercato. Il sacrificio della vita dei proletari rientra quindi fin dall’origine del capitalismo nei cosiddetti rischid’impresa come vi rientrano i crediti non esigibili, i guasti dei macchinari, le perdite di merci a causa di furto, incendio, incidente nel trasporto, il fallimento ecc.

Tutto il mondo sa che la “delocalizzazione” della produzione, dai paesi capitalisticamente sviluppati in paesi economicamente più deboli e arretrati, è avvenuta e avviene perché i capitalisti ci guadagnano enormemente da tutti i punti di vista: dal costo della manodopera al costo delle materie prime che non devono essere trasportate dall’altra parte del mondo, da leggi molto più blande, o inesistenti, sul piano della sicurezza del lavoro e dei diritti sindacali dei lavoratori a vantaggi di ogni genere nelle autorizzazioni ufficiali, a controlli sulle misure di sicurezza del lavoro inefficaci o inesistenti ecc. In Bangladesh, a detta di un capo delle ispezioni alle fabbriche, Serajuddin, “i proprietari violano le leggi sulla sicurezza perché la pena è solo simbolica: dopo un certo numero di incidenti li costringiamo a pagare un risarcimento alle vittime, ma non vengono mai arrestati” (http://www.asianews.it/notizie-it/Bangladesh:-aumentano-gli-incidenti-sul-lavoro,-ma-niente-carcere-per-i-responsabili-5665.html). Il capitalismo ragiona allo stesso modo in tutto il mondo: il lavoratore salariato è una merce un po’ speciale dato che dallo sfruttamento del suo tempo di lavoro il capitalista estorce plusvalore, e quindi profitto, ma sempre una merce e, come merce, se “avariata” o “inutilizzabile”, il valore attribuitole corrisponde ad una cifra minima, più vicina allo zero possibile. In Bangladesh, secondo una legge del 1923, il risarcimento previsto per la famiglia di una vittima sul lavoro è di una cifra corrispondente a 250 euro: è il massimo valore dato alla vita di un proletario! Ma, quanti lavoratori devono morire o subire amputazioni prima che venga riconosciuto il “diritto” del misero risarcimento alle famiglie? Dopo anni e anni di stragi di lavoratori, il governo sta studiando un disegno di legge che, se approvato, consentirà alle famiglie delle vittime sul lavoro, sempre che venga riconosciuto che il lavoratore sia morto per colpa del proprietario della fabbrica e dopo i tempi non certo brevi delle inchieste giudiziarie, di avere un risarcimento... più alto. Di controlli preventivi sulle misure di sicurezza, neanche a parlarne! Il business non si tocca! Tutto il mondo sa che la delocalizzazione della produzione, dai paesi capitalisticamente sviluppati in paesi economicamente più deboli e arretrati, è avvenuta e avviene perché i capitalisti ci guadagnano enormemente da tutti i punti di vista: dal costo della manodopera al costo delle materie prime che non devono essere trasportate dall’altra parte del mondo, da leggi molto più blande, o inesistenti, sul piano della sicurezza del lavoro e dei diritti sindacali dei lavoratori a vantaggi di ogni genere nelle autorizzazioni ufficiali, a controlli sulle misure di sicurezza del lavoro inefficaci o inesistenti ecc. In Bangladesh, a detta di un capo delle ispezioni alle fabbriche, Serajuddin, “i proprietari violano le leggi sulla sicurezza perché la pena è solo simbolica: dopo un certo numero di incidenti li costringiamo a pagare un risarcimento alle vittime, ma non vengono mai arrestati” (http://www.asianews.it/notizie-it/Bangladesh:-aumentano-gli-incidenti-sul-lavoro,-ma-niente-carcere-per-i-responsabili-5665.html). Il capitalismo ragiona allo stesso modo in tutto il mondo: il lavoratore salariato è una merce un po’ speciale dato che dallo sfruttamento del suo tempo di lavoro il capitalista estorce plusvalore, e quindi profitto, ma sempre una merce e, come merce, se avariata o inutilizzabile, il valore attribuitole corrisponde ad una cifra minima, più vicina allo zero possibile. In Bangladesh, secondo una legge del 1923, il risarcimento previsto per la famiglia di una vittima sul lavoro è di una cifra corrispondente a 250 euro: è il massimo valore dato alla vita di un proletario! Ma, quanti lavoratori devono morire o subire amputazioni prima che venga riconosciuto il diritto del misero risarcimento alle famiglie? Dopo anni e anni di stragi di lavoratori, il governo sta studiando un disegno di legge che, se approvato, consentirà alle famiglie delle vittime sul lavoro, sempre che venga riconosciuto che il lavoratore sia morto per colpa del proprietario della fabbrica e dopo i tempi non certo brevi delle inchieste giudiziarie, di avere un risarcimento... più alto. Di controlli preventivi sulle misure di sicurezza, neanche a parlarne! Il business non si tocca!

Perciò, quando le inchieste ufficiali, di fronte alle continue stragi di lavoratori, concludono che si tratta di “incuria e inosservanza delle leggi di sicurezza sul lavoro”,  i proletari non solo del posto, ma di ogni paese del mondo, devono concludere che i morti sul lavoro, i fratelli di classe assassinati dai capitalisti e dal loro sistema economico e politico intriso di sangue, sono morti nella guerra di classe tra proletariato e borghesia: una guerra che oggi ancora è condotta dalla borghesia contro il proletariato senza che il proletariato abbia la forza e la volontà di difendersi in modo efficace!Perciò, quando le inchieste ufficiali, di fronte alle continue stragi di lavoratori, concludono che si tratta di incuria e inosservanza delle leggi di sicurezza sul lavoro,  i proletari non solo del posto, ma di ogni paese del mondo, devono concludere che i morti sul lavoro, i fratelli di classe assassinati dai capitalisti e dal loro sistema economico e politico intriso di sangue, sono morti nella guerra di classe tra proletariato e borghesia: una guerra che oggi ancora è condotta dalla borghesia contro il proletariato senza che il proletariato abbia la forza e la volontà di difendersi in modo efficace!

Il Bangladesh è considerato un paese del “terzo mondo”, secondo una definizione tipica del borghese capitalista bianco che domina internazionalmente, ma è in realtà la periferia del “primo mondo”, dell’area capitalisticamente più sviluppata che si considera all’apice della civiltà, della modernità, del progresso. Le tragedie che sistematicamente avvengono in paesi come il Bangladesh, sono tragedie causate dal capitalismo e, in particolare, dalle aziende multinazionali che, dopo aver strozzato e massacrato i propri proletari in casa nei due secoli passati,  hanno incominciato a strozzarli e massacrarli a milioni in tutti i paesi del mondo. Le vecchie civiltà asiatiche, africane o americane erano certamente spaventosamente arretrate dal punto di vista economico e politico, ma avevano un rapporto con l’ambiente e con la vita sociale molto più rispettoso di quanto non l’abbia la civiltà borghese. Perfino lo schiavo dell’antica Grecia o dell’antica Roma era considerato una risorsa da custodire e difendere, mentre il moderno proletario della società borghese è considerato semplicemente un prolungamento della macchina che serve per far soldi, e quando è logoro, invecchiato e non serve più, viene cinicamente gettato via! La vita dello schiavo di Roma aveva un valore in sè; la vita del proletario moderno ha un valore alla sola condizione di produrre profitto per il padrone, altrimenti non ha alcun valore. Non solo; dato l’enorme progresso economico determinato dall’associare masse numerose in un unico ciclo di produzione mercantile e dalle innovazioni tecniche continue, per il capitalista il valore del singolo proletario va sempre più diminuendo nel tempo. Più si sviluppa e progredisce il capitalismo, più vaste sono le masse che  vengono proletarizzate, vengono cioè spossessate di qualsiasi risorsa per sopravvivere, sia essa agricola o  artigianale, rendendosi così libere di essere sfruttate a piacere da un qualsiasi capitalista. La libertà borghese è la libertà dei capitalisti di sfruttare come e quando vogliono i proletari, dettando le condizioni di questo sfruttamento grazie al monopolio dell’economia e alla forza dello Stato.Il Bangladesh è considerato un paese del terzomondo, secondo una definizione tipica del borghese capitalista bianco che domina internazionalmente, ma è in realtà la periferia del primomondo, dell’area capitalisticamente più sviluppata che si considera all’apice della civiltà, della modernità, del progresso. Le tragedie che sistematicamente avvengono in paesi come il Bangladesh, sono tragedie causate dal capitalismo e, in particolare, dalle aziende multinazionali che, dopo aver strozzato e massacrato i propri proletari in casa nei due secoli passati,  hanno incominciato a strozzarli e massacrarli a milioni in tutti i paesi del mondo. Le vecchie civiltà asiatiche, africane o americane erano certamente spaventosamente arretrate dal punto di vista economico e politico, ma avevano un rapporto con l’ambiente e con la vita sociale molto più rispettoso di quanto non l’abbia la civiltà borghese. Perfino lo schiavo dell’antica Grecia o dell’antica Roma era considerato una risorsa da custodire e difendere, mentre il moderno proletario della società borghese è considerato semplicemente un prolungamento della macchina che serve per far soldi, e quando è logoro, invecchiato e non serve più, viene cinicamente gettato via! La vita dello schiavo di Roma aveva un valore in sè; la vita del proletario moderno ha un valore alla sola condizione di produrre profitto per il padrone, altrimenti non ha alcun valore. Non solo; dato l’enorme progresso economico determinato dall’associare masse numerose in un unico ciclo di produzione mercantile e dalle innovazioni tecniche continue, per il capitalista il valore del singolo proletario va sempre più diminuendo nel tempo. Più si sviluppa e progredisce il capitalismo, più vaste sono le masse che  vengono proletarizzate, vengono cioè spossessate di qualsiasi risorsa per sopravvivere, sia essa agricola o  artigianale, rendendosi così libere di essere sfruttate a piacere da un qualsiasi capitalista. La libertà borghese è la libertà dei capitalisti di sfruttare come e quando vogliono i proletari, dettando le condizioni di questo sfruttamento grazie al monopolio dell’economia e alla forza dello Stato.

I proletari, per necessità, o trovano un lavoro per sè e per sfamare la propria la famiglia nel paese d’origine, oppure sono spinti a migrare in altri paesi dove sperano di trovare un lavoro. Ma le barriere burocratiche e legislative contro cui cozzano li costringe alla clandestinità e, in questo stato, si ritrovano ancor più indifesi nei confronti di padroni e di funzionari pubblici che approfittano cinicamente della situazione per sfruttarli in modo bestiale e per rubar loro energie e vita. Questi proletari, infatti, spesso trovano non la soluzione ai loro problemi di sopravvivenza ma la morte, e non solo nei paesi superindustrializzati dell’Occidente, ma anche nei paesi in cui migrano di volta in volta perché vi è richiesta manodopera. Come ad esempio in Arabia Saudita, dove gli stranieri costituiscono il 20% della popolazione ma il 50% della popolazione attiva. L’agenzia di stampa cattolica AsiaNews (9/7/2012), riferiva che in Arabia Saudita sono migliaia i lavoratori uccisi da sfruttamento, torture e alcolismo e faceva l’esempio dei lavoratori migranti nepalesi, occupati soprattutto nel settore dell’edilizia e dell’industria pesante: dal 2000 ne sono morti oltre 3000 “per le pessime condizioni di lavoro e per lo sfruttamento”; per sopportare le condizioni di lavoro umilianti e massacranti, questi lavoratori spesso “cedono al vizio dell’alcool aggirando i divieti nel paese islamico. Molti di loro tornano a casa stremati, bevono e muoiono nel sonno. Un altro fattore di morte sono gli incidenti sul posto di lavoro”. Allo sfruttamento bestiale si aggiunge anche la totale assenza di regolarità nella detenzione se accusati di un qualche reato; molti di loro non conoscono nemmeno le ragioni per cui sono stati rinchiusi nelle carceri in attesa di processo, non hanno diritto a u avvocato né ad un interprete (http://www.asianews.it/notizie-it/Arabia-Saudita,-migliaia-di-lavoratori-uccisi-da-sfruttamento,-torture-e-alcolismo-25239.html). I proletari, per necessità, o trovano un lavoro per sè e per sfamare la propria la famiglia nel paese d’origine, oppure sono spinti a migrare in altri paesi dove sperano di trovare un lavoro. Ma le barriere burocratiche e legislative contro cui cozzano li costringe alla clandestinità e, in questo stato, si ritrovano ancor più indifesi nei confronti di padroni e di funzionari pubblici che approfittano cinicamente della situazione per sfruttarli in modo bestiale e per rubar loro energie e vita. Questi proletari, infatti, spesso trovano non la soluzione ai loro problemi di sopravvivenza ma la morte, e non solo nei paesi superindustrializzati dell’Occidente, ma anche nei paesi in cui migrano di volta in volta perché vi è richiesta manodopera. Come ad esempio in Arabia Saudita, dove gli stranieri costituiscono il 20% della popolazione ma il 50% della popolazione attiva. L’agenzia di stampa cattolica AsiaNews (9/7/2012), riferiva che in Arabia Saudita sono migliaia i lavoratori uccisi da sfruttamento, torture e alcolismo e faceva l’esempio dei lavoratori migranti nepalesi, occupati soprattutto nel settore dell’edilizia e dell’industria pesante: dal 2000 ne sono morti oltre 3000 per le pessime   condizioni di lavoro e per lo sfruttamento; per sopportare le condizioni di lavoro umilianti e massacranti, questi lavoratori spesso cedono al vizio dell’alcool aggirando i divieti nel paese islamico. Molti di loro tornano a casa stremati, bevono e muoiono nel sonno. Un altro fattore di morte sono gli incidenti sul posto di lavoro”. Allo sfruttamento bestiale si aggiunge anche la totale assenza di regolarità nella detenzione se accusati di un qualche reato; molti di loro non conoscono nemmeno le ragioni per cui sono stati rinchiusi nelle carceri in attesa di processo, non hanno diritto a u avvocato né ad un interprete (http://www.asianews.it/notizie-it/Arabia-Saudita,-migliaia-di-lavoratori-uccisi-da-sfruttamento,-torture-e-alcolismo-25239.html)  

Un proletario si ribella a condizioni di lavoro e di vita intollerabili? Viene licenziato, o rimpatriato forzatamente e sostituito. Muore? Ce n’è subito un altro che prende il suo posto. Ne muoiono dieci, cento, mille? Ce ne sono altrettanti pronti a prendere il loro posto. Questo succedeva nell’Ottocento, si dirà, mentre oggi ci sono i sindacati operai, c’è la democrazia, ci sono i diritti, ci sono le leggi che devono essere rispettate sia dai padroni che dagli operai; c’è la legalità e lo Stato la deve far rispettare. Ma lo Stato borghese è lo Stato dei padroni, che difende gli interessi dei capitalisti e del sistema economico capitalistico; per quanta democrazia venga propagandata e diffusa, essa non è mai riuscita e mai riuscirà a cambiare il modo di produzione basato sul capitale e sul lavoro salariato. Ci vuole ben altro che la democrazia, o i voti consegnati alle urne, o le preghiere pronunciate nelle chiese e nelle piazze. I proletari, finché anch’essi si considerano un prolungamento delle macchine che usano per produrre merci, non hanno speranza: o trovano un padrone che non li sfrutti ferocemente, che non li torturi con turni da 12-15 ore al giorno e non li obblighi a lavorare in condizioni disumane fino a farli crepare di fatica, di malattia o per “incidente” – e padroni di questo genere sono rari come le mosche bianche – oppure sono predestinati, e lo sono al 99,9%, a sopravvivere esclusivamente nelle condizioni, sempre più bestiali, della moderna schiavitù salariale fino a morirne.Un proletario si ribella a condizioni di lavoro e di vita intollerabili? Viene licenziato, o rimpatriato forzatamente e sostituito. Muore? Ce n’è subito un altro che prende il suo posto. Ne muoiono dieci, cento, mille? Ce ne sono altrettanti pronti a prendere il loro posto. Questo succedeva nell’Ottocento, si dirà, mentre oggi ci sono i sindacati operai, c’è la democrazia, ci sono i diritti, ci sono le leggi che devono essere rispettate sia dai padroni che dagli operai; c’è la legalità e lo Stato la deve far rispettare. Ma lo Stato borghese è lo Stato dei padroni, che difende gli interessi dei capitalisti e del sistema economico capitalistico; per quanta democrazia venga propagandata e diffusa, essa non è mai riuscita e mai riuscirà a cambiare il modo di produzione basato sul capitale e sul lavoro salariato. Ci vuole ben altro che la democrazia, o i voti consegnati alle urne, o le preghiere pronunciate nelle chiese e nelle piazze. I proletari, finché anch’essi si considerano un prolungamento delle macchine che usano per produrre merci, non hanno speranza: o trovano un padrone che non li sfrutti ferocemente, che non li torturi con turni da 12-15 ore al giorno e non li obblighi a lavorare in condizioni disumane fino a farli crepare di fatica, di malattia o per incidente – e padroni di questo genere sono rari come le mosche bianche – oppure sono predestinati, e lo sono al 99,9%, a sopravvivere esclusivamente nelle condizioni, sempre più bestiali, della moderna schiavitù salariale fino a morirne.

Lottare contro queste condizioni, e contro il sistema economico e sociale capitalistico che fa da base a quelle condizioni, significa lottare per la propria sopravvivenza. Ma significa anche, se la lotta non si ferma alle rivendicazioni immediate e se la lotta operaia assume la dimensione della lotta della classe del proletariato contro la classe della borghesia, lottare per rivoluzionare da cima a fondo la presente società che è basata sullo sfruttamento perenne del lavoro salariato. I proletari che si riconoscono fratelli di classe nella lotta di qualsiasi altro proletariato di qualsiasi altro paese o di qualsiasi altra nazionalità, elevano la propria lotta al di sopra della contingenza, dell’emozione o della rabbia del momento, dell’interesse immediato e parziale, proiettandola verso un obiettivo storico che non è altro che la distruzione del modo di produzione capitalistico, la distruzione di una società che si nutre del sudore e del sangue di milioni di proletari al solo scopo di accumulare denaro e privilegi per una estrema minoranza di sfruttatori! Lottare contro queste condizioni, e contro il sistema economico e sociale capitalistico che fa da base a quelle condizioni, significa lottare per la propria sopravvivenza. Ma significa anche, se la lotta non si ferma alle rivendicazioni immediate e se la lotta operaia assume la dimensione della lotta della classe del proletariato contro la classe della borghesia, lottare per rivoluzionare da cima a fondo la presente società che è basata sullo sfruttamento perenne del lavoro salariato. I proletari che si riconoscono fratelli di classe nella lotta di qualsiasi altro proletariato di qualsiasi altro paese o di qualsiasi altra nazionalità, elevano la propria lotta al di sopra della contingenza, dell’emozione o della rabbia del momento, dell’interesse immediato e parziale, proiettandola verso un obiettivo storico che non è altro che la distruzione del modo di produzione capitalistico, la distruzione di una società che si nutre del sudore e del sangue di milioni di proletari al solo scopo di accumulare denaro e privilegi per una estrema minoranza di sfruttatori!

I proletari, per emanciparsi dalle condizioni di schiavitù salariale in cui sono costretti a forza e al prezzo di fame, miseria e morte per una loro stragrande maggioranza, non hanno che una via d’uscita: la lotta di classe anticapitalistica, cominciando con la lotta solidale ad esclusiva difesa dei loro interessi immediati. Ci si può emancipare dalla schiavitù salariale solo allenandosi alla guerra di classe che la stessa borghesia conduce contro il proletariato ogni giorno e in ogni momento, rompendo con la soffocante collaborazione tra padroni e operai, ribellandosi alle condizioni di prigionieri incatenati alla legge del profitto, del mercato, del valore di scambio, e accettando infine il terreno dello scontro sociale sul quale la borghesia scende con tutte le sue forze – economiche, sociali, politiche, giudiziarie, militari. I proletari spezzeranno le catene che li tengono avvinti al sistema capitalistico e in questo modo libereranno l’intera umanità dall’oppressione economica, politica, ideologica della borghesia, ma dovranno prima spezzarne la forza politica e militare per portare la propria rivoluzione al suo fine ultimo: una società basata sul modo di produzione che per scopo ha la soddisfazione dei bisogni di vita e di sviluppo dell’uomo e non la soddisfazione dei bisogni del mercato e del capitale! I proletari hanno un mondo da conquistare!I proletari, per emanciparsi dalle condizioni di schiavitù salariale in cui sono costretti a forza e al prezzo di fame, miseria e morte per una loro stragrande maggioranza, non hanno che una via d’uscita: la lotta di classe anticapitalistica, cominciando con la lotta solidale ad esclusiva difesa dei loro interessi immediati. Ci si può emancipare dalla schiavitù salariale solo allenandosi alla guerra di classe che la stessa borghesia conduce contro il proletariato ogni giorno e in ogni momento, rompendo con la soffocante collaborazione tra padroni e operai, ribellandosi alle condizioni di prigionieri incatenati alla legge del profitto, del mercato, del valore di scambio, e accettando infine il terreno dello scontro sociale sul quale la borghesia scende con tutte le sue forze – economiche, sociali, politiche, giudiziarie, militari. I proletari spezzeranno le catene che li tengono avvinti al sistema capitalistico e in questo modo libereranno l’intera umanità dall’oppressione economica, politica, ideologica della borghesia, ma dovranno prima spezzarne la forza politica e militare per portare la propria rivoluzione al suo fine ultimo: una società basata sul modo di produzione che per scopo ha la soddisfazione dei bisogni di vita e di sviluppo dell’uomo e non la soddisfazione dei bisogni del mercato e del capitale! I proletari hanno un mondo da conquistare!

 

IL SISTEMA ECONOMICO CAPITALISTICO È LA VERA CAUSA DELLE STRAGI DI OPERAI NEL MONDO

 

Per fermare la continua strage di operai non basta arrestare un padrone avido né tantomeno dare una somma di denaro, del tutto simbolica se paragonata ai giganteschi profitti accumulati in decenni di stragi di operai, ai familiari sopravvissuti: bisogna fermare e distruggere la causa vera di queste stragi: il sistema economico capitalistico. E lo si potrà fare un domani cominciando oggi a lottare contro la concorrenza fra proletari che è la causa fondamentale della divisione e della frammentazione del proletariato in ogni paese e in tutti i settori economici; è grazie alla concorrenza fra proletari che le borghesie di ogni paese rafforzano il proprio potere e si permettono di mantenere le masse proletarie nelle condizioni di schiavitù salariale sempre più bestiali. Più i proletari si piegano alle condizioni di sfruttamento dettate dai capitalisti e più vasta e frequente è e sarà la strage di proletari, oggi nelle fabbriche, domani nei campi della guerra borghese! Per fermare la continua strage di operai non basta arrestare un padrone avido né tantomeno dare una somma di denaro, del tutto simbolica se paragonata ai giganteschi profitti accumulati in decenni di stragi di operai, ai familiari sopravvissuti: bisogna fermare e distruggere la causa vera di queste stragi: il sistema economico capitalistico. E lo si potrà fare un domani cominciando oggi a lottare contro la concorrenza fra proletari che è la causa fondamentale della divisione e della frammentazione del proletariato in ogni paese e in tutti i settori economici; è grazie alla concorrenza fra proletari che le borghesie di ogni paese rafforzano il proprio potere e si permettono di mantenere le masse proletarie nelle condizioni di schiavitù salariale sempre più bestiali. Più i proletari si piegano alle condizioni di sfruttamento dettate dai capitalisti e più vasta e frequente è e sarà la strage di proletari, oggi nelle fabbriche, domani nei campi della guerra borghese!

I proletari dell’avanzatissimo Occidente, i proletari d’Europa e d’America, hanno un compito storico da assolvere: essendo le borghesie imperialiste occidentali le padrone del mercato mondiale e, quindi, le maggiori responsabili delle condizioni di sfruttamento e di schiavitù delle vaste masse proletarie dei paesi economicamente più arretrati o “emergenti”, esse devono trovare in casa propria, qui, in ogni paese occidentale, un proletariato solidale e deciso a lottare contro di esse, su ogni terreno, da quello più limitato e parziale di fabbrica a quello più vasto delle condizioni generali di sopravvivenza.

I proletari di Dhaka, Karachi, Phnom Penh, Soweto, del Cairo o di Lima devono poter contare sulla solidarietà dei proletari di Berlino, Milano, Madrid, Londra, Stoccolma, New York, di Ottawa e di Parigi. L’assenza di questa solidarietà di classe contribuisce a mantenere i proletari bangladeshi, pakistani, cambogiani o peruviani nelle condizioni di bestiale sfruttamento in cui i capitalisti li costringono e, nel contempo, rafforza la concorrenza fra proletari grazie alla quale i capitalisti, mentre riducono quei proletari a carne da macello in fabbriche che crollano e si incendiano, riducono gli stessi proletari dei paesi avanzati a merce svalutata. La concorrenza fra proletari è il punto di forza della classe borghese, e non solo in tempi di crisi economica del capitalismo; i tempi della crisi economica non fanno che acutizzare i fenomeni che già esistono in permanenza nel sistema capitalistico, ma sono anche i tempi in cui i proletari hanno la possibilità di guardare in faccia i reali rapporti sociali e di classe che esistono tra borghesi e proletari, tra capitale e lavoro, tra l’infima minoranza di capitalisti che posseggono un enorme potere politico, economico e sociale e la stragrande maggioranza di proletari che non possiedono nulla, nemmeno il diritto di vivere!  I proletari dell’avanzatissimo Occidente, i proletari d’Europa e d’America, hanno un compito storico da assolvere: essendo le borghesie imperialiste occidentali le padrone del mercato mondiale e, quindi, le maggiori responsabili delle condizioni di sfruttamento e di schiavitù delle vaste masse proletarie dei paesi economicamente più arretrati o emergenti, esse devono trovare in casa propria, qui, in ogni paese occidentale, un proletariato solidale e deciso a lottare contro di esse, su ogni terreno, da quello più limitato e parziale di fabbrica a quello più vasto delle condizioni generali di sopravvivenza. I proletari di Dhaka, Karachi, Phnom Penh, Soweto, del Cairo o di Lima devono poter contare sulla solidarietà dei proletari di Berlino, Milano, Madrid, Londra, Stoccolma, New York, di Ottawa e di Parigi. L’assenza di questa solidarietà di classe contribuisce a mantenere i proletari bangladeshi, pakistani, cambogiani o peruviani nelle condizioni di bestiale sfruttamento in cui i capitalisti li costringono e, nel contempo, rafforza la concorrenza fra proletari grazie alla quale i capitalisti, mentre riducono quei proletari a carne da macello in fabbriche che crollano e si incendiano, riducono gli stessi proletari dei paesi avanzati a merce svalutata. La concorrenza fra proletari è il punto di forza della classe borghese, e non solo in tempi di crisi economica del capitalismo; i tempi della crisi economica non fanno che acutizzare i fenomeni che già esistono in permanenza nel sistema capitalistico, ma sono anche i tempi in cui i proletari hanno la possibilità di guardare in faccia i reali rapporti sociali e di classe che esistono tra borghesi e proletari, tra capitale e lavoro, tra l’infima minoranza di capitalisti che posseggono un enorme potere politico, economico e sociale e la stragrande maggioranza di proletari che non possiedono nulla, nemmeno il diritto di vivere! 

L’abisso in cui i proletari sono stati gettati dall’azione congiunta di capitalisti e capi operai opportunisti e collaborazionisti è davvero profondo e sembra non avere fine: ma il proletariato è una forza produttiva viva che accumula nel tempo una forza di reazione inversamente proporzionale alla pressione economica e sociale che subisce, fino ad esplodere; come il magma accumulato nelle viscere del vulcano, arriva il momento in cui quella gigantesca forza produttiva lacera e spezza le forme borghesi che la costringono, ed esplode. Perché quell’esplosione di forza non resti un semplice, anche se formidabile, episodio di reazione, ma diventi l’inizio del cambiamento rivoluzionario della società attuale, il proletariato dovrà incontrare il suo partito di classe, il partito che grazie al programma della rivoluzione proletaria e comunista e al solido maneggio della teoria marxista sarà in grado domani, come ieri il partito di Lenin, di guidare la gigantesca forza proletaria mondiale al suo obiettivo storico: la definitiva emancipazione del proletariato dalla schiavitù salariale e, attraverso di essa, la definitiva emancipazione dell’intera umanità dal mercantilismo e dal capitalismo.  L’abisso in cui i proletari sono stati gettati dall’azione congiunta di capitalisti e capi operai opportunisti e collaborazionisti è davvero profondo e sembra non avere fine: ma il proletariato è una forza produttiva viva che accumula nel tempo una forza di reazione inversamente proporzionale alla pressione economica e sociale che subisce, fino ad esplodere; come il magma accumulato nelle viscere del vulcano, arriva il momento in cui quella gigantesca forza produttiva lacera e spezza le forme borghesi che la costringono, ed esplode. Perché quell’esplosione di forza non resti un semplice, anche se formidabile, episodio di reazione, ma diventi l’inizio del cambiamento rivoluzionario della società attuale, il proletariato dovrà incontrare il suo partito di classe, il partito che grazie al programma della rivoluzione proletaria e comunista e al solido maneggio della teoria marxista sarà in grado domani, come ieri il partito di Lenin, di guidare la gigantesca forza proletaria mondiale al suo obiettivo storico: la definitiva emancipazione del proletariato dalla schiavitù salariale e, attraverso di essa, la definitiva emancipazione dell’intera umanità dal mercantilismo e dal capitalismo. 

Oggi, invece, siamo ancora nella situazione di dover redigere il tristissimo e maledetto bollettino di guerra per migliaia di proletari sacrificati all’idolo capitalistico per eccellenza: il profitto! Oggi, invece, siamo ancora nella situazione di dover redigere il tristissimo e maledetto bollettino di guerra per migliaia di proletari sacrificati all’idolo capitalistico per eccellenza: il profitto!

Gli incendi nelle fabbriche tessili sono una costante del capitalismo e del suo sviluppo: il 25 marzo del 1911 scoppiò il primo incendio in una fabbrica tessile, la Triangle Shirtwaist Company, nel cuore di Manhattan, all’epoca uno dei maggiori stabilimenti di produzione di capi d’abbigliamento, situata anch’essa in un palazzo di 10 piani occupando gli ultimi 3 piani; questa fabbrica impiegava tra i 500 e i 600 operai, soprattutto donne immigrate, giovani e giovanissime (di 12 e 13 anni), in particolare italiane, tedesche e originarie di altri paesi dell’est Europa, pagate con salari bassissimi, dai 6 ai 7 dollari la settimana.

I turni di lavoro erano massacranti: 14 ore di lavoro al giorno. Le uscite di sicurezza c’erano, ma erano sbarrate dal fuoco e il portone sulle scale era chiuso a chiave perché i proprietari temevano che le operaie rubassero o facessero troppe pause! Risultato? 146 operaie immigrate arse vive o morte per essersi lanciate dalle finestre visto che altre vie d’uscita non c’erano! I proprietari, che al momento dell’incendio si trovavano al 10° piano, se la svignarono velocemente e lasciarono morire le operaie rinchiuse negli stanzoni della fabbrica. I pompieri giunsero anche abbastanza velocemente, ma le loro scale non erano abbastanza lunghe da arrivare al piani in cui l’incendio si era sviluppato.

Inutile dire che i proprietari, pur incriminati,  riuscirono a farsi assolvere e ad ottenere dall’assicurazione ben 400 dollari per ogni vittima ai cui familiari pagarono soltanto 75 dollari! Anche da morte le operaie della Triangle continuarono ad essere un buon affare per i loro padroni! (http://www.unipd.it/ilbo/content/25-marzo-1911-la-tragedia-della-triangle-che-divenne-un-simbolo). Gli incendi nelle fabbriche tessili sono una costante del capitalismo e del suo sviluppo: il 25 marzo del 1911 scoppiò il primo incendio in una fabbrica tessile, la Triangle Shirtwaist Company, nel cuore di Manhattan, all’epoca uno dei maggiori stabilimenti di produzione di capi d’abbigliamento, situata anch’essa in un palazzo di 10 piani occupando gli ultimi 3 piani; questa fabbrica impiegava tra i 500 e i 600 operai, soprattutto donne immigrate, giovani e giovanissime (di 12 e 13 anni), in particolare italiane, tedesche e originarie di altri paesi dell’est Europa, pagate con salari bassissimi, dai 6 ai 7 dollari la settimana. I turni di lavoro erano massacranti: 14 ore di lavoro al giorno. Le uscite di sicurezza c’erano, ma erano sbarrate dal fuoco e il portone sulle scale era chiuso a chiave perché i proprietari temevano che le operaie rubassero o facessero troppe pause! Risultato? 146 operaie immigrate arse vive o morte per essersi lanciate dalle finestre visto che altre vie d’uscita non c’erano! I proprietari, che al momento dell’incendio si trovavano al 10° piano, se la svignarono velocemente e lasciarono morire le operaie rinchiuse negli stanzoni della fabbrica. I pompieri giunsero anche abbastanza velocemente, ma le loro scale non erano abbastanza lunghe da arrivare al piani in cui l’incendio si era sviluppato. Inutile dire che i proprietari, pur incriminati,  riuscirono a farsi assolvere e ad ottenere dall’assicurazione ben 400 dollari per ogni vittima ai cui familiari pagarono soltanto 75 dollari! Anche da morte le operaie della Triangle continuarono ad essere un buon affare per i loro padroni! (http://www.unipd.it/ilbo/content/25-marzo-1911-la-tragedia-della-triangle-che-divenne-un-simbolo).

Quella tragedia suscitò molta impressione e innestò successivamente una corposa attività sindacale e lotte in molte città non solo degli Stati Uniti. Naturalmente furono varate leggi sulla sicurezza del lavoro meno vaghe e permissive. Ma, come è documentato dalle migliaia e migliaia di lavoratori che continuano a morire sul lavoro anche per misure di sicurezza inesistenti o inefficaci, quando non si muore a New York, si muore a Dhaka o a Karachi dove tanti altri padroni come quelli della Triangle di New York, a più di cent’anni di distanza, hanno ereditato esattamente lo stesso atteggiamento di amore ossessivo per il profitto e di massimo disprezzo della vita proletaria! Quella tragedia suscitò molta impressione e innestò successivamente una corposa attività sindacale e lotte in molte città non solo degli Stati Uniti. Naturalmente furono varate leggi sulla sicurezza del lavoro meno vaghe e permissive. Ma, come è documentato dalle migliaia e migliaia di lavoratori che continuano a morire sul lavoro anche per misure di sicurezza inesistenti o inefficaci, quando non si muore a New York, si muore a Dhaka o a Karachi dove tanti altri padroni come quelli della Triangle di New York, a più di cent’anni di distanza, hanno ereditato esattamente lo stesso atteggiamento di amore ossessivo per il profitto e di massimo disprezzo della vita proletaria!

 

E’ bastato scorrere qualche giornale e qualche sito internet negli ultimi mesi per rintracciare notizie sulle stragi di proletari e avere un quadro, pur molto parziale, ma tremendo, di quel che i proletari sono costretti a sopportare e a rischiare quotidianamente a causa della spasmodica ricerca di profitto da parte dei capitalisti sotto ogni cielo.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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