Il mito della Resistenza partigiana tiene accesa la fiamma del nazionalismo, del patriottismo, del sostegno al potere della classe dominante borghese, sotto il cui giogo è prigioniera la classe del proletariato, in pace come in guerra

(«il comunista»; N° 139;  Giugno 2015)

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25 aprile 1945-2015. Nel settantesimo di quella che viene abitualmente chiamata in Italia la “Liberazione dall’occupazione nazifascista” o "la Resistenza", le istituzioni repubblicane – a partire dalla Presidenza della Repubblica –  hanno celebrato insieme la fine della seconda guerra mondiale e il definitivo crollo del regime fascista italiano e del regime nazista tedesco. Dall’8 settembre del 1943 in poi – con il crollo del governo fascista e il voltafaccia dell’Italia che da alleata della Germania nazista diventa alleata di Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti e Unione Sovietica – fino alla fine della guerra imperialista, in Italia si sono costituite delle formazioni armate partigiane che combatterono contro l’esercito fascista, riorganizzatosi nella Repubblica di Salò, e contro l’esercito tedesco che, dopo il voltafaccia italiano dell’8 settembre, aveva occupato militarmente lo stivale.

Tra i diversi movimenti partigiani sostenitori degli Alleati e delle forze nazionali democratiche, formatisi durante la seconda guerra imperialista in Europa, quello italiano è stato secondo, per importanza, solo a quello jugoslavo. Composto da aderenti al Pci, al Psi, alle forze socialdemocratiche, repubblicane e democristiane, oltre che dagli anarchici, e coinvolgendo, soprattuto nell’ultimo anno di guerra molti giovani che si sottraevano alla coscrizione forzata nella Repubblica di Salò, il grosso del movimento partigiano italiano ha effettivamente contribuito alla “liberazione” del nord italiano dalle truppe di occupazione tedesche. Non va dimenticato, però, che, vinta l’occupazione tedesca, si è instaurata in Italia l’occupazione da parte delle truppe americane e britanniche che, risalendo dalle regioni meridionali, entrarono in tutte le più importanti città italiane come i “veri liberatori”.

La “lotta antifascista” non poteva che aprire le porte alla democrazia post-fascista, tanto desiderata dopo un ventennio di totalitarismo aperto e dopo sei anni di guerra. La “restaurazione della democrazia” è stato il vanto principale di tutti i partiti antifascisti, e soprattutto del partito “comunista” italiano dopo di aver rinnegate completamente le proprie origini marxiste; è quest’ultimo partito, una volta stalinizzatosi, che si prese il carico maggiore dell’opera degenerante del movimento operaio che nel primo dopoguerra tendeva a porre la propria forza di classe al servizio della rivoluzione comunista e che, all’epoca, veniva fermato e deviato grazie all’opera convergente dell’opportunismo socialdemocratico e del fascismo.

L’antifascismo democratico, infatti, proprio perché basa i suoi programmi, le sue linee politiche e le sue prospettive sociali nel quadro del capitalismo (delle sue leggi economiche e delle sue sovrastrutture politiche), non poteva che essere il lubrificante ideologico e politico della riorganizzazione economica e politica del potere borghese postbellico. La vittoria militare degli Stati “democratici” sugli Stati “fascisti” non poteva che ripristinare il sistema politico democratico, sostituendo il metodo di governo fascista – a partito unico e dichiaratamente totalitario – col metodo di governo democratico che, nel corso storico del potere borghese, si è rivelato come il sistema di potere più longevo. Con esso, infatti, la classe dominante borghese riesce ad illudere le masse proletarie, decretando la “libertà di organizzazione e di riunione” e coinvolgendo i partiti operai nelle istituzioni parlamentari e governativi, che i loro interessi possono essere difesi in modo pacifico ed efficace attraverso il “confronto” e i “dibattiti” in seno al parlamento in cui si discutono e si votano le leggi che riguarderebbero “tutti i cittadini” o andando al governo, come orami succede da anni.

La verità però è ben diversa da quella che la borghesia democratica ha propagandato a piene mani una volta vinta la guerra mondiale. Non è la democrazia liberale che la borghesia ha ripristinato dopo il ventennio fascista; per quanto la democrazia liberale non fosse meno antiproletaria del fascismo, essa rispondeva ad un periodo storico in cui il potere borghese non si era ancora sviluppato nel potere imperialista, ossia nel potere in cui dominano totalitariamente i grandi monopoli, i grandi trusts che controllano il mercato mondiale, nel potere in cui gli Stati sono ancor più al servizio del grande capitale concentrato e centralizzato. La democrazia liberale, rappresentata dai governi inglese, francese, americano, era riuscita a corrompere economicamente e ideologicamente, con il patriottismo e col nazionalismo, un proletariato che tendeva alla lotta di classe internazionale e alla rivoluzione socialista, attraendo nella sfera delle proprie istituzioni i partiti socialisti aderenti alla Seconda Internazionale e, con ciò, rompendo la tendenziale unificazione del proletariato nella lotta antagonista contro la borghesia dei propri paesi e verso i fini rivoluzionari che l’Internazionale Comunista ai tempi di Lenin contrapponeva ai poteri borghesi e ad una eventuale seconda guerra imperialista. La sconfitta della rivoluzione proletaria in Russia e in Europa facilitò la irreggimentazione delle masse proletarie negli eserciti nazionali mandate a scannarsi le une contro le altre sui diversi fronti di guerra.

Alla fine della prima guerra imperialista, la democrazia liberale non fu in grado di seppellire totalmente le masse proletarie nella girandola delle elezioni, soprattutto nei paesi vinti e particolarmente devastati dalla guerra, che si ribellavano alle tremende conseguenze della guerra (in paesi come la Germania, l’Austria, l’Italia, la Serbia), mentre in Russia ancora durante la guerra imperialista, nel 1917, il proletariato non solo guidava la rivoluzione antizarista ma la elevava a rivoluzione antiborghese, e, trascinando dietro di sé le grandi masse contadine povere, la faceva finita con lo zarismo, sbaragliava il potere borghese che sostituiva il potere zarista, interrompeva la partecipazione alla guerra imperialista e instaurava il proprio potere di classe, la dittatura proletaria guidata ed esercitata dal partito bolscevico di Lenin, dichiarando apertamente la guerra di classe a tutte le borghesie del mondo. Il pericolo rosso rappresentato dal proletariato russo vittorioso si diffondeva in tutta Europa, travalicava i suoi confini andando ad influenzare le masse indigene dei paesi coloniali e si ergeva di fronte ai poteri delle borghesie imperialiste più forti come il vero e unico antagonista mondiale da battere. Di fronte ad un pericolo di questo genere la classe dominante borghese in Europa, pur esausta a causa dei 5 anni di guerra, doveva trovare mezzi più efficaci per combattere un proletariato che rialzava la testa e si muoveva sul terreno dello scontro decisivo per il potere politico.

La democrazia liberale doveva passare il testimone ad un metodo di governo che fosse in grado di reprimere in modo esemplare le azioni di classe del proletariato, ma, nello stesso tempo, fosse in grado di rispondere alle esigenze immediate di vita del proletariato che negli anni del dopoguerra avrebbero potuto dare la spinta decisiva al movimento rivoluzionario. La borghesia italiana, forte di una lunga storia di voltagabbana e di sottigliezze gesuitiche, trovò un metodo che si rivelò una “soluzione”: il fascismo, ossia un movimento ideologicamente e socialmente piccolo-borghese che mette a frutto l’esperienza opportunista dell’interventismo in guerra, col suo portato di violenza e nazionalismo, legandola alla prospettiva riformista propagandata per tanti anni dai partiti socialisti. Il fascismo, caratterizzato dalla teoria, e dalla pratica, della collaborazione fra le classi, riesce a far breccia nella classe dominante borghese che lo adotta come metodo di governo utile non solo a non perdere il controllo del potere politico centrale, ma a dare il colpo di grazia al movimento di classe del proletariato che le forze del riformismo socialista aveva  indebolito e disorientato, ma non vinto del tutto. Dopo aver usato la violenza dello squadrismo fascista, tollerata e protetta dalle forze militari dello Stato, per distruggere sedi, tipografie e materiali del partito socialista, e del partito comunista, e avere nello stesso tempo organizzato la partecipazione alle elezioni ed essere entrato nel parlamento democratico, il fascismo dimostrò che il potere borghese, per difendersi dalla pericolosa pressione rivoluzionaria del movimento proletario, è in grado di utilizzare al contempo la legalità e l’illegalità, le forze dell’ordine e le forze del “disordine”, la violenza più brutale e ingiustificata e il mezzo democratico e parlamentare. Il fascismo, sostituendo il metodo della democrazia liberale al governo dello Stato borghese, l’ha di fatto seppellita.

La dimostrazione che la democrazia borghese ha completamente perso i suoi caratteri “liberali”, cambiando pelle irrimediabilmente a causa dello sviluppo imperialistico del potere politico che difende un potere economico che tende a concentrarsi nei grandi trusts, è data proprio dalla democrazia post-fascista che del fascismo ha ereditato il metodo politico fondamentale del dominio borghese sul proletariato: la collaborazione fra le classi. Nemmeno il fascismo poteva continuare a reprimere ciecamente il proletariato per poterlo controllare in modo efficace; doveva cercare di alimentare la concorrenza fra proletari con un metodo diverso e, dopo la prima fase di brutale e violenta repressione del movimento proletario organizzato, doveva passare ad un metodo più coinvolgente, rispetto al precedente periodo; la pratica della collaborazione obbligatoria fra proletariato e capitalisti per il bene dell’economia aziendale e per il bene dell’economia nazionale, si dimostrò la carta vincente. Ma è stata una carta vincente anche per la democrazia post-fascista.

Rivendicare il ritorno alla democrazia, dopo il fascismo, come hanno fatto tutti i partiti operai opportunisti, a cominciare dai partiti stalinisti, in realtà è stato come dare il via libera al potere borghese non solo per la “ricostruzione post bellica”, ma soprattutto per la conservazione del potere in eterno, guadagnando in cambio l’istituzionalità dei “nuovi” sindacati operai e dei “nuovi partiti” attraverso cui si toglieva al proletariato la prospettiva di difesa di classe e di riorganizzazione indipendente. La collaborazione fra le classi è stata fatta passare come una “conquista” del proletariato, mentre non era che la continuazione della stessa politica sociale della borghesia fascista, solo col mezzo “democratico”.

Il 25 aprile italiano non è che la celebrazione dell’ennesima vittoria della classe dominante borghese sul proletariato, la celebrazione della collaborazione fra le classi contro la lotta della classe proletaria nella prospettiva della sua effettiva emancipazione dall’oppressione salariale e capitalistica. Alzare le bandiere rosse, mescolate alle bandiere tricolori, nelle manifestazioni del 25 aprile è un ulteriore sfregio alla tradizione di lotta del proletariato il cui sangue è stato fatto versare non per la sua rivoluzione e per l’abbattimento del regime borghese, ma per prolungare nel tempo il tormento del lavoro salariato, l’oppressione rappresentata principalmente dallo sfruttamento della forza lavoro proletaria in ogni angolo del mondo.

Lottare contro il fascismo, cioè contro un particolare metodo di governo del dominio di classe della borghesia, avrebbe potuto rappresentare per il proletariato la fase più chiara e decisiva della sua lotta rivoluzionaria perché col fascismo la classe borghese aveva gettato la maschera, aveva apertamente dichiarato la sua guerra di classe contro il proletariato, aveva strappato ogni velo democratico a copertura di tutti gli inganni ideologici e politici con cui la classe borghese alimentava la sua influenza sul proletariato, sia direttamente sia attraverso le organizzazioni riformiste. Le indicazioni del giovane Partito comunista d’Italia nel 1921, guidato dalla Sinistra comunista, giovane ma temprato da una lunga battaglia ideologica e pratica contro le tendenze riformiste, erano inserite nella prospettiva della lotta rivoluzionaria, dunque nell’accettazione da parte proletaria del terreno dell’aperto scontro di classe con le forze illegali e legali dello Stato borghese in una guerra civile che la stessa borghesia aveva dichiarato armi alla mano.

Il fascismo era la faccia dura della controrivoluzione, ma si fece sempre più temerario nella misura in cui il proletariato veniva indebolito e disorientato dalle forze dell’opportunismo, sia sul piano politico che sindacale. Come vigliaccamente le squadre fasciste colpivano i proletari più isolati nelle campagne e nelle piccole città, così si proteggevano dietro le forze di polizia e dell’esercito e dietro la magistratura, tutte le volte che le forze proletarie rispondevano agli attacchi con vigore e successo. L’obiettivo della democrazia borghese al potere e delle squadre fasciste era lo stesso: colpire e piegare le forze proletarie, disorganizzarle e renderle inoffensive. Una volta vinta la resistenza di classe del proletariato, e passato il pericolo di una sua insurrezione rivoluzionaria, il fascismo si poteva prendere il lusso di mettere in pratica la politica riformista al fine di mantenere il dominio borghese sul proletariato, concedendogli quella serie di “garanzie” sociali che il socialismo riformista e pacifista aveva propagandato per tanti anni. Grazie al fascismo, nacquero gli ammortizzatori sociali.

Ma il potere borghese, pur vestito dell’ideologia democratica che ha per base il feticcio di una eguaglianza del tutto astratta tra i possidenti di ogni ricchezza e i lavoratori salariati possessori soltanto della propria forza lavoro che, oltretutto, soltanto i possidenti di ogni ricchezza possono “comprare”, è un potere in realtà estremamente violento – come dimostrano le continue guerre di rapina che scoppiano in ogni parte del mondo.

Nell’esperienza storica di dominio di classe, il potere borghese ha potuto trarre una lezione importante: dal punto di vista del controllo sociale del proletariato e della possibilità di piegarlo per lungo tempo alle esigenze di dominio capitalistico è molto più efficace il metodo democratico che non il metodo dell’aperto totalitarismo fascista. Ciò non toglie che il dominio borghese sulla società sia esercitato come una dittatura di classe – sul piano economico come su quello politico e militare – anche se più o meno vestita da forme di tipo democratico, a seconda della forza economica e militare di ogni borghesia nazionale. Ma sempre di dittatura di classe si tratta, perché la vita di ogni essere umano in ogni paese del mondo, in questa società, dipende esclusivamente dai rapporti di produzione e di proprietà borghesi e dalle “esigenze” del profitto capitalistico!

Inneggiare dunque alla “vittoria della democrazia sul fascismo” non ha altro significato che parteggiare per un metodo borghese di oppressione sociale piuttosto che un altro. Ineggiare alla “resistenza”, ossia al movimento partigiano che lottò contro il fascismo per ristabilire la democrazia perduta, sostenendo che questa “nuova democrazia”, come la chiamò il Pci stalinista di Togliatti, sarebbe stata la base per una nuova epoca di progresso generale e di avvicinamento del proletariato al “socialismo”, faceva parte dell’ampia operazione di conservazione borghese che gli imperialismi vincitori della seconda guerra mondiale avevano messo in atto per poter irreggimentare i propri proletariati, dopo averli coinvolti e massacrati nella più spaventosa guerra di rapina mondiale, nella “ricostruzione postbellica” a tutto vantaggio di un nuovo ciclo di sfruttamento capitalistico planetario all’ennesima potenza. Con il primeggiare della nuova ondata opportunista, che prese il nome di stalinismo, si scardinarono le basi teoriche e politiche dei partiti comunisti marxisti e dell’Internazionale Comunista di Lenin, contribuendo direttamente a massacrare la vecchia guardia bolscevica nella Russia rivoluzionaria e nel mondo.

Si facilitò in questo modo la vittoria della controrivoluzione borghese sul proletariato rivoluzionario sia al potere, come in Russia, sia nei paesi europei, e soprattutto in Germania, dove il proletariato aveva dimostrato già durante la prima guerra mondiale un formidabile slancio rivoluzionario e in Italia, dove il proletariato, pur meno numeroso rispetto a quello tedesco, aveva maturato una grande esperienza classista e poteva contare su una salda e teoricamente preparata corrente politica marxista di sinistra, la sola poi che negli anni successivi saprà – senza mai concedere nulla alle lusinghe della democrazia e della socialdemocrazia – difendere i cardini teorici, programmatici, politici, tattici e organizzativi del marxismo rivoluzionario sul solco di Lenin e del bolscevismo autentico.

Come il fascismo fu l’erede del riformismo socialdemocratico, mettendo in pratica la politica sociale degli ammortizzatori sociali, così la democrazia post-fascista fu l’erede della politica di collaborazione di classe messa in pratica dal fascismo. Il proletariato, dal punto di vista della prospettiva di classe e della sua lotta per l’emancipazione dal lavoro salariato, ha tutto da perdere mettendosi al servizio degli interessi della democrazia, perché questi ultimi si difendono soltanto mantenendo lo sfruttamento del lavoro salariato, quindi l’intero arco dei privilegi della classe dominante borghese su tutti i piani, economico, sociale, politico, ideologico.

Per la nostra corrente, la Sinistra comunista d’Italia, la critica al partigianismo è sempre stata molto ferma perché, di fondo, esso – “di sinistra” o “di destra” che fosse – spinge il proletariato a lottare per la causa del suo nemico di classe, per una frazione della borghesia dominante, deviandolo dall’unica lotta che risponde ai suoi interessi reali, la lotta di classe. 

Nel “filo del tempo” intitolato Marxismo o partigianismo, del 1949, possiamo leggere, tra gli altri, i seguenti brani: 

“Al difficile cammino della classe lavoratrice socialista, la degenerazione opportunista 1914-’18, battuta vittoriosamente dal bolscevismo, ossia dal marxismo nella sua vera concezione, sta come la degenerazione partigianesca 1939-1945. Nella prima crisi si riuscì a ritornare al nostro metodo specifico di lotta fondando i grandi partiti rivoluzionari autonomi. Dopo la seconda il proletariato è sotto la minaccia di una nuova infezione partigiana”.

In un certo senso, dal punto di vista della conservazione sociale capitalistica, non hanno del tutto torto i borghesi che propongono di assimilare i partigiani “rossi” che combatterono per ripristinare la “democrazia”, ai partigiani “neri” che combatterono sotto le bandiere della Repubblica di Salò: “Il partigiano è quello che combatte per un altro, se lo faccia per fede per dovere o per soldo poco importa”, affermavamo nel filo del tempo ora ricordato. Il militante del partito rivoluzionario è il lavoratore che combatte per sé stesso e per la classe cui appartiene, mai per il nemico di classe, si presenti in qualsivoglia veste.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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