Nei regimi borghesi, totalitari o democratici, la repressione va fino alla tortura e all’assassinio: in Egitto, ma anche in Italia

(«il comunista»; N° 142;  Febbraio 2016)

 Ritorne indice

 

 

La drammatica morte di Giulio Regeni, ricercatore italiano che negli ultimi mesi svolgeva delle inchieste sul movimento sindacale indipendente egiziano per la sua tesi di dottorato all’Università di Cambridge, con risvolti di carattere internazionale, mette inevitabilmente in evidenza una prassi – la tortura e l’assassinio legati strettamente alla repressione statale – che è diventata quasi una norma anche in molti paesi formalmente democratici. Era uno studioso molto giovane, 28 anni, molto apprezzato, conosceva bene l’arabo, scriveva per “il manifesto”, in passato aveva collaborato per un’azienda di servizi geostrategici ad Oxford. Il Medio Oriente, e in particolare l’Egitto, erano una sua vera passione; e da settembre dello scorso anno si trovava al Cairo proprio per condurre gli studi che gli servivano per la tesi. E’ evidente che per condurre queste inchieste doveva prendere contatto con persone ed organizzazioni che non erano e non sono ben viste dai regimi al potere in Egitto, dal deposto Mubarak a quello della Fratellanza Musulmana di Morsi,  all’attuale dell’ex generale al-Sisi, che è al potere dal luglio del 2013, dopo aver guidato un colpo di Stato col quale ha fatto fuori il governo Morsi, tra l’altro democraticamente eletto. Il governo Morsi, pur cavalcando i movimenti di ribellione anti-Mubarak legati alle cosiddette “primavere arabe”, venne a sua volta contestato da imponenti movimenti di piazza che reagivano alle condizioni di vita e di lavoro peggiorate a causa della gravissima crisi economica che aveva gettato circa la metà degli 85 milioni di abitanti nelle condizioni di estrema povertà. Il timore che i movimenti di piazza si trasformassero in movimenti sociali violenti, nei quali il proletariato egiziano avrebbe potuto ridiventare protagonista, ha spinto la frazione maggioritaria della borghesia egiziana a sostenere una soluzione militare della crisi politica: perciò il generale al-Sisi ha preso in mano il potere dopo aver destituito Morsi, facendosi passare come la soluzione della crisi politica e sociale e come “garante” delle aspirazioni popolari espresse dai movimenti che sfociarono nella imponente manifestazione di Piazza Tahrir del 25 gennaio 2011.  

Già il governo Morsi si era distinto per la repressione violenta contro gli scioperi e le manifestazioni di strada, e per aver costretto i nuovi sindacati a sottostare a controlli di ordine burocratico e finanziario, prevedendo misure contro il pluralismo sindacale ecc. (1). Il governo militare di al-Sisi, al di là dell’apparente bonarietà verso i movimenti di piazza anti-Morsi, non ha fatto, in realtà, che proseguire nella stessa direzione, rafforzando le misure repressive e reazionarie, contro il proletariato e contro tutte le voci di opposizione. I metodi democratici non si dimostravano adeguati per convincere le masse proletarie a subire ancora enormi sacrifici “per l’amore dell’Egitto” (2); spinte a conquistarsi la possibilità di organizzarsi in modo indipendente dallo Stato e illuse dalla stagione delle grandi manifestazioni pacifiche, le masse, con le famose “primavere arabe” con le quali credevano di essersi guadagnate una libertà che sotto il regime di Mubarak non avevano, sono ripiombate, nel giro di pochissimi anni, in una situazione peggiore di quella dei tempi di Mubarak. La repressione degli scioperi e dei movimenti sociali che tentavano e tentano di sottrasi al ferreo controllo dello Stato, e l’eliminazione anche fisica degli attivisti e degli oppositori ritenuti più pericolosi, dal luglio del 2013 è ricominciata a pieno regime. E’ un classico della classe dominante borghese: appena i metodi democratici si dimostrano poco o per nulla efficaci rispetto alle pressanti esigenze del profitto capitalistico e del potere costituito, vengono semplicemente messi da parte. Ma la democrazia ha un suo fascino particolare, e la classe dominante borghese lo sa per esperienza storica: anche quando la calpesta e la ridicolizza, la borghesia continua ad alimentarne “il bisogno” soprattutto attraverso gli strati della piccola borghesia, degli intellettuali, dei bottegai, perché – in assenza di movimenti proletari di classe – quel “bisogno di democrazia” continua ad illudere le masse proletarie e popolari alla ricerca di un riscatto sociale, attirandole sul melmoso terreno della collaborazione di classe, della “partecipazione” pacifica a soluzioni politiche che in realtà ribadiscono il loro sfruttamento.

In Egitto, come in molti paesi democratici, i compiti di repressione statale sono suddivisi tra forze diverse: la polizia, i servizi segreti, l’esercito. E’ piuttosto noto che gli Scorpions - sono chiamati in questo modo gli agenti della polizia politica egiziana -  agiscono abitualmente in abiti civili e operano al di fuori di ogni legge. Secondo Human Right Watch (3), “gli ufficiali di polizia sono responsabili di decine di scomparsi”, 160 in soli tre mesi del 2015. Secondo un’altra organizzazione indipendente egiziana, l’Egyptian Commission for Rights and Freedom (Ecrf), in tutto il 2015 sono oltre 1.700 le persone sparite (attivisti, avvocati, giornalisti, semplici cittadini) dopo essere state prelevate in strada, in casa o nei posti di lavoro (4). Dopo il golpe contro i Fratelli Musulmani, i casi provati di tortura in carcere sono stati 465; “oggi in Egitto”, secondo una ong citata dal Corriere della sera, “ci sono almeno 60 mila prigionieri politici” (5) e non v’è dubbio che tra di loro sono numerosi gli organizzatori dei nuovi sindacati indipendenti nei quali agiscono camuffati molti infiltrati della polizia  politica.

Giulio Regeni, il 25 gennaio, quinto anniversario della cosiddetta “rivoluzione di piazza Tahrir”, doveva raggiungere degli amici nei pressi di quella piazza, poco dopo le otto di sera. Tutto il centro del Cairo era sorvegliatissimo dalla polizia (in divisa e in borghese) che aveva il compito di impedire qualsiasi assembramento; nessuno sarebbe passato inosservato. Di manifestazioni, ovviamente, nemmeno l’ombra, tanto più che nei giorni precedenti la polizia aveva già prelevato e arrestato molti oppositori o sospettati di opposizione. Ma Regeni non arriverà mai all’appuntamento; scompare, nessuno ne sa più nulla, il suo cellulare risulta muto. Come in tanti altri casi, qualcuno lo preleva, lo sequestra, lo nasconde. Per nove giorni non si hanno notizie; la polizia egiziana, il governo egiziano dichiarano di cercarlo ma di non trovarlo. Il 3 febbraio, a nove giorni dalla sua scomparsa, il cadavere di Giulio Regeni viene fatto trovare, seminudo, sul ciglio di una strada che dal Cairo porta ad Alessandria - sulla stessa strada dove già altri cadaveri di oppositori al regime sono stati trovati - a 20 chilometri dal centro. Il cadavere riportava ferite e segni di pestaggi che non potevano essere inflitti se non da tortura prolungata. Nello stesso  periodo al Cairo era giunta una delegazione del governo italiano, capeggiata dal ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi, con 60 imprenditori italiani: l’obiettivo, ovvio, era di stilare contratti e accordi economici per diversi miliardi di euro. La vicenda Regeni ha mandato all’aria il lucroso consesso, e la visita ufficiale è stata annullata, e rimandata.

Inutile dire che le autorità egiziane, riguardo la morte di Giulio Regeni, si sono profuse in una serie di ipotesi assurde: prima ipotizzando un “incidente stradale”, poi un atto della criminalità, poi un’aggressione da parte dei Fratelli Musulmani, ma sempre dichiarando che il giovane ricercatore non era mai stato arrestato, non era mai finito nella mani della polizia!

Fin dai primi momenti della sua scomparsa tutti, amici, conoscenti, giornalisti hanno messo in evidenza che più le ore e i giorni passavano e più il timore di trovarlo cadavere si faceva certezza: era fin troppo conosciuta la pratica repressiva e torturatrice della polizia politica che non si faceva alcuno scrupolo se la persona di loro interesse era straniera. I contatti che il Regeni aveva con gli oppositori del regime, e in particolare i dati e le notizie che raccoglieva negli ambienti del sindacalismo indipendente, potevano destare un ben preciso interesse da parte della polizia politica egiziana, tanto più se tutte queste notizie venivano usate per scrivere articoli di denuncia da pubblicare (e pubblicati) in Italia, o magari in Gran Bretagna o negli Stati Uniti. E’ molto probabile, anche se le prove concrete sarà difficile che saltino fuori, che sia stato torturato proprio per fargli sputare nomi, organizzazioni, luoghi, attività, di cui era venuto a conoscenza grazie alle sue inchieste e alla fiducia che la sua attività di studioso appassionato e partecipe aveva guadagnato presso quegli ambienti. Non è un caso che dagli ambienti dell’opposizione al regime di al-Sisi si siano levate per lui parole di cordoglio e di vicinanza come fosse stato da sempre uno di loro.

Naturalmente, da parte del ministro degli Esteri italiano e dei nostri politici superdemocratici l’imbarazzo per questa vicenda è stato notevole. Hanno tacitato la propria coscienza concordando con le autorità egiziane l’invio di una squadra di investigatori italiani e sollecitando il governo egiziano ad una “piena collaborazione” per trovare “la verità”,  dichiarando che “non ci basterà una verità di comodo”; che altro? Gli accordi economici per i quali la nutrita delegazione del governo e di capitalisti italiani era andata al Cairo, a causa di questa vicenda sono stati rimandati, e alcuni di questi accordi potrebbero rischiare di saltare del tutto. Che disdetta! Di ipotesi ne sono state fatte davvero tante. Il cadavere di Regeni, invece di scomparire del tutto, viene fatto trovare proprio nei giorni in cui la delegazione italiana è giunta al Cairo... E’ sembrato un ritrovamento sospetto, fatto apposta per mettere in difficoltà non solo l’incontro di vertice tra Italia ed Egitto, ma anche per mettere zizzania all’interno dei servizi segreti egiziani. Sia quel che sia, sta di fatto che il potere borghese - vestito finché si vuole di democrazia, quando percepisce che le masse popolari e, in particolare, le masse proletarie, possono sfuggire al controllo sociale e, con il loro movimento, ostacolare lo svolgimento regolare, o comunque previsto, dei meccanismi di sfruttamento capitalistico e diventare, perciò, un pericolo sociale - mette in atto ogni forma di violenza, legale e illegale, sia come eventuale risposta ad attacchi all’ordine costituito, sia come atti di prevenzione affinché quegli attacchi non possano attuarsi.

I paesi del Medio Oriente sono un’arena in cui questi metodi sono stati, sono e saranno ancora messi in pratica sistematicamente perché la loro giovane età capitalistica li ha inseriti in un mondo in cui se la devono vedere con i paesi di vecchio capitalismo, ex potenze coloniali ma attuali potenze imperialistiche che hanno sempre in mano posizioni di privilegio sul mercato mondiale grazie alle quali riescono ancora a scaricare sui paesi ex coloniali, e comunque più deboli, una buona parte degli effetti delle contraddizioni del modo di produzione capitalistico, a cominciare dalle crisi economiche e finanziarie. Ma sono le borghesie dominanti nei paesi di vecchio capitalismo che, nell’epoca del colonialismo più brutale, hanno insegnato alle giovani borghesie dei paesi ex coloniali l’ampia gamma di metodi  repressivi, dai più brutali ai più raffinati. E di certo questi metodi non sono appannaggio dei soli regimi autoritari in Medio Oriente, in Africa, in Sudamerica o in Asia. Le carceri americane, italiane, tedesche o giapponesi non hanno nulla da invidiare alle carceri argentine, cilene, egiziane, iraniane, russe o cinesi. In determinati periodi può essere differente tra le une e le altre il numero dei casi di brutalità e di tortura contro gli “oppositori” del momento, ma la tortura, spesso del tutto gratuita, accomuna tutti i poteri borghesi del mondo.

Vogliamo ricordare che cosa è successo, nell’Italia superdemocratica, alla Scuola Diaz e nel carcere di Bolzaneto durante il G8 di Genova del 2001? Vogliamo ricordare la fine fatta fare a Stefano Cucchi nel 2009, a Federico Aldrovandi nel 2005, a Giuseppe Uva nel 2008, solo per citare esempi recenti non di pericolosissimi “terroristi” ma di persone normali morte dopo essere state fermate dalla polizia o dai carabinieri? L’Italia è un paese talmente democratico che, nelle sue leggi, il reato di tortura non è previsto: quando viene attuata essa passa per “eccesso di forza” o “eccesso di uso delle armi”...

Ma, come sempre, e ovunque, gli affari innanzitutto!

L’Egitto, da decenni, rappresenta per il capitalismo italiano una miniera di potenziali affari, a partire dal gas e dal petrolio. Lo scorso 30 agosto 2015, su “la Repubblica” si poteva leggere quanto segue: “Se i rilievi saranno confermati, Eni potrebbe festeggiare la più grande scoperta di gas mai effettuata in Egitto e nel mar Mediterraneo, che potrebbe diventare una delle maggiori scoperte di gas a livello mondiale. Il colosso italiano dell’energia ha individuato infatti un giacimento nell’offshore egiziano del Mar Mediterraneo, presso il prospetto esplorativo denominato Zohr. Dalle informazioni geologiche e geofisiche disponibili, e dai dati acquisiti nel pozzo di scoperta, ci sarebbe un potenziale di risorse fino a 850 miliardi di metri cubi di gas in posto (5,5 miliardi di barili di olio equivalente) e un’estensione di circa 100 chilometri quadrati”. Il che faceva dichiarare all’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi: “Questa scoperta storica sarà in grado di trasformare lo scenario energetico di un intero paese, che ci accoglie da oltre 60 anni. L’esplorazione si conferma al centro della nostra strategia di crescita: negli ultimi 7 anni abbiamo scoperto 10 miliardi di barili di risorse e 300 milioni negli ultimi sei mesi, confermando così la posizione di Eni al top dell’industria. Questa scoperta assume un valore ancora maggiore poiché fatta in Egitto, paese strategico per Eni, dove possono essere sfruttate importanti sinergie con le installazioni esistenti permettendoci una rapida messa in produzione” (6). La morte di un giovane ricercatore italiano, potrà mai mettere in pericolo rapporti economici di tal portata? Altri progetti sono in ballo, alcuni legati strettamente alla scoperta dell’Eni: sono previsti 6 nuovi porti a nord e a sud del nuovo Canale di Suez, e naturalmente gasdotti e le necessarie infrastrutture per l’estrazione, la lavorazione e l’esportazione di gas. Che i rapporti tra l’Egitto e l’Italia siano particolari è dimostrato anche dal fatto che il premier italiano Renzi è stato il primo leader occidentale ad incontrare il presidente al-Sisi dopo la sua elezione, e l’unico leader occidentale, un anno fa, a partecipare al vertice economico di Sharm el-Sheikh nel quale il presidente egiziano ha lanciato i progetti delle sue grandi opere.

E’ nei superiori interessi capitalistici che legano i due paesi, che la vicenda Regeni, pur nella sua attuale drammaticità, viene al momento tamponata e successivamente “archiviata”; prima o poi, aldilà degli attuali depistaggi e delle false indagini della polizia egiziana, verrà scovata una “verità” che andrà bene per entrambe le parti e che, ovviamente, non risponderà mai a ciò che realmente è successo. Se delle 1750 persone scomparse nel 2015, tra cui molte assassinate o mai trovate, il regime di al-Sisi sopporta tranquillamente il peso, giustificandosi costantemente con “la guerra al terrorismo” – intendendo il terrorismo islamico e jihadista – resta il fatto che nessun paese imperialista, occidentale o orientale, ha interesse a condizionare i rapporti economici, politici e diplomatici con l’Egitto sulla base di “diritti umani” o di “libertà di opinione o di organizzazione” non rispettati, a partire dagli Stati Uniti, passando per l’Italia e andando alla Russia e alla Cina. La tanto declamata democrazia, “valore” che i paesi occidentali ostentano ad ogni piè sospinto e per il quale hanno giustificato e giustificano guerre, bombardamenti, assassinii e ogni brutalità e tortura, è messa sotto i piedi ogni volta che il business lo richieda.

L’Egitto è un paese troppo importante per il capitalismo mondiale, sia dal punto di vista economico sia dal punto di vista politico-strategico, per essere attaccato seriamente sul fronte dei “diritti umani” o della gestione della sua “sovranità nazionale”. L’assassinio di Giulio Regeni potrebbe far esplodere un serio incidente diplomatico tra Italia ed Egitto? Un incidente diplomatico come nel caso dell’arresto dei due marò italiani da parte delle autorità indiane per aver sparato e ucciso due pescatori indiani scambiati per pirati? Di “incidenti diplomatici” è piena la storia dei paesi borghesi e solo superiori interessi economici o di alleanza politico-strategica possono trasformare, o meno, un “incidente diplomatico” in una giustificazione ad atti di guerra economica o di guerra guerreggiata. Nella realtà, gli interessi economici e finanziari attuali sono tali per cui il governo democratico italiano troverà i motivi formalmente sostenibili per mettere la propria cosiddetta “dignità” e il proprio “orgoglio” nazionale al loro servizio, allungando i tempi di una “verità” che non emergerà mai del tutto, mentre l’autoritario governo egiziano troverà il modo di sacrificare, prima o poi, qualche pedina di secondo o terzo piano dei suoi apparati di polizia o dei servizi segreti, se non qualche “scheggia impazzita” di qualche oscura setta islamica, da dare in pasto alla “giustizia” per chiudere, o dimenticare, il caso, e procedere speditamente con gli affari.

Come in tanti altri casi, ad es. Ilaria Alpi, la vicenda Regeni andrà sfumando, lasciando spazio ad occasioni che i capitalisti italiani cercheranno in qualche modo di cogliere al più presto, anche perché alle porte del presidente al-Sisi stanno bussando i capitalisti cinesi e russi, fortemente interessati a penetrare nell’area mediorientale e nel Mediterraneo.

 

Nella prospettiva proletaria di classe, all’azione economica indipendente deve affiancarsi la formazione del partito politico di classe sulla base della teoria marxista

 

I proletari egiziani, nei loro tentativi di organizzazione sindacale e politica, sanno che il regime militare non sospenderà la sua pressione contro di loro; le sparizioni, gli arresti, l’eliminazione fisica di oppositori ritenuti pericolosi purtroppo continueranno, come continuerà l’opera di attrazione dei sindacati indipendenti nell’ambito delle organizzazioni ufficialmente riconosciute e quindi istituzionalizzate, facendo perdere loro la spinta classista originaria che solo la presenza attiva del partito di classe potrebbe continuare a difendere ed alimentare. Purtroppo per il proletariato egiziano, e per il proletariato di tutti i paesi, le condizioni oggettive e soggettive favorevoli alla lotta di classe e alla formazione di un partito politico di classe influente sulle masse non sono ancora maturate; ma le sempre più acute contraddizioni della società capitalistica tendono inesorabilmente a polarizzare gli interessi di classe borghesi da un lato e gli interessi di classe proletari al loro opposto. E’ comunque un dato ineccepibile quello che emerge dalla recentissima storia delle lotte proletarie in Egitto: mentre le esplosioni di lotta proletaria del 1946, del 1952, del 1975 e 1977 erano episodiche e rifluivano nell’alveo della collaborazione interclassista e nei meandri di metodi democratici mescolati con i metodi autoritari tipici dei regimi militari, le lotte che si sono sviluppate nell’ultimo decennio hanno conosciuto uno sviluppo importante destinato  a lasciare consistenti tracce classiste nelle esperienze e nella memoria del proletariato egiziano. Già con i potenti scioperi del 1975 e con la famosa “rivolta del pane” del 1977, il proletariato egiziano era riuscito a far arretrare il governo Sadat dalle misure di lacrime e sangue dovute al ricatto del FMI per i crediti concessi all’Egitto (tra cui l’eliminazione delle sovvenzioni statali ai generi di prima necessità, causa dell’aumento iperbolico dei loro prezzi). Dall’uccisione di Sadat nel 1981, il nuovo regime di Mubarak istituì lo stato di emergenza che durò fino alla sua caduta (nel 2012); ma la crisi economica non scompariva all’orizzonte e il proletariato ne subiva direttamente tutti gli effetti negativi, in termini di salario, di licenziamenti, di aumento del precariato e della famossisima flessibilità, tanto cara a tutti i sindacati tricolore del mondo. La lotta operaia, a sua volta, si affievolì ma non scomparve. Se dal 1988 al 1993 le statistiche danno una media di 27 scioperi all’anno, negli anni seguenti la media annua degli scioperi aumenta con progressione geometrica: a 118, dal 1998 al 2003; a 265 nel solo 2004; a 222 nel 2006; a 614 nel 2007; a 609 nel 2008, a 432 nel 2009 (ma si arriva a 700 comprendendo tutte le agitazioni operaie) per arrivare a 1.400 nel 2010, 1.969 nel 2012 e superare abbondantemente i 2.400 nel 2013 (7). E’ chiaro che Mubarak è stato disarcionato dal suo trono trentennale proprio perché il suo governo non era più in grado di controllare il movimento di lotta del proletariato contro il quale la borghesia egiziana non poteva che ricorrere, per l’ennesima volta, ad un governo totalmente militare dopo aver tentato, in un primo momento, la strada delle elezioni democratiche che spinsero temporaneamente al governo i Fratelli Musulmani.  

Troppo importanti per l’economia del paese sono i progetti di “modernizzazione” delle strutture economiche egiziane perché il regime militare non prosegua nella sua guerra preventiva contro un proletariato che ha già dimostrato nel passato più lontano e in quello più recente di possedere un potenziale sociale di grandissima rilevanza.

In Egitto, il sindacato collaborazionista per antonomasia è l’ETUF (Federazione Egiziana dei Sindacati) (8), fondato con l’appoggio della borghesia nazionale nel 1957, di ispirazione nasseriana. Secondo la sua natura, svolge da sempre il ruolo di stimolatore della collaborazione fra le classi, privilegiando ovviamente – come succede dappertutto – le esigenze del capitalismo e, quindi, del padronato. Nel ventennio successivo, fino alla crisi globale del 1975, la crescita economica permise alla classe borghese dominante, anche in Egitto, di concedere al proletariato condizioni di lavoro e di vita relativamente migliori di quelle precedenti: briciole economiche che contribuirono però a tacitare le esigenze primarie di vita di un proletariato sempre più numeroso ma potenzialmente pericoloso per il potere della giovane e spietata borghesia egiziana. La crisi economica capitalistica globale non poteva non avere effetti anche in Egitto; le condizioni di vita e di lavoro dei proletari peggiorarono rapidamente, e contro di esse, in seguito alle drastiche misure prese dal presidente di allora Sadat, nel gennaio del 1977 esplosero, insieme agli scioperi nei principali centri industriali, da Alessandria ad Aswan e al Cairo, delle vere e proprie sommosse popolari. Il 17 gennaio 1977, il governo egiziano, sotto la pressione delle centrali finanziarie internazionali alle quali era ricorso per tamponare l’enorme debito pubblico accumulato, abolì, come abbiamo accennato sopra, i sussidi statali sui generi di prima necessità. Il 18 e il 19 gennaio esplose la rivolta nelle principali città egiziane; oltre all’occupazione delle fabbriche, furono assaltati i commissariati di polizia, i palazzi pubblici, le ville dei ricchi, i locali e i negozi frequentati dai turisti. La repressione fu durissima, ma quegli scioperi e quei movimenti furono punti di riferimento per le lotte successive, negli anni ’80, ’90 e, soprattutto, negli anni dal 2004 in avanti quando, dalle lotte organizzate al di fuori dei sindacati di stato cominciarono ad organizzarsi, fabbrica per fabbrica, le prime formazioni sindacali indipendenti e, con fatica, un loro coordinamento di categoria e nazionale. E’ dal 2008 in avanti che, sull’onda delle lotte operaie organizzate al di fuori del sindacato ufficiale ETUF, nelle maggiori fabbriche e nei settori più importanti, si creano i primi sindacati indipendenti (9); la potente pressione del movimento operaio farà sì che questi sindacati vengano, alla fine, ufficialmente riconosciuti.

Se da un lato lo sviluppo di queste organizzazioni sulla spinta di classe dei proletari rafforzavano il movimento operaio, dall’altro – come del resto è successo e succede in tutti i paesi in cui i sindacati operai hanno una lunghissima storia, come in Europa – esse sono inevitabilmente esposte all’opera di influenzamento opportunistico che la borghesia dominante non smette mai di mettere in pratica pur continuando a reprimere le manifestazioni e gli scioperi. L’esempio più evidente di questa operazione riguarda uno dei fondatori del sindacato indipendente, la Egyptian Federation of Indipendent Trade Unions,  nato nel gennaio 2011, e suo leader indiscusso Abu Eita. Quest’ultimo ha accettato di diventare, dopo la cacciata di Morsi, membro del Governo provvisorio e ministro della Manodopera e dell’Immigrazione nell’Esecutivo guidato da Al Biblawi. Ma la situazione per gli operai non è cambiata: sotto il nuovo governo la polizia ha duramente represso ogni sciopero, come quello dei lavoratori della Suez Steel Company, un’azienda collocata nella città del canale che ha avuto un ruolo importante nelle manifestazioni di protesta contro Mubarak. Così, il sindacalismo nato “indipendente” dallo Stato e dal governo borghese, è finito nell’abbraccio dei militari; Abu Eita, da leader del sindacalismo indipendente, e prima di diventare ministro, dopo la deposizione di Morsi ha dichiarato da perfetto collaborazionista: «I lavoratori, campioni dello sciopero nel precedente regime, devono ora diventare i campioni della produzione»!

Fa parte delle esperienze di lotta degli operai condurre scioperi e agitazioni a difesa di rivendicazioni considerate vitali per la loro sopravvivenza, subire i colpi della repressione borghese e vedersene concesse solo alcune, e spesso quasi nessuna. Anche i proletari egiziani hanno fatto queste esperienze, pagando con il sangue, gli arresti indiscriminati, le sparizioni, il carcere duro; hanno in ogni caso ottenuto il diritto di sciopero e la possibilità di creare nuovi sindacati indipendenti che senza la decisa lotta contro il potere borghese e i suoi governi non avrebbero mai ottenuto.

Le principali rivendicazioni dei lavoratori e dei sindacati hanno riguardato: l’aumento dei salari; l’innalzamento del salario minimo a 1200/1500 pound egiziani, poiché il recente aumento deciso nella legge finanziaria è stato considerato inadeguato; la stabilizzazione dei contratti temporanei; il diritto per tutti i cittadini alla sicurezza sociale; l’approvazione della legge sui sindacati; la rimozione dei vecchi membri dei consigli d’amministrazione delle aziende; l’abolizione della legge contro il diritto di sciopero introdotta dal Consiglio dei Militari e la reintegrazione di tutti i lavoratori licenziati arbitrariamente. Le lotte hanno investito tutte le categorie di lavoratori, dagli operai delle fabbriche ai medici, e, differentemente dagli scioperi degli anni ottanta e novanta, hanno toccato anche il settore privato, ed in particolare quelle imprese privatizzate che non avevano mantenuto gli impegni contrattuali presi con i lavoratori – solo tra il 2004 ed il 2008, sono stati coinvolti circa 1,7 milioni di lavoratori [Solidarity Center, 2010].

Una delle mobilitazioni più imponenti, e che in un certo senso è stata un riferimento per le agitazioni successive, è stata quella condotta nell’autunno del 2007 dai 55.000 esattori delle tasse dipendenti dalle autorità locali che reclamavano un adeguamento dei loro salari a quelli dei dipendenti del ministero delle finanze. Dopo undici giorni di sit-in e proteste, in cui i lavoratori hanno incrociato le braccia bloccando il funzionamento di tutta l’amministrazione pubblica, il governo è stato costretto a soddisfare le richieste dei manifestanti. Di particolare rilievo, infine, è stata la larga partecipazione delle donne lavoratrici, talora anche in posizioni di leadership (Aisha Abd-al-Aziz Abu-Samada, per esempio, ha organizzato i lavoratori, uomini e donne, alla fabbrica Hennawi che produce tabacco nella zona del Delta, Solidarity Center, 2010), a tali lotte, contravvenendo così alle norme e agli stereotipi di genere (Joel Beinin, 2010; Solidarity Center, 2010). [Rapporto CNEL, 2013,2012,2011].

Da queste brevi e parziali descrizioni si dimostra la grande potenzialità classista del proletariato egiziano che, per permettere ad essa di trasformarsi da forza potenziale a forza cinetica, deve avanzare sulla strada della decisa rottura con le illusioni e le pratiche democratiche, riformiste e collaborazioniste, esprimendo in questo modo quelle scintille di coscienza classista grazie alle quali può formarsi anche in Egitto il partito politico di classe, il partito comunista rivoluzionario che, collegando le formidabili esperienze di lotta del proletariato egiziano del passato al movimento comunista internazionale, potrà svolgere il compito di effettiva guida del movimento operaio egiziano nel cammino dell’emancipazione dallo sfruttamento capitalistico.

Su questa via il proletariato egiziano potrà diventare un punto di riferimento classista e rivoluzionario di tutti i proletari del Medio Oriente e del Nord Africa, di una zona del mondo diventata nel tempo strategica per tutte le potenze imperialiste ma nella quale un giovane e numeroso proletariato sta accumulando formidabili esperienze di lotta.

 


 

(1) Vedi le nostre prese di posizione nel sito www.pcint.org, “La destituzione del governo Morsi non è una vittoria dei proletari e delle masse sfruttate d’Egitto”, del 7/7/2013 e “Massacro di manifestanti islamisti in Egitto”, del 15/8/2013.

(2) Per l’amore dell’Egitto, è il nome della lista elettorale con cui il regime militare di al-Sisi ha vinto, secondo molte fonti anche con i soliti brogli, le ultime elezioni, e con la quale al-Sisi controlla quasi totalmente il parlamento (“il manifesto”, 5/2/2016).

(3) Riporta il “Corriere della sera” del 5/2/2016.

(4) Cfr. “il manifesto” del 6/2/2016.

(5) Cfr. “Corriere della sera” del 5/2/2016.

(6) Cfr. “il sole24ore”, 5/2/2016.

(7) Vedi MicroMega, 7/2013

(8) ETUF: per quanto riguarda i sindacati dei lavoratori, in Egitto, da Nasser in poi, l’unica organizzazione legalmente riconosciuta è stata la Egyptian Trade Union Federation (ETUF), creata nel 1957 e rimasta subordinata senza interruzione al potere politico. Nel corso degli anni, con l’intensificarsi della liberalizzazione economica, Mubarak ha rafforzato il controllo sulla leadership della Federazione, intervenendo pesantemente nelle elezioni sindacali, soprattutto a partire dal 1996, e corrompendo ripetutamente i quadri dell’organizzazione. Le ultime elezioni sindacali nel novembre 2006, segnate da frodi e manipolazioni ad opera del ministero del lavoro, non hanno lasciato spazio ad alcun candidato indipendente a livello di comitati e sindacati di base, esacerbando le frustrazioni tra i lavoratori e il sentimento di sfiducia verso l’ETUF. La forte continuitá tra potere politico e ETUF é chiaramente evidente nel fatto che i dirigenti della Federazione sindacale fossero presenti in parlamento a nome del partito di regime: alla vigilia della rivoluzione, ventuno su ventitré membri del comitato esecutivo della Federazione appartenevano al NDP, mentre il suo presidente era anche vicepresidente del parlamento [El Mahdi (2010b); “The road to trade union independence”, Ahram Online, 20/09/2011]. La Federazione ha accettato silenziosamente le riforme di mercato iniziate da Mubarak, senza reagire al progressivo deterioramento del potere d’acquisto della popolazione né al peggioramento della condizione dei lavoratori nel settore pubblico e ai licenziamenti causati dalle privatizzazioni. Col passar degli anni, quindi, la Federazione ha perso ogni legittimità agli occhi dei lavoratori. [Rapporto CNEL, 2013; www.cnel.it/Cnel/view_groups/download?file_path=/...].

(9) EFITU, Federazione Egiziana dei Sindacati Indipendenti.  «Fu allora che i sindacati indipendenti dei lavoratori dell’Autorità fiscale, dei tecnici del settore sanitario e degli insegnanti, tutti creati a partire dal 2008, diedero vita ad una nuova confederazione. Ad essi si unirono l’associazione dei pensionati – che, forte di 8,5 milioni di iscritti, aveva da poco avuto il permesso di riorganizzarsi assumendo la forma di un’associazione professionale – e diversi rappresentanti delle maestranze del settore tessile, farmaceutico, chimico, siderurgico e automobilistico provenienti dalle zone industriali del Cairo, di Helwan, Mahalla al-Kubra, Tenth of Ramadam City e Sadat City», [da Joel Beinin, “Egitto: facebook revolution o lotta di classe?”, in MicroMega, 7/2013].  Questo sindacato, già nell’ottobre del 2011 contava su 72 sindacati federati e su 1,4 milioni di lavoratori di tutte le categorie.

Il primo tentativo di dar vita ad un sindacato indipendente ha avuto luogo nella più grande fabbrica egiziana, la Misr Spinning and Weaving Company (Ghazl al-Mahalla) di Mahalla al Kubra, la prima fabbrica tessile meccanizzata del Paese, situata in una delle città simbolo del Delta del Nilo, e una delle prime aziende ad essere nazionalizzate durante il regime del presidente Nasser: «con 22 mila dipendenti, è attualmente l’azienda manifatturiera pubblica più grande del paese e, di conseguenza, è costantemente sotto i riflettori e ciò che succede al suo interno ha un enorme significato simbolico e pratico» [da Joel Beinin, cit.]. La prima organizzazione a livello nazionale di un sindacato indipendente la si deve ai comitati di sciopero locali dei collettori delle tasse, coordinati in un Comitato Superiore dello Sciopero, grazie anche alla loro vittoriosa lotta sindacale del gennaio 2008; alla fine dello stesso anno fondarono il sindacato indipendente RETAU (http://www.clashcityworkers.org/internazionale/759). Da una scissione avvenuta nell’ EFITU, si è costituito nell’ottobre 2011 un altro sindacato indipendente, l’EDLC, Congresso Democratico dei Lavoratori Egiziani, che rivendica la piena autonomia dallo Stato, dagli imprenditori e dai partiti politici.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

Top

Ritorne indice