La donna e il socialismo (9)

Di August Bebel

La donna nel passato, nel presente e nell’avvenire

(«il comunista»; N° 135; Luglio 2014)

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(continua dal n. 134)

 

 

II. La donna nel presente

 

 

La posizione giuridica e politica della donna

 

Quando un ceto od una classe è economicamente e socialmente soggetta ad un’altra, questa soggezione trova sempre la sua espressione nelle leggi del paese. Le leggi non sono altro che la condizione sociale di un paese tradotta ed espressa in un certo numero di precetti giuridici, rispecchianti cotesta condizione. Le donne considerate come sesso soggetto e dipendente, non fanno eccezione a questa regola. Le leggi sono negative e positive. Negative in quanto, nella distribuzione dei diritti, non accennano agli oppressi come se essi non esistessero, positive in quanto ne consacrano lo stato di soggezione e sanciscono delle eccezioni.

Il nostro diritto comune è basato sul diritto romano che considerava l’uomo soltanto come un essere capace di possesso. Tuttavia l’antico diritto germanico, che aveva della donna un concetto più dignitoso, ha conservato in qualche modo la sua efficacia. Al contrario, presso i popoli latini, il concetto romano del diritto predomina anche oggi, particolarmente poi nei riguardi della donna. Non è un caso che nella lingua francese l’uomo e il marito vengano designati con una stessa parola. Il diritto francese conosce come uomo soltanto il marito. Era altrettanto a Roma, dove si conoscevano cittadini romani e mogli di cittadini romani, ma non si conoscevano cittadine. Sarebbe superfluo aprire il libro variopinto dei molti diritti comuni, specialmente tedeschi; pochi esempi basteranno. Secondo il diritto comune germanico, la donna trovasi da per tutto nella condizione di tutela rimpetto all’uomo; il marito è il padrone ed a lui essa deve obbedienza. Se disobbedisce, il diritto prussiano conferisce al marito di più bassa condizione il diritto di punirla con una pena afflittiva corrispondente.

Vi possono essere però anche uomini distinti ed altolocati i quali usurpano ed esercitano tale diritto. E siccome non sono determinati né la forza né il numero delle bastonate, il marito rimane arbitro assoluto. Il vecchio diritto della città di Amburgo sancisce: “E’ permesso al marito di infliggere una giusta punizione alla moglie, ai genitori di punire i figliuoli, ai maestri di punire gli scolari, ai padroni i servi”. Anche in Germania si incontrano spesso disposizioni identiche. Secondo il diritto comune prussiano, il marito può inoltre prescrivere alla moglie quando debba smettere l’allattamento. Quando occorra di pigliare dei provvedimenti pei figli, è il marito quegli che decide. Morto il marito, la moglie deve per lo più accettare un tutore per i figli, viene dichiarata minore ed incapace a provvedere da sola alla educazione della prole, anche nel caso che essa sola ne curi il mantenimento col suo patrimonio e colla sua attività. Generalmente, è il marito l’amministratore della sua sostanza, la quale, in caso di concorso, viene per lo più considerata come sua e messa a disposizione dei creditori, se manca un contratto precedente al matrimonio che le garantisca i beni. Là dove è in vigore il diritto di primogenitura per la proprietà immobiliare, la moglie non ne può entrare in possesso, sebbene primogenita, quando vi sono maschi e fratelli; allora soltanto acquista il diritto a succedere quando non vi siano fratelli. Essa non può esercitare i diritti politici che hanno di regola il loro fondamento nella proprietà fondiaria, eccetto che in alcuni casi, come in Sassonia, ove le ordinanze del paese le accordano il diritto elettorale in quanto possiede, ma non quello della eleggibilità. Se essa poi ha un marito, tutti i diritti passano in lui. In Sassonia pare che le donne siano anche eleggibili sotto certe condizioni, perché nell’autunno del 1889, stando alle relazioni dei giornali, tre donne furono elette consiglieri comunali. Nella maggior parte degli Stati, la donna può contrattare soltanto col consenso del marito, tranne il caso in cui si tratti di affare suo proprio, nella quale ipotesi la nuova legislazione le consente di far valere le sue ragioni anche senza l’assistenza del marito. Però la donna è esclusa dai pubblici affari. La legge federale prussiana proibisce agli scolari ed agli apprendisti che non hanno raggiunto il diciottesimo anno, nonchè alle donne, di far parte di società politiche o di partecipare a comizi d’indole politica. Ancora pochi anni or sono, le donne non potevano accedere ai tribunali per assistere come uditori ai pubblici dibattimenti, essendovi ordinanze che ne facevano loro divieto. Una donna che metta alla luce un figlio illegittimo non ha diritto agli alimenti se essa ha ricevuto doni da chi la fecondò durante il periodo della gravidanza. Se si pronuncia la separazione, la donna deve portare il nome del marito a perenne ricordo di lui, fuorché nel caso che si rimariti.

Queste prove possono bastare. In Francia le cose sono ancora peggio. Abbiamo già esposto come si è risolta la questione della paternità in caso di prole illegittima. A quella questione si collega l’altra, che la donna in caso di adulterio da parte del marito non può agire senz’altro per far pronunziare la separazione di letto e mensa, perché l’adulterio deve essersi verificato sotto gravissime circostanze. Al contrario, il marito può chiedere subito la separazione. Altrettanto avviene nella Spagna, nel Portogallo, e in Italia. Secondo l’articolo 215 del codice civile, la moglie non può comparire in giudizio senza il consenso del marito e di due parenti a lei più prossimi, e ciò anche nel caso che essa eserciti il commercio. Secondo l’art. 213, il marito deve proteggere la moglie, e questa gli deve obbedienza. Il marito ne amministra i beni ecc.

Identiche disposizioni sono in vigore nella Svizzera francese, per esempio nel Cantone di Waadt. Sul concetto di Napoleone I relativamente alla posizione della donna corre un motto caratteristico: “in primo luogo non è francese una donna che può fare ciò che le piace” (88).

La condizione giuridica della donna si è notevolmente migliorata in Inghilterra sino dall’anno 1882 anche per effetto di una energica agitazione provocata dalle donne nel paese e in parlamento. Per il passato la donna inglese era la schiava del marito il quale poteva disporre a suo piacimento così della sua persona, come della sua sostanza. Il marito era responsabile dei reati commessi dalla moglie in sua presenza, perché essa era considerata come assolutamente incapace. Se essa recava danno ad alcuno, si giudicava come se il danno fosse stato commesso dagli animali domestici ed era il marito che doveva risponderne. Secondo un sermone pronunciato nel 1888 dal vescovo I.N. Wood nella chiesa di Westminster, ancora cent’anni fa la donna non poteva sedersi a mensa né parlare finché non era interrogata. Sopra il letto si appendeva una buona frusta che il marito poteva adoperare quando la sposa era di cattivo umore. Soltanto le figlie dovevano ubbidire ai suoi comandi, i figli non vedevano in lei che una serva. La donna venne parificata all’uomo nei diritti civili per legge nell’agosto 1882.

Fra tutti gli Stati europei, quello ove le donne sono trattate più liberamente è la Russia, e ciò si deve in parte alle istituzioni comunistiche là ancora vive, in parte, alla tradizione. Il comunismo è lo stato sociale più favorevole alle donne, come è dimostrato da ciò che abbiamo esposto sui tempi del diritto materno. Negli Stati Uniti acquistarono la piena eguaglianza giuridica – almeno nella maggior parte degli Stati – e riuscirono anche ad impedire che fossero introdotte le leggi inglesi od altre sul meretricio (89).

La evidenza palmare della ineguaglianza giuridica delle donne rimpetto agli uomini, ha fatto sorgere fra quelle più progredite l’aspirazione all’acquisto dei diritti politici allo scopo di raggiungere l’eguaglianza giuridica mediante la legislazione. E’ il concetto stesso che diede motivo anche alla classe operaia di promuovere ovunque delle agitazioni per la conquista dei diritti politici. Ora ciò sembra un diritto per la classe degli operai, non può non essere tale per le donne. Oppresse, poste fuori dalla legge, esse hanno non solo il diritto, ma anche il dovere di difendersi e di far uso di ogni mezzo che giovi a conquistare loro una posizione più indipendente. E’ naturale che i reazionari osteggino queste aspirazioni e questi sforzi. Esaminiamo un po' con quale diritto.

La grande rivoluzione francese che distrusse tutto il passato e sciolse le catene che inceppavano il pensiero e la coscienza chiamò sulla scena anche le donne. Molte di queste avevano già partecipato vivamente, nei due ultimi decenni che precedettero lo scoppio della rivoluzione, alla grande battaglia intellettuale che si combattè violentemente nella società francese. Esse accorrevano numerose alle discussioni scientifiche, facevano parte dei circoli politici e scientifici e concorrevano da parte loro ad apparecchiare la rivoluzione, nella quale le teorie e le dottrine dovevano tradursi in fatti. La maggior parte degli storici hanno preso atto soltanto degli eccessi della rivoluzione travisandoli mostruosamente come usa sempre quando si tratta di accusare il popolo e di destare raccapriccio, per poter poi mascherar meglio le infamie dei potenti. Cotesti storici hanno quando rimpicciolito, quando passato sotto silenzio l’eroismo e la magnanimità di cui hanno dato prova a quel tempo non poche donne. Finché i vincitori scriveranno la storia dei vinti, sarà sempre così.

Già nell’ottobre del 1789 centinaia di donne presentavano all’assemblea nazionale una petizione nella quale chiedevano “fosse ristabilita l’eguaglianza fra l’uomo e la donna, libertà di lavoro e di occupazioni, e collocamento in quegli uffici che fossero adatti alle loro attitudini”.

Quando la Convenzione del 1793 proclamò i diritti dell’uomo, le donne avvedute riconobbero che si trattava soltanto dei diritti degli uomini, ai quali vennero contrapposti da Olimpia de Gouges, da Luigia Lacombe e da altre i “diritti della donna” in diciasette articoli così giustificati davanti alla Comune di Parigi nel 28 brumaio (20 novembre 1793): “Se la donna ha il diritto di salire il patibolo, deve avere il diritto di salire la tribuna” (90). Naturalmente queste domande non vennero esaudite. Quando la convenzione, di fronte alla reazione europea, dichiarò “la patria in pericolo” e chiamò tutti gli uomini atti alle armi affinchè accorressero a difendere la patria e la repubblica, animose donne di Parigi si offersero di fare quello che venti anni più tardi fecero sul serio le donne prussiane contro il dispotismo napoleonico, e cioè di difendere la patria colle armi in pugno. Il radicale Chaumette (91) si fece loro incontro gridando: “da quando mai è permesso alle donne di rinnegare il loro sesso e di fare da uomini? da quando mai vi è il costume di vederle abbandonare le faccende domestiche, la cura dei figli per scendere nelle piazze, arringare la folla, arruolarsi nelle file dell’esercito, insomma per compiere i doveri che la natura non ha imposto che all’uomo? La natura disse all’uomo: sii uomo! La corsa, la caccia, l’agricoltura, la politica, le applicazioni d’ogni maniera sono privilegio tuo! Al contrario la natura disse alla donna; sii donna! La cura dei tuoi bambini, la custodia della casa, le soavi inquietudini della maternità, ecco le occupazioni tue! Incaute, perché volete diventar uomini? Non sono forse gli uomini divisi abbastanza? di che cosa avete bisogno? In nome della natura, restate ciò che siete, e ben lontane dall’invidiarci i pericoli di una vita tanto procellosa, accontentatevi di farceli dimenticare in grembo alle nostre famiglie, lasciando riposare i nostri occhi sullo spettacolo inebbriante dei nostri figli che le vostre tenere cure rendono felici”.

Le donne si lasciarono persuadere e se ne andarono. Il radicale Chaumette riuscirà certo molto gradito alla maggior parte dei nostri uomini che, del resto, hanno di lui un sacro orrore. Ora crediamo anche noi che sia una divisione di lavoro conveniente quella per cui si lascia agli uomini la difesa della patria, alle donne la cura della casa e del focolare. In Russia gli uomini di tutti i villaggi vanno ad autunno inoltrato a lavorare in opifici lontani, lasciando alle donne l’amministrazione del comune e la custodia della casa. Del resto, la chiacchierata del Chaumette non contiene che delle frasi. Ciò che egli dice del lavoro faticoso del contadino non regge, perché la donna non ebbe dagli antichi tempi sino ad oggi la parte meno grave nella coltura dei campi; e quanto alla corsa ed alla caccia, si può obbiettare che queste applicazioni non sono che un piacere per l’uomo, e la politica presenta pericoli soltanto per coloro che vanno contro la corrente perché, del resto, essa è fonte per gli uomini per lo meno di altrettanto piacere, quanto di preoccupazioni. E’ l’egoismo dell’uomo che parla in Chaumette, ma egli parlava nel 1793.

Oggi le cose vanno un po' diversamente. Le condizioni si sono mutate da allora, e di molto, determinando anche un mutamento nella condizione della donna. Maritata o no, essa ha un interesse nell’attuale stato sociale e politico maggiore che non avesse in passato. Essa non può rimanere indifferente se lo Stato tiene ogni anno sotto le armi centinaia di migliaia di uomini sani e vigorosi, se i Governi fanno una politica, che favorisce o no la guerra, o quando si tratta di imposte e di balzelli che si vogliono inasprire. Nemmeno può esserle indifferente che le più urgenti necessità della vita vengano rincarate da tasse, che favoriscono l’adulterazione delle sostanze alimentari e colpiscono tanto più duramente le famiglie quanto più numerose esse sono, in un tempo in cui i mezzi di sussistenza per la grande maggioranza sono assai limitati. Anche ai sistemi educativi la donna è altamente interessata non potendo esserle indifferente il modo onde il suo sesso verrà educato in avvenire; e come madre poi l’interesse è doppio.

Inoltre ci sono milioni di donne occupate in lavori d’ogni maniera, le quali non possono non interessarsi vivamente della nostra legislazione sociale. Le questioni riflettenti la giornata di lavoro, il lavoro notturno, il lavoro festivo e quello dei fanciulli, le mercedi e il periodo del tirocinio, le misure di protezione nelle fabbriche ecc.; riguardano la donna non meno che l’uomo. Gli operai non hanno che una conoscenza assai imperfetta, quando non è addirittura manchevole, intorno allo stato di alcuni rami d’industria in cui le donne sono occupate o esclusivamente o prevalentemente. Gli imprenditori hanno tutto l’iteresse di tacere gli inconvenienti ai quali essi dànno causa; ma l’ispezione delle fabbriche non si estende ai rami d’industria in cui sono occupate esclusivamente le donne; ed è ancora troppo insufficiente, sebbene sia urgente il bisogno di proteggere, specialmente in coteste industrie, il lavoro delle donne. Vogliamo accennare soltanto ai locali in cui, nelle nostre città più popolose, si pigiano cucitrici, sarte, modiste ecc. Là donde nessuna voce di protesta si leva, le visite e le ispezioni non penetrano. Finalmente la donna è interessata come consumatrice anche nelle leggi che regolano il commercio e i dazi. Non v’è dubbio quindi che la donna ha diritto di esercitare come legislatrice la sua influenza sulle condizioni presenti. La partecipazione della donna alla vita pubblica, darà a questa un impulso vigoroso ed aprirà molti nuovi orizzonti.

Si obbietta che le donne non si intendono di politica, che la maggior parte di esse non vogliono interessarsene, né intendono di esercitare il diritto di voto. Ciò è vero e non è vero. Pochissime donne, almeno in Germania, osarono di chiedere anche l’eguaglianza politica. Fino ad ora, soltanto la signora Hedwing Dohm, per quanto sappiamo, si è fatta innanzi con uno scritto energico (92).

L'affermazione che le donne presero fino ad ora un debole interesse alla politica, non prova nulla. Se esse non se ne curarono, ciò non prova che non possano farlo; ed è notevole che nella prima metà dell’anno 1860 si fecero valere contro il suffragio universale cogli uomini le stesse ragioni che si adducono contro il diritto di voto delle donne. L’autore di questo libro apparteneva ancora nel 1863 a coloro i quali si pronunciarono contro il suffragio universale in Germania, al quale quattro anni più tardi egli dovette la sua nomina a deputato. A mille altri accadde lo stesso, da Sauli diventarono altrettanti Paoli (93). Vi sono pure moltissimi i quali né esercitano i diritti politici, né intendono di esercitarli, ma non è questa una buona ragione per privarveli. Nelle elezioni in Germania il 40 per cento non va a votare, e cotesti astensionisti si reclutano in tutte le classi, fra gli operai, come fra gli scienziati. Ma di questo 60% che prende parte alle elezioni, la maggioranza, secondo il nostro concetto, vota come non dovrebbe votare se comprendesse i suoi veri interessi, e non li comprende perché le manca l’educazione politica, la quale, per altro, il 60% che vota ha in grado maggiore del 40% che si astiene. Se ne devono escludere però coloro che non accedono alle urne perché non potrebbero votare liberamente, secondo il loro convincimento, senza pericolo.

L’educazione politica non si forma col tenere lontane le masse dai pubblici negozi, bensì col permettere loro l’esercizio dei diritti politici. Nessuno diventa maestro senza l’esercizio. Le classi dominanti vollero conservare la grande maggioranza del popolo in uno stato di incapacità politica, a tutto loro vantaggio. Fu quindi compito delle minoranze di combattere energicamente ed animosamente per gli interessi generali, di scuotere l’inerzia della grande massa e di trascinarla dietro a sé. Così è stato finora in tutte le grandi agitazioni, e non deve quindi recar meraviglia e sconforto che non sia altrimenti anche nella moderna agitazione per il proletariato e per le donne. I successi ottenuti dimostrano che gli sforzi e i sacrifici ebbero ricompense, e l’avvenire ha in grembo la vittoria.

Quando le donne otterranno la parificazione dei diritti cogli uomini, anche la coscienza dei doveri si farà in loro più viva. Invitate a dare il loro voto, si decideranno. Perché? Per chi? Comincerà allora un periodo d’agitazioni che, ben lungi dal peggiorare i rapporti fra uomini e donne, li miglioreranno. La donna meno educata si rivolgerà naturalmente all’uomo più educato, e ne seguirà uno scambio di idee, un ammaestramento reciproco, e tale uno stato quale non fu mai o assai di rado fra uomo e donna. Di qui ancora nuove attrattive nella vita. Appianata sempre più la differenza intellettuale e morale che porge così frequente occasione a dissidi domestici e pone il marito in conflitto coi suoi doveri con pregiudizio del pubblico bene; creato della donna un essere non destinato soltanto a servire da freno, ma un collaboratore animato dalle stesse idee e dagli stessi sentimenti, la donna sarà sprone per l’uomo nel compimento dei suoi doveri, troverà naturale che parte del tempo disponibile venga consacrato ai giornali e alla propaganda, perché anche il giornale le serve di ammaestramento e di passatempo, perché comprenderà essa la necessità del sacrificio allo scopo di ottenere quello che manca a lei, al marito ed ai figli – e cioè una esistenza più degna dell’uomo.

In tal modo la mutua sollecitudine per il comune bene, che è poi strettamente legata al benessere individuale, avrà una influenza nobilitante e quindi effetti del tutto contrari a quelli che la gente dalla vista corta, ovvero i nemici di una convivenza basata sopra la completa eguaglianza di tutti, vogliono presagire. E questi rapporti fra i due sessi si faranno migliori mano a mano che le istituzioni sociali sottrarranno l’uomo e la donna alle cure materiali e all’eccessivo lavoro. Qui, non altrimenti che in tutti gli altri casi, l’esercizio e l’educazione porgeranno un aiuto efficace; non si imparerà mai a nuotare se non si va in acqua, come non si imparerà mai a parlare una lingua straniera se non la si studia e se non ci si esercita. Ciò si comprende da tutti, ma vi sono molti, i quali non comprendono che ciò vale anche per gli affari dello Stato e della società. Sono forse le nostre donne più incapaci di quello che siano i negri dell’America settentrionale ai quali venne riconosciuta la piena eguaglianza politica? E deve una donna intelligente non godere di quei diritti che godono l’uomo più rozzo e ineducato o l’ignorante facchino della Pomerania, ovvero un operaio della Polonia ultramontana, soltanto perché il caso volle che costoro nascessero uomini? Il figlio ha più diritti della madre, dalla quale forse ereditò il patrimonio che lo fece diventare quello che è. Strano in verità!

Inoltre noi in Germania non rischiamo più come i precursori di cadere nel buio. L’America del Nord e l’Inghilterra hanno già aperta la strada. In parecchi Stati dell’America del Nord le donne hanno il diritto elettorale al pari degli uomini e il risultato è ottimo. Nel territorio di Wyoming il diritto elettorale delle donne venne messo alla prova già dal 1869. La seguente relazione dà il miglior ragguaglio sull’effetto di questo esperimento.

Ecco quanto scriveva il signor Kingmann dalla città di Laramie nel territorio di Wyoming al giornale delle donne in Chicago (Women’s Journal) il 26 dicembre 1872:

“Sono già tre anni che nel nostro territorio le donne acquistarono il diritto di voto nonché quello di concorrere agli impieghi e agli uffici come gli altri elettori. Durante questo periodo esse hanno eletto e vennero elette a vari uffici, esercitando le funzioni di giurato e di giudice di pace.

“Generalmente esse parteciparono a tutte le nostre elezioni, e sebbene io creda che qualcuno di noi non approvi in linea di principio l’ammissione delle donne, ritengo che nessuno possa disconoscere che questa ammissione all’esercizio del diritto elettorale abbia esercitato una influenza educatrice. Essa fece sì, che le elezioni procedessero calme e ordinate e che nel tempo stesso i nostri tribunali fossero in caso di impadronirsi di varie categorie di delinquenti che erano rimasti fin qui impuniti.

“Quando, per esempio, il territorio fu organizzato, non vi era quasi nessuno che non portasse il revolver e non lo adoperasse al sorger della più piccola contesa. Ricordo non pochi casi in cui un giurì composto di uomini ritenne d’assolvere uno di quelli che avevano sparato il revolver; ma con due o tre donne fra i giurati questi si sono sempre uniformati all’istruttoria dei Tribunali...”. Espone inoltre il signor Kingmann che spesso le donne devono astenersi dal prendere parte alla giuria a motivo delle loro occupazioni domestiche, con vivo dispiacere dei giudici, ma quando esse assumono una funzione, l’esercitano con molta coscienza, prestano maggior attenzione all’andamento della amministrazione della giustizia di quello che gli uomini, anche se questi sono meno influenzati dagli affari e da estranee occupazioni ed anche se sono più scrupolosi in relazione alla loro responsabilità.

La presenza della donna fra i giurati e fra i giudici ebbe anche questo effetto, che nelle sale di sessione regnò più quiete e più ordine e gli uomini si comportarono in modo più urbano e rispettoso; pareva che gli spettatori fossero meglio vestiti e che le cause avessero acquistato un carattere più dignitoso in ogni riguardo, senza contare che venivano esaurite con maggior speditezza.

Anche sulle elezioni pubbliche le donne avrebbero esercitato la stessa influenza benefica, perché, mentre prima le elezioni non avvenivano mai senza grossi scandali, tumulti e violenze, con intermezzo di ubriachi, assunsero, ammesse le donne, un carattere affatto diverso. Le signore che venivano ad esercitare il loro diritto elettorale erano trattate col più grande rispetto; scomparivano gli importuni ed i chiassoni, sicché le elezioni procedevano con la massima calma. Inoltre le donne prendevano parte alle elezioni in numero sempre crescente, e votavano non di rado in senso contrario ai loro mariti, senza che ciò abbia mai dato causa a nessun inconveniente.

Il Kingmann chiude la sua lunga lettera colle seguenti notevoli parole: “Dichiaro altamente che mentre vidi scaturire molti vantaggi e molto bene per la vita pubblica dal mutamento della nostra legislazione, non ho potuto scoprire né un male né un inconveniente, malgrado tristi vaticini che gli avversari avevano voluto trarre dall’ammissione delle donne alla vita pubblica”.

Anche in Inghilterra, ove in un gran numero di comuni le donne censite hanno il diritto di voto, non si è mai verificato alcun inconveniente. Di 27.946 donne che avevano il diritto di voto in 66 Comuni, presero parte alla prima elezione 14.415, e cioè più del 50%. Di 166.781 uomini presero parte all’elezione appena il 65%. Anche nel Cile le donne ottennero di recente il diritto di voto. In Germania pure, per esempio in Sassonia, le donne, eccezionalmente e sotto certe condizioni, esercitano il diritto elettorale. Secondo le ordinanze del paese la donna ha il diritto elettorale attivo se è possidente e nubile. Nel caso poi che in un comune vi sia una maggioranza di possidenti nubili, queste potrebbero eleggere due terzi e fino a tre quarti dei rappresentanti comunali, ma non potrebbero nominare a consiglieri che degli uomini. Non appena la donna va a marito, perde il diritto di voto, il quale passa al marito; ma se l’immobile viene alienato, il diritto viene perduto da entrambi. Dunque il diritto elettorale non è personale, ma reale, in quanto cioè si subordina al possesso. Ciò è molto istruttivo per la moralità politica dominante e per il diritto vigente. Uomo, tu sei nulla se non hai delle sostanze; intelletto ed ingegno sono cose accessorie che di rado hanno un valore.

Si dice altresì che il diritto di voto, se conceduto alle donne, è pericoloso, perché la donna si lascia dominare da pregiudizi religiosi e da idee conservatrici. E’ verissimo; ma ciò dipende soltanto dalla sua ignoranza; educatela, istruitela dunque in ciò che costituisce i suoi veri interessi. Del resto si è voluto esagerare l’influenza della religione nelle elezioni. Se la agitazione reazionaria in Germania ebbe tanto successo, ciò si deve unicamente al fatto che essa amalgamò gli interessi sociali cogli interessi religiosi. Gli ultramontani combattevano a gara coi socialisti democratici per disvelare la corruzione sociale. Di qui la loro influenza sulle masse. Finita la lotta per la civiltà, le influenze del clero cattolico sulle masse va a poco a poco scomparendo. Il clero è ormai costretto ad abbandonare la sua opposizione contro i poteri dello Stato, e, d’altra parte, questi sono costretti dal conflitto sempre crescente fra le classi, ad avere riguardi alla borghesia cattolica ed alla nobiltà, e ad osservare una maggiore moderazione nel campo sociale. Ma con ciò il clero và perdendo d’influenza sugli operai particolarmente se, per riguardo ai poteri dello Stato ed alle classi dominanti, li costringe ad approvare o tollerare leggi ed azioni che sono in contrasto coll’interesse della classe operaia. Il clero perde adunque la sua influenza sociale e religiosa, ed altrettanto si dica per la donna; perché quando essa apprenderà nei comizi e dai giornali e imparerà per propria esperienza dove sta il suo vero interesse, si emanciperà dal clero non meno sollecitamente dell’uomo.

I nemici più fieri della concessione del diritto elettorale alle donne sarebbero gli ecclesiastici, perché quel diritto mette in questione il loro potere sull’ultimo terreno, ove hanno esercitato fin qua incontestato dominio. Non può essere poi una buona ragione, per non concedere alla donna il diritto elettorale, la circostanza che non se ne vedono subito effetti notevoli. Che cosa direbbero gli operai, se i liberali volessero abolire il suffragio universale – che torna loro molto incomodo – perché giova ogni giorno più ai socialisti? Il buon diritto non diventa cattivo solo perché chi ne usa non ha ancora imparato a servirsene.

Si comprende da sé che il diritto passivo di elezione deve andare unito al diritto attivo.

“Sarebbe bello vedere una donna alla tribuna del Reichstag”, si grida. Noi ci siamo abituati a vedere le donne perorare dalla tribuna nei loro congressi e nelle loro assemblee, e nell’America settentrionale anche dai pulpiti e sul banco dei giurati; perché dunque non si dovrebbe ascoltarla anche a perorare dalla tribuna del Reichstag? La prima donna che venisse in parlamento, sarebbe senza dubbio tale che saprebbe imporsi. Quando entrarono in parlamento i primi operai, si credeva di poter motteggiarli, e si affermava che essi si sarebbero ben presto accorti della pazzia che avevano commesso. Ma i loro rappresentanti seppero presto farsi rispettare al punto che oggi si teme che essi siano per diventare troppi. Si ripetono stupidi motteggi di questo genere: “Quanto sarà inestetica una donna gravida, perorante dalla tribuna del Reichstag!” Questi stessi signori però trovano perfettamente normale che le donne gravide vengano impiegate in occupazioni inestetiche, ove si calpesta e si perde dignità, salute e moralità. Secondo noi è un uomo ben miserabile quello che può far dello spirito sopra una donna gravida. Quando pensasse soltanto alla madre sua che fu gravida di lui, e alla donna sua pregnante, dalla quale aspetta l’appagamento dei suoi più ardenti desideri, dovrebbe sentirsi salire il rossore alle guance e ammutolire. Se si badasse al piacere estetico che può destare l’aspetto dei rappresentanti del popolo, vi sarebbe più di qualche deputato il quale farebbe cattiva prova. Eccovene uno straordinariamente corpulento, il quale non deve già la pinguedine ai fini passeggieri e importanti della natura, ma la deve ad una eccessiva cura del proprio io, a scapito del carattere e della intelligenza. La obesità è quasi sempre indizio di una esistenza parassitica, mentre la gravidanza d’una donna è indizio di salute fisica, e porge testimonianza del coscienzioso soddisfacimento degli istinti naturali. Una donna che partorisce, rende alla comunità almeno lo stesso servizio di un uomo il quale difende colla sua vita contro un nemico rapace la patria e il focolare. Ma vi ha di più. La vita di una madre è in giuoco ad ogni gravidanza; tutte le nostre madri hanno veduto in faccia la morte ad ogni parto e molte fra esse non vi sopravvissero. Il numero delle donne che muoiono di parto o restano malate per le conseguenze di esso, è verosimilmente maggiore del numero degli uomini che sul campo di battaglia muoiono o vengono feriti. Anche per questo motivo la donna ha diritto alla piena eguaglianza giuridica con l’uomo. Ciò sia detto specialmente per coloro i quali adducono il dovere della difesa della patria, incombente all’uomo, come un argomento decisivo contro la donna. Si aggiunga che la maggior parte degli uomini, nemmeno soddisfano a questo dovere, per effetto dei nostri ordinamenti militari, ed anzi per molti quel dovere non è che scritto sui libri.

Tutte queste obbiezioni superficiali, sollevate da chi nega l’attitudine della donna alla vita pubblica, sarebbero trascurabili, se i rapporti dei due sessi fossero naturali, se non esistessero antagonismi ingrossati ad arte, e relazioni di padronanza e di servitù, ed infine se non fossero socialmente separati già fino dall’infanzia. E' al cristianesimo specialmente che si deve cotesto antagonismo, per cui i sessi, costantemente separati e tenuti nell’ignoranza l’uno dell’altro, non possono avvicinarsi, intendersi e completarsi a vicenda.

Uno dei compiti principali d’una società organizzata razionalmente, deve essere quello di togliere questo dissidio fatale e di reintegrare la natura nei suoi diritti. Si comincia già nelle scuole a controperare alla natura. Prima la separazione dei sessi, poi l’istruzione sbagliata o assolutamente deficiente nelle materie che riguardano l’uomo come essere sessuale. S’insegna, è vero, in ogni scuola la storia naturale: il fanciullo impara che gli uccelli fanno le uova e covano; egli apprende anche quando comincia il tempo degli accoppiamenti: che perciò sono necessari maschi e femmine, che entrambi fabbricano il nido, covano ed han cura dei nati. Egli impara altresì che i figli dei mammiferi nascono vivi; ode parlare del periodo degli amori e della lotta del maschio per la conquista della femmina, durante quel periodo; gli insegnano pure qual è il numero ordinario dei nati e forse anche il periodo di gestazione delle femmine, ma lo si tiene completamente all’oscuro sull’origine del proprio sesso, che si avvolge in un velo impenetrabile.

Quando poi il fanciullo cerca di appagare il suo naturale desiderio di apprendere interrogando i genitori, è raro ch’egli osi di rivolgersi al maestro, gli sballano le frottole più sciocche, che non possono appagarlo ed hanno una influenza tanto più funesta quando un giorno egli arriva ad apprendere il modo ond’è venuto al mondo. Sono pochi i ragazzi che non l’abbiano imparato prima del dodicesimo anno. Si aggiunga che in ogni piccola città e specialmente in campagna, i fanciulli sono spettatori fin dai loro più teneri anni dell’accoppiamento dei polli e degli animali domestici, così nei cortili come sulla via e sui pascoli. I fanciulli odono che il periodo degli amori, e l’atto della nascita di vari animali domestici, sono fatti oggetto di importanti discussioni da parte dei genitori, della servitù e della famiglia. Tutto ciò fa nascere nel ragazzo il dubbio che la spiegazione datagli dai genitori intorno alla sua nascita non sia esatta. Arriva finalmente il giorno in cui sa come e da chi nacque, ma lo viene a sapere per vie completamente diverse da quelle per le quali avrebbe acquistato quella stessa nozione se fosse stato educato razionalmente. Il segreto del fanciullo produce l’effetto di allontanarlo dai genitori e specialmente dalla madre. Si ottiene dunque tutto il contrario di quello che si voleva ottenere nascondendo scioccamente la verità. Chi pensa alla fanciullezza propria e a quella di suoi coetanei, sa quali conseguenze derivino da ciò. Una signora americana scrive in un suo libro, fra l'altro, che al figlio suo di otto anni, il quale continuamente la interrogava sulla sua nascita, rispose manifestandogli la sua vera origine, ritenendo immorale di nascondergli la verità inventandogli delle frottole. Essa racconta poi che il ragazzo l’ascoltò colla massima attenzione e che dal giorno in cui egli apprese quali cure e dolori egli cagionò a sua madre, le fu legato con una tenerezza ed un rispetto prima inusitati, conservando poi questo rispetto anche verso le altre donne. L’autrice move dal concetto giustissimo, che soltanto da una educazione conforme alla natura si possa aspettare un miglioramento radicale e specialmente un maggior rispetto dell’uomo per la donna (94). Chi non ha pregiudizi verrà alle stesse conclusioni.

Da qualunque punto si parta per criticare le nostre condizioni, si finisce sempre col mettere capo alla stessa conclusione: essere necessaria una trasformazione radicale delle condizioni sociali e, per mezzo di questa, della posizione dei sessi. Siccome però la donna abbandonata a se stessa, non raggiungerebbe la meta, deve cercarsi degli alleati che si uniscano a lei nella agitazione del proletariato, che è poi l’agitazione della classe degli oppressi. Il ceto operaio ha già cominciato da lungo tempo a combattere la tirannia delle classi che comprende anche il predominio di un sesso sull’altro.

Questa fortezza rappresentata appunto dagli interessi di classe deve essere circondata da ogni parte di trincee e costretta alla resa con artiglierie di ogni calibro. L’esercito combattente trova da ogni parte ufficiali e le munizioni più adatte. L’economia pubblica e le scienze naturali alleate con la critica storica, con la pedagogia, coll’igene e colla statistica escono da varie direzioni e porgono armi e munizioni.

Né la filosofia vuol rimanere indietro ed annunzia nella “Filosofia della redenzione” del Mainländer la prossima realizzazione dello “STATO IDEALE”. Ad agevolare la finale conquista dello Stato di classe e la sua trasformazione, concorre lo scisma nelle fila dei suoi difensori, i quali malgrado la comunanza d’interessi contro il comune nemico, nella lotta per la vita non cessano di combattere contro se stessi. Gli interessi di un partito sono in conflitto cogli interessi dell’altro partito. Si aggiunga che l’ammutinamento si fa sempre notevole nelle fila dei nemici i cui combattenti, sangue del nostro sangue e carne della nostra carne, se fino ad oggi combatterono contro di noi e contro se stessi, lo fecero o per malinteso, o per inganno altrui. E non ultimi a disertare dalle fila degli avversari, sono uomini emminenti, ed autorevoli, cui profondo sapere e alta intelligenza spronano a sollevarsi sui piccoli interessi di classe e sull’egoismo, ed a votarsi con la mente accesa dal loro ideale alla redenzione della umanità sofferente. Siccome ci sono ancora moltissimi i quali non si accorgono che lo Stato e la Società attraversano un periodo di trasformazione, così è necessario dimostrarlo qui appresso, quantunque ciò che vi era d’oscuro sia stato già eliminato con quanto abbiamo scritto fin qua.

 

Stato e Società

 

Il rapido sviluppo che la vita sociale ha preso negli ultimi decenni in tutte le nazioni civili, sviluppo che viene accelerato dai progressi in ogni campo dell’attività umana, ha trasformati tutti i nostri rapporti sociali per modo che ci troviamo oggi in uno stato di inquietudine, di fermento e di decomposizione. Le classi dominanti e gli individui sentono che il terreno vacilla sotto di loro.

Un senso di malessere, di incertezza e di malcontento si è impadronito degli uomini, così in alto come in basso. Gli sforzi spasmodici che fanno le classi dirigenti per mettere fine a questo insopportabile stato di cose, si manifestano inutili e insufficienti, e la poca sicurezza che ne deriva concorre ad accrescere la inquietudine ed il malessere. Non appena hanno introdotta una trave sotto forma di qualche legge nel cadente edificio, si scopre che altre ne sarebbero necessarie in dieci altri punti. Perciò le classi dirigenti si trovano sempre in conflitto fra loro per la varietà delle opinioni e delle idee. Ciò che sembra necessario ad un partito per acquetare e pacificare in qualche modo le masse sempre più incontentabili, è considerato da un altro partito come una debolezza imperdonabile e tale da risvegliare soltanto il desiderio di concessioni ancora maggiori. I governi – non soltanto in Germania – oscillano come una canna al vento e mendicano protezioni ed aiuti, senza di che non potrebbero esistere, appoggiandosi ora ad un partito, ora ad un altro. Oggi un partito è la incudine, l’altro il martello, e viceversa domani l’uno demolisce ciò che l’altro ha costruito a fatica. La confusione diventa sempre più grande e il malcontento sempre più durevole; gli attriti crescono e si moltiplicano, e in pochi mesi si esauriscono più energie che prima in molti anni. Le esazioni, sotto forma di gabelle e di imposte diverse, crescono a dismisura.

Inoltre i nostri uomini di Stato si cullano in una grande illusione. Allo scopo di conservare il potere, s’introducono preferibilmente e si elaborano quelle forme di imposta e di gabella le quali non aggravano, a loro avviso, le masse, perché queste nella loro ignoranza meno se ne accorgono. Questo però è un grave errore.

I poveri che devono sopportare questi pesi, non solo ne comprendono la grande ingiustizia in conseguenza della cresciuta educazione politica e intellettuale, ma, nello stato miserevole della loro posizione, ne sentono tanto più sensibilmente la gravità quanto più numerosa è la famiglia. Il rincaro dei generi di prima necessità determinato dalle imposte e dai dazi indiretti o da regolamenti che hanno lo stesso effetto mentre profitta soltanto alla classe dei possidenti e degli abbienti, rappresenta per la classe operaia non altro che un aggravio ed una solenne ingiustizia e distrugge in essa la fede nel sentimento della giustizia e dei poteri costituiti. Né cangierà per nulla l’effetto finale la circostanza che tale sistema di pubbliche imposte serva a far quattrini. L’aumento delle spese è tanto evidente che alla fine tutti se ne accorgono. Non si possono togliere dalle tasche dei contribuenti centinaia e centinaia di milioni senza che i proprietari di queste tasche si accorgano di tale alleggerimento. Il malcontento dei diseredati per la gravezza eccessiva delle imposte dirette si rivolge contro lo Stato e per le imposte indirette specialmente contro la società, perché riconosce il male come sociale. Ecco il progresso. “Quando gli dei vogliono rovinare un uomo, lo fanno diventare cieco”.

Nei tentativi fatti per conciliare e comporre gli interessi in conflitto, si accumulano organizzazioni sopra organizzazioni, ma nessuna delle antiquate viene tolta, come nessuna delle nuove introdotta; sicché tutto si riduce ad espedienti che non riescono ad appagare alcuno. Alle esigenze ed ai bisogni della civiltà sempre crescenti e più vivi nel popolo si ha qualche riguardo poiché non tutto può arrischiarsi, ma intanto la via della civiltà viene seminata di vittime tanto più numerose quanto più il nostro organismo politico è invaso da per tutto da una folla di parassiti. Se non che, non solo si conservano, ma anzi vanno sempre estendendosi, per ragioni dei contrari, tutte le istituzioni improduttive e quelle contraddicenti ai fini della civiltà, e diventano poi moleste ed oppressive, quanto l’intelletto più educato e più colto  le dichiara superflue ed inutili. Polizia, esercito, giustizia, carceri sono organismi che vanno sempre più dilatandosi e diventando perciò più dispendiosi; ed altrettanto si dica di tutti gli organi amministrativi; ma non aumenta perciò la sicurezza interna ed esterna, anzi avviene tutto l’opposto.

Si è quindi venuto formando nei rapporti internazionali dei singoli popoli uno stato di cose non conforme a natura. Tutti i progressi della civiltà, l’aumento degli scambi, il prodigioso sviluppo dei mezzi di trasporto, le conquiste economiche e scientifiche sono una prova dei rapporti sempre più intimi ed amichevoli fra le nazioni. Ma a ciò contraddicono gli armamenti militari che assunsero in tutti gli Stati d’Europa mercè l’impiego di potenti mezzi materiali e di energie intellettuali e fisiche, tali proporzioni che dieci anni fa si sarebbero ritenute impossibili. Le scoperte e le invenzioni in materia di strumenti di guerra si moltiplicano quasi come quelle di qualunque altro ramo di attività umana. Le armate ingrossano e si rinforzano di anno in anno domandando per sé la parte migliore e più vigorosa della nazione, e tutte le energie fisiche e intellettuali vengono educate in modo da poter, occorrendo, compiere il macello nel modo più perfetto possibile. Questa condizione di cose in evidente contrasto con tutto il resto della cultura, porge testimonianza di ciò che vi è di innaturale nell’organismo e nella costituzione delle classi dirigenti che sono l’origine, la causa di tale stato. La paura dello scoppio della guerra fra le classi che aspirano all’eguaglianza, guerra che diventa ogni giorno più aspra, dà motivo alle classi dirigenti di cercare in questi pazzi armamenti e in queste rivalità nazionali un mezzo per impedire alla materia infiammabile accumulata nell’interno di prendere fuoco. Anche le rivalità commerciali per i prodotti che non si possono collocare all’interno, esercitano una grande influenza.

Se tale stato politico-militare dell’Europa condurrà ad una catastrofe, questa trascinerà seco la società borghese. L’ora della morte sarà allora suonata per lei.

Anche un gran numero dei nostri comuni si trovano in condizioni disperate, non sapendo oramai come soddisfare le imposte, che si inaspriscono ogni anno.

Fra questi comuni vanno comprese le nostre grandi città, formatesi rapidamente, e i centri industriali, ove il rapido aumento della popolazione fa sorgere dei bisogni, ai quali non si può soddisfare altrimenti che coll’imposizione di nuove tasse e coi debiti. Scuole, viabilità, illuminazione, fognatura, pozzi ed acquedotti; educazione, polizia ed amministrazione, importano spese che crescono ogni anno più. Inoltre le minoranze bene organizzate, colle loro pretese, sono causa di grossi dispendi ai comuni. Esse domandano istituti superiori di educazione adeguata, specialmente nei quartieri più eleganti, selciati ecc.

Ora, se la maggioranza della popolazione si duole a buon diritto di queste preferenze, non si può disconoscere che ciò dipende dalle odierne condizioni. Le minoranze hanno in mano il potere, e se ne valgono per soddisfare, a spese dell’umanità, il loro bisogno di cultura. Contro questo cresciuto bisogno non vi è nulla da opporre, perché rappresenta un progresso; il guaio è che chi ne gode ed approfitta è principalmente la classe abbiente, mentre tutti dovrebbero parteciparvi. Un altro inconveniente sta in ciò, che spesso l’amministrazione non è la migliore ed è costosissima. Gli impiegati sono non di rado insufficienti, ovvero non hanno intelligenza bastante per gli speciali bisogni del servizio, che presuppongono spesso grande capacità. I consiglieri comunali hanno tanto da pensare alla cura dei loro interessi privati, che non possono dedicare il tempo necessario al compimento dei loro doveri verso la comunità; senza contare che il più delle volte coteste cariche non servono che a favorire interessi privati, con grave danno del pubblico. Le conseguenze di tutto ciò ricadono sui contribuenti. La società moderna non può pensare oggi a mutare radicalmente questa condizione di cose, così da soddisfare tutti ad un modo; essa è impotente a farlo, perché dovrebbe distruggere se stessa. Aumentando sempre le imposte, esse accrescono continuamente i malcontenti. In pochi decenni i nostri comuni si posero in tale stato da non poter soddisfare ai loro bisogni, nemmeno nelle forme attuali dell’amministrazione e dei tributi. Pertanto nella vita municipale, come in quella dello Stato, si manifesta la necessità urgente di una nuova organizzazione, perché i sistemi odierni conducono alla bancarotta. Vedremo più avanti che cosa vi si deve sostituire.

Così, in poche parole, si presentano le cose nella vita dello Stato e dei comuni, che sono la immagine tipica della vita della società.

 

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Nella nostra vita sociale, la lotta per l’esistenza assume proporzioni sempre più forti. La lotta di tutti contro tutti è scoppiata violenta e viene condotta spietatamente, quasi senza badare ai mezzi. Il motto: Levati di là che vò star io ha, in pratica, la sua attuazione nelle gomitate, nei pugni e nei pizzicotti. Il più debole deve cedere davanti al più forte. Dove non può la forza fisica, che qui si traduce nella forza del danaro e del possesso, si adoperano i mezzi più raffinati e indegni, per raggiungere lo scopo. Menzogne, raggiri, inganni, spergiuri, falsi, delitti atroci vengono commessi per eliminare testimonianze incomode e rimuovere gli ostacoli. E come avviene in questa lotta per la vita che ognuno affronta l’altro, così abbiamo classe contro classe, sesso contro sesso, età contro età. Il vantaggio, l’interesse, ecco l’unico regolatore dei sentimenti umani, davanti al quale ogni altro riguardo deve cedere; migliaia e migliaia d’operai e d’operaie vengono lanciati sul lastrico quando l’interesse lo esige, e quando han consumato l’ultima camicia e l’ultimo oggetto di corredo, li aspetta la pubblica beneficienza o l’esilio forzato. Viaggiano, per così dire, di paese in paese, attraverso la campagna, e vengono considerati dalla società «onesta» con tanta maggior paura e disprezzo, quanto più la mancanza di lavoro ha mutato il loro aspetto e demoralizzata la loro coscienza. La società onesta non sa ciò che vuol dire aver dovuto rinunziare per molti mesi ai più elementari bisogni dell’ordine e della pulizia, girar di luogo in luogo collo stomaco vuoto, e non raccogliere altro che antipatie mal celate e disprezzo, appunto da coloro che sono le colonne del sistema. Si aggiunga che le famiglie dei coniugati vivono nella più squallida miseria, la quale non di rado induce i genitori disperati ai più orribili delitti sui loro figli e sopra se stessi.

In questi ultimi anni accaddero casi raccapriccianti di intere famiglie che si suicidarono (95). Donne e ragazze sono spinte sempre più in braccio alla prostituzione; il delitto e la demoralizzazione assumono le forme più svariate, e ciò che prospera unicamente sono le carceri, le case di pena o le cosidette “case di correzione”, che non sono più capaci di contenere la folla dei loro inquilini.

La Gazzetta di Lipsia del 19 aprile del 1878 contiene un quadro, certo tenebroso, ma rispondente alla verità sulla Focchelandia sassone, e mette in evidenza la dissennatezza della società moderna, e poteva essere riprodotto benissimo nell’autunno del 1890. Ivi si dice:

“La miseria dei nostri tessitori non è una novità; essa dipende non solo dalle sfavorevoli condizioni generali del lavoro, ma anche dal fatto che il lavoro a mano è sopraffatto dalla tessitura meccanica... Perciò i nostri tessitori devono cercarsi un’altra occupazione, e i vecchi, impotenti a procacciarsene un’altra, non possono trovar aiuto che nell’assistenza pubblica. Ma, oltre le persone che hanno bisogno di assistenza, vi sono molte energie che, per mancanza di lavoro di tessitura, se ne stanno, in tutto od in parte, inerti. A queste bisogna procacciar lavoro e render possibile che siano utili, e noi esprimiamo il desiderio e la speranza che gli intraprenditori industriali, commossi dalle presenti miserie, riflettano e vedano se le forze atte e capaci al lavoro che abbiamo ancora – perchè l’operaio della Focchelandia è assiduo e frugale – possano essere vantaggiosamente impiegate nelle loro imprese”.

Ecco un quadro del moderno sviluppo, le cui tristi conseguenze i capi e gli operai delle varie industrie hanno già imparato a conoscere. Non si dimentichi però che il lavoro che, nei casi citati, l’operaio assiduo e “frugale” della Focchelandia deve prestare ad un altro intraprenditore, va perduto per un altro operaio. Ecco il circolo vizioso in cui si aggira la società moderna.

I delitti di ogni specie e il loro aumento sono in strettissima relazione colle condizioni sociali; ma la società non vuol sentirne parlare. Essa nasconde la testa nella sabbia, come lo struzzo, per non dover riconoscere la condizione di cose che la accuserebbero, dando ad intendere a sé e agli altri che la colpa è tutta della “pigrizia” e della “avidità di piaceri” dell’operaio e della mancanza del “sentimento religioso”. E’ questo uno degli inganni del peggior conio; ovvero una ipocrisia delle più ributtanti; ma che si ripete con la massima serietà. Quanto più sfavorevoli per la maggioranza sono le condizioni sociali, tanto più numerosi e gravi sono i delitti. La lotta per l’esistenza assume la forma più violenta e più rude, e getta l’uomo in uno stato, per cui l’uno scorge nell’altro un suo mortale nemico. I vincoli sociali vanno allentandosi sempre più (96).

Quelli che comandano, i quali, o non sanno andare al fondo delle cose, o non vogliono andare, cercano, mediante l’applicazione di mezzi coercitivi, di rendere durevoli gli ultimi effetti di queste condizioni, ed anche quelli nei quali si dovrebbe presupporre, in virtù del loro sapere, mente più profonda, consentono in tale sistema. Così il professor Häckel (97) trova perfettamente normale che la pena di morte venga severamente applicata; d’accordo in ciò con tutti i reazionari di ogni tinta che più gli sono mortali nemici. Secondo lui, i delinquenti incorreggibili ed i birbi devono estirparsi come le male erbe che tolgono alla buona pianta l’aria, la luce e il terreno. Se il professore Häckel si fosse occupato un po’ anche dello studio della sociologia, invece di coltivare solamente le scienze naturali, avrebbe scoperto che tutti questi delinquenti avrebbero potuto diventare membri utili alla società, se questa avesse apparecchiato loro migliori condizioni d’esistenza. Inoltre egli avrebbe scoperto che la soppressione di un solo delinquente nella società avrebbe tanto poco impedito il delitto stesso, e cioè la manifestazione di nuovi fenomeni criminosi, come se da un fondo si togliessero le male erbe, ma si omettesse di distruggere le radici e il seme. Non sarà mai possibile all’uomo di impedire in modo assoluto la formazione di organismi nocivi, ma gli sarà possibilissimo invece di migliorare l’organizzazione sociale che è creazione sua in modo che essa faccia a tutti eguali condizioni di esistenza, dia a ciascuno eguale libertà di sviluppo, così che nessuno abbia più bisogno di far tacere la fame o di appagare la brama di ricchezza, ovvero la sua ambizione a spese degli altri. Studiate le cause dei delitti ed eliminatele, allora anche il delitto sparirà (98).

Coloro che vogliono eliminare i delitti togliendone le cause, non possono certo servirsi di mezzi brutali di soppressione. Essi non possono certo impedire alla società di difendersi a suo modo contro i delinquenti, ma è perciò che domandano tanto più insistentemente la trasformazione della società dalle fondamenta, vale a dire la eliminazione delle cause del delitto.

La ragione principale delle nostre condizioni sociali è il sistema dell’economia capitalistica che costituisce la vera base della società; tutti gli ordinamenti sociali sono il frutto di cotesto sistema sul quale è piantato l’intero edificio sociale e politico con la sua luce e con le sue ombre e che influisce e domina sui sentimenti e sulle idee. Il capitale costituisce la forza direttiva dello Stato e della società, il capitalista è il padrone dei non abbienti, la cui forza produttiva egli compera come merce da impiegare e da sfruttare ad un prezzo la cui altezza viene determinata, come quella di ogni altra merce, dalla domanda e dall’offerta, ed oscilla ora in più, ora in meno intorno alle spese di produzione. Il capitalista però non compra la forza produttiva per “volontà di Dio” e per fare un piacere all’operaio, come egli va spesso dicendo, bensì per ricavare dal lavoro dell’operaio un vantaggio che intasca sotto forma d’interesse, di profitto, di rendita.

Questo vantaggio, spremuto dall’operaio, che in mano dell’intraprenditore si cristalizza in capitale, pone l’imprenditore in condizione tale da poter sviluppare continuamente la propria impresa; migliorare i sistemi produttivi ed impiegare nuove forze; d’onde la possibilità di soffocare chi gli fa concorrenza avendo minori capitali, alla stessa guisa che un cavaliere armato di corazza può atterrare un fante inerme. Questa lotta ineguale fra il grande e il piccolo capitale, si combatte su tutti i campi dell’attività umana, ed anche la donna, che è la forza produttiva più a buon mercato dopo quella dei fanciulli, prende in questa lotta una parte sempre più importante. La conseguenza di questa condizione di cose è la sempre maggiormente accentuata separazione fra una piccola minoranza di forti capitalisti, e una grande folla di non capitalisti sul mercato quotidiano dei diseredati maschi e femmine che offrono le loro braccia. Il medio ceto versa in una condizione sempre più difficile; un ramo d’industria dopo l’altro, dopo essere stato fin qua in mano dei piccoli industriali, viene assorbito dall’azione sfruttatrice del capitalista. La concorrenza dei capitalisti fra loro li costringe ad andar cercando continuamente nuovo terreno da sfruttare. Il capitale gira come un leone ruggente che va in cerca della preda da ingoiare. Le piccole esistenze indipendenti, se vengono soprafatte, e questa indipendenza non possono conservare in un altro campo – ciò che diventa sempre più difficile ed impossibile – vanno a far parte della classe dei salariati. Tutti i tentativi fatti per impedire la rovina della mano d’opera e del medio ceto mediante regolamenti e leggi tolte dai ripostigli del passato, si mostrano completamente inefficaci; potranno bensì illudere per poco questo o quello sulla sua posizione, ma di fronte alla realtà dei fatti la illusione sparirà ben presto. Il processo di assorbimento dei piccoli per opera dei grandi, processo che si attua e svolge con la forza e la inesorabilità di una legge naturale, salta in modo manifesto e palpabile agli occhi di tutti. Così, a cagion d’esempio, il numero delle caldaie a vapore è salito in Prussia nel periodo che corre dal 1879 al 1888 (e perciò in un’epoca che non fu molto prosperosa) da 32.411 a 45.575 e cioè del 40,6 per cento, e questo aumento è dovuto esclusivamente alla grande industria. Il consiglio dato da taluni di sottrarsi al pericolo mediante una maggiore abilità e finezza artistica, ovvero di aumentare la concorrenza mediante l’applicazione di forze motrici, non è che una prova della profonda ignoranza degli elementi in questione. Prima di tutto anche l’industria artistica è diventata già un’impresa eminentemente capitalistica, e lo diventa ogni anno più. I sacrifizi finanziari, imposti dalla formazione continua di progetti e modelli nella varietà dei gusti e dei capricci della moda, sono di gran lunga superiori alle forze di un uomo provvisto di piccoli capitali. Però anche nell’industria artistica, la divisione del lavoro e l’impiego di macchine e di strumenti tecnici raggiunse tale grado di diffusione da renderne impossibile l’applicazione senza grandi forze materiali. Quindi l’industria artistica è già un’impresa sostanzialmente capitalistica e la concorrenza che governa anche questo campo dell’umana attività la spinge sempre più sulla via delle grandi imprese a base di forti e grandi capitali, che vengono poi amministrati e maneggiati con la raffinatezza propria a simili intraprese. Ma al piccolo capitalista non giova nemmeno l’impiego della forza motrice. Finché questa può essere creata dal singolo, può darsi che aiuti questo o quello a migliorare la sua condizione, ma non appena essa diventa accessibile per le comodità che presenta o per la sua convenienza a un gran numero di concorrenti ovvero a tutti, allora le imprese determinano siffatto aumento nella produzione che l'abbassamento dei prezzi diviene inevitabile e l’eccesso della produzione un male cronico; di guisa che la condizione di cotesti industriali, lungi dal migliorare, non fa che segnare un peggioramento. In tal guisa quello che doveva tornar loro vantaggioso, si ritorce a loro danno, e serve soltanto a favorire la rovina dei piccoli. La piccola industria appartiene ad un periodo sociale già tramontato, perché le sue condizioni di esistenza sono oramai irremissibilmente distrutte. Non vi è potenza terrena che possa salvare la piccola industria od impedirne la caduta; non vi possono essere che gli ignoranti o gli illusi i quali sostengano il contrario. La prova più eloquente della condizione delle nostre piccole industrie, sta nel fatto che, alla morte di nove decimi di esse, si scopre l’eccesso di debiti che ne gravano il patrimonio, tale da far cessare nel maggior numero dei casi la procedura di fallimento per deficienza di attivo. Per tale motivo la rovina economica di molte persone di un distretto passa inosservata, né viene registrata in altri distretti.

Quello che non è dalla concorrenza dei grandi capitali, viene distrutto dalle crisi che scoppiano di tempo in tempo, e si fanno sempre più frequenti, lunghe e intense, quanto più si estende ed afforza la grande produzione. Il pericolo della sopra produzione, effetto della cieca produzione di massa, rende più grave il pericolo delle crisi, alle quali dovrà soccombere la debole forza di resistenza del piccolo e del medio capitalista.

Le crisi scoppiano perché non esiste alcuna norma per misurare in ogni tempo l’effettivo bisogno degli acquirenti e la loro potenzialità di acquistare, dalla quale dipende il consumo, su cui esercitano influenza una infinità di ragioni, che il singolo produttore non è punto in caso di controllare. Poi, vicino al singolo produttore, ve ne sono altri moltissimi dei quali il singolo ignora parimenti la potenzialità produttiva e l’influenza. Ognuno però si sforza di mettere fuori di combattimento tutti gli altri concorrenti con ogni mezzo – quale il prezzo più mite, la grande réclame, il lungo credito, l’invio di commessi viaggiatori, ed anche deprezzando i prodotti dei suoi concorrenti, mezzo cotesto che fiorisce specialmente in epoche di crisi. La produzione generale è quindi affidata al caso e al calcolo soggettivo dei singoli, con esito più spesso sfavorevole.

Ogni produttore deve spacciare una determinata quantità di merci al di sotto della quale egli non potrebbe durare; ma egli vuole spacciare una quantità di merci molto maggiore, prima perché da ciò dipende la sua maggiore entrata, poi perché egli ha la speranza di trionfare dei suoi concorrenti e di restare padrone del campo. Per un certo tempo lo spaccio delle sue merci è assicurato ed è anzi in aumento; ciò basta per indurlo a dare alla sua impresa proporzioni maggiori ed a speculare sopra una produzione in massa. Senonché le favorevoli condizioni del momento non seducono lui solo, ma anche tutti i suoi concorrenti che, al pari di lui, ci si mettono d’impegno. Di qui un eccesso di produzione; i mercati inondati di merci, lo spaccio arenato, i prezzi in ribasso, la produzione limitata. Limitazione della produzione in un ramo d’industria vuol dire diminuzione del numero degli operai, abbassamento dei salari, limitazione del consumo.

Un ristagno della produzione e dello spaccio negli altri rami di industria, è la conseguenza necessaria di questo stato di cose. I piccoli industriali di ogni specie, i commercianti, gli osti, i fornai, i macellai, ecc., che hanno per avventori gli operai, li perdono perdendo quindi lo spaccio rimuneratore. Ora, siccome un’industria porge il proprio materiale all’altra, l’una dipende dall’altra, così una deve soffrire dei disastri dell’altra. Il numero di quelli che sentono il contraccolpo della crisi di un’industria va crescendo ogni dì più. Molte obbligazioni contratte nella speranza di una più lunga durata delle condizioni favorevoli, non possono essere soddisfatte; e quindi aumento e inasprimento di crisi. Una quantità enorme di merci, di strumenti e di macchine perde quasi ogni valore. Le merci si vendono a prezzi vili, e questo ribasso non solo rovina i padroni della merce, ma anche molti altri, costretti per ciò a vendere le loro merci ad un prezzo inferiore a quello di costo.

Anche durante la crisi i sistemi di produzione vengono continuamente migliorati, porgendo questo miglioramento l’unica arma per combattere la concorrenza, benché nasconda in se stesso la causa di nuove e più disastrose crisi. Dopochè la crisi è durata degli anni e l’eccesso della produzione è cessato a poco a poco per effetto del ribasso dei prezzi, della limitazione della produzione, della rovina dei piccoli intraprenditori, la società comincia a riaversi a poco a poco. Il bisogno aumenta e quindi anche la produzione; si ricomincia adagio e con cautela prima, ma non così quando le condizioni favorevoli accennano a perdurare. Si vuol raccogliere ciò che si è perduto e si spera di mettersi al sicuro prima che scoppi un’altra crisi. Siccome però tutti i produttori sono animati dagli stessi pensieri e ciascuno cerca di migliorare il sistema di produzione per sopraffare gli altri, così si affretta di nuovo la catastrofe con effetti ancora più fatali. Molti vengono lanciati in alto come palle per cadere di lì a poco, e da questa continua alternativa deriva quella condizione angosciosa che si traversa in ogni crisi. Le crisi si moltiplicano e si ripetono nella stessa misura in cui aumenta la produzione e la concorrenza non solo fra gli individui, ma anche fra i popoli. La lotta per guadagnare avventori in piccolo e quella che si combatte in grande per allargare la sfera dello spaccio e del traffico, diventano sempre più violente per finire poi in perdite enormi. Merci e provvigioni si accumulano in quantità enormi, mentre la massa degli uomini soffre la fame e la miseria.

L’autunno del 1890 ha dimostrato come sia giusto ed esatto quanto abbiamo esposto. Dopo un lungo periodo di depressione negli affari, durante il quale però lo sviluppo dei grandi capitali fece continuamente progressi, cominciò nel 1888 un movimento ascendente nella nostra vita economica, stimolato non poco dalle grandi trasformazioni e dalle forniture richieste dall’esercito e dalla marina. Questo movimento continuò nel 1889 e anche nel primo trimestre del 1890. Durante questo periodo molte imprese sorsero in ogni ramo di industria, altre assunsero più vaste proporzioni; tutte poi raggiunsero nel loro assetto quella altezza che era consentita dalle condizioni della tecnica, ciò che giovò a far aumentare notevolmente la loro produttività. Nel modo stesso onde si è compiuto questo sviluppo dei grandi capitali, aumentò anche il numero delle imprese che passarono dalle mani dei singoli capitalisti in quelle delle società per azioni, trasformazione questa, alla quale è sempre legato un aumento più o meno notevole negli affari e nei traffici. Le nuove emissioni, che si sono compiute sul mercato monetario e internazionale per effetto di questa trasformazione non meno che per effetto dell’aumento dei debiti pubblici, raggiunsero nel 1887 la somma di quattro miliardi, nel 1888 di cinque miliardi e mezzo, e nel 1889 di sette miliardi. D’altro lato, i capitalisti si sforzavano di regolare i prezzi e la produzione mediante unioni nazionali ed internazionali. Le cartelle, fin d’allora, spuntarono dal suolo come funghi, la maggioranza degli imprenditori dei più importanti rami di produzioni formarono dei sindacati, i quali determinarono i prezzi e regolarono la produzione sulla base di dati statistici precisi allo scopo di evitare l’eccesso della produzione e il deprezzamento dei valori. Cominciò così il regno del monopolio dell’industria a vantaggio dell’imprenditori ed a spese degli operai e dei consumatori, quale non fu mai. Parve per poco che il capitale avesse in mano il mezzo che gli assicurava ovunque il dominio del mercato a danno del pubblico ed a profitto suo. Ma la apparenza ingannava, le leggi della produzione capitalistica si mostrarono più forti dei più sagaci ed accorti difensori del sistema, i quali credevano di poterla regolare. La crisi scoppiò; una delle più grandi case del mondo precipitò trascinando nell’abisso molte altre case di secondo e terzo ordine. Tutte le borse e tutti i mercati di Londra, di Parigi, di Vienna, di Berlino fino a Pietroburgo, Calcutta e New-York ne furono scosse. Si ebbe così un’altra prova della fallacia dei calcoli più prudenti, e della necessità che la società borghese corra la sua sorte.

La condanna più severa di queste condizioni sociali si trova in queste espressioni che si odono spesso uscire dalla bocca della gente d’affari: «Ci sono troppi concorrenti, una metà deve andare in rovina perché l’altra metà possa vivere», il che vuol dire che ognuno suppone e spera da buon cristiano-borghese che chi va in rovina sia il suo concorrente. Lo stesso cinismo si rende manifesto quando viene assicurato con tutta serietà che nei filatoi della lana, per esempio, ci sono in Europa almeno quindici milioni di fusi di troppo, i quali dovrebbero sopprimersi per offrir modo ai rimanenti di avere un sufficiente lavoro. Dalla stessa fonte si assicura che il numero delle nostre miniere di ferro e di carbone è il doppio di quello che sarebbe necessario, e ciò allo scopo di rendersi durevolmente utile un affare od un’impresa. Di qui una pletora d’affari, di produttori, di istrumenti di produzione e di “merci”; e tuttavia la grande maggioranza si duole di mancare del necessario, mentre potrebbe consumare vestiti, biancheria, mobili migliori, abitare case più pulite, nutrirsi meglio fisicamente ed intellettualmente e godere di più. Ma i magazzini riboccanti di merci e di provvigioni sono sbarrati per la maggioranza; si gettano anzi sul lastrico centinaia di migliaia di operai rendendoli completamente incapaci a consumare, perché la loro attività è “superflua” al capitalista. Non è dunque manifesto, che il nostro organismo sociale è assai infermo? Come vi potrebbe essere “eccesso di produzione” se si soddisfacesse ai bisogni di tutti? Non è dunque la produzione in se stessa, ma la forma in cui si produce e sopra tutto il modo della distribuzione dei prodotti la causa di queste condizioni ed antitesi inique.

 

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Nella società umana tutti gli individui sono legati insieme da cento fili, e tanto più quanto è più elevato il grado di cultura di un popolo.

Se sopravvengono delle perturbazioni, queste si fanno sentire dappertutto. Le perturbazioni nella produzione influiscono sulla distribuzione e sul consumo, e viceversa. La nota caratteristica della produzione capitalistica è il concentrarsi della proprietà in sempre minor numero di mani e in centri di produzione sempre più vasti. Nella distribuzione si nota un movimento affatto opposto: Il produttore che non può più condurre vita indipendente, perché travolto dal torrente impetuoso della concorrenza, nove volte su dieci cerca con ogni sforzo di interporsi quale commerciante fra il produttore e il consumatore prolungando così la sua esistenza.

Di qui il fatto sorprendente dell’aumento straordinario dei mediatori, dei commercianti, dei merciai, dei sensali, degli agenti, dei locandieri ecc. La maggior parte di questa gente, fra la quale si devono contare anche donne come persone d’affari indipendenti, conducono una vita affannosa ed incerta. Molti sono costretti per vivere a speculare sulle più ignobili passioni umane e a secondarle. Di qui il crescere della più ributtante réclame specialmente in tutto ciò che è rivolto a soddisfare il desiderio di godimenti e di piaceri.

Non si può contestare ed è molto consolante, se si guarda da un punto di vista elevato, che la tendenza a godere la vita sia fortemente radicata nella società moderna. Gli uomini cominciano a comprendere che per essere uomo bisogna vivere dignitosamente, ed essi manifestano tale bisogno in modo corrispondente al concetto che si sono formati dei piaceri e godimenti della vita. Senonché la società è diventata nella forma della sua ricchezza molto più aristocratica oggi che in qualsiasi epoca precedente. La distanza fra il ricco e il povero oggi è più grande d’una volta, mentre la società è diventata molto più democratica nelle idee e nelle leggi (99).

La folla però aspira non solo teoricamente, ma anche in pratica a maggiore eguaglianza, e siccome non conosce ancora nella sua ignoranza la via che conduce alla realizzazione di queste aspirazioni, così cerca l’eguaglianza col tentare di mettersi alla pari con quelli che sono più in alto, e col procurarsi in qualche modo tutti i godimenti possibili. Ogni mezzo, ogni artifizio di seduzione deve servire a coltivare ed appagare coteste tendenze, e se ne vedono spesso le conseguenze. La soddisfazione di un impulso perfettamente onesto, fa traviare molti trascinandoli spesso al delitto, mentre la società cammina a modo suo, non potendo fare altrimenti senza mettere a pericolo la sua stessa esistenza.

Il numero sempre crescente degli intermediari produce anche altri inconvenienti. Sebbene codesta classe lavori indefessamente, non è che una classe di parassiti, improduttiva, e vivente del prodotto del lavoro altrui non altrimenti che la classe degli imprenditori. Conseguenza ineluttabile di ciò è il rincaro eccessivo delle merci e delle cose necessarie alla vita, tanto eccessivo da farne raddoppiare e moltiplicare il prezzo che il produttore ne ritrae (100).

Se non è consigliabile né possibile un vero rialzo nel prezzo delle merci per timore d’una limitazione nel consumo, si rende artificialmente peggiore la qualità delle merci, mercè la adulterazione dei generi alimentari, l’alterazione dei pesi e delle misure, ottenendo anche con ciò un profitto altrimenti non realizzabile. Il chimico Chevalier riferisce per esempio che fra i vari modi di falsificazioni dei generi alimentari egli ne conosce 32 per il caffè, 30 per il vino, 28 per la cioccolata, 24 per la farina, 23 per l’acquavite, 20 per il pane, 19 per il latte, 10 per il burro, 9 per l’olio d’oliva, 6 per lo zucchero ecc. La Camera di commercio di Varsavia riferì nel 1870 che si commettono frodi nella vendita di merci pesate alla lesta nelle botteghe; dando per una libbra 24 o 26 mezze once e rifacendosi così doppiamente della perdita subita per effetto del deprezzamento della merce. Gli operai e il popolino che devono acquistare le merci a prestito si trovano in condizioni peggiori degli altri perché devono tacere anche quando la frode è manifesta. Il pessimo abuso della alterazione dei pesi è specialmente notevole nei negozi di posteria. L’inganno e la frode sono quindi indissolubilmente legati a questa condizione, e costituiscono una necessità sociale, come la prostituzione. Vi sono poi istituzioni dello Stato, come quelle relative alle imposte indirette e ai dazi, che sembrano fatte apposta per favorire codeste frodi. Al contrario le leggi contro le adulterazioni dei generi alimentari poco riusciranno a fare. Prima di tutto è la lotta per la vita che rende necessario l’impiego di mezzi sempre più raffinati, poi un controllo severo non può essere fatto nelle attuali condizioni. Vi sono Circoli molti influenti ed autorevoli fra le classi dirigenti, interessati nelle frodi. Sotto il pretesto che per scoprire le adulterazioni sono necessari organi amministrativi complessi e costosi, che recano imbarazzi al commercio onesto, ogni serio controllo manca. Ma se queste leggi e questi regolamenti si applicano davvero, allora si ha un notevole rincaro nei prezzi dei prodotti non falsificati, perché il prezzo più basso era possibile soltanto per le merci adulterate.

Per togliere tali inconvenienti che colpiscono più fieramente dappertutto e sempre la massa del popolo, si è pensato alla fondazione di società di consumo. Anche queste però giovano assai poco, vuoi per la difettosa e costosa amministrazione, vuoi per i tenui profitti che ne sono la conseguenza. In molti casi esse diventano un nuovo mezzo per legare gli operai a certe industrie sulle quali si fondano queste società che non servono spesso ad altro che a produrre una diminuzione nei salari. La fondazione di queste società di consumo è prima di tutto un sintomo che in larghissima cerchia si riconosce ciò che vi è di difettoso e manchevole nel commercio, in secondo luogo esse sono anche una prova della sovrabbondanza del commercio e dei commercianti principalmente (101). Certo questo ordinamento sociale è il migliore che possa esistere senza il numero straordinario di parassiti che compongono il ceto commerciale, perché i prodotti arrivano in mano dei consumatori per via diretta e cioè senza bisogno dell’opera degli intermediari. C’è però connessa l’altra questione, che cioè venga provveduto nelle proporzioni le più grandiose ad una istituzione comune per la tavola.

 

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Quanto abbiamo esposto fin qui riguarda soltanto i rapporti industriali e commerciali; non abbiamo ancora toccato quelli della proprietà rurale. Ma anche la campagna è già colpita dal progresso moderno. Le crisi dell’industria e del commercio si fanno sentire anche nelle campagne. Molta gente del contado è occupata in tutto od in parte negli stabilimenti industriali e commerciali, e tale occupazione va diffondendosi sempre più perché i grandi proprietari trovano utilissimo di far trasformare la parte principale delle rendite del suolo, anche sui loro beni propri, in prodotti industriali. Ora essi profittano delle alte tariffe dei trasporti dei prodotti greggi, per es. delle patate per lo spirito, delle barbabietole per lo zucchero, della frutta per la farina o per la distillazione dell’acquavite, o per la fabbricazione della birra, ecc.; hanno inoltre operai più a buon mercato e più volonterosi che nella città, o nei distretti industriali. Le abitazioni e le pigioni sono assai meno care; le imposte e i dazi più bassi, perché i proprietari di fondi nelle campagne sono, fino ad un certo grado, legislatori ed esecutori ad un tempo, e spesso anzi hanno in loro mano anche il servizio di polizia. Con ciò si spiega il fenomeno, che il numero delle cucine a vapore nelle campagne aumenta ogni anno, e che l’agricoltura e l’industria si aiutano vicendevolmente. E’ un vantaggio cotesto che intanto avvantaggia il solo proprietario.

Non ci vuole molta perspicacia per riconoscere che a misura che i grossi proprietari di fondi si trovano in condizioni tali da poter migliorare il suolo appetiscono il fondo del vicino, il quale rimpetto a loro si trova nella stessa posizione dei piccoli industriali rimpetto ai grandi.

La campagna però non si è sottratta all’influenza della civiltà sino alle sue più remote contrade. Se il figlio del contadino ritorna fino nel più lontano villaggio, dopo tre anni passati nell’ambiente delle caserme e delle città non troppo saturo di alta morale, non di rado apportatore e propagatore di malattie veneree, egli ha imparato a conoscere anche molte idee nuove e a sentire i bisogni della civiltà, che vuol pure soddisfare. La diffusione e il miglioramento degli scambi risveglia anche nelle campagne cotesti bisogni. L’uomo del contado impara dal commercio colla città a conoscere il mondo da un punto di vista del tutto nuovo e seducente, nuove idee gli passano per la mente, ed acquista la conoscenza dei bisogni della civiltà, che gli erano prima completamente ignoti. Ciò lo rende completamente malcontento della sua posizione. Le esigenze sempre maggiori come si fanno sentire nello Stato, nella provincia e nei comuni, così si fanno sentire anche nelle campagne e nelle officine, e rendono il contadino e l’operaio ancora più ribelle. Così la somma complessiva delle spese occorrenti per provvedere ai bisogni dei comuni e delle campagne in Prussia da 8.400.000 talleri nel 1849, salirono già nel 1867 fino a 23.110.000. Il contributo dei comuni della città e delle campagne, per provvedere ai bisogni della provincia, dei distretti e dei comuni salì nello stesso periodo da 16 milioni di talleri fino a 46 milioni.

La somma media delle spese locali per capo aumentò da 2,96 a 7,05 centesimi e bisogna notare che da allora l’aumento non si arrestò mai.

Ed anche i prezzi dei prodotti del suolo sono frattanto rincarati, non però nella misura stessa delle imposte e di molte altre spese. Il contadino non solo non ritrae dal suo prodotto il prezzo che si paga in città, ma ritrae perfino assai meno di quello che ne ricava il grande possidente. Il mediatore o il commerciante che scorre le campagne in giorni determinati o in certe epoche dell’anno, e di regola non fa che rivendere come sensale, vuol guadagnarci; ma il raccogliere molte piccole quantità gli riesce assai più faticoso e molesto che non ritirare l’intero carico da un grosso possidente. Ciò influisce sul prezzo. Si aggiunga che il contadino e l’affittuale non sempre possono aspettare il tempo in cui il prezzo del prodotto sul mercato sia giunto al più alto limite. Egli ha impegni e pagamenti da fare (affitti, interessi, imposte, prestiti da rimborsare, ovvero debiti verso i bottegai e gli operai) con scadenze fisse; quindi bisogna vendere anche quando l’epoca è sfavorevole. Il contadino ha gravato il suo fondo di ipoteche, per avere il denaro occorrente alla coltivazione e al miglioramento agrario; ma non c’è molto da scegliere fra i mutuanti, e quindi le condizioni del mutuo non sono le più vantaggiose per il mutuatario. Ci sono alti interessi da pagare e alla fissata scadenza si è inesorabili; e basta un raccolto poco abbondante o una speculazione sbagliata dalla quale sperava di ritrarre un largo profitto, per metterlo sull’orlo del precipizio.

Spesso il compratore dei prodotti del suolo è anche il mutuante del capitale, per cui il debitore è completamente in potere del creditore. Perciò i contadini di tutte le borgate e dei distretti si trovano nelle mani di pochi creditori, per esempio i nostri coltivatori di luppolo e di tabacco, e i vinicultori nella Germania meridionale; i coltivatori di legumi del Reno e i piccoli possidenti della Germania media. I creditori ipotecari li dissanguano lasciandoli stare sui loro poderetti di cui appariscono, ma in realtà non sono proprietari. Ma il capitalista trova spesso più utile e più comodo di agire così, piuttosto che pigliarsi il terreno, amministrarlo e venderlo. In tal modo nei libri catastali vi sono molti che figurano come proprietari mentre non lo sono. Certo rovina anche qualche grosso possidente, per mala amministrazione o per essere capitato in mano di un capitalista strozzino. Il capitalista s’impadronisce del suolo, e, per trarne doppio profitto, lo divide in lotti o porzioni, vendendole a parte a parte, e realizzando in tal guisa un prezzo assai più alto di quello che avrebbe altrimenti ritratto vendendo in blocco. Si aggiunga che il capitalista ha la massima probabilità di trarre più notevoli vantaggi da un maggior numero di proprietà piccole e medie. E’ noto che nella città le case con affitti più alti sono appunto quelle  con abitazioni molte e piccole. Il capitalista si attacca ad un grande numero di piccoli poderi e li compera. Il benefico capitalista è disposto a cedere verso piccoli acconti più grandi appezzamenti di terra per impiegare il resto del prezzo d’acquisto in mutui ipotecari ad alto interesse ed estinguibili ratealmente. Ed è qui dove sta il marcio. Se il piccolo possidente ha fortuna e riesce mercè gli sforzi più estremi a ritrarre dal suolo una rendita discreta od a trovar denari a più buon mercato, allora egli può salvarsi; altrimenti le cose non possono andare che nel modo già da noi descritto.

E’ una grande disgrazia per il piccolo possidente o per l’affittuale se gli muoiono alcuni capi di bestiame; se ha una figlia da marito, le spese per il corredo o la dote gli aumentano i debiti e gli viene a mancare una forza produttiva. Se è un figlio che piglia moglie, allora questi vuol la sua parte del patrimonio. Spesso egli deve trascurare ed omettere i necessari miglioramenti, e se la gregge e la casa non porgono concime sufficiente – ed è un caso assai frequente – allora la rendita scema per impossibilità di acquistare gli ingrassi. Non di rado gli mancano persino i mezzi di procacciarsi miglior sementi; gli è negato l’impiego e l’uso vantaggioso delle macchine, e non meno spesso è per lui inattuabile la rotazione agraria quale è richiesta dalla natura chimica del suo terreno. Né egli può profittare dei vantaggi che la scienza e l’esperienza han saputo ritrarre dagli animali domestici. Mancano a tal uopo i pascoli, mancano le stalle, mancano gli ordinamenti adatti. Vi sono quindi molte ragioni che, inducendo i piccoli possidenti a far debiti, li gettano in braccio o al capitalista che li strozza, ovvero al grosso possidente che li opprime.

La affermazione che la crescente concentrazione della proprietà fondiaria sia una semplice supposizione perché vi sono più proprietari oggi che una volta, non prova nulla contro quanto abbiamo esposto. Prima di tutto si è già rilevato come figurino fra i proprietari migliaia di persone che in fatto non lo sono più; e poi bisogna considerare anche l’aumento della popolazione e il frazionamento della proprietà che ne è la conseguenza, specialmente nei casi di morte. Cotesto frazionamento porta però in se stesso il germe della morte per il proprietario, perché quanto più è piccolo il suo possesso, tanto più difficile diventa la sua esistenza. La libertà delle industrie ha aumentato di molto il numero dei conduttori di piccole industrie, ma sarebbe erroneo ritenere che ciò abbia contribuito a creare maggior benessere. La concorrenza si è fatta più accanita fra le industrie e ciò ne facilita ai grandi capitalisti la distruzione e lo sfruttamento.

Se vi sono dunque due o tre proprietari là dove prima ce n’era uno, ciò non vuol dire affatto che quei due o tre stiano meglio di quello che prima stesse uno solo. Anzi è vero tutto il contrario, per l’avversità delle circostanze create dalla natura dei rapporti sociali. Solo i grandi possidenti in particolar modo possono acquistare i piccoli poderi per “arrotondare” i loro possessi. I grandi magnati del capitale investono preferibilmente i loro capitali nelle terre perché è il possesso più sicuro e il suo valore sale, indipendentemente dalla cooperazione dei proprietari, coll’aumento della popolazione: l’Inghilterra porge l’esempio più palpitante di questo continuo aumento di valore. Sebbene ivi le entrate della terra siano diminuite negli ultimi decenni per effetto della concorrenza internazionale dei prodotti agrari ed animali, sebbene nella Scozia più di due milioni di aree di terreno siansi trasformati in parchi da caccia, ridotti quasi un deserto 4 milioni di acri in Irlanda, e limitata in Inghilterra la superficie coltivata da 19.153.990 acri nel 1831 a solo 15.651.605 acri nel 1880, e cioè di 3.484.385 acri trasformati in prati e pascoli. Malgrado tutto ciò, la rendita del suolo continuò a salire notevolmente. L’importo totale della rendita del suolo della proprietà fondiaria calcolato in lire sterline, fu:

 

- in Inghilterra e nel paese di Galles di 41.177.200 nel 1857, di 52.179.381 nel 1875, di 52.179.381 nel 1880, con un aumento quindi di 11.002.381.

- in Iscozia di 5.932.000 nel 1857, di 7.493.000 nel 1875, di 7.776.919 nel 1880, con un aumento quindi di 1.844.919.

- in Irlanda di 8.747.000 nel 1857, di 9.293.000 nel 1875, di 10.543.000 nel 1880, con un aumento quindi di 1.796.700.

 

Il totale di tutti i paesi risulta dunque di 55.856.000 nel 1857, di 68.811.000 nel 1875, di 70.500.000 nel 1880, con un aumento sommato di 14.644.000.

E’ dunque un aumento del 26,2% in 23 anni, indipendentemente dall’opera dei proprietari.

Alla tendenza all’accentramento della proprietà fondiaria, fa contrasto la tendenza al frazionamento in vicinanza delle grandi città e nei distretti industriali. Qui la campagna si trasforma in ville o giardini e forma oggetto della più sfrenata speculazione, dalla quale di solito non è che il capitalista che sappia trarre profitto. Non vi è dubbio che tutto questo processo evolutivo pregiudichi gravemente il mondo femminile delle campagne. Le donne hanno sempre più davanti a sé la prospettiva di diventare fantesche ed operaie mal rimunerate in mano dei grandi possidenti, anziché proprietarie ed acquisitrici. Per il loro sesso trovandosi esposte ai capricci ed alle pretese illegittime dei proprietari o dei loro impiegati, più di quello che siano nelle industrie, in cui il diritto di possesso si esercita spesso su tutta la persona, per cui in mezzo all’Europa “cristiana” si è potuto costituire e sviluppare una specie di economia da harem turchi.

La donna del contado è molto più isolata della donna cittadina. Le autorità rappresentano per lei o chi le dà lavoro od un suo buon amico; non ci sono giornali ed una pubblica opinione sul cui aiuto essa possa contare, e, la condizione degli operai maschi versa in condizioni di ancora più vergognosa dipendenza. Ivi il cielo è alto e lo czar lontano.

Se non che la condizione della proprietà fondiaria è della massima importanza per lo sviluppo di tutta la nostra civiltà.

Dal suolo e dai prodotti suoi dipende in principal modo l’esistenza di tutto il popolo. La proprietà non si aumenta a piacere, ed è perciò che diventa tanto più importante per tutti la questione sul modo di coltura e sulle rendite che se ne trae.

Noi siamo già a tal punto, che è diventato ogni anno indispensabile una notevole importazione di generi alimentari, (pane e carne), i cui prezzi aumentano ora assai più di una volta.

Qui però si presentano due importanti interessi in conflitto quelli degli agricoltori e quelli degli industriali. La popolazione industriale ha tutto l’interesse che i prezzi dei generi necessari alla vita siano miti, perché da ciò dipende non solo la loro prosperità come uomini, ma anche come commercianti e industriali.

Qualsiasi rincaro dei mezzi di esistenza determina o un peggioramento nella nutrizione di una gran parte del popolo, ovvero un aumento tale dei salari e quindi del prezzo dei prodotti dell’industria, che ne diminuisce lo spaccio diventando più difficile vincere la concorrenza dell’estero. Ma per l’agricoltura la quistione è assai diversa.

Come l’industriale anche l’agricoltore vuol trarre dal proprio lavoro il maggior profitto possibile essendogli indifferente che questo profitto gli venga da un prodotto ovvero da un altro.

Se l’importazione di cereali e di carni gli impediscono di ritrarre dalla coltivazione dei cereali o dall’allevamento del bestiame i prezzi sperati, ovvero i prezzi necessari a rimunerarlo, egli abbandona la coltura dei cereali e l’allevamento del bestiame, per raccomandare al suolo la coltura di un altro prodotto che gli sia profittevole. Pianta barbabietole per la produzione dello zucchero, patate e grani per la distillazione dell’alcool, invece di piantare frumento e grano per formare pane; destina i terreni più feraci alla coltivazione del tabacco, invece che a quella dei legumi ed al giardinaggio. Inoltre si utilizzano migliaia di ettari di terreno per il pascolo dei cavalli perché il prezzo di questi è molto elevato in conseguenza del consumo che se ne fa dagli eserciti. D’altra parte vi sono estese boscaglie, che potrebbero facilmente rendersi fruttifere, riservate per le cacce dei ricchi, specialmente in contrade nelle quali si potrebbe dar mano ad atterrare duecento o mille ettari di bosco per trasformarlo in terreno coltivabile, senza che ciò influisca sinistramente sullo sviluppo della umidità della regione così spogliata. E per quanto riguarda l’umidità, la nuova scienza forestale non accoglie l’opinione che i boschi abbiano un’influenza decisiva sullo sviluppo della umidità. Boschi e boscaglie attecchiscono e prosperano soltanto là dove la natura del suolo non permette alcuna coltura rimuneratrice, ovvero là dove essi servono a dotare i paesi montuosi e le montagne di una coltura economicamente profittevole e tale da impedire il rapido deflusso delle acque.

Sotto questo punto di vista, vi sarebbero in Germania ancora migliaia di chilometri quadrati di ottimo terreno suscettibili di coltura. Ma a codeste trasformazioni di coltura sono d’ostacolo così gli interessi materiali di una burocrazia ben pagata, come gli interessi vessatori dei grandi proprietari, i quali non vogliono saperne di rinunziare al passatempo piacevole della caccia.

Come si suddivide il terreno coltivato nelle aziende diverse è riferito nella statistica delle professioni rurali del 5 Giugno 1882 per la Germania:

 

Superficie

Aziende agricole

Perc. sul totale

inf. ad 1

2.323.316

44,03

da 1-5

1.719.922

32,54

da 5-10 ha

554.174

10,50

da 10-20 ha

2.431

7,06

da 20-50 ha

239.887

4,50

da 50-100 ha

41.623

0,80

da 100-200 ha

11.033

0,21

da 200-500 ha

 9.814

0,18

da 500-1000 ha

 3.629

0,07

sup. a 1000 ha

515

0,01

Totale

 5.276.344 

100,0

                                

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Secondo il Koppe nel nord-est della Germania sono necessari almeno 6 ettari di terreni mediocri perché una famiglia di contadini possa cavarsela, e per vivere in una discreta agiatezza ne bisognano dai 15 ai 20. Nel sud-ovest della Germania si calcolano da 3 ½ a 4 ½ ettari di terreno fertile, per assicurare il mantenimento di una famiglia. Questo minimo non viene raggiunto da più di 4 milioni di proprietà private, e soltanto il 6% possiedono tanto terreno da poterci vivere in uno stato di benessere. Sono necessari non meno di 3.222.270 operosi proprietari per esercitare insieme coll’agricoltura anche l’industria e il commercio. Nella spartizione del terreno coltivato vi è però questo di caratteristico, che nei poderi aventi una superficie inferiore ai 50 ettari, 3.747.677 ettari soltanto sono coltivati a grano, mentre, nei poderi aventi una superficie superiore ai 50 ettari, se ne contano invece 9.636.249.

Quindi l’1% della azienda comprendeva di suolo coltivato a grano due volte e mezzo più dei rimanenti 99%.

I più grandi proprietari della Germania sono: i principi Fugger e Wied con quasi 110.000 ettari; il duca di Ratibor, il principe di Löwenstein-Wertheim -Rochefort, il principe Bentheim-Steinfurt, il duca di Leuchtenberg con quasi 140.000 ettari; il principe Leiningen con quasi 160.000 ettari; il principe Pless con quasi 165.000 ettari; il duca di Talleyrand-Sagan con quasi 200.000 ettari; il principe Salm-Salm con quasi 220.000 ettari; il principe Fürstenberg e duca di Braunschweig (102) con quasi 275.000 ettari; il duca di Thurn e Taxis con quasi 300.000 ettari; il duca di Aremberg con quasi 320.000 ettari; il principe Wittgenstein con quasi 1.230.000 ettari (103).

Questi 17 grandi proprietari della Germania hanno quindi complessivamente 4.615.000 ettari, possedendo quindi più di 1/9 della intera superficie del suolo coltivato, che comprende 40 milioni di ettari circa. Da ciò si può dedurre quale interesse abbiano questi proprietari, non meno che le altre migliaia di grandi possidenti della Germania, ai dazi sul bestiame, sui grani e sul legname. L’accentramento della proprietà fondiaria è dimostrata dal fatto, che negli anni 1837-1867 le proprietà rurali da 30 a 300 iugeri diminuirono nelle provincie orientali della Prussia e in Westfalia di 2.831.226 iugeri, e cioè dell’8% (104). Da allora l’accentramento ha fatto indubbiamente maggiori progressi, come si rileva ovunque abita un grosso possidente. L’acquisto delle piccole proprietà che lo circondano cresce continuamente.

L’avidità del grosso possidente è insaziabile, e cresce coll’estendersi della sua proprietà.

In Sassonia nel 1860, sopra 228,36 miglia quadrate di proprietà privata, 942 terre signorili ne abbracciavano da sole 43,24 e cioè quasi un quinto della proprietà. Diverse sono le condizioni nel Mecklenburg-Schwerin. Sopra 244 miglia quadrate, il demanio e 7 conventi ne possedevano 107 e tre quarti, già allora; 654 i proprietari di terre signorili e 6 grandi agricoltori ne possedevano complessivamente 103 ½, i territori di 40 città e i beni camerali 26,45.

Sopra 15.685 proprietari, non vi erano più di 630 proprietà libere.

In Boemia la chiesa possiede più di 106.000 iugeri (105), la proprietà feudale abbraccia 1.269 possessi con 3.058.088 di iugeri di terreno, un terzo di tutto il paese, mentre non paga che 4 milioni di fiorini di imposta fondiaria sopra 14. Più della metà delle proprietà dei fondi signorili appartiene a sole 150 famiglie, e i soli poderi del principe Schwarzenberg abbracciano più di 150.000 ettari. Sopra 260 miglia quadrate di terreno boschivo, 200 sono di proprietà signorile. Sono terreni incantevoli e vastissimi destinati alla caccia. Dalla Boemia e dalle provincie della Germania, del Mar Baltico ecc. gli uomini emigrano in massa quasi tutti poverissimi, mentre il suolo resta incolto o quasi, perché proprietà di un altro il quale ne ha abbastanza per poter consumare la sua ricchezza fondiaria. Altri grandi possidenti rendono superflua la manodopera mediante l’introduzione delle macchine, ovvero la trasformazione del suolo coltivabile in pascolo.

La relazione dell’Ispettore delle fabbriche di Braunschweig per il 1881, dimostra in quale proporzione si presenta la esuberanza delle “braccia” nella economia e nell’industria agricola, constatando il fatto che, malgrado il notevole aumento della produzione dello zucchero il numero degli operai è scemato di più di 3000 unicamente per effetto dei migliorati sistemi di lavoro. La diminuzione nel numero degli operai di campagna si manifesta in modo sorprendente nella Gran Bretagna. Ivi il numero degli operai maschi e femmine impiegati alla economia rurale raggiunse:

 

 

1861

1871

Diminuz.

Uomini

1.833.652

1.328.15

505.501

Donne

376.797

186.450

193.127

Totale

2.210.449

1.514.601

698.628

                                                   

                     

     

 

 

Da allora in poi si è verificata una diminuzione ancora più sensibile nel numero dei lavoratori di campagna, eppure la rendita è, in Inghilterra, più alta che in Germania, in Francia, in Austria e nell’Ungheria. Secondo il dottor O.I. Brock la rendita per acro (are 40,5, parentesi di A. Bebel) calcolata in litri 35,7 raggiunse nel 1885:

 

 

Grano

Orzo

Gran Bretagna

35,2

37,8

Germania

18,7

23,6

Francia

16,0

19,5

Austria

15,5

16,8

Ungheria

11,7

16,0

 

 

 

 

                                                   

                                                                 

                                       

 

Come si vede, la differenza nelle rendite fra la Gran Bretagna e gli altri paesi è notevolissima e dimostra ciò che si può ottenere con la coltura intensiva. Anche in Ungheria il numero delle persone impiegate nell’agricoltura è molto scemato, avendo raggiunto:

 

nel 1870:     4.417.514 

nel 1880:     3.669.177

con una diminuzione, quindi, in 10 anni di 748.457 e cioè di più del 17%.

 

La proprietà passò nelle mani dei grandi magnati e dei capitalisti, e le macchine sostituirono l’uomo; perciò le braccia furono “esuberanti”.

Questi fenomeni si presentano dappertutto nell’economia rurale.

In Prussia la popolazione delle città crebbe, dal 1875 al 1885, del 20%; quella delle campagne solo del 4,8%.

Nella Pomerania (106), ove si esercita principalmente la industria agricola, la popolazione scemò in questo periodo in ragione di 0,4%; nell’Hohenzollern crebbe solo in ragione di 0,7%; nella Prussia occidentale e nello Scleswing-Holstein del 2,3%; in Assia-Nassau del 2,9%; nella Prussia orientale del 3,3%; nell’Hannover del 3,4%; nella Slesia del 3,5%; a Posen del 5,3%; nel Brandeburg del 5,7%; nella Sassonia del 7,5%; nei paesi Renani dell’8,3%, e nella Westfalia dell’11,9%.

Ora poiché l’aumento medio della popolazione in quel periodo raggiunse in Prussia il 10%, non fu che nella Westfalia ove l’aumento della popolazione rurale abbia superato quello delle città; sarebbe quindi da vedersi quanto abbiano contribuito a determinare questo aumento i paesi industriali, e allora il risultato sarebbe diverso. In tutto lo Stato di Prussia la parte della popolazione delle città rispetto a quella complessiva salì dal 34,2% al 37,3%; quella delle campagna discese dal  65,8% al 62,7%.

E’ poi veramente sorprendente la diminuzione della popolazione nella Prignizia orientale ed occidentale, che nel 1865 contava 100 mila abitanti e nel 1885 87.000 soltanto.

Nel periodo di tempo che corre dal 1879 al 1888, il numero delle caldaie a vapore e dei locomobili – e quindi di quei motori che si applicarono specialmente nella economia rurale – salirono in Prussia da 5.536 a 11.571, quindi un aumento del 109,7%.

Secondo la statistica delle professioni agricole per il 1882, 5.276.344 aziende agricole non impiegavano più di 391.746 macchine, e cioè il 7,5%; le 24.999 grandi aziende, con una superficie superiore a 100 ettari, ne impiegavano 20.558, e cioè l’82,25%; mentre le 653.941 aziende di mediocre importanza, aventi una superficie da 10 fino a 100 ettari, non ne impiegavano che 246.131, e cioè il 37%.

Naturalmente sono le aziende più importanti quelle che possono fare un conveniente impiego delle macchine.

Il lavoro intenso di queste, la coltivazione uniforme di grande superficie di terreno non domandano al contadino che poco tempo di occupazione, e quindi il numero dei famigli viene ridotto al puro necessario per il servizio del cortile e la cura del bestiame, e si licenziano i braccianti appena compiuto il lavoro. All’epoca dei raccolti vengono chiamati e invitati da ogni parte, e per poco la domanda è eccessiva; ma poi sono di bel nuovo licenziati. In tal modo si va formando anche tra noi, come già in Inghilterra e più ancora negli Stati Uniti, un proletariato che dà molto a pensare. Guai se codesti braccianti domandano un salario più alto per il tempo in cui trovano occupazione e quando la domanda supera l’offerta. Si grida all’arroganza e si licenziano: allora girano per il mondo affamati, diventano vagabondi, bersaglio agli insulti, tenuti lontani dalle case dai cani e consegnati, come altrettanti “discoli” che non vogliono lavorare, alla polizia perché li faccia chiudere in una casa di lavoro.

Bell’«ordine» davvero!

 

Lo sfruttamento della proprietà fondiaria per opera del capitale mena anche per altra via allo stesso risultato. Parte dei nostri possidenti trasse per molti anni vantaggi favolosi dalla coltivazione delle barbabietole e dalla produzione dello zucchero. I sistemi doganali ne favorivano anche l’esportazione, per modo che l’imposta sulle barbabietole divenne per l’Erario quasi una finzione, perché i premi d’esportazione per lo zucchero consumarono quasi l’introito dell’imposta sulla barbabietola, Le imposte e i premi d’esportazione dettero in questi ultimi anni i risultati seguenti (107):

 

 

Rendita lorda imposta sulla barbabietola

Compenso per lo    zucchero esportato

1885-6

113.125.100 M

90.076.600 M

1886-7

141.213.400 M

108.821.000 M

1887-8

118.387.600 M

105.568.000 M

1888-9

108.693.600 M

80.067.100 M

 

 

 

          

 

          

        

 

Se si detraggono dalla differenza in più le spese di amministrazione, allora l’entrata si riduce a una quantità piccolissima, che  nell’anno finanziario 1889-90 fruttò, per esempio, 9 milioni soltanto.

I premi assicurativi ai fabbricatori di zucchero per ogni due quintali di zucchero, superavano di molto l’imposta da essi pagata per la barbabietola, e si ponevano quindi i fabbricanti in condizione di poter vendere lo zucchero in quantità enormi a spese dei contribuenti nazionali, e di estendere sempre più la coltura della barbabietola.

I profitti toccati a quasi 400 fabbriche di zucchero per effetto di questo sistema d’imposta, furono calcolati nel 1889-90 a più di 31 milioni di marchi, sicché ogni fabbrica avrebbe guadagnato 78.000 marchi in cifra rotonda. Migliaia di ettari, coltivati fino ad oggi a cereali, a patate ecc., furono destinati alla coltura della barbabietola; le fabbriche si moltiplicarono, altre stanno per sorgere, e la conseguenza necessaria, inevitabile sarà un crac enorme. La rendita elevata della coltivazione della barbabietola esercitò una salutare influenza sul prezzo dei terreni, che salì; d’onde l’acquisto dei piccoli poderi, che proprietari, allettati dall’altezza dei prezzi, si lasciarono persuadere a vendere. Mentre il suolo viene così utilizzato a scopo di speculazione industriale, la coltura dei cereali e delle patate su terreni di qualità inferiore va limitandosi; di qui la necessità di importare dall’estero i generi alimentari. La domanda supera l’offerta. L’enorme importazione di prodotti stranieri e la tenuità delle tariffe di trasporto dalla Russia, dai Principati Danubiani, dall’America, dalle Indie ecc., determina tali prezzi, per cui gran parte dei possidenti nazionali, gravati come sono da ipoteche e da imposte, con un suolo di poco valore, un’azienda spesso male organizzata, e peggio amministrata, non possono reggersi.

Si impongono dazi enormi sulle importazioni straniere, il cui vantaggio non è goduto che dal potente, mentre il misero non ne trae il minimo profitto, e che aggravano enormemente la popolazione non agricola. Il vantaggio di pochi è il danno di molti, la piccola e media agricoltura va decadendo, né vi è per essa erba da mangiare. Si ammette generalmente che la condizione dei piccoli agricoltori è andata sempre peggiorando durante il periodo dei dazi protettori. Tutti i vantaggi che il grosso possidente trae dai dazi alti, dai divieti di importazione e dalle barriere doganali, lo pongono in condizione di poter esercitare tanto più agevolmente il monopolio sui piccoli possidenti, i quali, producendo solamente tanto che basta a mantenere sé e la famiglia, non ritraggono alcun profitto da coteste misure. Il numero stragrande di coloro i quali non producono tanto che basti a mantenerli e uno sguardo alla statistica delle professioni e della divisione delle terre, mostra che la maggior parte dei possidenti e degli agricoltori risente un danno diretto dal rincaro dei generi alimentari, determinato dai dazi e dalle imposte indirette. Se poi capita un cattivo raccolto, che diminuisca ancor più la rendita delle terre, allora il peso diventa ancora più intollerabile, ed anche il numero di quelli che erano costretti a comperare i prodotti diventa maggiore.

In nessun caso i dazi e le imposte indirette possono migliorare la condizione sociale della maggioranza, cioè far le cose a rovescio.

La completa rovina della piccola proprietà viene quindi accelerata piuttosto che ritardata. La Baviera, uno dei paesi più agricoli della Germania, fornisce una prova tipica della condizione delle piccole proprietà. Secondo l’Annuario del R. Ufficio di statistica bavarese furono espropriati coattivamente in Baviera:

 

nel 1885:     1.318 fondi della superficie di  11.457 ha

nel 1886:     1.348  fondi della superficie di  8.582 ha

nel 1887:     1.111 fondi della superficie di   7.935 ha

nel 1888:     1.514 fondi della superficie di  10.438 ha

 

Rimasero senza amministrazione per più o meno lungo tempo:

 

nel 1885:     175 fondi con 1.118,6 ha di superficie

nel 1886:     169 fondi con    681,2 ha di superficie

nel 1887:     186 fondi con 1.037,5 ha di supeficie

nel 1888:     265 fondi con 1.622,3 ha di superficie

 

Quanto ai fondi fino a 10 ettari considerati piccoli, da 10 a 100 ettari considerati medi, e da 100 in su come grandi, le vendite all’asta si ripartirono così:

 

 

Piccola proprietà

Media proprietà

Grande proprietà

nel 1885:

80,9

18,7

0,4

nel 1886:

83,8

16,0

0,2

nel 1887:

80,5

19,0

0,1

nel 1888:

81,5

18,4

0,4

 

 

 

 

                                 

                        

 

Se poi vogliamo sapere la parte della superficie totale espropriata nel 1888, per esempio riferibilmente ai diversi gruppi, troveremo per la piccola proprietà il 40,7%, per la media il 55,7% e il 3,6% per la grande possidenza. Di 1.514 fondi espropriati nel 1888 avevano la superficie fino a 1 ettaro: 280; da 1 a 2 ettari: 128; da 2 a 3: 184; da 3 a 4: 128; da 4 a 5: 103; da 5 a 10 ettari: 307. Quindi il 61,6% di tutti i fondi espropriati è rappresentato esclusivamente da minuscoli poderi da 1 a 5 ettari di superficie; e appartengono alla categoria delle perdite della piccola agricoltura. Viene in prima linea il distretto governativo, dove è sviluppatissima la proprietà parcellare, e cioè il Palatinato (108): il 52,9% di tutte le proprietà comprese in questo distretto non superano in superficie 1 ettaro. I piccoli viticultori, i coltivatori di tabacco, vanno in rovina nel giocondo Palatinato; 77,3% dei fondi ivi espropriati nel 1888 non superava in superficie 5 ettari. La percentuale più alta fra i fondi inferiori a 5 ettari soggetti ad espropriazione si trova nella sede della coltura del luppolo e cioè nella Franconia (109) media che ha il 71,1%, di cui il 29,8% di fondi inferiori a 1 ettaro. Viene dopo la Svezia con 70,8%; poi un centro della industria casalinga, l’alta Franconia, col 60%; poi la Franconia inferiore, ove predomina la coltura della vite e del giardinaggio, col 56,5%; la bassa Baviera col 54,1%, l’alta Baviera col 53,1%, e l’alto Palatinato col 50%. Nell’Austria Cisleitana (110), eccetto Vorarlberg e la Dalmazia, la cifra dei terreni venduti all’asta nel 1874 fu di 4.720, che salì nel 1877 a 6.979, e nel 1879 a 11.272. I poderi erano più del 90%. Nel 1874 furono venduti all’asta nell’Austria Cisleitana 4.413 poderetti gravati ciascuno da un debito medio di 3.136 fiorini per podere, ma nel 1878 i poderi furono 9.090 con un debito medio ciascuno di 4.290 fiorini. La somma della inscrizione ipotecaria rimasta esclusa per insufficienza del prezzo ricavato dalle vendite fu nel 1874 di 4.679.753 fiorini, cioè il 30,8% del debito totale; nel 1878 di 20.366.173 fiorini, e cioè il 52,2% del debito totale. In Ungheria già nel 1876 le vendite all’asta di immobili non furono meno di 12.000.

Finché il proprietario amministra e coltiva il suo fondo, nell’era della “sacra” proprietà privata, è la sua casa, è il suo diritto. Che importa a lui della comunità e del suo benessere? Egli deve pensare a se stesso e quindi: libera via. L’industriale fabbrica anche figure oscene, stampa libri immorali, apre stabilimenti per adulterare i generi alimentari. Tutto ciò è dannoso alla società, perché calpesta la morale e aumenta e diffonde la corruzione. Ma che importa? Egli intasca danari più che non potrebbe con immagini morali, con libri di scienza e colla vendita onesta dei generi alimentari non adulterati. L’industriale avido di lucro deve preoccuparsi soltanto di non farsi scoprire dalla polizia, e allora egli può esercitare tranquillamente il suo mestiere dannoso, nella certezza di essere invidiato e rispettato dalla società per il danaro che guadagna. Nulla può meglio giovare a dimostrare il carattere del nostro secolo quanto la Borsa e il suo traffico.

I prodotti della terra e dell’industria, i mezzi di comunicazione, gli scambi, le condizioni climateriche e politiche, la carestia e l’abbondanza, la miseria e le disgrazie, debiti pubblici, scoperte ed invenzioni, salute, malattie e morte di persone influenti, guerre e voci di guerra trovate spesso solo a tal uopo, tutto ciò ed altre cose ancora formano oggetto di speculazione, e vengono utilizzate a scopo d’inganno e di sfruttamento. I matadori del capitale esercitano in questo campo l’influenza più decisiva sullo stato della intera società e accumulano favolose ricchezze, favoriti dalle loro potenti relazioni e dai loro mezzi. Ministri e Governi diventano in loro mano dei burattini, che devono muoversi a seconda che essi, i matadori delle Borse tirano i fili dietro le quinte. Lo Stato non ha in suo potere la Borsa; è questa, al contrario, che ha in suo potere lo Stato. Il ministro deve ingrassare controvoglia la “pianta venefica” che egli preferirebbe di sradicare mentre è costretto a darle una nuova forza.

Tutti questi fatti, che si accumulano ogni giorno più, col crescere dei mali, gridano vendetta, come suol dirsi e richiedono pronti e radicali rimedi. Ma la presente società si trova impotente davanti a cotesti mali, come certi animali davanti alle montagne, e gira continuamente come un cavallo intorno al mulino senza aiuto e senza consiglio, vera immagine del dolore e della stupidità.

Quelli che vorrebbero prestare aiuto sono ancora troppo deboli; quelli che ne avrebbero il dovere non sanno e non conoscono; quelli che potrebbero non vogliono; essi si affidano alla forza e pensano nella migliore ipotesi con madama Pompadour: Après nous le déluge [famosa la frase di Luigi XV:Dopo di me il diluvio, anche col significato: dopo di me può crollare anche l’Universo! NdR].

Ma se il diluvio avvenisse finché essi vivono?

Ora ci si dice: giacché voi siete critici così valenti, indicateci anche il rimedio, e presentate le vostre proposte. E’ facile farle, ma possono essere realizzate, allo stato presente delle cose, solo col consenso e l’appoggio delle classi dominanti. Ma è qui che s’incontra l’ostacolo: ogni progetto, la cui realizzazione ferirebbe gli interessi materiali di coteste classi ed anche solo minacciasse di mettere in questione la loro posizione privilegiata, viene da essi rabbiosamente combattuta e stimmatizzata come un tentativo diretto a sconvolgere l’attuale ordinamento politico e sociale. Non si può curare però la società malata senza mettere in questione gli interessi ed i privilegi delle classi dominanti, e senza lasciarli definitivamente cadere.

“La lotta per la redenzione delle classi operaie non è combattuta per ottenere privilegi e prerogative, bensì per conseguire eguaglianza di diritti e di doveri e per la eliminazione di ogni privilegio e di ogni prerogativa”. Ne segue naturalmente che con mezze misure e con piccole concessioni nulla si fa, per quanto importanti possano parere in un dato momento.

Finora le classi dominanti consideravano la loro posizione non solo come perfettamente conforme a natura, ma anche come sottintesa, la cui legittimità e continuità nessuno potrebbe mettere in dubbio, e perciò si comprende anche che esse respingano e combattano sempre decisamente qualsiasi progetto che metta in dubbio cotesta legittimità. Le disposizioni di coteste classi in Germania, si mostrano con la massima evidenza nelle così dette riforme sociali. Tutti i progetti e le leggi che mutano anche lievemente le basi del presente ordine sociale e la posizione privilegiata delle classi dominanti, li allarmano sommamente forse perché potrebbe farsi appello alla loro borsa. Montagne di carta vengono insudiciate e stampate, ma infine non fanno che partorire un piccolo topo.

Essi osteggiano con tale violenza le domande più semplici e più naturali relative alla protezione del lavoro, come se dalle concessioni fatte su tale terreno dipendesse la esistenza stessa della società.

Dopo lotte infinite vengono loro strappate alcune concessioni, e allora essi si atteggiano in modo da far credere quasi che abbiano dovuto rimetterci una gran parte del loro patrimonio.

Non meno ostinata opposizione essi mostrano le quante volte si tratti di riconoscere la eguaglianza giuridica degli oppressi, e, per esempio, nella questione della locazione d’opera di trattare con essi come con eguali.

Questa opposizione anche per le cose più semplici e contro le domande più naturali, conferma il vecchio dettato sperimentale, che nessuna classe dominante si può convincere per via di ragionamenti, se la forza delle circostanze non la costringe a cedere, ad arrendersi.

Questa forza consiste nel progresso della società e nell’aumento della coltura che da questo progresso deriva. Gli attriti di classe dei quali ci siamo occupati allorché illustrammo e criticammo le attuali condizioni diventano sempre più aspri ed evidenti. Cresce quindi nelle classi oppresse e sfruttate la coscienza della caducità dell’ordine attuale di cose, alimenta in esse lo spirito di ribellione, e con questo la pretesa di trasformare queste condizioni e di renderle più umane. Questa coscienza facendosi sempre più universale, conquista a poco a poco la maggioranza della società che è la più direttamente interessata a cotesta trasformazione.

Ma nella stessa misura che va crescendo e diffondendosi nelle masse cotesta coscienza, decresce la forza di resistenza delle classi dominanti, la cui potenza riposa essenzialmente sulla ignoranza degli oppressi. Questa reciprocità di effetti è evidente, e quindi deve essere ben accetto tutto ciò che essa affretta e facilita. I progressi della economia capitalistica da un lato sono controbilanciati dall’altro dalla crescente coltura del proletariato. Quindi anche se per togliere le antitesi sociali ci vogliono fatica, sacrifici e sangue, ciò non è che questione di tempo, la cui soluzione dipende da fattori ed elementi che sono al di fuori dall’influenza di un individuo o di una classe, si raggiungerà allorquando coteste antitesi sociali avranno raggiunto quel punto più alto del loro sviluppo, al quale si avvicinano rapidamente. Le norme da osservarsi nelle singole fasi di sviluppo dipendono dalle circostanze del momento ed è impossibile predire quali norme saranno rese necessarie da tali circostanze nei singoli casi. Se nessun governo, nessun ministro, per quanto potente, può predire che cosa le circostanze lo costringeranno a fare nell’anno venturo, tanto meno possono predirlo persone che, oltre essere prive di qualsiasi autorità politica, non hanno a loro disposizione verun strumento di governo.

Senza forza non si può creare nessun nuovo diritto.

Perciò più avanti, nella trattazione sulle forme della società dell’avvenire, potremmo procedere solo in via di ipotesi e partire da premesse che ammettiamo come già avverate.

Noi poniamo quindi per base che in un dato momento del tempo tutti i mali e gli inconvenienti da noi esposti arrivino a tale punto che, non solo saranno visibili alla grande maggioranza della popolazione, ma si faranno sentire così da parere insopportabili, e tutta la società sarà dominata da un desiderio così irresistibile di una radicale trasformazione da farle parere come più adatto a rispondere allo scopo l’aiuto più pronto e sollecito. Ora, se è vero che tutti i mali sociali senza eccezione trovano la loro sorgente nell’ordinamento sociale, e si rendono più acuti nel sistema di economia capitalistica, che riposa sullo sfruttamento e sulla oppressione dell’uomo per mezzo dell’uomo, e solo perciò il capitalista può essere il padrone degli strumenti di lavoro, e cioè della terra, delle macchine, dei mezzi di trasporto, dei generi alimentari, se è vero tutto ciò è necessario in prima linea trasformare questa proprietà privata per via di una grande espropriazione in proprietà sociale o collettiva (comunismo).

 

(Continua, col prossimo capitolo intitolato La socializzazione della società)

 


 

(88) Bridel: Puissance maritale. Nota di A. Bebel.

(89) Meretricio: la pratica della prostituzione.

(90) Olimpia de Gouges (pseudonimo di Marie Gouze, 1748-1793), drammaturga francese, visse durante la rivoluzione francese partecipandovi nel club dei Girondini. Celebre per la commedia intitolata “L’Esclavage des Noir ou l’heureux naufrage”, scritta nel 1786, mentre nel 1788 ha pubblicato le “Riflessioni sugli uomini negri”, contro la schiavitù.

E’ nota, in particolare, per aver scritto la “Dichiarazione dei dirittti della donna e della cittadina” (1791), sulla traccia della Dichiarazione dei diritti dell’uomo, che in realtà non fu accolta dal governo rivoluzionario, preceduta dalla Nécessité du divorce, scritto nel 1790, rivendicando per l’appunto il divorzio. Il 3 novembre 1793 fu ghigliottinata, come molti altri membri del club dei girondini, perché si era opposta pubblicamente all’esecuzione di Luigi XVI.

(91) Pierre-Gaspard Chaumette (pseudonimo Anaxagoras), 1763-1794, fu procuratore di Parigi durante la rivoluzione ; portaparola dei sans-coulotte, ha lottato per l’abolizione della schiavitù. Nei confronti delle rivendicazioni femminili per l’eguaglianza politica e sociale fra donne e uomini ebbe una posizione nettamente reazionaria: si felicitò pubblicamente dell’esecuzione di Olimpia de Gouge e di altre donne, accusandole di voler andare “contro natura” invece di dedicarsi alla casa e ai bambini. Membro del club dei Cordeliers, sostenitore della “decristianizzazione” (il suo pseudonimo Anaxagoras lo riprese dal filosofo greco che predicava l’ateismo), fervente partigiano del Terrore nel 1793 dopo essersi  opposto alla guerra e aver sostenuto l’abolizione della pena di morte nel 1791-92, fu in seguito arrestato e ghigliottinato per “cospirazione contro la repubblica” e per aver “cercato di annientare ogni sorta di morale, cancellare ogni idea di divinità e fondare il governo francese sull’ateismo”. (vedi http://fr.wikipedia.org/wiki/Pierre-Gaspard_Chaumette).

(92) Marianne Adelaide Hedwig Dohm, nata Schlesinger (Berlino, 1831-1919), scrittrice e una delle prime femministe tedesche; attribuì gli specifici comportamenti di genere ad influenze culturali piuttosto che alla determinazione biologica. Pubblicò parecchi saggi, commedie, racconti e articoli, in cui costantemente rivendicava la piena parità giuridica, sociale ed economica tra uomini e donne. Ardente pacifista, si oppose come pochi altri intellettuali tedeschi alla prima guerra mondiale criticando il patriottismo sciovinista che imperversava in Germania.

(93) Il riferimento è a Saulo di Tarso, passato alla storia come Paolo di Tarso, cioè San Paolo. Saulo era il nome greco-ebraico (significava invocato, chiamato) datogli dai genitori, Paolo è il nome latino che adottò dopo la sua "conversione" al cristianesimo. Secondo gli Atti degli Apostoli e la stessa testimonianza di Paolo di Tarso nelle sue Lettere, Saulo, mentre da Gerusalemme si recava a Damasco per reprimere le comunità cristiane di quella città, fu colpito da una luce accecante, cadendo a terra, e una voce (di Gesù Cristo) gli chiese: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? Giunto a Damasco, rimase per tre giorni cieco, senza mangiare né bere; soccorso e aiutato dalla comunità cristiana in quei giorni fu, alla fine, battezzato dal capo della comunità cristiana di Damasco, Anania. Da quel momento Saulo di Tarso, persecutore dei cristiani, si converte in Paolo di Tarso, missionario (apostolo) del credo cristiano tra gli ebrei e le popolazioni del Mediterraneo orientale.    

(94) Womanhood: Its Sanctities and Fidelities by Isabella Beecher-Hooker. Boston: Lee and Shepard, Publishesr. New York: Lee Shepard and Dillingham, 1874. Nota di A. Bebel.

(95) Esponiamo un caso fra i molti. Lo scrivano sig. S. di Berlino, di 45 anni, ammogliato con una donna ancora bella, di 39 anni, e padre di una figlia di 12 anni, è senza lavoro e vicino a morir di fame. La moglie decide, consenziente il marito, di prostituirsi. La polizia lo viene a sapere. La donna viene sottoposta alla vigilanza della polizia. La vergogna e la disperazione colpiscono la famiglia; e tutti e tre concordano di avvelenarsi e nel 1° marzo 1883 danno esecuzione alla triste risoluzione.

Pochi giorni prima la nobiltà di Berlino diede delle magnifiche feste, per cui si spendettero centinaia di migliaia di lire. Ecco le paurose antitesi della società moderna, eppure si dice che noi viviamo «nel migliore dei mondi». Martin ha veduto molte altre famiglie sacrificarsi per la miseria, e troppi numerosi casi furono narrati di suicidi come questo che abbiamo riferito, così nelle piccole come nelle grandi città ed anche fuori di Germania. Fenomeno questo caratteristico del nostro tempo e una prova del punto cui siamo arrivati. Nota di A. Bebel.

(96) Già Platone riconobbe le conseguenze di questa condizione di cose. Egli scrive: «Uno Stato diviso in classi, non è uno, ma due; l’uno è formato dai poveri, l’altro dai ricchi, ed entrambi, pur tendendosi sempre insidie, continuano ad abitare insieme... La classe dominante non è alla fine in caso di far guerra, perchè in tal caso essa deve servirsi della plebe; e della plebe armata, questa classe dominante teme più assai che dei nemici.» (Platone: «Lo Stato»).

Ed Aristotele dice: «La miseria generale è un male, perchè è quasi impossibile impedire che i miserabili siano causa di dissensioni e disordini.» (Aristotele: «Politica»). Nota di A. Bebel.

(97) La storia naturale della creazione. Quarta edizione migliorata, Berlino, 1873, pag. 155 e 156. Nota di A. Bebel.

(98) Lo afferma anche Platone nel suo «Stato»: «Il delitto trova la sua origine nella mancanza di coltura, nella cattiva educazione e organizzazione dello Stato». Egli conosceva la natura della società meglio dei suoi dotti successori dopo ventitre secoli. Ciò non è molto consolante. Nota di A. Bebel.

(99) Il prof. Adolfo Wagner esprime l’identico concetto nella sua opera: Compendio di economia politica, a pag. 361 ove dice: «La questione sociale è la contraddizione cosciente fra lo sviluppo economico e il principio sociale della libertà e della giustizia che sovrasta come ideale e si attua nella vita politica». Nota di A. Bebel.

(100) Il dott. E. Sachs nel suo lavoro: L’industria domestica in Turingia, riferisce fra altro che nel 1869 la produzione di 244 milioni e mezzo di stili aveva costato ai produttori da 122.000 a 200.000 fiorini, mentre il prezzo di mercato salì fino a 1.200.000 fiorini, triplicando il prezzo ritratto dal produttore. Qui nel produttore è compreso l’imprenditore che sfrutta a sua volta l’operaio. Nota di A. Bebel.

(101) Secondo la statistica delle professioni del 5 giugno 1882 v’erano allora in Germania nel traffico mercantile 386.157 impiegati principali, e 145.474 impiegati accessori, in complesso 531.631 impiegati. (La  nota continua con questa frase: “Nei primi erano occupate 705.906 persone”; ma non vi è attinenza con la frase precedente, forse perché manca un pezzo...). Nota di A. Bebel.

(102) Dopo la sua morte, gran parte del di lui patrimonio passò al Re di Sassonia. Nota di A. Bebel.

(103) «Auf friedlichem Wege», di Flürschein. Nota di A. Bebel.

(104) Nuovo Tempo. Anno 1885, pag. 145. Nota di A. Bebel.

(105) iùgero: unità di misura di superficie usata nell'antica Roma, equivalente ad un rettangolo di 240 x 120 piedi romani, ossia a circa 2.500 metri quadri.

(106) Pomerania (in polacco: Pomorze) è una regione situata nel nord della Polonia e della Germania sulla costa meridionale del Mar Baltico, tra i fiumi Vistola e Oder fino ai fiumi Recknitz a ovest e Notec a sud. Le due città più importanti sono Danzica e Stettino, entrambe attualmente città polacche.

(107) I valori sono espressi in Marchi.

(108) Palatinato (Plalz o Rheinplalz), regione storica della Germania formatasi da un complesso di feudi appartenenti alla casa di Franconia; il nome della regione è stato dato da Corrado, fratello dell’imperatore Federico I, nominato principe dell’Impero e “conte palatino sul Reno”, con sede in Aquisgrana. Dopo varie modificazioni territoriali, nel 1873 Palatinato renano e Palatinato Superiore fecero parte del regno di baviera. Oggi la regione il Palatinato è limitata al territorio alla sinistra del Reno.

(109) Franconia (Franken), regione storica della Germania centro-meridionale, fra il Reno, la Fulda, il Meno e il Neckar; faceva parte di un territorio della monarchia franca chiamato Francia Teutonica.

(110) Dopo la guerra austro-prussiana del 1866, in cui l’impero asburgico uscì sconfitto, i rappresentanti della “nazione austriaca” e della “nazione magiara” ripresero le trattative per giungere ad un accordo che venne firmato nel 1867 (Ausgleich), secondo il quale lo Stato asburgico si divise in Cisleitana (Austria e litorale austro-illirico) e Transleitana (Ungheria, Croazia e Slavonia). Politicamente i due regni erano uniti, ma per le questioni interne ciascuno agiva come entità statale separata.

 

 

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