Il capitalismo imperialista, parla di pace,  ma prepara la guerra

(«il comunista»; N° 137; Novembre 2014 - Gennaio 2015)

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Nel 1950, l’articolo della serie sul filo del tempo intitolato «"Punti" democratici e programmi imperiali» (1), prendeva spunto dal programma in cinque punti del presidente americano di allora, Truman, un programma imperiale che prevedeva, ovviamente, l’amministrazione del mondo da parte della maggiore potenza imperialistica che aveva stravinto la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti d’America. Programma imperiale che, finita l’ecatombe di morti del secondo macello mondiale, riguardava – come ogni programma imperialistico precedente e successivo – 1) la «pace mondiale», 2) le «Nazioni Unite» che dovevano «elaborare quei principi di etica e di diritto internazionale senza i quali l’umanità non potrà sopravvivere», 3) un piano per garantire la «ripresa economica mondiale» (il cosiddetto “piano E.R.P.”) che avrebbe dovuto passare attraverso la «organizzazione del commercio internazionale», 4) le «zone arretrate», verso le quali le nazioni industriali, e soprattuto gli Stati Uniti, si dovevano impegnare «a fornire assistenza tecnica e investimenti, quindi investire ingenti capitali per impieghi produttivi», e, infine, 5) «diffondere nel mondo la democrazia e la pace», in concorrenza con il “comunismo” staliniano che, finita la guerra antitedesca e antigiapponese, da alleato diventa antagonista – antagonista non sul piano della guerra di classe, ma su quello dei contrasti imperialistici per la spartizione delle zone di influenza nel mondo.

Dopo l’attacco alle Torri Gemelle di New York l’11 settembre 2001, il presidente americano di allora, George W. Bush, ha di fatto aggiunto al programma imperiale degli Stati Uniti d’America un punto 6): la lotta al terrorismo internazionale. Si sa che per “terrorismo internazionale” i governi dei paesi imperialisti d’Occidente intendono le azioni armate di movimenti o di Stati non allineati alla difesa degli interessi in particolare degli USA e dei paesi dell’Europa, ma ad essi contrapposti. Si cominciò con l’Afghanistan, poi con l’Irak, la Libia e ora con la Siria; si è mantenuta alta la tensione internazionale anche col presidente “nero” Obama, nonostante i suoi piani di “disimpegno” delle forze terrestri americane nei vari teatri di guerra.

A quel tempo, gli Stati Uniti, massimi rappresentanti del capitalismo mondiale, e quindi anche della sua forma politica più sviluppata – l’imperialismo – in quanto forza più concentrata e avanzata del capitalismo mondiale, dettavano in pratica le priorità degli interessi del capitalismo mondiale e quelli di classe della borghesia “di ogni paese”, assumendo l’incarico di rappresentarli – e di difenderli – al meglio, rispetto ad ogni altra potenza imperialistica presente. A quel tempo, l’URSS staliniana, massimo rappresentante dell’opportunismo mondiale, e quindi anche della sua forma politica più sviluppata – il collaborazionismo succube del capitalismo più avanzato (le esigenze del quale venivano trasferite e imposte sulle masse enormi di lavoratori non solo del proprio paese, ma di tutti i paesi in cui la sua politica, attraverso i partiti stalinizzati o stalinisti, aveva un’influenza determinante) – in quanto forza militare significativa e in grado di competere con quella statunitense, dettava i mezzi e i metodi che prioritariamente servivano sia a proteggere il vorticoso sviluppo capitalistico in patria e i suoi interessi imperialistici nel vasto continente euro-asiatico, sia a favorire la ripresa economica mondiale dopo le devastazioni della guerra dalla quale ripresa poteva beneficiare lo stesso capitalismo nazionale russo e, ultimo ma non ultimo, ad impedire, o allontanare nel tempo, la possibilità di una ripresa della lotta di classe nella stessa Russia, in Europa o in Asia, cioè dove i rispettivi proletariati potevano riallacciarsi ad una tradizione di classe e rivoluzionaria ancora vicina nel tempo.

Con la seconda guerra imperialistica mondiale, e dopo di essa, il corso dell’imperialismo mondiale è cambiato, non certo per diventare meno aggressivo, meno militarista, meno accentratore o addirittura più liberale e democratico. Tutto al contrario. Come afferma Lenin:

«L’imperialismo è l’epoca del capitale finanziario e dei monopoli che introducono dovunque le loro aspirazioni alla conquista e non la libertà. Reazione in tutti i campi, qualunque sia l’ordinamento politico; estrema tensione degli antagonismi che stanno uno di fronte all’altro, tale ne è il risultato. L’oppressione nazionale e il bisogno di annessione, cioè la violazione dell’indipendenza nazionale dei più deboli (poiché l’annessione non è altro che una violazione del diritto di una nazione a disporre di se stessa), rivestono una forma particolarmente acuta» (2). Finita la seconda guerra imperialistica e il reciproco interesse borghese di alleanza militare contro il polo imperialistico avversario rappresentato da Germania e Giappone, il “programma imperiale” di Truman non poteva non scontrarsi con il “programma imperiale” di Stalin, nel senso che gli si opponeva alla testa di una coalizione “occidentale” contro una coalizione “orientale” (detta in termini sommamente opportunistici, “campo socialista”), ma, nello stesso tempo, lo attirava nella difesa generale del capitalismo, difesa che, prolungando contraddittoriamente la precedente alleanza di guerra, la trasformava in un condominio mondiale armato in funzione antirivoluzionaria e antiproletaria; “condominio” che non riusciva ad impedire di essere ciclicamente sottoposto all’esplosione di contraddizioni gonfie di contrasti economici, politici e, ovviamente, militari.

Riprendendo Lenin, va sottolineato che «le alleanze “inter-imperialistiche” o “ultra-imperialistiche” [concetto molto caro all’ultraopportunista Kautsky, NdR], qualunque sia la loro forma, che si tratti di una coalizione imperialistica volta contro altri o di un’unione che comprenda tutte le potenze imperialistiche, nella realtà capitalistica non sono che tregue di guerra. Le alleanze pacifiche preparano la guerra e derivano, a loro volta, dalla guerra, condizionandosi l’una con l’altra, suscitando i mutamenti delle forme di lotta, pacifiche o meno, su una sola e medesima base, quella dell’imperialismo e dei rapporti necessari all’economia mondiale e alla politica mondiale» (3).

 Sono passati quasi 100 anni da quando Lenin scrisse  il suo lavoro sull’Imperialismo; la situazione mondiale è cambiata da allora, in che modo? Il condominio mondiale russo-americano, con il crollo dell’URSS non esiste più; la superpotenza americana, dovendosela vedere con potenze imperialistiche nel frattempo sviluppatesi ed altrettanto aggressive sul mercato mondiale quanto Washington – leggi Germania da venticinque anni riunificata, senza dimenticare il Giappone e la sempre più ingombrante attività del capitalismo cinese – pur rimanendo l’imperialismo più potente, non è più il “padrone del mondo”. Dalla seconda guerra mondiale in poi, i paesi capitalisti dominanti il mercato mondiale non potevano svilupparsi se non accrescendo, nello stesso tempo, i fattori di contrasto che oggettivamente li contrappongono uno all’altro in una lotta di concorrenza che sfocia di continuo in crisi di guerra, crisi che possono essere affrontate solo attraverso alleanze interimperialistiche a difesa di interessi  condivisi nel lungo o nel breve periodo; alleanze interimperialistiche che sono diventate necessarie per ogni potenza e attraverso le quali, invece di attenuarsi, si acutizza l’oppressione dei paesi più deboli e piccoli da parte dei paesi capitalisticamente più sviluppati. Le alleanze interimperialistiche, nella realtà capitalistica, inevitabilmente non sono che tregue di guerra, sottolineiamo con Lenin. Dalla fine della seconda guerra mondiale non vi è stato anno che non sia trascorso senza che in qualche parte del mondo, e spesso in più parti del mondo contemporaneamente, vi fosse una guerra borghese, una guerra di rapina in cui le potenze imperialistiche maggiori non fossere direttamente o indirettamente coinvolte.

Il “nuovo” imperialismo è così diverso dal “vecchio” imperialismo? Dopo la lunga stagione dei moti coloniali, della cosiddetta “decolonizzazione” e della formazione di nuovi Stati “indipendenti”, il “nuovo” imperialismo verniciato coi colori della democrazia, del libero mercato, della civiltà industriale, ha portato davvero il progresso economico e la pace nel mondo? Dopo la lunga stagione del collaborazionismo opportunista dei partiti sedicenti socialisti e comunisti che promettevano alle masse proletarie e contadine del mondo l’elevamento del loro tenore di vita  e una lenta e graduale “emancipazione” attraverso lo sviluppo iperfrenetico di economie capitaliste, passate per “socialiste”, e avvolte nella politica della “coesistenza pacifica” tra un falso “campo socialista” e un vero “campo capitalista”, la “nuova” politica democratica e popolare ha prodotto davvero progressivi benefici alle enormi masse proletarie e contadine che hanno subito le delizie dello stalinismo, del maoismo e di tutti i post-stalinismi-titismi-maoismi-castrismi e compagnia, che hanno governato a Berlino Est e a Varsavia, a Budapest e a Mosca, a Praga e a Belgrado, a Pechino e a l’Avana? In realtà, l’imperialismo, sconfitta la rivoluzione proletaria e comunista di Russia e il movimento rivoluzionario internazionale negli anni Venti del secolo scorso, ha avuto facile gioco, paese per paese,  nell’irreggimentare nei propri eserciti industriali i proletari di tutto il mondo portandoli a farsi carico della difesa dell’economia nazionale, della patria, dei valori della civiltà della merce, del denaro, della proprietà privata, in una parola del capitalismo, e ad offrire sull’altare del profitto capitalistico la propria forza lavoro e il proprio sangue.

I programmi imperiali non solo degli Stati Uniti d’America, ma di ogni stato imperialista, d’Occidente come d’Oriente, sebbene siano dettati, come sempre, dalle grandi potenze, non possono avere altri obiettivi di fondo che quelli che traspaiono dalle parole del 1950 di Truman: ripresa economica mondiale (solito ritornello ciclicamente cantato dopo ogni crisi economica), investimenti produttivi (perché solo dallo sfruttamento della forza lavoro salariato il capitalismo può estorcere il plusvalore, e quindi trarre il suo profitto), pace mondiale e democrazia (solita canzone per il rincoglionimento universale dei popoli oppressi e del proletariato in particolare) e, nei tempi più recenti, lotta contro il terrorismo internazionale, mentre le classi dominanti borghesi esercitano un terrorismo quotidiano contro le proprie masse proletarie schiacciate nella miseria e nella fame, martirizzate nelle repressioni e nelle guerre, gettate sistematicamente nella disperazione per una sopravvivenza negata e costrette a milioni a emigrare fuggendo dalla propria terra.

La pace tanto decantata da ogni pulpito, politico o religioso che sia, si è dimostrata essere sempre più, in regime borghese, una tregua tra le guerre. Il marxismo, e Lenin, non hanno sbagliato.

 «Il vecchio imperialismo aveva dinanzi a sé da scoprire terre spopolate e vergini o occupate da popoli che si potevano, dato il già raggiunto “progresso scientifico”, sterminare o intossicare. Sfruttando colonizzati e coloni riuscì ad esaltare i profitti di capitale nella madre patria. Giunto ai limiti del mondo abitabile, scoppiarono le contese per le zone migliori.

«Il nuovo imperialismo non ha altri fini, ma trova dinanzi a sé paesi rigurgitanti di gente affamata e disoccupata: il suo piano moderno tende a non porre in evidenza il possedimento territoriale e la guardia armata alle terre e ai mari, ma vuole con un monopolio mondiale del capitale e delle masse monetarie giungere allo stesso punto: altissimi profitti nel paese imperiale e relativo alto tenore di consumo e di vita in esso, in modo che sia assicurata la riproduzione incessante di “risparmio” da investire.» (4)

E non ci si può esimere dal riprodurre anche il brano che riguarda l'imperialismo russo, sebbene oggi con artigli meno aguzzi che in quegli anni:

«Quanto al nuovo imperialismo moscovita la sua situazione è tragica. Ha masse enormi di lavoratori, ma il tenore di vita è quasi tanto basso quanto quello dei paesi che vuole assoggettare. Se investe fuori della sua area deve non alzare, come Truman calcola negli Stati di cinque volte, ma ridurre il tenore di vita medio. Oppure cambiare in macchine di guerra e di pace o in dollari, moneta del mondo, la pelle di alcune decine di milioni di lavoratori militarizzati, come ha fatto nella guerra  mondiale, spingendo in alto le cifre del potenziale capitalistico sulla terra.»

«Nessuna guerra romperà questo cerchio, se non quella interna a ogni nazione, tra i proletari e i delegati del capitale, indigeno o straniero che sia».

Sotto il capitalismo non ci sarà mai pace: la borghesia si prepara sempre alla guerra perché la guerra non è che la continuazione della politica fatta con altri mezzi, con i mezzi militari per l'appunto. Sta al proletariato, guidato dal suo partito di classe, prepararsi alla guerra di classe, l'unica guerra che, chiudendo la serie storica delle società divise in classi, può portare alla pace duratura nella società umana.

 


 

(1)   Vedi il “filo del tempo” intitolato “Punti” democratici e programmi imperiali, pubblicato nel giornale di partito di allora, “battaglia comunista”, n. 2, 25 gennaio – 8 febbraio 1950.

(2)   Cfr. Lenin, Imperialismo, ultima fase del capitalismo, Minuziano Editore, Milano 1946, p. 201.

(3)   Idem, pp. 199-200.

(4) Cfr. "Punti" democratici e programmi imperiali, cit.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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