Ribattere i chiodi su rivoluzione proletaria e  trasformazione economica della società

Ricollegarsi al “Manifesto del partito comunista”, di Marx ed Engels, 1848, è vitale per ogni comunista, allora come oggi

(«il comunista»; N° 134; Aprile 2014)

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Ribattere i chiodi, per i marxisti, è compito permanente anche perché l’ambiente borghese, nel suo corso inesorabilmente degenerativo, alimenta costantemente false interpretazioni e false valutazioni di cui si nutrono in particolare le forze dell’opportunismo. Anche se, ai più, appare argomento vecchio e superato, la questione della rivoluzione proletaria, della sua possibilità reale e, di conseguenza, la questione della trasformazione socialista della società, sono argomenti di grandissima attualità: parliamo di attualità dal punto di vista storico, ovviamente, non di attualità nel senso borghese. L’arco storico delle trasformazioni sociali non risponde certo ai criteri che cadenzano i tempi veloci delle operazioni di borsa nel mondo delle connessioni internet, dove si guadagnano o si perdono enormi quantità di capitali che fittiziamente circolano nell’intricatissima rete delle operazioni finanziarie.

Per lungo tempo, l’opportunismo, nelle vesti dello stalinismo, ha sostenuto e propagandato la tesi che in Russia, grazie alla rivoluzione bolscevica vittoriosa, seppur in un paese arretrato economicamente e in mancanza di vittoria rivoluzionaria nei paesi a capitalismo avanzato, si stava “costruendo socialismo”. Il tentativo teorico e politico dello stalinismo fu, in effetti, quello di conciliare il mercantilismo con l’emancipazione socialista del proletariato, inventandosi un campo di paesi propinato come “mercato socialista” che si contrapponeva ad un “mercato capitalista”. In realtà, in Russia si stava sviluppando e costruendo capitalismo (dunque, lavoro salariato e capitale, produzione e distribuzione di merci, divisione sociale del lavoro ecc.), come già Lenin aveva sostenuto si dovesse necessariamente fare in attesa dell’apporto decisivo della vittoria rivoluzionaria del proletariato almeno in alcuni paesi capitalistici sviluppati (notissima era la sua tesi delle due metà spaiate del socialismo con cui venivano identificati all’epoca la Russia politicamente rivoluzionaria e la Germania economicamente capitalista). La mancata estensione della rivoluzione proletaria oltre i confini di Russia, e in particolare nei paesi dell’Europa occidentale, cosa che sarebbe potuta avvenire se alla testa delle masse proletarie già sul terreno del movimento di classe ci fossero stati partiti comunisti all’altezza del partito bolscevico di Lenin, ha costretto il potere proletario nella Russia feudale a dedicare il massimo sforzo allo sviluppo economico interno anche solo per resistere – come annunciò Lenin nel sottolineare la necessità di vent’anni di buoni rapporti con i contadini (Sull’imposta in natura), o come lanciò Trotsky a nome dell’Opposizione dalla tribuna della XV Conferenza del partito bolscevico, purtroppo già in mano all’opportunismo staliniano, nel proiettare la necessità di mantenere il potere proletario, pur dirigendo un’economia capitalistica, anche per cinquant’anni – e per dare sostegno teorico, politico, sociale, militare ed economico al proletariato degli altri paesi nella prospettiva della rivoluzione occidentale.

Nel 1926, la tesi della “costruzione del socialismo in Russia”, trasformata in quella della “costruzione del socialismo in un solo paese”, non solo decretò il punto di non ritorno della degenerazione opportunista del partito bolscevico e dei partiti dell’Internazionale Comunista, ma fece da base alle “vie nazionali al socialismo” legando, quindi, in modo molto stretto, i programmi politici dei partiti ormai ex-comunisti alla difesa della patria, allo sviluppo e alla difesa dell’economia nazionale, e naturalmente della democrazia come metodo di governo e come meccanismo utilizzabile per un impossibile trapasso pacifico dal capitalismo al socialismo. Il rinnegamento dell’internazionalismo comunista si leggerà in tutti i programmi dei partiti staliniani e, ancor più, dei partiti post-staliniani.

La trasformazione socialista della società, secondo il marxismo, è impossibile senza la vittoria della rivoluzione proletaria, quindi la conquista del potere politico da parte della classe proletaria e l’esercizio del potere di classe dittatoriale da parte del partito comunista rivoluzionario. Ma la rivoluzione proletaria non può assolvere il compito di trasformare l’intera società capitalistica in società socialista, non può assolvere il compito di emancipazione della classe proletaria dal lavoro salariato se non svolgendosi a livello internazionale. Passi decisivi in questa direzione possono essere fatti dai poteri proletari conquistati nel paese tale o tal altro, ma l’integrale trasformazione del modo di produzione capitalistico in modo di produzione socialistico e, successivamente, comunistico, non può ottenersi che a livello mondiale, dunque attraverso la vittoria della rivoluzione proletaria a livello internazionale.

Nel testo di partito Dialogato coi Morti, a proposito della “svolta del 1926” in cui passò la tesi staliniana della “costruzione del socialismo in un solo paese”, riprendendo gli interventi di Trotsky, Zinoviev e Kamenev, si riassume così la loro posizione in linea coerente con Marx e Lenin:

“1. Il capitalismo appare e si sviluppa nel mondo con tempi e ritmi disuguali.

“2. Ne segue altrettanto per la formazione della classe proletaria e la sua forza politica e rivoluzionaria.

“3. La conquista del potere politico da parte del proletariato può avvenire non solo in un paese unico, ma anche in uno meno sviluppato di altri che restino al potere capitalista.

“4. La presenza nel mondo di paesi ove la rivoluzione politica proletaria è già avvenuta accelera al massimo la lotta rivoluzionaria in tutti gli altri.

“5. In fase ascendente di questa lotta rivoluzionaria è possibile che intervengano in difesa e in offesa le forze armate degli Stati proletari.

“6. Ove le guerre civili e statali sostino, un solo paese può compiere solo i passi consentiti dallo sviluppo economico che in esso è stato raggiunto ‘nella direzione’ del socialismo.

“7. Se si trattasse di uno dei grandi paesi più avanzati, prima della sua piena trasformazione economica socialista, in dottrina non impossibile, avverrebbe la guerra civile e statale generale.

“8. Se si tratta, come per la Russia, di un paese appena uscito dal feudalismo, questo con la vittoria politica proletaria non potrà fare altri passi che il realizzare le ‘basi’ del socialismo, cioè una progressiva forte industrializzazione; e definirà il suo programma come attesa e lavoro per la rivoluzione politica estera, e come una costruzione economica di capitalismo di Stato a base mercantile.

 “Senza la rivoluzione mondiale, in Russia il socialismo era allora, ed è, impossibile.” (1).

 

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Può valer la pena richiamare il percorso storico del modo di produzione capitalistico da quando si è imposto sui precedenti modi di produzione. Non si può partire che da un dato storico ben preciso e assodato: la vittoria del capitalismo nel mondo, da tutti i punti di vista – economico, sociale, politico, militare, ideologico. Tale vittoria non è avvenuta in breve tempo: il capitalismo, nelle sue prime forme economiche e sociali, è apparso tra il Trecento e il Quattrocento italiano; con la scoperta delle Americhe ha accumulato fattori di sviluppo e, perciò stesso, rivoluzionari, lanciandosi alla conquista di un mondo sempre meno sconosciuto; riapparso nel Seicento in Inghilterra con le prime manifatture ha poi potuto svilupparsi in Inghilterra e nei paesi dell’Europa occidentale, in Francia, in Germania, in Italia pur rimanendo costretto nell’involucro feudale che doveva prima o poi essere spezzato, mentre nell’America del Nord veniva “esportato” dall’Europa e impiantato senza bisogno di distruggere un feudalismo inesistente ma distruggendo facilmente le economie primitive dei nativi. Lo sviluppo dei commerci, degli scambi con i nuovi mercati (Indie, Cina, Americhe) e delle forze produttive, sotto la spinta dell’industria, si andava a scontrare con i limiti di una società che basava la sua economia sulla dipendenza personale dei lavoratori agricoli dal feudatario, con produzione e consumo di tutto quanto occorreva entro lo stesso feudo, e basava la sua stabilità su di un regime monarchico-aristocratico ad isole chiuse, legato alle dinastie terriere, suddiviso in tanti ordini differenti che intralciavano lo sviluppo della produzione, degli scambi e dei commerci. Dunque, già dal Quattrocento la società feudale in Europa – la più sviluppata delle società presenti nel mondo – cominciava a conoscere gli elementi della sua futura disgregazione per lasciare il posto ad un nuovo modo di produzione; ci sarebbero voluti più di duecento anni perché in Inghilterra iniziassero a svilupparsi le prime industrie manifatturiere per poi essere superate, tra il Settecento e l’Ottocento, dalle macchine a vapore e dalla grande industria (lavoro associato, applicazione delle scoperte tecniche ai processi lavorativi, sviluppo del commercio e delle comunicazioni): il capitalismo iniziava così la sua turbinosa storia di sviluppo, incessante, inesorabile, e per teatro aveva, fin dai suoi primi passi, il mondo intero.

I prodotti, i valori d’uso, col capitalismo, da prodotti del lavoro individuale diventano prodotti del lavoro associato trasformandosi in valori di scambio; il lavoro associato risponde alla divisione del lavoro, nella fabbrica e nella società, e la massa di prodotti ottenuta attraverso successivi interventi operativi di operai diversi, professionalmente specializzati, invade il mercato; il mercantilismo si generalizza, tutto, diventato merce, può essere comprato e venduto, tutto è scambiato con denaro. Il lavoro associato, sottoposto al regime del lavoro salariato sotto il capitalismo, produce merci che hanno contemporaneamente due caratteristiche: sono valori d’uso ma, nello stesso tempo, valori di scambio, e il valore di scambio domina in assoluto sul valore d’uso. Dal lavoro artigianale, individuale, si passa alla manifattura semplice dove tanti lavoratori sono riuniti in un unico locale, forniti da una stessa provvista di materie prime e attrezzi e con un sbocco unico al mercato, e poi all’industria con aumentata produttività del lavoro associato, ossia del lavoro di molti uomini suddiviso per mansioni e parziali operazioni che portano al prodotto finito: dunque, divisione tecnica o aziendale del lavoro che, con il suo sviluppo, porta inevitabilmente alla divisione sociale del lavoro con il suo seguito di professionalità, specializzazioni, carriere, al dispotismo aziendale e alla corrispondente anarchia della produzione e della distribuzione. Solo con la società comunista, ossia con la società non più basata sulla produzione di merci, la produzione tornerà a sfornare esclusivamente valori d’uso, beni di consumo, e la distribuzione, non essendo più mercantile, si occuperà di soddisfare le esigenze sociali di vita delle generazioni sia presenti che future; la produzione per aziende e la conseguente anarchia della produzione e della distribuzione saranno sostituite da un’organizzazione unica su basi razionali togliendo agli oggetti d’uso e al lavoro il carattere di merci. Il comunismo, distruggendo il modo di produzione capitalistico, abolirà completamente la divisione sociale del lavoro impedendo agli uomini di essere imprigionati ogni giorno e per la vita alla stessa funzione professionale. In effetti, basta rifarsi al punto 4 del cap. XII contenuto nel Primo Libro del Capitale di Marx, intitolato “Divisione del lavoro all’interno della manifattura e divisione del lavoro all’interno della società” (2), da cui è tratta l’estrema sintesi sopra scritta, per comprendere che l’opera massima di Marx non è un freddo studio analitico del capitalismo ma un programma rivoluzionario di partito.

 

Il capitalismo semplifica enormemente la divisione in classi della società, riducendole in due grandi campi: borghesia e proletariato (sappiamo però da Marx che le classi nella società borghese, in verità, sono tre: borghesi industriali, proprietari terrieri e proletariato; le prime due costituiscono le classi dominanti, la classe dei capitalisti). Ci ricolleghiamo al Manifesto del partito comunista, di Marx ed Engels, redatto per conto della Lega dei Comunisti nel 1847 e pubblicato nel febbraio 1848, per dimostrare che le basi teoriche e politiche del comunismo rivoluzionario, cioè della scienza della rivoluzione sociale, non sono per nulla cambiate a 166 anni di distanza. I brani in corsivo sono ripresi, per l’appunto, dal Manifesto del 1848.

Lo sviluppo rivoluzionario della società moderna, pur avendo per orizzonte il mondo, (La grande industria ha creato quel mercato mondiale, ch’era stato preparato dalla scoperta dell’America. Il mercato mondiale ha dato uno sviluppo immenso al commercio, alla navigazione, alle comunicazioni per via terra. Questo sviluppo ha reagito a sua volta sull’espansione dell’industria e, nella stessa misura in cui si estendevano industria, commercio, navigazione, ferrovie, si è sviluppata la borghesia, ha accresciuto i suoi capitali e ha respinto nel retroscena tutte le classi tramandate dal medioevo) è stato rappresentato dalla classe borghese nazionale; ma il suo sviluppo storico ulteriore, in quanto capitalismo, non poteva che estendersi – con tutte le sue contraddizioni economiche, sociali e politiche – a livello internazionale, globale (Il bisogno di uno smercio sempre più esteso per i suoi prodotti sospinge la borghesia a percorrere tutto il globo terrestre. Dappertutto deve annidarsi, dappertutto deve costruire le sue basi, dappertutto deve creare relazioni. [...] La borghesia trascina nella civiltà tutte le nazioni, anche le più barbare [...] Costringe tutte le nazioni ad adottare il sistema di produzione della borghesia, se non vogliono andare in rovina, le costringe ad introdurre in casa loro la cosiddetta civiltà, cioè a diventare borghesi. In una parola: essa si crea un mondo a propria immagine e somiglianza).

Con l’industria moderna nascono la borghesia capitalistica, proprietaria dei mezzi di produzione (terra compresa) e dei capitali, e il proletariato che di proprietà ha solo la sua forza di lavoro; la classe borghese, per trarre il massimo beneficio dal fatto di essere proprietaria dei mezzi di produzione e dei capitali, deve impiegare sui mezzi di produzione la forza lavoro, resa “libera” dai vincoli che le strutture sociali del feudalesimo e delle altre società precapitalistiche imponevano, e perciò sfruttabile quotidianamente senza alcun limite di età, sesso, razza, nazionalità. La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali, e il modo di produzione capitalistico non può esistere se non sviluppa incessantemente nuovi bisogni e nuovi prodotti invadendo ogni mercato con quantità sempre crescenti di merci di ogni genere, e creando nuovi mercati, perché il suo obiettivo è di aumentare in progressione geometrica gli scambi, la circolazione delle merci e dei capitali. Per ottenere tutto ciò la classe borghese deve non solo sfruttare in modo sempre più intenso la forza lavoro salariata nazionale, ma deve sfruttare la forza salariata di ogni altro paese. Il modo di produzione capitalistico è mondiale perché la grande industria ha creato il mercato mondiale; le condizioni sociali borghesi, i rappporti sociali borghesi si estendono a tutto il mondo, infrangendo le condizioni sociali e i rapporti sociali antichi e precapitalistici, distruggendoli e costringendo tutte le nazioni, anche le più arretrate, a subire gli effetti del dominio capitalistico sulle generali condizioni di vita. Ciò succede anche nel gran numero di paesi in cui – a causa dello sviluppo ineguale del capitalismo – sono stati distrutti i modi di produzione precedenti, quindi le condizioni di vita precedenti, ma senza che il capitalismo li abbia sostituiti con uno sviluppo economico pari a quello dei paesi capitalistici più sviluppati. Se da un lato il capitalismo sviluppa enormemente l’economia di determinati paesi, dall’altro, per ragioni di concorrenza e di dominio dei capitali più forti e concentrati, schiaccia aree immense nel più brutale sottosviluppo, allargando la forbice tra paesi sviluppati e paesi arretrati. Universalizzando le condizioni sociali e i rapporti sociali, il capitalismo ha però creato le premesse storiche per il suo superamento a livello globale. La classe borghese è contrapposta alla classe dei lavoratori salariati, dunque, non solo a livello nazionale, ma a livello internazionale.

La classe borghese, per le caratteristiche della società capitalistica divisa in classi contrapposte, e per il fatto di essere la classe che detiene la proprietà privata e l’appropriazione privata della produzione sociale (i rapporti di proprietà costituiscono le condizioni di esistenza della borghesia e del suo dominio), non perde nel mercato mondiale le sue caratteristiche di classe nazionale, come nell’economia sempre più globalizzata non si perde la struttura aziendale della produzione capitalistica. La classe proletaria, per la sua caratteristica di classe dei senza-riserve, espropriata di tutto, assume storicamente una caratterizzazione internazionale che mai la classe borghese – pur spinta sull’onda del suo stesso modo di produzione a diventare classe internazionale – è in grado di raggiungere. Gli stessi prodotti della produzione capitalistica, nella loro globalizzazione, tendono a perdere la loro caratteristica “aziendale” e “nazionale” – gli scambi internazionali e la rete di relazioni capitalistiche internazionali tolgono sempre più l’identificazione “nazionale” ad un genere sempre più ampio di prodotti – ma il loro marchio aziendale e nazionale viene mantenuto in vita per solo interesse capitalistico, così come i risultati delle ricerche scientifiche, i brevetti, le innovazioni tecniche ecc. La proprietà privata borghese, difesa dalle leggi borghesi e dallo Stato borghese che le emana, assicura la successiva appropriazione privata della produzione, e dunque l’appropriazione privata dei guadagni dalla vendita delle merci e dagli investimenti dei capitali: che si tratti di un singolo capitalista, di una società per azioni, di un trust o di uno Stato, il meccanismo non cambia. Ma l’appropriazione privata della produzione sociale è il fattore principale dell’asservimento delle classi lavoratrici, e dell’intero genere umano, al capitalismo.

Lo sviluppo capitalistico non è solo ineguale tra paese e paese; è ineguale anche tra industria e agricoltura, e all’interno stesso di questi due grandi settori. Infatti, l’apparizione della grande industria non elimina la piccola industria né elimina del tutto l’artigianato; così come la grande azienda agricola non elimina la piccola conduzione agricola nemmeno nei paesi industrialmente sviluppati, e la grande distribuzione non elimina del tutto la distribuzione dei piccoli negozi. Non va infatti dimenticato che gli stessi cicli di crisi del capitalismo, sebbene siano affrontati con più capacità di tenuta dalla maggior parte delle grandi aziende, ridanno fiato, comunque, di volta in volta, alla piccola e piccolissima produzione e distribuzione molto più flessibili e adattabili, quando non spariscono perché andate in rovina ovviamente, a situazioni di emergenza. La grande borghesia, la borghesia dominante, in tempo di crisi, sa che può sempre contare sullo strato sociale della piccola e media borghesia, non solo dal punto di vista politico rispetto al proletariato, ma soprattutto dal punto di vista dell’interesse economico che lega quegli strati alla sopravvivenza stessa del capitalismo. Nei periodi di grandi carestie come nei periodi di crisi economiche significative o di guerra guerreggiata, la piccola produzione e la piccola distribuzione, pur subendo colpi micidiali e devastanti, sopravvivono conservando gelosamente l’essenza dei rapporti borghesi di proprietà su cui possono rifarsi per difendere la loro posizione sociale: il piccolo negozio artigianale, il piccolo appezzamento di terreno, la piccola stalla e gli animali da cortile protetti e difesi più che fossero figli, in regime borghese sono una “garanzia” di vita e una ragione per difendere il regime borghese stesso. Il proletariato non ha davanti a sé solo un nemico visibile e dichiarato nella grande borghesia, ha un altro nemico, spesso invisibile perché confuso nel popolino e socialmente vicino, che è la piccola borghesia cittadina e contadina e di questo deve e dovrà sempre tener conto perché è proprio attraverso questi strati sociali, ben presenti e attivi  anche nella società capitalistica sviluppata, che passano nelle file proletarie le illusioni, le superstizioni, le false speranze, i sentimenti più retrivi e reazionari. Non a caso la religione e l’ideologia borghese fanno leva su di loro per influenzare il proletariato; non a caso l’opportunismo e il collaborazionismo politico e sindacale trovano in loro la manodopera qualificata per la loro opera di deviazione dalla lotta di classe.

Ciò non toglie che lo sviluppo delle forze produttive impresso dal capitalismo sia tale, e in un tempo storico più breve di quanto non sia avvenuto nelle società di classe precedenti, da creare solide premesse economiche e sociali per il superamento della società capitalistica pur nel suo sviluppo ineguale nei diversi paesi del mondo. Il superamento della società capitalistica, e quindi del modo di produzione capitalistico, può avvenire unicamente spezzando i vincoli di classe che la caratterizzano e che  sono condensati nella proprietà privata dei mezzi di produzione e nel sistema di appropriazione privata della produzione sociale: eliminando perciò dalla produzione tutte le categorie legate al mercantilismo (merce, valore di scambio, denaro, capitale), riportandola alla sua caratteristica materiale di valore d’uso, dunque finalizzandola alla soddisfazione dei bisogni di vita della società di specie e non alla soddisfazione dei bisogni del mercato capitalistico.

Questo salto di qualità storico è possibile in presenza di due fattori fondamentali: che lo sviluppo storico delle forze produttive abbia raggiunto un livello tale da poter uniformare le condizioni sociali e i rapporti di produzione nel mondo intero (e la società borghese con lo sviluppo del capitalismo lo ha fatto), e che una classe sociale, per le sue caratteristiche storiche di classe senza riserve, e presente negli stessi rapporti di produzione in tutto il mondo, sia portatrice di un programma storico che abolisca i rapporti di produzione capitalistici e, quindi, l’antagonismo di classe esistente (il moderno proletariato, la classe dei produttori che non ha alcun interesse da difendere nella società borghese). Ma questo passaggio storico non può avvenire se non attraverso lo scontro fisico, militare, fra la classe attualmente dominante, la classe borghese, che col suo potere politico e il suo Stato organizza l’oppressione della classe proletaria in ogni paese del mondo, e la classe proletaria che si unisce e si organizza nella lotta contro la borghesia, sotto la direzione del suo partito politico rivoluzionario che per programma non ha soltanto la lotta contro la borghesia “nazionale” e la conquista rivoluzionaria del potere politico (La lotta del proletariato contro la borghesia è in un primo tempo lotta nazionale, anche se non sostanzialmente, certo formalmente. E’ naturale che il proletariato di ciascun paese debba anzitutto sbrigarsela con la propria borghesia), ma la lotta rivoluzionaria internazionale per l’abbattimento del potere borghese in tutti i paesi del mondo.

Le condizioni sociali in cui si svolge la lotta fra proletariato e borghesia variano, anche di molto, tra paese e paese, anche se le cuspidi di queste differenze, con l’accelerazione delle relazioni economiche, politiche e militari fra i diversi paesi del mondo caratteristica dell’epoca imperialistica, tendono ad attenuarsi. I rapporti economici, politici, finanziari e le comunicazioni tra i vari paesi del mondo si infittiscono sempre più e ciò facilita la veicolazione sia degli scambi e degli affari sia dei contrasti e delle crisi economiche; ma, nello stesso tempo, si facilitano e si forzano – attraverso anche le migrazioni provocate dalle guerre, dalle carestie e dalla fame – le comunicazioni e i rapporti fra proletari di razze, nazionalità e luoghi diversi. Dunque, il mondo che il capitalismo ha trasformato in un unico grande mercato, è il mondo in cui le borghesie di ogni paese lottano in concorrenza fra di loro, chi vincendo la lotta di concorrenza e chi perdendola in un’altalena continua, ma soprattutto è il mondo in cui i contrasti e le crisi economiche e politiche si irradiano sempre più velocemente tendendo a strappare costantemente paesi e strati sociali dal loro supposto isolamento o dalla loro supposta “neutralità”.

La borghesia è sempre in lotta: da principio contro l’aristocrazia, più tardi contro le parti della stessa borghesia i cui interessi vengono a contrasto col progresso dell’industria, e sempre contro la borghesia di tutti i paesi stranieri. E lotta contro la classe dei proletari, fin dalle origini, poiché la società borghese moderna, sorta dal tramonto della società feudale, non ha eliminato gli antagonismi fra le classi. Essa ha soltanto sostituito alle antiche, nuove classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta. (...) Nella stessa proporzione in cui si sviluppa la borghesia, cioè il capitale, si sviluppa il proletariato, la classe degli operai moderni, che vivono solo fintantoché trovano lavoro, e che trovano lavoro solo fintantoché il loro lavoro aumenta il capitale. Questi operai che sono costretti a vendersi al minuto, sono una merce come ogni altro articolo commerciale, e sono quindi esposti, come le altre merci, a tutte le alterne vicende della concorrenza, a tutte le oscillazioni del mercato. Queste sono le condizioni di esistenza del proletariato in ogni paese del mondo: la lotta proletaria contro la borghesia è prima di tutto lotta di sopravvivenza, e ciò riguarda i proletari di ogni paese. Unificando le condizioni di sviluppo dell’economia capitalistica in tutti i paesi del mondo, la borghesia ha unificato oggettivamente le condizioni di lotta del proletariato in tutti i paesi del mondo. Mentre la borghesia di un paese, in quanto classe dominante di quel paese, è e sarà sempre in lotta di concorrenza con la borghesia degli altri paesi, il proletariato di un paese, in quanto classe sfruttata direttamente dalla borghesia del proprio paese e indirettamente dalle borghesie degli altri paesi, è necessariamente in lotta contro la borghesia innnazitutto del proprio paese ma anche contro le borghesie degli altri paesi; ciò avviene per ogni proletariato, perciò il proletariato di un paese ha nel proletariato di ogni altro paese il suo unico e vero alleato. La sua lotta di sopravvivenza immediata riguarda perciò sia l’ambito nazionale che l’ambito internazionale: il proletariato è classe internazionale e internazionalista necessariamente perché in ogni angolo del mondo vive solo se trova lavoro e trova lavoro solo se il suo lavoro aumenta il capitale, altrimenti è destinato all’emarginazione, alla forzata migrazione, alla fame, alla morte.

Nei periodi storici che includono anche la vittoria della borghesia sul feudalesimo, i movimenti precedenti sono stati movimenti di minoranze, o avvenuti nell’interesse di minoranze. Il movimento proletario è il movimento indipendente della immensa maggioranza nell’interesse della immensa maggioranza. Il proletariato, lo strato più basso della società odierna, non può sollevarsi, non può drizzarsi, senza che salti per aria l’intera soprastruttura degli strati che formano la società ufficiale (...) L’operaio moderno, invece di elevarsi man mano che l’industria progredisce, scende sempre più al di sotto delle condizioni della sua propria classe. L’operaio diventa povero, e il pauperismo si sviluppa anche più rapidamente che la popolazione e la ricchezza (...) La borghesia, in prospettiva, non è capace di dominare, perché non è capace di garantire l’esistenza al proprio schiavo neppure entro la sua schiavitù, perché è costretta a lasciarlo sprofondare in una situazione nella quale, invece di essere da lui nutrita, essa è costretta a nutrirlo. La società non può più vivere sotto la classe borghese, vale a dire la esistenza della classe borghese non è più compatibile con la società.

 

Proletari di tutto il mondo unitevi, non è solo un auspicio, non è solo un grido di battaglia, ma è una necessità materiale della lotta di classe del proletariato per l’emancipazione dal sistema mercantile e capitalistico che lo schiavizza fino alla morte. Il proletariato, non rappresentando storicamente una nuova società divisa in classi ma una società senza classi (il proletariato stesso, in quanto classe, è destinato a scomparire), non poggia su un nuovo modo di produzione che si sviluppa all’interno della società capitalistica come invece l’economia capitalistica si è sviluppata all’interno del feudalesimo. L’economia socialista, e successivamente l’economia di specie, o comunismo, poggia sì sul lavoro associato e sulla produzione sociale che già il capitalismo ha creato e sviluppato, ma indirizza lo sviluppo delle forze produttive verso un’organizzazione razionale e armonica dell’economia per soddisfare i bisogni di vita sociale della specie umana,  e per far questo deve abolire tutto ciò che riguarda la proprietà privata dei mezzi di produzione e l’appropriazione privata della produzione sociale, dunque i rapporti di produzione e sociali capitalistici, ossia le condizioni di esistenza del capitale, del lavoro salariato, del mercato, della divisione internazionale del lavoro, insomma della divisione della società in classi contrapposte.

Per raggiungere questo obiettivo storico, che è il programma dei comunisti rivoluzionari, il proletariato deve passare attraverso alcune fasi storiche obbligatorie: l’organizzazione classista del proletariato in difesa delle sue condizioni di vita e di lavoro all’interno della società capitalistica; l’organizzazione del proletariato in classe, quindi in partito politico; la rivoluzione per la conquista del potere politico (guerra civile nel paese dato) e quindi l’organizzazione del proletariato in classe dominante; l’instaurazione della dittatura proletaria a potere politico conquistato e il suo esercizio da parte del partito politico di classe; la realizzazione di interventi dispotici della dittaura proletaria sul piano politico contro la borghesia, le sue organizzazioni e i suoi alleati e, sul piano economico e sociale, iniziando a distruggere i rapporti di produzione e sociali capitalistici, e sul piano militare costituendo le forze armate proletarie per difendere la dittatura proletaria; l’unione politica internazionale dei proletari di tutti i paesi; la lotta rivoluzionaria per la conquista del potere politico negli altri paesi; la guerra rivoluzionaria contro le borghesie di ogni paese che tenteranno di abbattere nel paese, o nei paesi dati, il potere proletario conquistato. La rivoluzione proletaria, il suo verificarsi, dunque, non vanno considerati come fatti che possono avvenire isolati dalla situazione internazionale, dai rapporti di forza fra la classe del proletariato e la classe della borghesia nei diversi paesi e, in particolare, nei paesi capitalistici più avanzati; la rivoluzione proletaria è un fatto che può anche verificarsi in un solo paese – e non necessariamente in molti paesi capitalistici contemporaneamente – dove le condizioni favorevoli contingenti possono facilitare l’attacco rivoluzionario, ma sarà sempre un primo risultato del movimento proletario rivoluzionario internazionale mentre la rivoluzione proletaria mondiale rimane l’obiettivo storico fondamentale, come lo è stato per la rivoluzione d’Ottobre 1917.

Il proletariato adopererà il suo dominio politico per strappare a poco a poco alla borghesia tutto il capitale, per accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello stato, cioè del proletariato organizzato come classe dominante, e per moltiplicare al più preso possibile la massa delle forze produttive. Naturalmente, ciò può avvenire, in un primo momento, solo mediante interventi dispotici nel diritto di proprietà e nei rapporti borghesi di produzione, cioè per mezzo di misure che appaiono insufficienti e poco consistenti dal punto di vista dell’economia: ma che nel corso del movimento si spingono al di là dei propri limiti e sono inevitabili come mezzi per il rivolgimento dell’intero sistema di produzione. Dunque, a seconda del livello di sviluppo economico e sociale del paese in cui la rivoluzione proletaria vince e instaura la dittatura proletaria esercitata dal partito comunista rivoluzionario, a seconda del rapporto di forze economico-politiche e militari tra il potere proletario conquistato e gli altri paesi capitalisti e a seconda del rapporto di stretta o meno stretta unione internazionale dei proletari di tutti gli altri paesi che lottano esattamente per lo stesso obiettivo rivoluzionario nei rispettivi paesi, il potere proletario nel paese in cui la rivoluzione ha vinto potrà andare più a fondo nella distruzione dei rapporti capitalistici di produzione e sociali: esso dovrà iniziare ad intervenire dispoticamente non solo a livello politico e sociale contro le classi borghesi e piccoloborghesi, ma anche nell’economia capitalistica assumendo il controllo diretto della grande industria, delle banche, delle grandi aziende agricole e delle grandi catene di distribuzione, del commercio estero, dei mezzi di informazione e delle scuole, dando un colpo mortale alla proprietà privata dei mezzi di produzione e alla appropriazione privata della produzione. Questi interventi saranno certamente più facilitati se il potere proletario lo si conquista in uno o più paesi capitalisti avanzati, in quanto lo sviluppo economico e sociale avanzato corrisponde in buona parte ad un’alta concentrazione e centralizzazione del capitale industriale, agricolo, commerciale e bancario. Ma tutto ciò potrà prendere anche molto tempo, dipendendo i tempi di trasformazione socialista dell’economia nel paese, o nei paesi, in cui il proletariato ha conquistato il potere politico, dall’andamento della rivoluzione proletaria a livello internazionale.

Per le caratteristiche specifiche del modo di produzione capitalistico, per l’abitudine sociale a seguire le categorie mercantili e i rapporti di proprietà privata, e per il fatto che non tutte le attività economiche e sociali possono essere trasformate totalmente e in poco tempo in attività a carattere socialista, la trasformazione socialista integrale dell’economia non potrà avvenire nei confini di un solo paese, anche se questo paese è il più grande e il più avanzato capitalisticamente di tutto il mondo. E la ragione di questa impossibilità non va cercata solo sul terreno economico, ma va estesa a quello dei rapporti di forza economici e militari mondiali. Di fronte alla vittoria rivoluzionaria proletaria in un paese come la Germania, la Francia, la Gran Bretagna, la stessa Italia o gli Stati Uniti d’America, tutti gli altri paesi capitalisti si alleerebbero immediatamente per abbattere il potere proletario appena eretto, usando ogni mezzo, a partire dallo strangolamento economico e finanziario e dall’appoggio economico-finanziario-militare alle forze di conservazione interne fino all’attacco militare dall’esterno. La Comune di Parigi e la Rivoluzione bolscevica russa stanno a dimostrare che le forze borghesi non sono mai “neutrali” e non si danno mai per vinte anche quando sembrano incapaci di reagire o pronte a concordare tregue o armistizi.

E’ ben vero che la classe dominante borghese di un paese lotta sempre contro ogni altra borghesia straniera per ragioni di concorrenza, per conquistare nuovi mercati o per difendere mercati già conquistati; ed è ben vero che ogni borghesia è pronta ad approfittare delle debolezze e delle difficoltà delle borghesie degli altri paesi per imporre la propria supremazia. Ma è altrettanto vero che, di fronte al pericolo storico di perdere il potere politico a causa della rivoluzione proletaria, ogni borghesia ha interesse a difendere non solo se stessa ma anche la classe borghese del paese in cui la rivoluzione proletaria avanza, perché per esperienza storica sa che il movimento rivoluzionario del proletariato ha per teatro il mondo e perciò ogni paese, avanzato o meno capitalisticamente, mettendo a rischio il potere di ogni borghesia nazionale.

 

L’obiettivo finale della rivoluzione proletaria è la distruzione del capitalismo come modo di produzione e come società divisa in classi, erigendo sulle sue ceneri la società di specie, quella “associazione generale dei membri della società per lo sfruttamento comune e pianificato delle forze produttive, l’estensione della produzione a un grado tale che essa soddisferà i bisogni di tutti, la cessazione di una situazione nella quale i bisogni dell’uno vengono soddisfatti a spese dell’altro, la distruzione completa delle classi e dei loro antagonismi, lo sviluppo universale della capacità di tutti i membri della società mediante l’eliminazione della divisione del lavoro esistente finora, mediante l’educazione industriale, mediante l’alternarsi delle attività, mediante la partecipazione di tutti ai godimenti prodotti da tutti, mediante la fusione di città e campagna” (Engels, I principi del comunismo, 1847).

Che questo obiettivo storico non sia un “ideale” da realizzare ma un risultato, per l’appunto storico, dello sviluppo materiale delle forze produttive, accelerato in modo gigantesco e universale dalla società borghese, è tesi fondamentale del marxismo che ha dimostrato scientificamente che i rapporti borghesi di proprietà privata e di appropriazione privata della produzione sociale costituiscono il vero limite a quello sviluppo. Dunque, è nella contraddizione congenita del modo di produzione capitalistico che vanno cercate le cause non solo delle crisi economiche e sociali della società borghese, ma anche di quel fenomeno caratteristico esclusivamente della società borghese che è la crisi di sovrapproduzione. La società borghese, basata sulla scambio di valore, genera rapporti di produzione e circolazione che rappresentano altrettante mine per farla esplodere. Esse sono una massa di forme che si oppongono alla unità sociale, il cui carattere antagonistico non potrà mai essere eliminato attraverso una pacifica metamorfosi. D’altra parte, se noi non potessimo già scorgere nascoste in questa società – così com’è – le condizioni materiali di produzione e di relazione fra gli uomini, corrispondenti ad una società senza classi, ogni sforzo per farla saltare sarebbe donchisciottesco (Marx, Grundrisse).

Nessuna pacifica metamorfosi potrà, dunque, rappresentare il ponte di passaggio dalla società divisa in classi alla società senza classi, dal capitalismo al comunismo, poiché è con la forza economica, politica e militare che la classe borghese mantiene in vita e difende i rapporti di proprietà e di produzione borghesi, rapporti che rivestono le condizioni materiali di produzione e di relazione fra gli uomini. Per far salatare in aria quei rapporti è necessaria la rivoluzione politica, la conquista del potere politico con la quale spezzare il massimo organo di difesa  e di centralizzazione degli interessi borghesi che è lo Stato.

E perché il potere politico conquistato dalla classe proletaria abbia la possibilità di incidere su quei rapporti per distruggerli e sostituirli con rapporti di produzione e di relazione fra gli uomini corrispondenti ad una società senza classi, non antagonistica ma caratterizzata dall’unità sociale, esso deve cominciare ad intervenire su di essi subito dopo la presa del potere al fine immediato di dare, per quanto concerne il campo economico, al potere proletario 1) il controllo, attraverso la statizzazione, della parte più grande e vasta possibile dell’economia industriale, agraria e finanziaria presente sul territorio, riducendo al minimo possibile il peso economico delle piccole aziende industriali, artigianali e agricole, 2) il controllo totale del commercio estero, 3) il controllo più ampio possibile nel paese della distribuzione interna dei prodotti, 4) il monopolio del capitale bancario, 5) la proprietà statale di tutta la terra, coltivabile e non, ecc.

E’ evidente che in un primo tempo – la cui durata dipenderà dallo sviluppo industriale e agricolo del paese in cui la rivoluzione proletaria ha vinto, dalla situazione economica e sociale “ereditata” dalla guerra borghese e dalla guerra civile, oltre che dall’andamento della rivoluzione proletaria negli altri paesi e quindi dal rapporto di forza internazionale fra proletariato e borghesia nei diversi paesi, e nei paesi sviluppati in particolare – il potere proletario avrà il compito, contemporaneamente, e soprattutto, di difendersi, armi alla mano, dalle forze della controrivoluzione sia interne che esterne e di sostenere la lotta di classe e rivoluzionaria del proletariato anche negli altri paesi.

La rivoluzione proletaria non può essere, all’inizio del percorso rivoluzionario del movimento di classe del proletariato, che una rivoluzione politica con il compito prioritario non di costruire il nuovo modo di produzione e la nuova società comunista, ma di distruggere i rapporti borghesi esistenti e di utilizzare la propria forza dirompente nel sostenere e rafforzare il movimento proletario rivoluzionario dei paesi in cui la situazione generale e i rapporti di forza fra le classi siano più favorevoli allo sbocco rivoluzionario. La rivoluzione proletaria che può interessare, all’inizio di un periodo storico favorevole, anche un solo paese – e non necessariamente tra i più evoluti capitalisticamente, come la rivoluzione russa del 1917 ha dimostrato – è comunque parte di un movimento rivoluzionario internazionale che si sviluppa forzatamente in modo ineguale come in modo ineguale si è sviluppato e si sviluppa il capitalismo e lo stesso proletariato.

(continua)

 


 

(1) Vedi il Dialogato coi Morti, pubblicato in “il programma comunista” nn. 5, 6, 7, 8, 9, 10, 12 e 13 del 1956, poi raccolto in volumetto, p. 84 nell’edizione “il programma comunista”, Milano, settembre 1956; altra pubblicazione successiva a cura delle Edizioni Sociali, Roma 1976.

(2) Cfr. K. Marx, Il Capitale, Libro I, Utet, Torino 1974, pp. 479-489.

 

 

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