EUROPA:

Ordine capitalistico e pressione inarrestabile di popolazioni migranti

(«il comunista»; N° 142;  Febbraio 2016)

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EUROPA: un fortino in cui le borghesie capitalistiche più sanguinarie al mondo cercano di difendersi dalla pressione inarrestabile di popolazioni per lungo tempo schiacciate, oppresse, sfruttate, affamate, massacrate e costrette a fuggire migrando verso un continente che si è sempre vantato di essere la culla della civiltà moderna e del benessere diffuso.

Il continente che fu chiamato Europa (il mito vuole che il nome sia quello di una semidea fenicia, dunque asiatica, rapita da Zeus e condotta in queste terre) deve il suo sviluppo storico, dagli scorsi millenni, allo spostamento di popolazioni di origine asiatica. Le culture più evolute erano quelle degli egizi, delle popolazioni iraniche e mediorientali che favorirono le migrazioni verso terre che presentavano qualità climatiche e ambientali utili allo sviluppo dell’agricoltura e, nello stesso tempo, all’urbanizzazione. Prima dei barbari vennero dall’Oriente popolazioni colte, che si stabilirono e si svilupparono sul piano economico attraverso l’artigianato, l’agricoltura, le arti guerresche. Con i greci, l’Europa raggiunse un alto livello culturale, nelle scienze e nelle arti, che i romani assimilarono e diffusero nel continente.

L’Europa, dunque, nasce dalle migrazioni provenienti dall’Oriente che si fusero con i celti e i latini; in seguito lo sviluppo storico avverrà attraverso popolazioni germaniche, vichingo-normanne, slave e ottomane. Le migrazioni di popoli verso l’Europa, quindi, è un dato storico che ciclicamente si ripete; da sempre, la spinta migratoria è stata provocata da fattori fondamentalmente economici, vuoi per ragioni di conquista da parte di popolazioni e stati più forti, vuoi per ragioni di sopravvivenza da parte di popolazioni che fuggivano da carestie, fame e guerre.

Un mito più moderno vuole che l’Europa, che rappresenta la culla della civiltà  “occidentale”, sia stata sempre un modello storico di cultura, di scienza, di organizzazione sociale che gli altri popoli del mondo devono invidiare; terra da cui si è diffusa nel mondo la moderna economia che ha universalizzato il più moderno e innovativo modo di produzione che la storia umana abbia conosciuto. Per molti aspetti questo mito ha basi materiali e storiche,

L’Europa moderna, civile e democratica, l’Europa che è uscita da due guerre mondiali una più devastante dell’altra, l’Europa che ha diffuso nel mondo il capitalismo con il suo portato di innovazioni tecniche, di sviluppo economico e di feroce sfruttamento di masse sempre più vaste di lavoratori resi schiavi di un salario concesso soltanto contro lavoro umano, questa Europa che, attraverso i suoi Stati più forti e più attrezzati industrialmente, a partire dall’Inghilterra, ha colonizzato tutti i continenti del mondo ed ha aperto inevitabilmente, per convenienza o forzatamente, anche le proprie porte ai popoli del mondo, è un’Europa che oggi più di ieri mostra il suo tallone d’Achille.

Culla del capitalismo, culla dell’imperialismo, ossia del capitalismo sviluppato nella sua fase monopolistica e totalitaria, ha colonizzato il mondo, lo ha sottomesso, devastato, sfruttato e massacrato; e questo mondo si rivolta contro di lei. Lo stesso forsennato sviluppo del capitalismo non fa che produrre fattori di crisi sempre più gravi e sempre meno controllabili dai poteri politici: per quante misure economiche, finanziarie, valutarie, politiche, diplomatiche e militari i poteri borghesi possano escogitare per rendere il loro modo di produzione meno disumano e meno distruttivo, non serviranno a superare le crisi che gettano continuamente il mondo borghese in uno stato di barbarie (come sostiene il Manifesto di Marx-Engels), crisi che in epoche anteriori a quella capitalistica non erano conosciute: crisi di sovraproduzione! Si producono enormi quantità di merci che i mercati non riescono ad assorbire, che non si vendono e perciò devono essere distrutte per far posto alle nuove merci prodotte da ulteriori cicli di produzione. E con le merci, i mezzi di sussistenza, gli impianti e le infrastrutture vengono distrutte regolarmente anche le forze produttive vive, i  lavoratori salariati, risultati in sovrabbondanza anch’essi. La civiltà capitalistica che ha fatto forte la società borghese è nello stesso tempo il suo tallone d’Achille: “la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive che sono a sua disposizione non servono più a promuovere la civiltà borghese e i rapporti borghesi di proprietà; anzi, sono divenute troppo potenti per quei rapporti e ne vengono ostacolate, e appena superano questo ostacolo mettono in disordine tutta la società borghese, mettono in pericolo l’esistenza della proprietà borghese” (sempre il Manifesto di Marx-Engels).

Gli inarrestabili flussi migratori che premono ai confini del fortino-Europa non sono forse la dimostrazione che le masse proletarie a disposizione del capitalismo sono troppe rispetto a quelle necessarie per ricavare dalla produzione capitalistica i profitti voluti? E la loro pressione sugli Stati europei non è forse la dimostrazione che la loro forza, unita alle forze produttive indigene, mette in disordine tutta la società borghese e che potenzialmente può mettere in pericolo l’esistenza della proprietà borghese e, dunque, della società borghese?

In Ungheria, in Macedonia, in Austria, in Slovenia, in Croazia, in Serbia, in Turchia, come tra gli Stati Uniti e il Messico, le rispettive classi borghesi dominanti hanno alzato muri a protezione del proprio paese, di un ordine che non deve essere scosso; hanno steso barriere di filo spinato per respingere le masse disperate che si presentano ai loro confini fuggendo dalla miseria, dalla fame e dalla guerra che imperversano nei loro paesi d’origine e che sono il risultato della diffusione nel mondo del capitalismo, dei suoi rapporti di produzione e sociali e delle sue contraddizioni sempre più acute e laceranti. Anche i paesi che passavano per essere i più tolleranti e accoglienti, la Danimarca e i paesi scandinavi, la Gran Bretagna, la Francia, la Spagna frappongono misure drastiche per “mettere ordine”, “regolamentare secondo le loro esigenze” il flusso migratorio che batte alle loro porte. La Germania, dopo aver alimentato l’illusione di voler accogliere a centinaia di migliaia gli immigrati – e guarda caso perché le fa comodo avere a disposizione una massa di lavoratori a prezzi competitivi rispetto alla forza lavoro stanziale – è tornata sui suoi passi, mentre l’Italia che, per ragioni geografiche è nel bel mezzo delle rotte di trasferimento dal Medio Oriente e dal Nord Africa verso l’Europa centrale e del Nord, si barcamena tra la voglia di fermare i migranti e chiudere le vie d’accesso al proprio territorio e l’impossibilità oggettiva di farlo perché costerebbe troppo ed è per questo che chiede aiuto ad un’entità “Europa” che in realtà non esiste come unità omogenea. L’Europa è stata, è e rimane un insieme di Stati nazionali che, in conseguenza di due guerre mondiali, per ragioni di mercato e di concorrenza internazionale, sono stati spinti ad accordarsi per formare un grande mercato comune in cui far valere una serie di regole per tutti gli aderenti. Inesorabilmente spinta alla concentrazione dei capitali e alla centralizzazione, l’economia  capitalistica tende a rompere ogni confine per trovare vie più veloci e redditizie al profitto e alla valorizzazione del capitale. Ma questa tendenza materiale obiettiva è contrastata nello stesso tempo dalle contraddizioni proprie dei rapporti borghesi di proprietà per cui gli interessi nazionali di una borghesia vanno a scontrarsi inevitabilmente con gli interessi nazionali della borghesia degli altri paesi. La borghesia, in quanto classe sociale, è storicamente sempre in lotta: “da principio contro l’aristocrazia, più tardi contro le parti della stessa borghesia i cui interessi vengono a contrasto col progresso dell’industria, e sempre contro la borghesia di tutti i paesi stranieri”, così il Manifesto del 1848; e, naturalmente, in lotta costante contro la classe del proletariato dal cui sfruttamento ricava la sua ricchezza. Che cosa è cambiato da allora? Sostanzialmente nulla: le continue guerre di concorrenza e di rapina che hanno caratterizzato i settant’anni trascorsi dalla fine del secondo macello imperialistico stanno a dimostrare che la classe dominante borghese, semmai, è diventata ancor più feroce e totalitaria di quanto non fosse nei periodi precedenti. La classe borghese non ha più nulla da dare alla società; la sua civiltà schiaccia e soffoca la stragrande maggioranza della popolazione in ogni parte del mondo. Se l’Europa è stata la culla del progresso capitalistico e della vittoria sul feudalesimo e sull’assolutismo dell’aristocrazia nobiliare e del clero, soltanto grazie alla lotta di classe del proletariato potrà diventare la culla della rivoluzione che aprirà non solo al proletariato, ma all’intero genere umano, la strada all’emancipazione definitiva da ogni oppressione.

Le masse proletarie e di diseredati che, a costo della vita, si sono messe e continuano a mettersi in cammino verso i paesi d’Europa, sono in realtà portatrici inconsapevoli di un disordine sociale che potrebbe anticipare la ripresa della lotta classista del proletariato in Europa. Con la loro drammatica situazione e la loro realtà disastrata, esse dimostrano ai proletari europei che il futuro che il capitalismo superdemocratico d’Europa sta preparando anche per loro è un futuro di miseria, di fame, di guerra e che per fuggire da quel futuro non avranno un’altra Europa dove rifugiarsi: dovranno combattere a casa loro, qui nei paesi del benessere e della civiltà moderna; dovranno riprendere in mano le sorti della loro vita e finalmente ricollegarsi con le lotte che le generazioni proletarie passate hanno condotto per rivoluzionare la società. Sì, perché la via d’uscita non è la “ripresa economica” e una nuova “crescita” grazie alla quale verrebbero riassorbite parzialmente le masse disoccupate, e non è nemmeno la chiusura dei confini per impedire ad altri proletari di immettersi in un mercato del lavoro che nei loro paesi d’origine è diventato asfittico. Il capitale aggira qualsiasi confine, qualsiasi muro, qualsiasi impedimento, pur di circolare e valorizzarsi; i confini e i muri li innalzano le classi borghesi nazionali che si fanno la guerra a difesa di loro privati privilegi e interessi.

I proletari europei vengono bombardati non solo dalla propaganda opportunista secondo la quale la strada per ottenere un miglioramento, o per non peggiorare la situazione, è quella della collaborazione con i capitalisti e i governanti, ma anche dalla propaganda nazionalista che incolpa i proletari immigrati del peggioramento delle loro condizioni di vita e di lavoro. In più, le borghesie occidentali maneggiano il tema del “terrorismo islamico” come giustificazione di qualsiasi azione militare contro quelli che oggi trattano come i “nemici” ma che ieri erano “amici”, e viceversa, si tratti di Iraq, Siria o di Libia, di Somalia o Afghanistan. Un tema, quello del terrorismo, che serve alla borghesia di ogni paese per indurre il proprio proletariato alla solidarietà nazionale, a piegarsi alle esigenze politiche ed economiche della propria classe dominante, a sacrificarsi in nome di una democrazia, di una civiltà, di un patria che tutto sono meno che fonti di benessere, di pace, di armonia sociale.

Benvenuti proletari siriani, iracheni, afghani, eritrei, somali, libici, tunisini, kosovari, curdi, ucraini, nigeriani, algerini o senegalesi: fratelli di classe, oggi reietti e respinti, emarginati e supersfruttati, ma domani uniti nella stessa lotta di classe che i proletari europei sapranno riconoscere come l’unica via per rompere definitivamente con il sistema di sfruttamento capitalistico che accomuna tutti i proletari del mondo.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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