Su Europa ed elezioni europee

Ennesimo inganno per mascherare la brutale dittatura della classe dominante borghese!

I proletari di ogni nazione rifiutino l’inganno elettorale e riconquistino il terreno dell’aperta lotta di classe nella prospettiva della rivoluzione anticapitalistica, unica via in ogni paese per emanciparsi dal vampiresco sfruttamento borghese!

(«il comunista»; N° 135; Luglio 2014)

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Il capitalismo, nei molti decenni di dominio democratico sull’intera società, non ha risolto alcuna contraddizione sociale: la crescita economica, il progresso industriale, lo sviluppo della civiltà borghese non hanno impedito all’economia capitalistica, e quindi alla società borghese eretta su di essa, di andare incontro a crisi di sovraproduzione che, di volta in volta sempre più gravi e profonde, rigettano nella miseria, nella fame, nella disoccupazione, nell’emarginazione, nella morte masse sempre più numerose di proletari e di contadini.

Gli stessi paesi sviluppati d’Europa – culla della civiltà borghese – , proprio perché oggettivamente incapaci di risolvere pacificamente le crisi del sistema economico e politico capitalistico, non potevano impedire lo scoppio di ben due guerre mondiali, una più devastante dell’altra; anzi, da ogni guerra in cui venivano distrutte ingenti masse di merci e di capitali che, a causa della sovraproduzione, non riuscivano ed essere smerciate sui mercati, il capitalismo di ogni paese traeva un notevole beneficio rimettendosi a produrre nuovi cicli di merci e di capitali. E con le merci e i capitali sovraprodotti, venivano distrutti anche uomini, forza lavoro sovrabbondante, a decine di milioni. Gli stessi paesi sviluppati d’Europa non potevano e non possono impedire che successive crisi economiche producessero e producano conseguenze, per ampi strati della popolazione proletaria, paragonabili a quelle delle guerre mondiali; e non possono impedire che le crisi di sovraproduzione sempre più acute portino, prima o poi, ad una nuova guerra mondiale.

La pace, il progresso, il benessere sociale sono stati promessi ad ogni elezione, da partiti di destra e di sinistra; sono stati invocati sistematicamente da ogni religione, sono stati la bandiera delle forze che si dicono rappresentanti degli interessi dei lavoratori professandosi riformiste e tese ad attenuare le contraddizioni più acute della società presente. Ma quale pace, quale progresso, quale benessere sociale?

 

La pace ?

 

I capitalisti amano la pace alla condizione che sia pace sociale, alla condizione cioè che le masse proletarie non disturbino con le loro lotte il flusso continuo della produzione di profitto, dei commerci, degli affari. Ma la lotta di concorrenza che caratterizza la vita quotidiana del capitalismo mette continuamente in discussione il pacifico svolgimento degli affari e, quindi, anche la pace fra borghesi: le guerre commerciali e finanziarie prima o poi si trasformano in guerre guerreggiate. E’ per questo che in tempo di pace le classi dominanti di ogni paese si dotano di forze armate sempre più moderne e all’avanguardia, perché sanno che la difesa dei propri interessi nazionali – i famosi interessi dell’economia nazionale e della patria – prenderà, ad un certo punto dello sviluppo dei contrasti fra nazioni e fra imperialismi, la strada dello scontro armato. D’altra parte, dalla fine del secondo macello imperialistico non c’è stato anno che sia passato senza che le classi dominanti borghesi d’Europa o d’America fossero impegnate in guerre locali, regionali o continentali: sempre e comunque guerre di rapina. Secondo molte fonti di studi militari, la maggior parte delle guerre scoppiate dal 1945 in poi sono stati conflitti “interni” al paese coivolto o alla regione di cui quel paese fa parte. Ma c’è sempre stato l’intervento, diretto o indiretto, delle potenze imperialistiche legate agli Usa piuttosto che all’Urss e, successivamente, alla Russia post 1991. Si calcola che i morti civili siano passati dal 60% dei morti totali nel secondo macello mondiale al 90% degli anni Novanta del secolo scorso; nel periodo dal 1950 al 1998, secondo un noto Istituto di Scienze Politiche di Amburgo (1) i conflitti sono stati ben 1.255, e dal dato statistico mancano i conflitti dal 1998 ad oggi... 20 milioni di morti e 60 milioni di feriti, sempre secondo le stesse statistiche, rappresentano la pace promessa dalle democrazie occidentali e dal falso socialismo di staliniano conio per aver vinto il nazi-fascismo? Conflitti “interni”, quindi locali, e non mondiali? Certo, ma, a giudicare dalla loro quantità e distribuzione nel pianeta – nessun continente è stato finora escluso – hanno avuto interesse di carattere internazionale, sia quando i paesi coloniali si sono sollevati armi alla mano per cacciare i colonialisti diretti, come in Africa, in Medio Oriente, in America centrale, in Sud America e nell’Oriente Estremo, sia quando l’intervento militare imperialistico aveva lo scopo di sottomettere determinati paesi al proprio controllo come in Europa, “culla della civiltà moderna”, vedi l’Ungheria, la Polonia, i paesi che facevano parte della Yugoslavia, i paesi del Caucaso e oggi l’Ucraina. 

La pace capitalistica, ossia la pace del profitto capitalistico, non può che preparare la guerra capitalistica, la guerra per la spartizione del mercato mondiale. E i paesi europei, proprio in virtù del loro sviluppo capitalistico, sono sempre inevitabilmente coinvolti in ogni contrasto, non importa se questo sorga in Europa o in una qualsiasi altra parte del mondo, dato che la rete di interessi capitalistici abbraccia da più di un secolo e mezzo l’intero globo.

Sotto il capitalismo non ci sarà mai pace, in Europa o fuori di essa!

 

Il progresso?

 

I capitalisti si vantano da sempre di essere i protagonisti del progresso economico e scientifico e, dunque, del progresso sociale, politico e culturale di ogni paese. Secondo l’ideologia borghese, la civiltà moderna si basa sulla grande industria, sul commercio sempre più fitto e allargato, sulla potenza economica derivante dalla massa sempre crescente di merci prodotte e vendute e, in quanto tale, questa civiltà del capitale deve essere diffusa e difesa con ogni mezzo perché ogni paese, ogni azienda, ogni capitalista abbiano la “libertà” di progredire al massimo delle loro singole potenzialità e, quindi, di attrezzarsi al meglio nella lotta di concorrenza sui mercati. Le innovazioni e le rivoluzioni tecniche applicate alla produzione, alla distribuzione, alla comunicazione sono la cartina di tornasole del progresso sociale: le aziende che le adottano hanno un’arma in più per combattere la concorrenza sui mercati, ponendosi in questo modo all’avanguardia del progresso rispetto alle aziende concorrenti. Il progresso economico, dunque, è figlio della continua innovazione nei processi di produzione e di distribuzione; ma l’obiettivo di queste innovazioni è quello di battere la concorrenza, perciò il progresso riguarda inevitabilmente solo i settori e i rami di produzione e di distribuzione sui quali l’investimento dei capitali è più redditizio: il progresso economico, quindi, sotto il capitalismo, un tempo effettivamente “rivoluzionario”, non è più sinonimo di progresso sociale, ma solo di crescente beneficio per i capitalisti e miseria crescente per le masse proletarie e contadine.

D’altra parte, la produzione capitalistica richiede sia l’intervento di capitale che l’intervento di forza lavoro salariata, ed essendo la forza lavoro salariata sfruttata ad esclusivo beneficio del capitale, il progresso economico del capitalismo non è sinonimo di progresso economico della forza lavoro salariata se non limitatamente a quella parte e quel tempo per cui il capitale, e chi lo rappresenta – capitalista singolo, associazione di capitalisti, Stato o istituzioni pubbliche locali –, trova conveniente, anche per evitare che la lotta operaia si sviluppi sul terreno di classe, concedere ai proletari occupati condizioni di vita e di lavoro migliori delle precedenti. Condizioni che possono peggiorare da un momento all’altro, a seconda del periodo di crisi, dell’acutezza della crisi e a seconda della capacità di resistenza e di lotta della forza lavoro salariata, come dimostrano i continui esempi di aziende che chiudono, di licenziamenti, di abbattimento dei salari, di riduzione drastica delle protezioni sociali, di aumento dell’incertezza e della precarietà del lavoro e della vita. Il progresso economico, sotto il capitalismo, quando non è interrotto dalle crisi, è assicurato per il capitale, non per il lavoro salariato: l’antagonismo tra lavoro salariato e capitale continua, anche se non emerge per lungo tempo, come il periodo che stiamo attraversando, nelle forme della lotta di classe!

Ma il progresso borghese si identifica anche con il sistema politico che risponde ai principi della democrazia, i quali affermano che ogni singolo membro della società ha il potere di incidere sulle decisioni che riguardano l’intero paese a cui appartiene, o un gruppo di paesi come è il caso dell’Unione Europea, affinché il movimento economico dei capitali nazionali sia indirizzato a beneficio del progresso sociale generale. Le classi dominanti fanno dipendere il progresso sociale dalla crescita economica di ogni paese e la crescita economica non è che la crescita del profitto capitalistico.

In che cosa consiste la crescita economica?

Nella capacità delle aziende capitalistiche di sostenere la lotta di concorrenza sui mercati interni ad ogni paese e sui mercati internazionali, ossia nella loro capacità di aumentare la produttività del lavoro (abbattimento dei costi di produzione per unità di prodotto) che vuol dire sostanzialmente diminuire il costo del lavoro, abbattere i salari, come è dimostrato praticamente in tutti i paesi sia con l’aumento della disoccupazione sia con il taglio dei salari e con il contemporaneo aumento del costo della vita (basti pensare alla casa, ai trasporti, ai prodotti di prima necessità). Nel rapporto tra capitale e lavoro salariato, che è il rapporto fondamentale della società capitalistica, la democrazia non ha alcun peso se non quello di illudere i proletari che, esprimendo la propria opinione, attraverso un voto su un terreno del tutto esterno a quello direttamente inerente il rapporto di produzione, essi possano, prima o poi, indurre i portavoce politici dei capitalisti a temperare la loro voracità sul piano economico, finanziario e sociale, concedendo ai proletari un miglioramento, anche minimo, delle condizioni di vita e di lavoro.

La democrazia borghese ha effettivamente rappresentato nella storia un progresso politico e sociale rispetto all’autocrazia, alle monarchie assolute, al sistema feudale o al dispotismo asiatico, perché, nel periodo rivoluzionario dell’ascesa al potere della borghesia, ha coinvolto le masse contadine e proletarie urbane a partecipare ai movimenti rivoluzionari necessari per abbattere i poteri delle vecchie classi dominanti. Con il capitalismo si è sviluppata anche la democrazia, dando alle masse contadine e proletarie, dopo un periodo di intolleranza dispotica, la possibilità di organizzarsi per proprio conto a difesa dei loro specifici interessi immediati, facendo fare a loro, con ciò, esperienze di carattere politico dalle quali nelle precedenti società erano assolutamente escluse. Questo era un percorso obbligato per la classe borghese perché per abbattere i vecchi poteri aveva bisogno dell’intervento violento e armato delle masse contadine e proletarie. Ma la democrazia borghese, una volta trascorso il periodo rivoluzionario di nuova stabilità del paese dato, passato il successivo periodo di slancio riformista, si è tradotta in uno strumento inservibile per la stessa difesa immediata delle condizioni di lavoro e di vita proletarie, pur restando molto utile alla difesa ideologica e politica della conservazione sociale. Il vero volto della dittatura di classe della borghesia, col passare del tempo e con lo sviluppo del capitalismo, è sempre meno mascherabile con i mezzi e i metodi della democrazia.

La democrazia borghese, fin dalle origini, si basa su di un principio del tutto falso, quello secondo cui di fronte alla legge dello Stato, quindi alla legge del capitale, tutti siano “uguali” e, di conseguenza, il metodo e i meccanismi di governo della democrazia facciano sì che l’opinione individuale espressa da ciascun elettore abbia egual peso al di là delle condizioni sociali dei singoli; secondo il metodo democratico l’opinione individuale si esprime attraverso il voto, dunque il voto di uno avrebbe lo stesso peso di quello di tutti gli altri votanti. In questo senso la democrazia è un feticcio, sul piano ideologico e politico come lo è la merce sul piano economico e sociale. Feticcio perché non è assolutamente vero che nella società divisa in classi antagoniste come è la società attuale, nella quale esiste una classe dominante – la classe borghese – che possiede l’intero monopolio dell’economia e del potere politico e militare, e una classe dominata – la classe proletaria – che possiede esclusivamente la propria forza lavoro individuale, ciò che vogliono, ambiscono e pensano i componenti della classe dominante abbia lo stesso peso sociale di ciò che pensano, ambiscono e vogliono i componenti della classe dominata.

La democrazia borghese è una presa in giro colossale, tanto più evidente in un periodo di crisi economica, nel quale le condizioni di soggezione del proletariato alla borghesia capitalistica sono ancor più pesanti data l’aumentata precarietà del salario e, quindi, della vita! Questa materiale soggezione delle masse proletarie al sistema economico capitalistico da cui dipende la loro sopravvivenza è la base oggettiva dell’influenza ideologica della borghesia sul proletariato, qualsiasi caratterizzazione l’ideologia borghese assuma nelle diverse situazioni storiche, democratica o fascista, parlamentarista o presidenzialista, “popolare” o “diretta”. Il capitalista ha in mano la vita e la morte dei lavoratori salariati sfruttati nella sua azienda perché è dal sistema capitalistico generale che dipendono la vita e la morte delle grandi masse proletarie: nella società borghese, il capitale dà e toglie salario al proletario, quindi ha il potere di dare e togliere la vita. E questo potere lo esercita ogni minuto di ogni giorno nel rapporto dominante stabilito col lavoro salariato; ma, di più, nello sfruttamento della forza lavoro i capitalisti, spinti dalla congenita voracità di profitto, e in assenza di una forte e organizzata lotta di resistenza proletaria sul terreno di classe, impongono condizioni di lavoro sempre più disumane la cui dimostrazione più evidente è data dal sempre crescente numero di infortuni e di morti sul lavoro, di malattie professionali, di migranti che, in cerca di uno spiraglio di vita, vanno a morire attraversando deserti, montagne e mari! Non passa giorno che in Europa e in qualsiasi altro paese del mondo non vi siano vittime del lavoro salariato, nelle acciaierie o nelle miniere, nei campi o nei cantieri edili, nelle fabbriche tessili o in quelle di scarpe e negli stessi uffici e nelle strade dove si consuma una morte lenta dovuta alla nocività degli ambienti, allo stress, al mobbing, alla fatica da carico eccessivo di lavoro o al lavoro nero e malpagato: insomma, i proletari vanno al lavoro come in guerra! 

L’inganno della democrazia borghese, sempre pronta ad alzare l’inno della “sovranità popolare” e achiamare di tanto in tanto le masse proletarie a partecipare alle elezioni con lo scopo di eleggere nuovi aguzzini o rieleggerne di vecchi, serve alla borghesia per coprire la realtà della divisione della società capitalistica in classi antagoniste, la realtà  della dittatura della borghesia, mistificando un’eguaglianza inesistente e per deviare le spinte di lotta del proletariato negli impotenti meandri di istituzioni che nei fatti servono solo a far passare leggi utili agli interessi borghesi e a sprecare le energie proletarie dedicate alla politica e alla difesa dei propri interessi di classe. Con la democrazia borghese, di cui l’Europa si vanta di essere stata la culla e di averla insegnata al mondo, il proletariato non ha fatto nessun passo avanti verso la propria emancipazione di classe dalla schiavitù del lavoro salariato: abbracciando non solo il principio democratico ma anche i suoi metodi e i suoi meccanismi, il proletariato non ha fatto altro che rafforzare il proprio asservimento al potere borghese, ed ogni forza politica, sindacale e sociale che prospetta al proletariato l’utilità della democrazia borghese anche per i suoi interessi, immediati e generali, non è altro che una forza nemica, una forza di conservazione borghese che lavora per mantenere più a lungo possibile il sistema capitalistico di schiavitù salariale.

 

Il benessere sociale?

 

Non si può certo negare che in diversi paesi capitalistici avanzati non vi sia, anche per il proletariato, un tenore di vita più alto che in molti paesi capitalistici arretrati o, come dicono oggi, “in via di sviluppo”. L’Europa, e soprattutto i paesi del nord Europa, al pari del nord America, rappresentano non a caso la meta di milioni di migranti dai paesi dei continenti che hanno conosciuto la civiltà borghese nelle forme più brutali e orrende che potessero esistere come è dimostrato dalla lunghissima stagione del colonialismo europeo (spagnolo, portoghese, olandese, inglese, francese, belga, italiano, tedesco, russo, per citare i più importanti) e dalle conseguenze del successivo dominio imperialistico dal quale in molti si sono “liberati” attraverso le lotte di “liberazione nazionale”, ma solo dal punto di vista dell’oppressione militare diretta, non certo da quello della dipendenza economica e finanziaria. Il miglior tenore di vita che i proletari europei hanno rispetto ai proletari di moltissimi paesi degli altri continenti non è dovuto soltanto alle lotte che hanno fatto, soprattutto nel passato, per conquistarlo e per mantenerlo; è dovuto anche al gigantesco sfruttamento che le proprie borghesie colonialiste e imperialiste hanno messo in pratica nei confronti dei paesi “conquistati alla civiltà”, e allo sfruttamento bestiale che ancora oggi vige sul proletariato di quei paesi per mano sia delle borghesie imperialiste d’Europa, affiancate da quelle d’America e dalle giovanissime e altrettanto voraci borghesie imperialiste d’Asia, che dalle più giovani borghesie nazionali che non hanno nulla da invidiare alle loro sorelle maggiori.

Il proletariato dei paesi capitalistici avanzati ha potuto godere, e gode ancora, nonostante i colpi delle crisi economiche che si sono succedute nel tempo, di condizioni di lavoro e di vita sicuramente dure e precarie ma non paragonabili a quelle dei proletari del Bangladesh, dell’Egitto, della Bolivia, del Sudafrica o della Cina. Questa “differenza”, oltre a non rappresentare per i proletari d’Europa e dei paesi ricchi un benessere sociale duraturo – come dimostra ogni crisi economica che sopraggiunge –, si assottiglia sempre più, avvicindando masse sempre più numerose dei paesi imperialisti alle pessime condizioni proletarie dei paesi della periferia dell’imperialismo.

La tendenza storica del capitalismo è di proletarizzare masse sempre più vaste, espropriando violentemente territori sempre più estesi e gettando intere popolazioni nella miseria e nella fame, costituendo in questo modo un enorme esercito industriale di riserva mondiale da sfruttare sia nei paesi d’origine sia nell’emigrazione forzata con la quale premere brutalmente sul proletariato dei paesi più avanzati proprio in termini di condizioni di lavoro e di vita, peggiorandole progressivamente. Il “benessere sociale per tutti”, da promessa del riformismo e della democrazia, si traduce in reale “peggioramento sociale generalizzato”!

La tendenza storica del movimento operaio è di resistere alla feroce pressione del capitalismo organizzandosi per lottare in difesa dei propri interessi immediati e di dar vita ad un movimento sociale, e quindi politico, per eliminare lo sfruttamento capitalistico della forza lavoro salariata dalla faccia della terra. L’Europa, dove il capitalismo ha avuto i natali, ha conosciuto nello stesso tempo la lotta dei proletari contro la violenza economica dei capitalisti e la violenza sociale delle classi dominanti borghesi concentrata nel loro Stato, anche il più democratico, aprendo con le prime associazioni economiche di difesa classista, e con i primi movimenti di sciopero, la strada che porterà all’emancipazione. Il proletariato si costituisce in classe, quindi in partito, afferma il Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels; ogni lotta di classe è lotta politica: la via è storicamente tracciata dallo stesso capitalismo che, sviluppando se stesso, crea e sviluppa inevitabilmente proletariato sotto ogni cielo, l’unica classe dalla quale, sfruttandone la forza lavoro, trae il plusvalore e, quindi, il profitto; l’unica classe che, proprio per la qualità del suo sfruttamento, possiede dialetticamente la forza storica per superare definitivamente il modo di produzione capitalistico e la società creata a sua immagine e somiglianza.

Allo sviluppo crescente del capitale corrisponde lo sviluppo crescente del lavoro salariato che però non significa automaticamente sviluppo crescente delle forze produttive (del lavoro vivo) perché il capitale, per valorizzarsi, è costretto ad aumentare enormemente la parte fissa, costante (il lavoro morto) rispetto alla parte variabile, salariata (il lavoro vivo). Il peggioramento sociale generalizzato deriva da questo rapporto tipico del capitalismo: il lavoro morto si nutre del lavoro vivo! L’iperfolle sviluppo del capitalismo ha portato inevitabilmente a generare crisi economiche e sociali sempre più acute in cicli di tempo sempre più brevi, crisi che le società precedenti non avevano mai conosciuto: crisi di sovraproduzione. Si producono troppe merci, si produce troppo capitale che i mercati non riescono più a smaltire e, alla impossibilità di consumare tutto quel che si produce al prezzo che garantisca il profitto capitalistico, si combina l’impossibilità da parte del capitale di dare lavoro a tutti, e quindi un salario per vivere all’intera massa proletaria che, soprattutto nei periodi di crisi, in buona parte precipita nella miseria più nera.

I proletari, vittime sacrificali designate sull’altare del dio Capitale, rimarranno in queste condizioni fino a quando si assoggetteranno ai diktat borghesi, fino a quando rinunceranno ad usare la propria forza sociale, organizzata e unita, sul terreno dell’aperto scontro di classe, superando la divisione e la concorrenza fomentate appositamente dalle forze borghesi e da ogni altra forza di conservazione, da quella religiosa a quella riformista e collaborazionista.

Il “benessere sociale” che i borghesi democratici e le forze dell’opportunismo politico e sindacale vorrebbero distribuito alle masse proletarie non ha nulla a che fare con la soddisfazione piena delle esigenze di vita della classe proletaria, né tanto meno della specie umana in un rapporto armonico con la natura; ha a che fare sempre e comunque con il saggio medio di profitto rispetto al quale i borghesi possono, in fasi sociali particolarmente critiche per il loro potere, accettare di tenere per sé quote inferiori di profitto al fine di tacitare le esigenze elementari di vita delle grandi masse proletarie potenzialmente spinte a ribellarsi violentemente alle condizioni di miseria e di fame in cui vengono precipitate. Al massimo, la borghesia organizza enti e associazioni di carità per non dover raccogliere nelle strade milioni di morti per fame o per malattia. Il “benessere sociale”, che i borghesi democratici concedono ad una parte infima di proletari, per catturarne l’appoggio nella loro lotta contro il proletariato in generale come classe, ha per contraltare la disoccupazione, l’emarginazione, la miseria, la fame per milioni di proletari. Questo è il prezzo che la borghesia fa pagare alle masse proletarie per mantenersi al potere e per continuare a valorizzare capitale giorno dopo giorno fino al crack della sua civilissima economia, da superare, naturalmente, con guerre sempre più devastanti affinché siano distrutti uomini e merci per poter ricominciare a produrre profitto!

Ma i borghesi, oltre a sfruttare appieno il proprio potere economico e politico, oltre a sfruttare appieno la concorrenza fra proletari, possono contare su un altro potente fattore di conservazione sociale: l’opportunismo, ossia quelle forze che provengono dalle mezze classi piccoloborghesi e dalle stesse file del proletariato, corrotte attraverso prebende e privilegi di casta, tipici dell’aristocrazia operaia, e organizzate in modo capillare nelle stratificazioni operaie; forze che hanno una reale influenza sulle masse proletarie soprattutto perché investite direttamente dalla classe dominante della patente di “rappresentanti dei lavoratori”; forze che hanno per obiettivo la conservazione sociale perché è da questa che ricavano i loro privilegi e la loro sopravvivenza.

La democrazia e l’opportunismo sono figli dello stesso inganno borghese: con la democrazia e le sue istituzioni elettive, amministrative e politiche, le masse proletarie non hanno mai ottenuto e non otterranno mai la propria emancipazione dalla schiavitù salariale; seguendo l’opportunismo le masse proletarie non conquisteranno mai il benessere sociale duraturo per tutti, primo perché il capitalismo non lo può realizzare dato che poggia il suo potere politico sulla divisione e sulla concorrenza fra proletari, secondo perché l’opportunismo si nutre, al di là delle parole usate nella propaganda, proprio della divisione e della concorrenza fra proletari. L’unica unità che la democrazia riconosce è quella “patriottica”, ossia la complicità di tutti gli strati sociali, e del proletariato in ispecie, nella difesa degli interessi generali del capitalismo nazionale quando questi vengono messi in pericolo dai capitalismi nazionali concorrenti; l’inganno elettorale serve per alimentare questa complicità, questa partecipazione, dunque il volontario assoggettamento delle masse proletarie alla dittatura del capitale. L’unica unità che l’opportunismo persegue è esattamente la stessa della classe dominante borghese: l’unità patriottica, l’unità nazionale, l’unità delle masse proletarie a difesa dell’economia nazionale in concorrenza sui mercati internazionali e, un domani, del paese in caso di conflitto con altri paesi concorrenti. A livello parlamentare come a livello sindacale, pur su due terreni distinti, le grandi forze tradizionali dell’opportunismo riformista, col tempo, si sono trasformate in forze dichiaratamente collaborazioniste, gettando alle ortiche – visto che dopo più di ottant’anni di falsificazione del marxismo non servivano più per confondere le masse proletarie – i richiami al socialismo, alla rivoluzione, all’emancipazione proletaria, al comunismo; si sono finalmente liberate di una maschera che ormai non serviva più a nasconderle. Ma nella società borghese le contraddizioni sociali non finiscono mai e generano costantemente tensioni, ribellioni, strappi, lotte, esplosioni sociali che interessano più o meno ampi strati proletari e che, potenzialmente, ricostituiscono quegli spiragli da cui possono rinascere spinte classiste e legami con la passata tradizione di classe del proletariato e nei quali si può inserire la mai scomparsa teoria del comunismo rivoluzionario, vera forza storica del movimento reale del proletariato che nessuna propaganda, nessuna manovra, nessun potere della borghesia potrà mai vincere definitivamente.

 

I proletari sono stati chiamati per l’ennesima volta a partecipare alle elezioni per rinnovare il parlamento europeo. Sono stati chiamati a ridare fiducia ad un’Europa che tutte le forze politiche e sindacali corrotte dall’ideologia borghese sostengono come fosse uno scudo al riparo del quale le condizioni economiche e di vita delle masse proletarie e proletarizzate dei 28 paesi che ne fanno parte vengono e verranno difese al di sopra degli interessi peculiari di ogni Stato membro e di ogni strato sociale. Vi sono, d’altra parte, forze politiche e sindacali, egualmente corrotte dall’ideologia borghese, che sono polemiche nei confronti della gestione politica dell’Unione europea, accusando “l’Europa” di non fare abbastanza per sostenere l’economia e la crescita economica del tale o del tal altro paese, di essere capace soltanto di imporre politiche di austerità precipitando interi paesi nel disastro economico come è successo per la Grecia, il Portogallo, la Spagna e anche l’Italia, lanciando demagogicamente la minaccia di “uscire dall’Europa” o di “uscire dall’euro”, illudendosi, e creando l’illusione, che ogni Stato nazionale, in quanto entità politica ed economica affermata e riconosciuta da tutti gli altri Stati, possa prendere decisioni in ogni campo in “piena indipendenza” con una rinnovata “autarchia”.

Già, l’indipendenza. In un mondo diviso in 244 tra Stati e Dipendenze extraterritoriali e in cui solo un ristretto numero di paesi superindustrializzati (il famoso G20), per la loro potenza economica e imperialistica, visto che rappresentano l’80% del Pil mondiale e i 2/3 del commercio e della popolazione mondiale, decide effettivamente le sorti nazionali e mondiali di tutti i paesi del mondo, di quale indipendenza si parla? Le relazioni commerciali, economiche, finanziarie e politiche internazionali, infittitesi con lo stesso sviluppo del capitalismo, non permettono ad alcuna economia nazionale, nemmeno quella degli Stati Uniti d’America, di sopravvivere separata dal resto dell’economia mondiale. E’ questa la realtà dello stadio imperialistico del capitalismo che è causa sia dello sviluppo che della mancanza di sviluppo dei diversi paesi del mondo; la concorrenza mondiale genera inevitabilmente fattori di contrasto che a loro volta spingono le classi dominanti borghesi dei diversi Stati a stringere alleanze di ogni genere fra di loro pur di rafforzare la capacità di contrastare la concorrenza o semplicemente di sopravvivere come classe dominante nazionale. Il caso dell’Unione Europa, indicata da tempo, visto il numero di Stati membri, come “Europa” non è da meno. L’indipendenza nazionale di ogni Stato membro dipende, come sempre, dalla potenza o dalla debolezza economica espressa, e va da sé che gli Stati membri più forti condizionino pesantemente le decisioni di politica economica, e quindi anche sociale, di ogni altro Stato membro. Non è una novità che la Germania, soprattutto dalla sua riunificazione nazionale in poi, rappresenti la potenza europea più forte e solida, cosa che, da un lato, fa da catalizzatore per i paesi più deboli che hanno bisogno di protezione e di un mercato vicino dove inserirsi con qualche vantaggio, e, dall’altro, rappresenta un fattore di destabilizzazione politica, mantenuta ancora nei limiti delle polemiche verbali, e di contrasti che in un futuro, forse non così lontano, genereranno fattori di possibili scontri militari.

Resta ancora in piedi, ad oggi, il mito dell’Europa unita, degli Stati Uniti d’Europa, ossia di una specie di federazione di Stati unita politicamente che dovrebbe superare il livello degli accordi economici e monetari che hanno finora accompagnato la costituzione di un “mercato comune” e di una “moneta comune”. Questo mito sembra poggiare oggi su basi meno fragili di quanto non fossero alla fine della seconda guerra mondiale o al tempo della prima, perché le “questioni nazionali” che hanno sconquassato l’Europa per lungo tempo appaiono “risolte”, anche per le nazioni che dopo 40 anni si sono staccate dall’oppressiva Urss e per le nazioni che facevano parte della federazione yugoslava. Sembra che oggi, in virtù anche del passaggio dalle monete nazionali alla moneta “unica” e ad una forma di gestione centralizzata di quantità di denaro notevoli da parte della Banca Europea, sia più agevole per gli Stati europei percorrere il cammino verso una “unità politica” non di facciata, ma più simile a quella degli Stati Uniti d’America. Ma questo mito si scontra con la realtà dello sviluppo contraddittorio del capitalismo: le basi storiche dei capitalismi nazionali e il loro sviluppo, in Inghilterra, in Francia, in Germania, in Italia e via via in ogni altro paese europeo, non potranno mai essere sepolte nella retorica dell’ideologia mistificatrice borghese. Resta più che mai attuale quanto Marx ed Engels hanno scritto nel Manifesto del partito comunista del 1848: La borghesia è sempre in lotta; da principio contro l’aristocrazia, più tardi contro le parti della stessa borghesia i cui interessi vengono a contrasto col progresso dell’industria, e sempre contro la borghesia di tutti i paesi stranieri (2). La levatrice della storia non è mai stata la formalizzazione costituzionale degli Stati, ma la violenza economica, politica, militare con cui la borghesia nazionale si è imposta in ogni paese e nelle relazioni con ogni altro paese: ciò è dimostrato ampiamente dalla storia della moderna formazione degli Stati e dalle guerre che nei vari cicli di sviluppo capitalistico hanno confermato o stravolto la formazione di quegli Stati e le loro relazioni con gli altri Stati stranieri che, per convenienza economica e politica, e quindi anche militare, potevano costituire elementi di alleanza o di urto.

L’Europa dei cittadini, l’Europa delle patrie, l’Europa dei lavoratori o qualsiasi altra immagine che i borghesi possono inventarsi per dare forma al mito di un’Europa Unita, tentano di nascondere una realtà che, con i metodi e i mezzi elettorali, democratici e pacifici, non potrà mai attuarsi. Come già Marx ed Engels e Lenin hanno combattuto le tesi che portavano a formulazioni falsamente socialiste di una federazione di Stati chiamata Stati Uniti d’Europa per via pacifica, così la Sinistra comunista d’Italia ha continuato la battaglia politica e teorica sulla stessa linea dimostrando, con gli avvenimenti della seconda guerra mondiale e del suo dopo guerra, che l’affermazione contenuta nel Manifesto del 1848 e nelle opere di Marx era più che valida e che lo sviluppo del capitalismo in imperialismo aveva soltanto fatto cambiare il perno del dominio capitalistico mondiale dall’Inghilterra agli Stati Uniti d’America, ma che non aveva attenuato, semmai li aveva resi sempre più acuti, i fattori di contrasto fra i capitalismi nazionali, fra le borghesie di ogni paese che sono ciascuna straniera per le altre e, perciò, sempre fondamentalmente nemica anche se per alcuni tratti della storia veste la divisa dell’alleata.

Al di là del mito pacifista, qual è la possibilità che si realizzi una unione borghese degli Stati d’Europa? Di possibilità ce n’è una sola, quella classica della violenza di guerra. Nella storia l’aveva già tentata l’Inghilterra, all’epoca della grande rivoluzione francese del 1789; l’aveva tentata successivamente Napoleone, cercando di abbattere i poteri feudali di Prussia, Austria-Ungheria e degli Zar; e poi la Prussia, fermata nel 1871 alle porte di Parigi dalla Comune proletaria che dimostrò non solo che le borghesie si fanno costantemente la guerra, ma che di fronte al pericolo della rivoluzione proletaria si alleano tutte contro di essa. La tentò ancora la Germania, sia nella prima che nella seconda guerra mondiale, senza riuscirvi perché battuta da potenze imperialistiche più forti coalizzate contro di essa. Ci potrà mai riuscire una sequenza interminabile di elezioni in 28 paesi che si sono alleati non per costituire un’unica “sovranità sovranazionale” (come dovrebbero essere gli Stati Uniti d’Europa), ma per rafforzare ognuno nei propri confini la propria “sovranità nazionale”? Mai ci riuscirà con metodi pacifici e democratici. Solo un’altra guerra mondiale, in assenza di rivoluzione proletaria, potrebbe ridare ad una potenza europea, ad esempio la Germania, la possibilità di ritentare di sottomettere tutti gli altri Stati dell’Europa, Russia esclusa e magari alleata in funzione antiamericana, al proprio dittatoriale dominio. Ma, per l’ennesima volta, non si tratterebbe del tentativo di formazione di una diversa “entità nazionale”, bensì dell’annessione violenta di tutti gli altri Stati all’imperialismo europeo più forte; e se, per congiunture particolarmente favorevoli all’imperialismo europeo più forte in un dato svolto storico, tale conquista avesse mai successo, sarebbe motivo ulteriore di scontro con gli altri imperialismi mondiali, leggi Stati Uniti d’America, Cina, Giappone che concorrono con altrettante mire espansionistiche alla spartizione del mercato mondiale. In questo schizzo del tutto ipotizzato, non sono stati presi in considerazione il proletariato e la sua possibilità di riconquistare, proprio in occasione degli sconvolgimenti della guerra mondiale, la propria indipendenza di classe e, quindi, il proprio movimento di classe antiborghese e anticapitalistico.

Oggi, ripiegato su stesso com’è, frammentato in mille rivoli e associazioni più o meno corporative e collaborazioniste, il proletariato dà l’impressione di essere una forza ad esclusivo servizio per il capitale, per gli interessi borghesi aziendali e nazionali. Richiamare le sue tradizioni storiche di lotta classista e rivoluzionaria appare come un inutile e impotente sforzo di far tornare un “passato” che in molti dicono che non tornerà più. Il proletariato europeo ha dato moltissimo alla causa storica del proletariato internazionale, esempi fulgidi di lotta sia sul terreno della teoria rivoluzionaria, sia sul terreno dello scontro sociale e armato con le forze borghesi di conservazione democratiche e fasciste; e molto di più ha dato il proletariato russo, punta di diamante del movimento rivoluzionario del primo quarto di secolo del Novecento. Ma, la rivoluzione proletaria dell’Ottobre 1917 russo e l’Internazionale Comunista del 1920, sono state sconfitte e con loro il movimento proletario di classe di tutto il mondo. Rialzarsi in termini di movimento di classe sarà durissima perché i proletari europei devono e dovranno fare i conti con le proprie debolezze, con le proprie complicità pro-borghesi, con i propri timori di perdere quelle cosiddette “garanzie” economiche che hanno conquistato nel tempo, ma che lo stesso sviluppo capitalistico, sia nei periodi di crisi che nei periodi di ripresa economica, si sta rimangiando una dopo l’altra proprio approfittando dell’estrema debolezza di classe in cui il proletariato è precipitato.

L’Europa per cui oggi i proletari sono chiamati ad andare a votare, dal punto di vista della realtà economica  e sociale è un contenitore del tutto vuoto, mentre è pieno di parole sui diritti dell’uomo, sulla pace, sulla solidarietà tra i paesi che ne fanno parte, sulla “giusta ripartizione” degli aiuti da dare ai giovani disoccupati come ai migranti che fuggono dai loro paesi devastati dalle guerre borghesi!

I borghesi di ogni risma si sono sgolati in questa occasione per convincere le masse ad andare a votare, non importa se votare questi o quelli ma recarsi comunque alle urne, tanto ci tengono a fare in modo che l’inganno democratico generi quel coinvolgimento che permetta alla complessa macchina democratica di mantenere efficace l’illusione che col voto si possano facilitare i “cambiamenti” per “migliorare” la vita “di tutti”.

Non sappiamo quanto dovranno ancora peggiorare le condizioni di vita e di lavoro delle masse proletarie europee perché la loro resistenza non precipiti completamente nell’abisso della schivitù più orrenda e si trasformi in spinta alla ribellione e all’azione classista. Ma è certo che lo sviluppo materiale delle contraddizioni di questa società riporteranno masse sempre più numerose di proletari europei autoctoni a seguire le orme ribelli dei proletari immigrati che, intolleranti delle condizioni disumane in cui i civilissimi e democraticissimi capitalisti europei li sfruttano, si organizzano come possono per lottare con mezzi e metodi che richiamano, guarda un po’, proprio le passate lotte classiste: i picchetti, l’astensione improvvisa dal lavoro, la solidarietà tra proletari delle diverse aziende!

Inutile farsi illusioni: è da questi primi passi immediati, limitati, parzialissimi, ma classisti che i proletari devono ricominciare a lottare, riconoscendosi membri di una classe che socialmente ha una forza formidabile solo se indirizzata con mezzi e metodi di classe, su obiettivi di classe e in una prospettiva di lotta che non si ferma al rinnovo del contratto di lavoro, ad un miglioramento salariale o ad un diritto riconosciuto, ma che supera la concorrenza fra proletari per andare verso l’unificazione della classe in funzione della difesa di interessi che riguardano tutti i proletari di ogni età, sesso, nazionalità, settore o categoria di lavoro.

Ai proletari italiani, spagnoli, francesi, tedeschi, greci o inglesi, ai proletari immigrati tunisini, siriani, somali, eritrei, algerini, marocchini, nigeriani, albanesi, palestinesi o pakistani, non importa se il loro padrone schiavista sia filo-europeo o sia euro-scettico: lo sfruttamento bestiale non cambia, la loro precarietà di lavoro e di vita non cambia, il loro salario, regolare o in nero, è sempre un salario che non basta per vivere decentemente, gli infortuni sul lavoro non diminuiscono come non diminuiscono le morti sul lavoro!

Ai proletari, di qualunque paese siano, deve importare la riconquista della loro forza di resistenza alla pressione e alla repressione borghesi, deve importare la riconquista della capacità di trasformare questa resistenza in una vera e propria lotta di classe perché solo così ogni proletario non sarà più solo, in balìa delle decisioni padronali, in balìa di un mercato nel quale ci guadagnano soltanto i capitalisti e mai i proletari!

Dire no al voto, astenersi dall’andare a votare per le europee o per qualsiasi altra elezione politica o amministrativa, è certamente il segnale del disgusto per un’operazione che non ha mai dato i frutti che prometteva. Ma per non ripiegarsi nella miseria della vita individuale e quotidiana nella quale ogni relazione sociale è condizionata dal mercantilismo, dalla concorrenza anche più spietata verso i propri fratelli di classe, dalla sopraffazione o dalla rassegnazione, e per non farsi strumento più o meno docile dell’asservimento al capitale delle energie più vive della società, i proletari devono reagire sul piano non individuale ma sociale, non schedaiolo ma di lotta non accettando la prassi democratica che porta sempre a piegare la testa di fronte al vero potere dominante che di democratico non ha nulla, perché il capitale esercita il suo potere con la dispotica e spietata dittatura di chi dispone della vita e della morte di milioni e milioni di proletari.

Alla borghesia di ogni paese interessa che i proletari, se alla cosa pubblica dedicano il proprio interesse, utilizzino gli strumenti politici che rafforzano il potere della classe dominante, che rafforzano la sovrastruttura statale e istituzionale costruita a difesa della proprietà privata, del modo di produzione capitalistico, e perciò del lavoro soltanto nella forma del salariato e della disponibilità della produzione sociale soltanto nella forma dell’appropriazione privata da parte dei possessori di capitale. La democrazia elettorale e parlamentare serve soprattutto a questo fine. E quando le tensioni e le contraddizioni sociali si acuiscono, mettendo in movimento le masse proletarie sul terreno di classe, la borghesia ha già dimostrato che non ha nessun problema nel calpestare ogni forma democratica e legalitaria per trasformare il proprio governo in un governo di aperta dittatura militare o fascista. La democrazia borghese è anch’essa una merce di scambio: finché serve a mantenere il proletariato sottomesso agli interessi borghesi vi si inneggia come fosse il bene più prezioso, ma quando la situazione sociale cambia e le classi proletarie tornano a muoversi sul terreno dell’aperto antagonismo di classe, finalmente riconosciuto e accettato, i diritti democratici e le leggi che li proclamavano finiscono sotto il tallone di ferro di una dittatura che non ha mai smesso di essere tale, solo che era mascherata dai numerosi orpelli che l’ideologia borghese riesce a fabbricare per rincoglionire le grandi masse proletarie.

Che il prossimo parlamento europeo sia diretto da forze cosiddette di sinistra piuttosto che da forze di destra, per il proletariato di ogni paese d’Europa non cambierà sostanzialmente nulla. I suoi interessi di classe, quelli profondi che legano la sorte di un proletariato a quella di tutti gli altri, potranno essere difesi sempre e soltanto con mezzi e metodi di lotta classista, perseguendo obiettivi che non possono essere condivisi né dalle classi borghesi, per quanto democratiche, né dagli strati che si amano definire ceto medio e che in realtà sono gli strati di piccola borghesia sempre succubi dei miti borghesi di eguaglianza e di libertà, congenitamente mercenari e intossicati fino al midollo da ogni superstizione reazionaria.

Il proletariato, unica classe rivoluzionaria della società borghese, non ha nulla da difendere o da guadagnare nella società che lo massacra quotidianamente sotto il regime dittatoriale dello sfruttamento capitalistico; ha un mondo da conquistare. Ma quel “mondo” non è l’Europa “dei cittadini” o una qualsiasi forma di unione degli Stati borghesi attuali, tanto meno i mitizzati Stati Uniti d’Europa, che semmai si creassero, non sarebbero che un altro potente centro imperialistico del capitalismo, nemico ancor più forte ed armato di quanto non sia già oggi.

Il proletariato dei paesi più avanzati, soprattutto dell’Europa occidentale, proprio a causa dello sviluppo dell’imperialismo nel mondo e delle sue conseguenze in termini di guerre di rapina, di oppressione nazionale e crisi economiche, è sempre più costituito da lavoratori autoctoni e da lavoratori provenienti dai paesi extra-europei, dalle vecchie colonie e dai paesi di giovane capitalismo che non sono in grado nemmeno di sfruttare all’interno dei propri confini il proletariato indigeno; è un proletariato formato da lavoratori nativi e da lavoratori forzatamente migranti, anche da più generazioni: è un proletariato di fatto internazionale.

Contro il mito borghese europeista, contro la falsa identità di un’Europa soldale e attenta la bene comune, il proletariato ha l’interesse e il dovere di unirsi al di sopra di ogni differenza di nazionalità, trasformando l’esercito di lavoratori salariati al servizio del capitale in un esercito di proletari che combattono per la propria emancipazione unendosi in un’unica lotta di classe e rivoluzionaria.

Il mondo che il proletariato conquisterà sarà il prodotto di una rivoluzione internazionale che potrà iniziare in uno o più paesi d’Europa o nel resto del mondo, una rivoluzione che troverà la sua base materiale non solo nelle condizioni di vita dei lavoratori salariati e nella loro tenace lotta di classe contro la borghesia dei propri paesi, ma anche nel fatto che le loro nazionalità originarie vengono sempre più confuse in una internazionalità concreta che mette in risalto in modo evidente che le condizioni di vita dei proletari di ogni paese, le loro condizioni di sfruttamento e di oppressione, sono determinate sotto ogni cielo dallo stesso regime economico e politico capitalistico.

Le classi borghesi dominanti cercheranno sempre di aumentare la concorrenza tra proletari autoctoni e immigrati perché questa concorrenza rafforza il loro potere asservendo sempre più al capitale sia i proletari autoctoni che i proletari immigrati. La classe proletaria, da parte sua, ha tutto l’interesse di superare ogni concorrenza tra nazionalità, sesso, età e settore di lavoro, unendosi nella comune lotta contro la borghesia in ogni paese.

La lotta rivoluzionaria del proletariato potrà vincere, nelle condizioni storiche favorevoli, in uno o più paesi capitalisti avanzati o in via di sviluppo, ma il suo grande obiettivo politico sarà sempre lo stesso: spezzare lo Stato borghese, demolirlo e sostituirlo con la dittatura proletaria che sarà inevitabilmente internazionale. Contro la dittatura internazionale del capitale, dittatura internazionale del proletariato; contro la dittatura delle classi borghesi nazionali, dittatura internazionale del proletariato!

Il “mondo” che aprirà la rivoluzione internazionale del proletariato sarà, un domani, la nuova società di specie, la società comunista in cui il modo di produzione non avrà più come obiettivo la soddisfazione delle esigenze del mercato delle merci e dei capitali, ma la soddisfazione dei bisogni degli essere umani, superando completamente la divisione della società in classi ed ogni forma di oppressione. Una società fatta da esseri sociali, non più da borghesi e proletari.

Per arrivare a questo risultato storico, anticipato nella teoria marxista, il proletariato deve necessariamente rompere tutti i legami che lo vincolano alla conservazione sociale, siano essi di ordine politico, sociale, ideologico; esso deve necessariamente ricostituire le sue associazioni di difesa economica su basi classiste, rompendo i legami coi quali il collaborazionismo sindacale e politico lo imprigionano al servizio esclusivo del capitalismo; esso deve riprendere a lottare sul terreno dell’aperto scontro di classe perché la sua prospettiva storica non è di confondersi nell’informe poltiglia chiamata “popolo”, ma è quella di rendersi completamente indipendente dai metodi e dalle pratiche dell’interclassismo, marciando verso la conquista del potere politico che è l’unico vero potere che può dare al proletariato la leva per trasformare la società presente in una società superiore. E’ in questo percorso di lotta classista che il proletariato può incontrare nuovamente il suo partito di classe, come già avvenne nelle occasioni storiche precedenti e, in particolare, durante il periodo rivoluzionario segnato dalla vittoria bolscevica negli anni che vanno dall’ottobre 1917 al 1926.

Il proletariato ha avuto una grande storia alle spalle ed ha una grande storia nel proprio futuro, una storia per la quale hanno tremato tutte le classi dominanti borghesi del mondo perché hanno visto nel successo della rivoluzione proletaria la loro definitiva fine; e con loro hanno tremato tutte le forze dell’opportunismo che, per quanto mimetizzate sotto le spoglie più diverse e perfino “rivoluzionarie”, sono state individuate, combattute e sconfitte non solo sul piano teorico, ma anche su quello concreto, dall’anarchismo al socialdemocratismo al socialpacifismo. Ed è grazie a quelle formidabili esperienze che il movimento rivoluzionario, condensato poi nella corrente di Sinistra comunista, è riuscito a resistere, seppur con modestissime forze, allo tsunami dello stalinismo e del post-stalinismo che tutto falsificò e distrusse, ma nulla ha potuto contro la forza della teoria marxista che ancora oggi, nella sua invarianza, interpreta e spiega con esattezza scientifica i fenomeni dello sviluppo capitalistico e il suo inevitabile sbocco nelle crisi economiche e, un domani, nuovamente nella crisi rivoluzionaria; teoria che fa da guida sicura alle poche forze che oggi rappresentano l’embrione del partito di classe di domani e che, domani, segnerà la strada alle grandi masse proletarie di tutto il mondo.

Chi vivrà, vedrà!  

 


 

(1) Cfr. Arbeitsgemeinenschaft Kriegsuranchenforschung, Institute for Political Science, University of Hamburg, citato in http:// www. presentepassato.it/ Dossier/ Guerrapace/ Documenti2/ doc2_3.htm

(2) Cfr. Il Manifesto del partito comunista, di Marx-Engels, Giulio Einaudi Editore, Torino 1962, p. 113.

 

 

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