Verso una ricaduta del capitalismo mondiale nella crisi

(«il comunista»; N° 138;  Aprile 2015)

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A circa sette anni dalla crisi economica scoppiata nel 2008, nubi temporalesche si addensano nel cielo del capitalismo. Mentre la famosa ripresa economica dopo la crisi è stata tutt’altro che brillante, i grandi istituti economici internazionali (FMI, OCSE ecc.) non fanno che rivedere al ribasso le loro “previsioni” di crescita per l’anno 2015 e incominciano addirittura a parlare di rischio di ricaduta dell’economia mondiale nella crisi, pur ritenendo improbabile questa eventualità.

Altre organizzazioni più piccole e non obbligate per necessità a non danneggiare la “fiducia” degli “operatori economici” nella buona salute dell’economia mondiale o per preoccupazioni di carattere diplomatico, sono più pessimiste. Un istituto di previsione economica ha addirittura valutato al 65%  il rischio di cadere in una nuova recessione nel 2015 (1) – mentre il FMI stima intorno al 40% la probabilità di una recessione, e nella sola zona euro (2).

Queste cifre fanno sorridere. Gli economisti borghesi sono assolutamente incapaci di comprendere e, di conseguenza, di prevedere il funzionamento dell’economia capitalista; nonostante la continua valanga di cifre e statistiche, tutte le crisi economiche che si sono verificate, a partire dall’ultima, li hanno colti di sorpresa… Noi quindi non concediamo fiducia agli istituti che affermano di continuo che tutto sta per migliorare né agli economisti, molto meno numerosi, che si sono specializzati nelle più nere previsioni. Ma gli istituti e le altre organizzazioni economiche hanno la capacità – d’altro canto è per questo che sono state create! – di registrare l’evoluzione economica.

 

RALLENTAMENTO ECONOMICO MONDIALE

 

Da alcuni mesi, essi constatano un rallentamento economico sul piano internazionale, anche se variabile a seconda dei paesi e delle regioni. È più netto in Giappone, che è il secondo paese capitalista al mondo (anche se, sul solo piano quantitativo, la Cina, gigantesca ma più arretrata dal punto di vista capitalistico, lo supera); dalla primavera scorsa è entrato in recessione, e le cifre rese pubbliche alla fine di dicembre indicano che questa recessione si sta aggravando: il PIL (Prodotto Interno Lordo) è calato di circa il 2% a ritmo annuale nel terzo trimestre, mentre nel secondo trimestre il calo era stato solo dell’1,8%. La famosa nuova politica economica del primo ministro Abe (“abenomics”), che avrebbe dovuto far uscire il Giappone dal marasma (dal 2008 il paese non ha visto alcuna ripresa della crescita), è stata un chiaro insuccesso. Questo arretramento è attribuito alla debolezza del mercato interno e, nonostante il crollo dello yen, alla stagnazione delle esportazioni “a causa dell’atonia degli scambi mondiali” (3).

 

MARASMA IN EUROPA

 

Attualmente il secondo punto debole dell’economia internazionale è l’Unione Europea (e in particolare l’eurozona) che, da sola, costituisce il primo mercato mondiale. Il PIL dell’eurozona era diminuito nel 2012 e, prima di riprendersi nel 2013. Si è assistito a un rallentamento all’inizio del 2014, ma la crescita ha subito un colpo d’arresto nel secondo trimestre.

Ma in realtà la situazione in Europa è diversa nei vari paesi. Abbiamo, da una parte, la Gran Bretagna che non ha adottato la moneta comune, non solo per i suoi legami economici e finanziari ancora molto stretti con gli Stati Uniti, ma anche per il timore di veder sminuire la piazza finanziaria di Londra nell’insieme europeo con la rinuncia alla sterlina; essa conosce una crescita sensibile, parallela a quella degli Stati Uniti, mentre nella zona euro la Germania, in forte rallentamento (e perfino con un calo del PIL nel secondo trimestre), è emersa dalla crisi del 2008 con rinnovata forza: ha praticamente azzerato il deficit del suo bilancio, continua ad avere un’eccedenza commerciale e ha nettamente ridotto il suo indebitamento. Ciò la pone in posizione di forza tanto da pretendere dai suoi partner gli sforzi necessari per rimettere in ordine le loro economie. Per il momento la Germania ufficialmente sfugge alla recessione, così come la Francia, dove però la crescita del PIL è pressoché nulla. Invece l’Italia, la terza economia della zona, affronta il suo terzo allo consecutivo di recessione.

A causa delle divergenti economie dei vari paesi che compongono l’eurozona, la crisi economica ha generato forti tensioni al suo interno, tanto da far ipotizzare, a un certo punto, un dubbio sulla sua sostenibilità. Oltre al caso della Grecia, la crisi ha avuto le sue più gravi conseguenze negative in Portogallo, Irlanda e Spagna che hanno dovuto rivolgersi alla “troika” (FMI, Banca Centrale Europea e Commissione Europea) per dei rispettivi piani di “salvataggio” consistenti in misure di austerità, pesanti interventi sul piano sociale, liquidazione di settori poco redditizi allo scopo di risistemare i conti di queste economie, in cambio di prestiti a un tasso d’interesse (relativamente) basso.

Gli economisti e i dirigenti politici europei oggi presentano il caso spagnolo come la dimostrazione che “l’austerità funziona”: infatti questo paese (come l’Irlanda) ha ripreso la crescita, a differenza della Grecia dove l’austerità particolarmente pesante non ha prodotto risultati positivi. Ma questa crescita è del tutto relativa, in quanto la Spagna è ancora lungi dall’aver riguadagnato il livello economico che aveva prima della crisi; e, soprattutto, il prezzo pagato dalle masse in generale e dai proletari in particolare in termini di disoccupazione e di abbassamento dei salari, di povertà e di precarietà, non viene tenuto in alcun conto!

 

FRANCIA E ITALIA

 

Oltre alla situazione economica di questi paesi, anche quella della Francia e dell’Italia, rispettivamente seconda e terza potenza economica della zona euro, suscita inquietudini fra i capitalisti internazionali (ciò ha provocato l’abbassamento del “voto” da parte delle agenzie internazionali di “rating” che effettuano analisi del rischio economico delle diverse economie). Nonostante i discori ottimisti del governo, l’economia francese stagna; continua a perdere fette di mercato rispetto ai suoi concorrenti e non riesce a riassorbire né il deficit commerciale, né quello di bilancio, né il debito pubblico.

Nonostante le importanti misure già assunte a favore delle imprese, tanto i responsabili tedeschi quanto le istituzioni europee e il MEDEF (Movimento delle imprese di Francia) chiedono al governo francese di mantenere i suoi impegni in ambito di bilancio e di adoperarsi in modo più deciso sulla via delle riforme (leggi: attacchi antioperai), delle economie (leggi: riduzione soprattutto delle spese sociali, come pensioni, indennità di disoccupazione ecc.) e dell’austerità. Il governo Hollande non vi si oppone per principio – nessuno ne dubita –, ma sa che misure troppo forti di austerità porterebbero alla recessione; teme anche che attacchi antioperai troppo brutali possano determinare reazioni difficilmente controllabili.

Le cose riguardo all’Italia sono simili; ma la differenza sta nel fatto che, anche se il “debito sovrano” è nettamente più alto (equivalente al 135% del PIL, contro il 96% della Francia), cosa che impone un peso maggiore sul bilancio, l’industria italiana, più potente e dinamica di quella francese, permette al paese di mantenere e accrescere le esportazioni, facendole registrare un’eccedenza commerciale e dunque dei rientri di bilancio.

Ma, data la debolezza del mercato interno, la capacità di tenuta dell’economia italiana nel campo delle esportazioni (tanto di merci quanto di servizi) non basta a evitarle le recessione. Si capisce pertanto come mai anche il governo Renzi, pur perseguendo una politica antisociale, in particolare sul mercato del lavoro (“Jobs act”), esiti a lanciarsi, per ridurre l’indebitamento, in misure di austerità ancor più dure, che avrebbero un effetto negativo sull’attività economica. Come il governo francese, perora uno sforzo di rilancio economico europeo; conta molto, come quest’ultimo, sul cosiddetto “piano Junker”, cioè sul ritorno miracoloso alla “crescita”: questo piano Junker, in realtà, altro non è che polvere negli occhi.

 

IL RALLENTAMENTO DEI PAESI “EMERGENTI”

 

I paesi cosiddetti emergenti, secondo il nuovo gergo oggi di moda, sono i grandi paesi anche detti poco sviluppati, che da alcuni anni conoscono uno sviluppo e una crescita rapidi. Non c’è nulla di stupefacente in questo fenomeno che è stato comune a tutti i paesi, mentre veniva presentato come la dimostrazione della natura “socialista” dell’URSS e di altri paesi con capitalismo di Stato: il nostro partito ha dedicato numerosi studi per dimostrare che questi elevati ritmi di crescita “alla staliniana”, avevano in certi periodi caratterizzato l’economia del Giappone o… degli Stati Uniti! Giunte alla maturità, le economie capitaliste sviluppate subiscono un rallentamento del tasso di crescita, anche se in ogni ciclo produttivo vengono utilizzate masse enormi di capitale.

I capofila dei paesi emergenti sono il Brasile, l’India, la Russia e la Cina (il gruppo chiamato BRIC); e la vecchia seconda potenza mondiale, la Russia, è stata così retrocessa al rango di paese emergente dopo la disintegrazione dell’URSS.

Anche se le statistiche indicano che l’India è ancora in crescita, tale crescita subisce un netto rallentamento (cioè due volte meno rispetto al periodo precedente la crisi): 4,5% circa, che corrisponde al più basso tasso di crescita dall’inizio del secolo. Il nuovo governo del reazionario Modi cerca di rilanciare la crescita attraverso misure di liberalizzazione economica che hanno portato a grandi scioperi nell’industria carbonifera, mentre i servizi segreti hanno pubblicato un rapporto che attribuisce le difficoltà economiche alle organizzazioni ecologiste finanziate dall’estero (4)!

Invece il Brasile è oggi chiaramente in recessione; lo stesso vale per la Russia – duramente colpita dalla caduta del prezzo del petrolio, di cui nel 2013 era probabilmente il primo produttore mondiale, e colpita, in modo meno grave, dalle sanzioni occidentali riguardo l’Ucraina – che nel corso di quest’anno dovrebbe subire una forte recessione, del 4% secondo le previsioni ufficiali, ma in realtà probabilmente superiore. Il crollo del corso del rublo, parallelo a quello del petrolio, comporta inoltre gravi rischi per gli istituti finanziari russi.

Quanto alla Cina, ha subito un forte rallentamento economico. Le autorità di Pechino avevano previsto che il paese avrebbe raggiunto, nel 2014, una crescita del 7,5%; infatti le cifre ufficiali pubblicate alla fine dello scorso anno toccavano praticamente questo livello: 7,3% (che rappresenterebbe in ogni caso la cifra più bassa degli ultimi 24 anni!). Ma, in generale, gli specialisti in questioni cinesi sono alquanto scettici riguardo alle cifre ufficiali e, se alcuni ritengono che il paese sia già a crescita zero, sempre più numerosi sono coloro che per quest’anno si aspettano un “drastico” rallentamento dell’economia cinese, non foss’altro che per il rischio che scoppi la gigantesca bolla immobiliare (5). Fin d’ora il governo è stato costretto a intervenire in sostegno di alcune banche, mentre la borsa di Shangai scendeva in picchiata…

Comunque sia, la frenata economica della Cina, primo esportatore mondiale, è la logica conseguenza della debolezza del mercato internazionale; infatti il suo mercato interno è ancora troppo poco sviluppato per assorbile le merci che produce e la sovraproduzione si manifesta nella maggior parte dei settori sia industriali sia immobiliari. Dunque la Cina non può in alcun modo fungere da locomotiva per l’economia mondiale, come non faceva che ripetere fino a non molto tempo fa…

 

CRESCITA AMERICANA DROGATA

 

Confrontata con quella dei paesi che abbiamo appena analizzato, la situazione degli Stati Uniti sembra brillante. I commentatori borghesi non fanno che indicare il buon esempio di questo paese, patria del liberalismo economico, rispetto a un’Europa “sclerotizzata”, dove i lavoratori si opporrebbero ostinatamente alle “riforme” che i politici, troppo morbidi, non avrebbero il coraggio di imporre: che si liberalizzi il mercato del lavoro, che si sopprimano le misure sociali che ostacolano lo spirito imprenditoriale e allora l’economia salperà come in America! Questo ritornello viene cantato ai proletari in tutte le lingue d’Europa (e anche al di fuori dell’Europa).

È innegabile che gli Stati Uniti conoscano una crescita che fa invidia a tutti gli altri grandi paesi. Le ultime statistiche pubblicate indicano che nel terzo trimestre del 2014 il tasso di crescita del PIL sarebbe stato il più alto dal 2003 e che il tasso di disoccupazione continuerebbe a scendere (5,6% in dicembre, il livello più basso dal giugno 2008), in quanto gli Stati Uniti hanno creato 3 milioni di posti di lavoro nel 2014 (6). Il deficit di bilancio è inferiore al 3% del PIL, il deficit commerciale si è un po’ ridotto (la bilancia commerciale americana è in deficit dal 1976), la produzione industriale – fatto unico fra gli Stati del G7 – ha superato il livello precedente la crisi (aiutato dal boom delgas da scisto), i profitti restano elevati. Gli Stati Uniti sarebbero dunque diventati il tanto agognato motore dell’economia mondiale?

Non di questo parere è la Banca Mondiale: nelle sue previsioni pubblicate all’inizio di quest’anno, pur non prevedendo alcuna recessione, abbassa ulteriormente le sue previsioni di crescita internazionale, dovendo far fronte, a suo parere, a “rischi maggiori”; essa ritiene che l’economia mondiale viaggi con un solo motore, il motore americano, cosa gravida si pericoli (7). Alcuni fanno un parallelo con l’inizio del secolo, quando il resto del mondo era già in recessione o in forte rallentamento mentre gli Stati Uniti, spinti dal boom delle “nuove tecnologie” e di internet, e affidandosi a questa situazione, sembravano avviati verso una crescita record; sappiamo come sono andate poi le cose: nel 2001 ci fu lo scoppio della “bolla” della borsa e la caduta nella recessione, da cui gli USA sono usciti solo con il ricorso generalizzato all’”economia di credito” e alle spese militari determinate dalle guerre in Irak e in Afghanistan. La crisi del 2008 scoppiò in tutta la sua forza quando questi crediti sempre più “a rischio” (i famosi “subprime”) non poterono più essere rimborsati a causa del nuovo rallentamento economico degli Stati Uniti, con conseguente fallimento delle banche e degli istituti finanziari che li avevano utilizzati su vasta scala.

Fu necessario l’intervento massiccio degli Stati in soccorso del sistema finanziario prima per fermare la caduta e poi per far ripartire l’economia aumentando il debito pubblico; quest’ultimo ha raggiunto vertici ineguagliati in tempi di pace, ma con risultati limitati anche negli Stati Uniti. L’ex dirigente della Federal Reserve (la Fed, la Banca Centrale americana), Alain Greenspan, osservatore avveduto – ammesso che ne esistano –, afferma che, “anche se gli Stati Uniti vanno meglio del resto del mondo”, “la nostra economia gira comunque al rallentatore” (8). E, in realtà, la crescita americana è dipesa direttamente dall’iniezione di centinaia di miliardi di dollari nell’economia da parte della Fed (politica detta del “quantitative easing”, l’”attenuazione monetaria” che torna a far stampare cartamoneta e a far cadere a zero o quasi i tassi di interesse).

Questa liquidità doveva servire a stimolare la ripresa economica mediante una spinta del credito – ed effettivamente si stima, per esempio, che la ripresa del mercato automobilistico americano sia legata alla generalizzazione dei prestiti a tasso estremamente basso, compresi dei prestiti “a rischio” nello stile “subprime” agli acquirenti; ma, poiché l’intasamento dei mercati permetteva solo con difficoltà di trovare opportunità di investimento redditizie nella cosiddetta “economia reale”, è servita anche ad alimentre varie speculazioni e una crescita artificiale della borsa che minaccia di sfociare prima o poi in un  crac. Come scriveva Marx, “il sistema del credito appare come leva principale della sovraproduzione e sovraspeculazione nel commercio” perché tende al massimo il processo di riproduzione del capitale; accelerando lo sviluppa materiale delle forze produttive, “il sistema creditizio accelera lo sviluppo materiale delle forze produttive e la formazione del mercato mondiale”, ma nello stesso tempo “il credito affretta le violente eruzioni di questo antagonismo [il carattere contraddittorio della produzione capitalistica], le crisi, quindi gli elementi dissolventi del vecchio modo di produzione” (9).

L’indebitamento totale degli Stati Uniti, che era 1,9 volte il PIL nel 1980 (alla vigilia della crisi del 1981-82), è fortemente aumentato in seguito; era 4,6 volte il PIL nel 2007 e oggi è superiore a 5,2 volte il PIL (10); le cifre mostrano che i ricorso massiccio all’indebitamento è un fattore chiave della crescita dell’economia, che minaccia di ricadere in coma se privata della sua dose di droga. Ma, vivendo a credito, essa diviene sempre più fragile e soggetta alle crisi…

 

CADUTA DEL PREZZO DEL PETROLIO

 

Ma, si potrebbe obiettare, il calo del prezzo del petrolio è una reale buona notizia per la crescita economica nel mondo! È in ogni caso ciò che dicono i dirigenti politici e tutti gli economisti, che arrivano addirittura a calcolare i punti di crescita supplementare determinati da questo calo. Certamente un calo del valore delle materie prime utilizzate permette all’impresa capitalistica di abbassare le spese di produzione e, di conseguenza, sia di aumentare il proprio tasso di profitto, sia di diminuire i suoi prezzi per poter conquistare nuovi mercati. E, in un caso come nell’altro, di recuperare la salute…

Ma, in realtà, questo vero e proprio crollo dei prezzi del petrolio (quasi il 50% in meno rispetto alla fine dell’anno passato) è una conseguenza del rallentamento economico mondiale; e quindi i vantaggi economici a breve termine saranno annullati dalla nuova crisi che ciò preannuncia. Infatti, contrariamente a quanto alcuni sostengono, il calo del prezzo del petrolio non è dovuto alla volontà dei Sauditi di lottare contro i nuovi produttori americani di gas di scisto, né, sotto pressione americana, di destabilizzare la Russia, il Venezuela o l’Iran, ma dipende da una sovraproduzione e dal calo della domanda.

E d’altronde non è solo il prezzo del petrolio che scende, ma quello di tutta una serie di materie prime; il minerale di ferro è quello che ha subito il calo più forte, superiore a quello del petrolio, insieme al carbone, ma sono scesi anche i prezzi del rame e di altri metalli e di materie prime agricole come il caucciù, il cotone, lo zucchero, i cereali ecc. (11). I paesi produttori di queste materie prime, e soprattutto i paesi produttori di petrolio, per i quali si tratta spesso della principale risorsa di esportazione, si trovano in grave difficoltà. Il Venezuela, che dispone delle più importanti risorse al mondo, sarebbe sull’orlo dell’insolvibilità; il suo presidente ha fatto, senza successo, il giro dei paesi produttori proponendo un’azione concertata di riduzione della produzione per riportare il prezzo del barile a 100 dollari, prezzo che permetterebbe non di riequilibrare il bilancio (per questo sarebbe necessario che il prezzo arrivasse a 160 dollari!), ma di onorare senza difficoltà i suoi impegni finanziari. Invece oggi gli esperti stimano che nel 2015 il prezzo medio si aggirerà intorno ai 50 dollari! Allo stesso modo, per riequilibrare i propri bilanci, l’Iran avrebbe bisogno che il prezzo fosse di 130 dollari, l’Irak di 114, la Russia di 110 dollari (12)...

 

PAURA DELLA DEFLAZIONE, PAURA DELLA CRISI

 

Una nuova minaccia ossessiona i dirigenti europei: quella della deflazione, cioè dell’abbassamento dei prezzi. La riduzione dei prezzi delle merci, infatti, colpisce direttamente i capitalisti, mentre abbassa il costo della vita per i proletari. Ogni crisi economica importante vede apparire la deflazione, in quanto, per smaltire le merci che non riescono più a vendere, i capitalisti sono costretti a ribassare i prezzi, diminuendo di colpo il loro profitto, fattore indispensabile del ciclo capitalistico: la paura della deflazione non è dunque altro che la paura della crisi di sovraproduzione. Per rimediare la Banca Centrale Europea sta per impegnarsi a fondo sulla stessa via seguita dagli americani, via sulla quale per il momento aveva fatto solo alcuni passi: il quantitative easing, la creazione di liquidità per rendere il credito ancora più accessibile e far diminuire il valore dell’euro, rendendo le merci europee meno care di quelle dei loro concorrenti. Di fronte a questa prospettiva, il 15 gennaio la Banca Nazionale Svizzera ha deciso inaspettatamente di abbandonare la sua politica di una soglia minima franco svizzero/euro, correndo il rischio di precipitare l’economia del paese nella recessione e nel frattempo scatenando una tempesta sul mercato dei cambi: in pochi istanti il valore del franco svizzero è aumentato del 30% rispetto all’euro. La BNS era il più grosso acquirente mondiale di euro, seguito probabilmente dalla Banca Centrale del Giappone. I giapponesi, alle prese anch’essi con la deflazione, avevano già adottato diverse misure per far scendere il valore della loro moneta, e ciò significa che ci stiamo muovendo verso un’esasperazione della concorrenza sul mercato mondiale  già intasato dalla sovraproduzione, in cui una delle prime manifestazioni più spettacolari potrebbe essere una guerra monetaria. La Corea è una delle prime vittime del crollo dello yen, che le fa perdere fette di mercato in diversi settori a vantaggio del  Giappone.

 

ATTACCHI CONTRO IL PROLETARIATO

 

La crisi del 2008 ha prodotto un profondo deterioramento delle condizioni del proletariato nei paesi capitalistici sviluppati. Ha comportato ovviamente innanzitutto l’aumento della disoccupazione a causa dei fallimenti e delle chiusure delle fabbriche e anche diverse “ristrutturazioni”. Il tasso di disoccupazione varia secondo i paesi; le cifre fornite all’inizio dell’anno  dall’agenzia eurostat indicavano infatti un tasso di disoccupazione del 25,7% per la Grecia, 23,9% per la Spagna, 13,9% per il Portogallo, 13,4% per l’Italia, 10,3% per la Francia, contro solo il 5% per la Germania, il 5,9% per la Gran Bretagna (dati relativi a settembre) e il 5,8 per Gli Stati Uniti.

Guardando più da vicino, si può constatare che una buona parte della riduzione della disoccupazione in Gran Bretagna è dovuta ai “contratti a zero ore”: i lavoratori con questo tipo di contratto non sono più iscritti alla disoccupazione, ma non hanno alcuna garanzia di lavorare nell’arco del mese, non hanno né salario minimo, né indennità di malattia, né ferie pagate e per di più non possono lavorare per un altro datore di lavoro: sono legati mani e piedi al loro padrone come schiavi dell’antica Roma con la differenza che gli schiavi di allora avevano garantita la sopravvivenza mentre gli schiavi salariati di oggi no! Il numero di lavoratori che hanno questo tipo di contratto è aumentato del 137% fra il 2012 e il 2013; erano circa 1.400.000 all’inizio del 2014; la metà circa delle imprese con meno di 250 dipendenti fanno ricorso a questo tipo di contratto (13).

Si ritrovano anche in altri paesi situazioni simili (per esempio, in Germania, lavoretti a 450 euro al mese, senza contributi pensionistici: 4,8 milioni di lavoratori per sopravvivere non hanno altra scelta che questi contratti!).

Negli Stati Uniti, un grosso numero di disoccupati definiti “scoraggiati” non compaiono più nelle statistiche della disoccupazione: in dicembre il loro numero era stimato a non meno di 6 milioni! Se le statistiche ufficiali ne tenessero conto, il tasso di disoccupazione americano sarebbe ben superiore al 9%...

Anche i salari dei lavoratori che hanno ancora un impiego sono sotto mira. Secondo uno studio dell’organizzazione dell’ONU, Bureau International du Travail (14), fra il 2007 e il 2013 i salari in Grecia sono diminuiti di circa il 25%! Per gli altri paesi, prendendo l’anno che ha preceduto la crisi, il 2007, come base uguale a 100, i salari sono scesi del 7% in Gran Bretagna (livello 92,9 su 100 nel 2013), in Italia sono scesi al livello 94,3, in Spagna al 96,8, in Giappone al 98,3; si osserva invece un lieve aumento negli Stati Uniti (101,4), in Francia (102,3) e in Germania (102,7).

Va precisato che si tratta del salario “medio”. In realtà, secondo tutte le inchieste internazionali, le disparità salariali sono aumentate dopo la crisi, e questo riguarda in particolare gli Stati Uniti dove, d’altro canto, la riduzione del salario medio nell’industria risale a più di un decennio fa (diminuzione del 4% medio fra il 2003 e il 2013). Questo significa che, anche se è sfuggita alla disoccupazione, una buona parte del proletariato, la peggio pagata (composta da donne, minoranze come i neri negli Stati Uniti, lavoratori precari ecc.), ha subito un pesante deterioramento delle sue condizioni di vita, anche nei paesi capitalistici più ricchi.

Questa situazione non è destinata a cambiare. Infatti le istituzioni economiche internazionali come l’OCSE, la Banca Mondiale o il FMI, il cui ruolo è quello di sintetizzare le aspirazioni capitalistiche, chiedono di accentuare le misure a favore del settore privato e le “riforme per ridurre le limitazioni strutturali” e le “rigidità del mercato del lavoro” che costituiscono un “freno alla crescita”; ciò che questo gergo degli economisti borghesi significa è che bisogna piegare ancor di più i proletari ai bisogni del capitale, in particolare colpendo le soluzioni “arcaiche” come i contratti a tempo indeterminato, le indennità di disoccupazione “troppo generose”, le pensioni troppo elevate e rivalutate periodicamente in base al costo della vita, un’età pensionistica troppo precoce ecc.

In poche parole. la ricaduta dell’economia mondiale in una nuova recessione significherà inevitabilmente un aggravamento degli attacchi contro il proletariato. Spetterà al proletariato incominciare a reagire a questa continua gragnuola di batoste che lo colpiscono da anni, dando vita a movimenti di lotta decisi per la difesa dei propri interessi.

Come noi dicevamo nella conclusione di uno studio del partito dopo la recessione del 1958: “Non vi è da scegliere tra capitalismo senza crisi e capitalismo in crisi, per i proletari. Vi è da lottare – e la lotta non sorge dal solo dato della crisi, ma da una forza politica tesa alla dittatura, nucleo della scoperta di Marx – per farla finita con il capitalismo con crisi o senza crisi, deflato e enfiato”. (15)

Solo il ritorno alla lotta indipendente di classe condotta da organizzazioni proletarie rosse e diretta dal partito di classe potrà spezzare il ciclo infernale del capitalismo che, di crisi in crisi, semina guerre e distruzioni di ogni genere sul pianeta, dirigendosi inesorabilmente verso un terzo conflitto mondiale.

 

 


 

 

(1) www.lesoirbe/712672/article/economie/2014-11-20/une-recession-mondiale-65-risque. L'interesse di questo genere di previsioni pseudo-scientifiche è di mostrare l'ìinquietudine imperante in certi ambienti borghesi

(2) Cfr. «Perspectives de l’économie mondiale», ottobre 2014. www. imf.org/ external/ french/ pubs/ft/ weo/ 2014/02/ pdf/ textf.pdf

(3) Cfr. Eco Perspectives, BNP Paribas, 4° trimestre 2014.

(4) www.novethic.fr/empreinte-sociale/droits-humains/isr-rse/inde-les-ong-accusees-de-casser-la-croissance-142649.html

(5) www. boursorama. com/ actualites/ vers- un- ralentissement- brutal- de -l-economie-chinoise-en-2015— par- jean-luc- buchalet- cercle- des- analystes- independants

(6) Cfr. Le Monde, 11-12/1/2015

(7) www.worldbank.org/en/news/press-release/2015/01/13/global-economic-prospects-improve-2015-divergent-trends-pose-downside-risks

(8) www.bloomberg.com/news/2014-12-30/greenspan-throws-a-wet-blanket-on-hopes-for-u-s-growth-breakout.html

(9) Vedi K. Marx, Il Capitale, Libro III, capitolo 27. UTET, Torino 1987 p. 558.

(10) criseusa.blog.lemonde.fr/2014/05/28/endettement-et-croissance-aux-usa-les-illusions-keynesiennes-2eme-partie/

(11) Cfr. Les Echos, 30/12/2014

(12)  Cfr. Financial Times, 9/11/2014. L’estrazione del petrolio dalle sabbie bituminose canadesi non è redditizia che dai 100 dollari al barile; dai pozzi in acque profonde (Angola, Brasile, Norvegia, Gran Bretagna) a partire dagli 80 dollari; quanto al petrolio di scisto americano, i suoi costi di produzione variano dai 40 ai 115 dollari al  barile. Di conseguenza l’industria petrolifera diminuisce fortemente i suoi investimenti e procede a migliaia di licenziamenti.

(13) www.ons.gov.uk/ ons/ rel/ lmac/ contracts- with- no- guaranteed- hours/ zero- hours- contracts/ art-zero-hours.html#tab-4— How-many-no-guaranteed-hours-contracts—NGHCs

(14) ILO, «Global Wage Report 2014-2105», p.7.

(15) Cfr. il programma comunista, n. 9/1958, Rapporto alle riunioni di Cosenza, Ravenna e Piombino: Il corso del capitalismo mondiale nella esperienza storica e nella dottrina di Marx.

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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