A cent’anni dalla prima guerra mondiale

Le posizioni fondamentali del comunismo rivoluzionario non sono cambiate, semmai sono ancor più intransigenti nella lotta contro la democrazia borghese, contro il nazionalismo e contro ogni forma di opportunismo, vera intossicazione letale del proletariato (6)

(«il comunista»; N° 149;  Giugno 2017)

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Dopo l’intermezzo, nei precedenti numeri 147 e 148 di questo giornale, dedicato alle posizione del gruppo Die Internationale e alle Tesi sulla guerra di Rosa Luxemburg (Junius) e della risposta di Lenin, riprendiamo il filo delle posizioni della nostra corrente di Sinistra dal XIV congresso del PSI, tenutosi ad Ancona, in poi, riferendoci ovviamente alla Storia della Sinistra comunista, primo volume, in particolare ai capitoli 15-17 (1), che pubblichiamo di seguito.

 

 

Verso la guerra in Europa

 

Il congresso di Ancona, XIV del PSI, si era chiuso il 29 aprile del 1914 e il partito si preparava ad una prova di forza, peraltro del tutto sul terreno legalitario, con le elezioni amministrative del giugno. La decisa intransigenza significava tuttavia che il partito, con liste proprie in tutti i comuni, e dopo la violenta sconfessione dei famigerati blocchi locali, popolari, anticlericali, e con lo sfondo turpe degli intrighi massonici, capolavoro della politica servile della classe media e della intelligenzia, eterno leccapiatti del padrone capitalista, avrebbe misurato le sue forze per una conferma della battaglia del 1913, cui avrebbe dato sapore l’insieme delle posizioni dei congressi, antibelliche, anticoloniali, antidinastiche, avendo tra i suoi avversari anche i rinnegati messi fuori a Reggio Emilia e ad Ancona.

Ma gli eventi della lotta di classe precorsero i tempi della lotta legalitaria. Il 7 giugno 1914, domenica, l’Italia borghese celebrava l’annuale festa dello Statuto. Gli estremisti convocarono una serie di comizi diretti contro il militarismo e contro le famose “compagnie di disciplina” contro le quali da anni battagliava la Federazione giovanile. Ad Ancona la manifestazione di fece alla “Villa Rossa”, sede dei repubblicani, che in quella città erano forti, come gli anarchici. Avevano parlato alla folla Nenni, repubblicano, ed Enrico Malatesta, anarchico, con vivace tono antistituzionale. La folla dopo i discorsi defluiva verso il centro quando i carabinieri aprirono il fuoco: tre giovani operai caddero e molti furono feriti. Alla notizia divampò in tutta Italia un’ondata spontanea di indignazione. Prima che le organizzazioni decidessero lo sciopero, già i lavoratori erano nelle piazze, specie nelle Marche e in Romagna. Furono proclamate alcune ingenue repubbliche locali provvisorie (Spello di Perugia). Fra le grandi città si levarono Torino, Milano, Parma, Napoli e Firenze, dove la folla affrontò i conflitti a fuoco senza rinculare. Fu la formidabile “settimana rossa”.

A questa aveva in primo luogo contribuito l’Avanti!. Nel commentare i periodici eccidi proletari che hanno sempre distinta l’Italia democratica (o giovani, non vi era ancora fascismo, come non vi è più oggi, e Mussolini non aveva ancora scavalcato la barricata, ma di regola i fucili del costituzionalismo liberale e bloccardo squarciavano i petti di folle che chiedevano pane) il giornale socialista aveva più volte scritto: Al prossimo eccidio lo sciopero generale nazionale! Dopo le fucilate dalla Villa Rossa il proletariato non ebbe bisogno di disposizioni e di consegne: scese in azione.

Nel maggio la Confederazione Generale del Lavoro aveva tenuto il suo congresso, in cui vinsero ancora i riformisti battuti nel partito (Mazzoni presentò un ordine del giorno antimassonico che fu respinto). Tuttavia, nel giugno i capi della Confederazione, loro malgrado, dovettero proclamare lo sciopero generale nazionale. Ma il 12 giugno, quando già i poteri statali e la borghesia sbigottivano, la C.G.L. rese loro uno dei suoi innumerevoli servigi; ordinò la fine dello sciopero generale. Violentissime polemiche seguirono nel partito a questo tradimento. Si trattava di un moto per eccellenza politico e non economico; solo il partito politico avrebbe dovuto dare il segnale dell’inizio e della fine eventuale. Ma le idee non erano chiare, e da ciò una volta di più emerge la necessità della vera teoria rivoluzionaria. Era fresca la tradizione anarchica e sindacalista soreliana, secondo cui il sindacato ha per sua funzione l’azione diretta e violenta e il partito quella legale. Il confusionismo degli indirizzi frustrò il generoso coraggio della classe operaia italiana.

Mussolini scrisse il 12 giugno, nel pubblicare il comunicato, che definì “fellone” della Confederazione sindacale, il famoso articolo Tregua d’armi (2). Commentatori o pretesi storiografi socialdemocratici dicono che questo violento articolo difettava di idee teoriche. La critica in parte può anche essere giusta, ma va detto in qual senso.

La posizione generale sollevò entusiasmi senza limiti. La partita tra le classi in lotta non si gioca a schede ma con le armi. Essa non era finita ma solo sospesa; la borghesia avrebbe rivisto in armi davanti a sé il suo avversario storico, e il giornale del partito di classe lo scriveva in tutte lettere, anche se a fianco dei capi sindacali pacifisti aveva giocato la preoccupazione schedaiola della destra del partito, che lamentava: Dopo questi estremi, gli elettori ci abbandoneranno. Non fu invece così, e poco dopo Benito Mussolini scrisse un altro articolo: Barbarossa, padrone di Milano, quando i socialisti conquistarono il Comune. Scherzi della retorica; Barbarossa è un’immagine teutonica, antinazionale e antitaliana per eccellenza: ben lo ricordammo al loquace messere nelle polemiche di pochi mesi dopo.

Ciò non toglie che, nell’articolo, la contrapposizione tra guerra di Stati e guerra delle classi sia posta senza ombre: credevate, urla il futuro Duce ai borghesi, che dopo la sacra unità della guerra tripolina scioperi non ne avreste più visti? Eccovi serviti.

I caratteri dello sciopero sono ben ribaditi: aggressivo, non di difesa; e fino a questo punto non è possibile negare all’autore una grande fedeltà all’ideologia marxista, tanto più se pensiamo al lurido fattaccio del mussolinismo di soli cinque (diciamo cinque) mesi dopo, tutto imperniato sul più sgangherato difesismo, della Francia, del “piccolo Belgio”, della libertà, della democrazia mondiale!...

Questo fatto di formulare giustamente una tesi vitale della dottrina, che possiamo scrivere: Funzione della rivoluzione proletaria è l’attacco e non la difesa, per la quale i petti dei lavoratori dovrebbero incassare piombo nelle varie “resistenze” diretta a salvare i sommi traguardi delle istituzioni capitalistiche; “fellonia” è il truccare l’offensiva da difesa di mentite conquiste storiche, essendo il proletariato in Marx la classe che nulla ha ancora conquistato, alla quale nessuno ha nulla ancora conquistato, e che deve tutto conquistare, come massa d’urto che travolga non solo le precedenti istituzioni e forme storiche, ma soprattutto la più infame, la sua stessa natura di classe e la propria servitù; questo fatto storico, dunque, dell’articolo Tregua d’armi, in relazione all’altro dell’articolo uscito dalla stessa penna in ottobre 1914: Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante – titolo tanto contorto quanto il primo era dritto come una spada – prova solo che non basta una volta intuire il marxismo rivoluzionario, ma bisogna avere il fegato di farlo per almeno tre generazioni.

La valutazione del moto della “Settimana rossa” è ancora validissima quando ne pone in rilievo l’estensione e la intensità (3). Per questa, lo sparafucilismo connaturato all’articolista rileva, con indubbio coraggio, le battaglie a colpi di arma da fuoco, l’assalto ai negozi di armaioli, gli incendi fatti fiammeggiare, “e non già delle gabelle”, come nelle rivolte dei piccoli proprietari del Sud; e il grande grido: al Quirinale! al Quirinale! Ma, o messer Benito, potete dirci dalla tomba se il grido significasse: al Quirinale in stiffelius e tuba?!! (4).

Per l’estensione del moto il commento è anche migliore; da un capo all’altro d’Italia, dalle officine industriali ai villaggi di campagna, dagli operai qualificati ai contadini e ai braccianti, a nessuno secondi (5); ed è valido questo saluto alla forza di classe del proletariato agrario italiano, che fascisti e antifascisti hanno nella storia lavorato insieme a castrare; e speriamo sempre, anche se finora invano, che un giorno quelle fiamme tornino a divampare.

Una rampogna va alla Confederazione Generale del Lavoro per aver decretato “inopinatamente e arbitrariamente, all’insaputa della direzione generale del partito, la cessazione dello sciopero allo scoccare delle sacramentali quarantotto ore”, e ai ferrovieri che non scioperarono, il che se fosse avvenuto avrebbe fermato i movimenti delle forze di difesa borghesi. Valida rampogna, quest’ultima, a uno spirito di categoria che li teneva, anarchici o socialisti, nel loro sindacato non confederato a nessuno, fecendo il gioco della destra confederale, pompiera e fellona.

Possiam far grazia del resto dell’articolo, che non ci piacque mai. Il personalismo e l’estetismo vi hanno libero sfogo. Il moto è stato un preludio, anzi “un momento della sinfonia”. Quale, l’Eroica? Quale dunque l’Eroe; Io, Benito? La nostra teoria sulla bellezza di questi Eroi è che, sempre che l’Eroe sorge e la massa in lui crede, in breve termine la rivoluzione resta fottuta. L’articolo chiude con un attacco alla sinistra borghese, un accomunamento di Salandra con Bissolati come “nemici di domani”, e la rivendicazione del moto al partito e all’Avanti!, guastata solo dalla firma all’articolo. L’impegno (questo sì che richiedeva vero coraggio) a profittare della tregua, “breve o lunga non sappiamo”, per il lavoro di preparazione del proletariato non doveva, ce lo stanno raccontando i fatti, resistere cinque mesi. Benito [Mussolini] e Leonida [Bissolati] insieme passarono caporali del regio esercito!

Chiusa la fase della settimana rossa, ebbero luogo le elezioni amministrative, e come abbiamo detto il partito non perdè voti per effetto dell’esperimento del metodo estremo e per la vigorosa repulsa dei voti dei partiti della sinistra popolare. E’ veramente caratteristico come la stessa interpretazione dei voti del 1914 è data da scrittori dell’opportunismo tipo Seconda Internazionale e da quelli che emanano dall’odierno partito comunista “ufficiale”, vecchio corteggiatore di voti da qualunque parte vengano (6). Dato il metodo dei voti, e se non si ha lo stomaco di dire: Perdiamo tutti i voti e tutti i successi elettorali pur di non metterci in contrasto coi fini politici del partito, non resta che concludere che il voto di un puro proletario vale proprio quanto quello di un feccioso piccolo borghese o anche di un padrone capitalista. La democrazia è il regno antimarxista di quella quantità impotente in eterno a divenire qualità.

I ragionamenti dei citati signori sono davvero balordi. Si vinse a Milano e a Bologna, ma la ragione fu che i nomi dei candidati riformisti (tra essi erano persone che come compagni e come marxisti valevano assai meglio degli scribetti di oggi) avevano attirato molti voti dei ceti medi. La prova per Milano è addirittura spassosa. Il capolista avvocato Maino ebbe 34.876 voti mentre il rivoluzionario Mussolini fu “sconfitto” con 34.523. Dunque solo 353 voti di meno, l’uno per cento delle forze della lista! Non è questa una vittoria del partito del tempo, che otteneva votazioni così compatte e impersonali? Oggi i capoccia hanno milioni di voti, e i Pinco Pallino zero preferenze, perché così ordinano gli ignobili partiti a base di “migliori”.

A Torino invece si perse dopo una lotta generosa e memorabile anche in un collegio politico ove non si volle portare Mussolini né Salvemini ma il semplice operaio Bonetto. Ed ecco i commentatori comunisti di oggi (quali ordinovisti, sono gli ultimi che possano capire Torino proletaria e la sua storia) ironizzare sulla vessata “intransigenza” per cui non si capì che a Torino prevalevano i piccoli borghesi (e gli operai imborghesiti, o diffamatori del proletariato torinese?). Non vale la pena di perdere un seggio alla Camera e porre un semplice lavoratore (Mario Bonetto) contro il fumoso e odioso nazionalista Bevione? (7).

Anche parlando di Lenin stesso, dovremo dire che era ingenua la sua idea che con lo scendere nelle elezioni si misuri il rapporto delle forze. Lenin è certo l’uomo che sembrò aver la ventura di sollevare sulle fragilissime spalle cento anni di storia portando l’immensa Russia dall’ultimo al primo posto nell’attingere la dittatura proletaria senza aver tollerata quella borgehse, ossia a fare per prima quello che “avrebbe dovuto” fare per ultima. Un risultato che fu pagato a caro prezzo, avendo “sottesa” la fase più velenosa e verminosa del potere capitalistico: la piena democrazia parlamentare. La Russia nell’epopea leninista, tracannò la coppa della libertà borghese nel giro di qualche mese. Vladimiro, colosso della storia, dette il segno che vi si doveva sputare dentro vomitando lo champagne inacidito nei rudi stomaci proletari; e la peste parlamentare non poté allignare.

Quando si trattò di troncarla in quell’Occidente dove aveva allignato fino in fondo e dove i ventri proletari erano stati domati dalla libidine addormentatrice dell’elettoralismo, il grande Lenin, convinto che la catastrofe capitalista in Europa e nel mondo più non poteresse essere retroversa, pensò si potesse sfidare il pericolo – troppo era più facile fare in Europa di ovest e magari in America lo stesso che si era fatto in Russia, giocando la storia di un secolo; e troppo son carogne quelli di oggi che pretendono ch’egli avesse fatto al resto del mondo il regalo di non subìre la dittatura rossa disperditrice di assemblee democratiche a calci di fucile.

Marxista colossale, egli però non vide che una causa deterministicamente sicura – se mai ve ne saranno – non va difesa anche davanti a gente di mezza tacca dialettica con argomenti teoricamente non rigorosi, nemmeno per accelerare la presa di occasioni che la storia potrebbe allontanare; e pur di cacciare i rivoluzionari nei parlamenti adoperò anche argomenti a cui non nascondeva di non credere, come quello radicalmente nefasto della conta numerica delle opinioni. Fu fatto un grande sforzo per mostrargli quel era la potenza storica del parlamentarismo borghese: i suoi occhi avevano tutti gli elementi del quadro, ma egli ritenne che la nostra forza di avversione sarebbe stata maggiore.

Anche Trotsky era vissuto nell’Ovest e nemmeno lui vide bene la questione. Si andò nei parlamenti per buttarli di sotto. Sono ancora in piedi, e quelli che ci abbiamo mandati ragionano come se Lenin avesse sancita una norma letterale: Solo quando, contando i voti, avremo provato che la maggioranza è nostra, sarà il caso di pensare al potere! Quindi sono ripiombati in una teoria che è quella dei socialdemocratici classici. E di tutto il vigore che Vladimiro aveva ridato al marxismo, nulla è rimasto saldo. Importa marxisticamente chi ci culpa? No di certo, e non serve a nulla. Ma ci culpa anche lui.

Il nembo della guerra, che si addensava sull’Europa del 1914 all’apice delle contese elettorali, poteva sciogliere il nodo che serrava alla gola la classe operaia mondiale, e dare la parola alle armi, togliendola alle schede. Il tempo fu mancato, e il nodo si è fatto più stretto.

La borghesia che ha preso le armi due volte come Stati, e anche più volte come classe della società, nulla ci ha appreso, e le abbiamo ridato nelle mani il capo del cappio.

 

La prima guerra mondiale

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Se in Italia la vivace lotta contro la guerra libica del 1911 aveva costituito un’ottima prova per le forze proletarie, che già avevano una tradizione di battaglia contro le imprese etiopiche della fine del XIX secolo e le gesta del colonialismo, in tutto il quadro mondiale il primo decennio del nuovo secolo si preparava per varie manifestazioni a chiudere il periodo idillico degli ultimi decenni del precedente. Vi erano stati i contrasti per la espansione nel Mediterraneo occidentale sistemati per il momento alla conferenza di Algeciras (8), e non pochi periodi di tensione fra Gran Bretagna e Russia in contrasto nel Medio Oriente e in Asia, a parte la sanguinosa guerra russo-giapponese del 1905 che provocò la prima rivoluzione russa. L’attacco dell’Italia alla Turchia causò la rottura di quell’equilibrio balcanico faticosamente tessuto al Congresso di Berlino dopo la guerra turco-russa del 1878, e vi furono le due guerre balcaniche del 1912: la lega degli Stati soggetti contro la Turchia feudale, che fu vinta, e poi la nuova guerra tra i vincitori per togliere alla Bulgaria la parte del leone.

I fremiti di tutti questi conflitti tenevano in movimento sempre più critico la politica estera delle famose “Grandi Potenze” divise tra due alleanze: la Duplice, franco-russa, e la Triplice fra Germania, Austria e Italia.

Molto complessi erano i contrasti di interessi fra le varie potenze anche tra loro alleate, la cui base era nella conquista dei mercati e nella difficile partizione delle sfere di influenza coloniale, in cui all’avanguardia erano Gran Bretagna e Francia. L’Inghilterra aveva sempre ostentato di stare fuori dalle alleanze fra gli Stati del continente, nella famosa “splendid isolation”, ma da vari anni, chiusa l’eco delle più antiche contese, africane in ispecie, si era legata alla Francia nella “Entente cordiale” (9). All’inizio del secolo l’Italia, sebbene legata dal trattato della Triplice agli Imperi Centrali, aveva mostrato per l’Intesa una strana simpatia, e questa brillante politica estera prediletta dai partiti popolaristi e massonici veniva presentata ai lettori ingenui (ma valgono forse meglio gli odierni?) della grande stampa come “giri di valzer”, leciti anche alle dame che non si spingono ancora fino a cornificare il marito.

L’incubo di una guerra che si capiva non avrebbe potuto che essere generale, era palese, e lo fu anche ai socialisti dei vari Paesi. Il congresso di Basilea del 1912 (novembre) lanciò il memorabile manifesto contro la guerra prendendo a motivo il divampare di quelle balcaniche, che tenevano in specie Austria e Russia sempre sul piede di guerra. I princìpi stabiliti a Stoccarda non avevano nemmeno bisogno di esprimere “il divieto che i socialisti appoggiassero la guerra nazionale”, ma invitavano la classe operaia e le sezioni dell’Internazionale a compiere ogni sforzo per impedire lo scoppio del conflitto, e, nel caso, che esso fosse scoppiato, ad agire per farlo cessare, “approfittando della crisi economica e politica creata dalla guerra per agitare gli strati popolari più profondi e precipitare la caduta della dominazione capitalistica”. La nozione della presa del potere politico è qui chiarissima, anche se la formulazione dottrinale potrebbe essere migliore. Non si può abbattere il sistema sociale capitalistico senza rovesciare la dominazione politica della borghesia; e questo è vero in tempo di pace. Il tempo di guerra non solo non fa eccezione ma presenta anche le condizioni migliori per tentar di raggiungere tale risultato rivoluzionario.

Gli stessi concetti erano stati ribaditi non solo nel già ricordato congresso 1912, ma anche in quello di Copenhagen 1910. Lenin nel 1915 sottolineò che il Manifesto di Basilea aveva indicato due esempi storici espliciti: la Comune di Parigi del 1871 e la rivoluzione russa del 1905, nei quali, approfittando dei rovesci dello stato nazionale nella guerra, il proletariato aveva fatto ricorso alla guerra civile insorgendo armato, e nel primo caso conquistando il potere (nozione storica del disfattismo proletario). Nelle mozioni dei congressi mondiali della Seconda Internazionale non era mai potuta prevalere la formula insidiosa della destra, negli scritti di Lenin per sempre condannata come revisionista e opportunista – che l’azione dei partiti socialisti nei paesi in guerra dovesse essere limitata dalla insulsa condizione della simultaneità dai due lati del fronte bellico.

Se ritorniamo per un momento al partito socialista italiano, dovremo ripetere la constatazione negativa che, malgrado la lunga lotta della corrente rivoluzionaria per prevalere contro la destra, non si era mai giunti a una formulazione completa della tattica del partito in caso di guerra, e soprattutto in caso di guerra europea generale. In materia di antimilitarismo, tali questioni erano state negli anni precedenti agitate sempre da anarchici e sindacalisti soreliani con indirizzi di falso estremismo, quali il rifiuto personale di obbedienza, l’obiezione di coscienza e simili, e nemmeno perfetto era stato il lavoro del movimento giovanile socialista, che pure aveva per primo saputo tenersi distinto dai libertari e combattere il riformismo quando ancora nel partito dominava.

Il dramma dell’Europa fu segnato da pochi colpi di rivoltella che sparò a Saraievo, capitale della Bosnia, provincia slava sotto dominio austro-ungarico, il giovane Prinzip il 28 giugno del 1914, uccidendo l’arciduca Francesco Ferdinando, principe ereditario dell’Impero. Il governo austriaco attribuì l’atto a cospirazione serba favorita dal governo di Belgrado e dalla dinastia antiaustriaca dei Karageorgevic e dopo agitate settimane di vigilia notificò il 23 luglio un ultimatum alla Serbia che imponeva durissime condizioni. Alcune di esse furono rifiutate nella risposta, e la situazione, malgado tentativi di arbitrato, divenne gravissima. Chi ruppe gli indugi fu lo zar Nicola di Russia che, in sostegno alla Serbia minacciata di invasione, ordinò la mobilitazione generale il 30 luglio; il 31 ne seguì l’esempio il Kaiser che l’1 agosto dichiarò guerra alla Russia; l’1 agosto mobilitò l’Austria-Ungheria, e le avanguardie delle sue armate valicarono il Danubio. Ovunque le truppe obbedivano, i riservisti si presentavano, partivano e combattevano. Un senso di gelo incombeva sull’Europa. Il 2 agosto la Germania dichiarò guerra alla Francia e intimò al Belgio di lasciar passare le sue forze armate. Il Belgio si mobilitò per difendersi. Il 4 agosto è il giorno che rimane nella storia: dichiarò guerra la Gran Bretagna col motivo che era stato violato il trattato che garantiva la neutralità del “piccolo Belgio”. Nei suoi passi ipocriti per la pace fino a poche ore prima, Londra aveva dichiarato in pubblico e nel segreto diplomatico che non si sarebbe mossa: se avesse apertamente annunziato di muoversi forse gli altri avrebbero indugiato a fare i primi passi irrevocabili. La lezione della storia è per noi che, perché la guerra scoppi, non occorrono i “provocatori”. Ma se si volesse individuarli non si dovrebbe cercare che tra i “pacifisti”. Oggi le cose non vanno diversamente da allora, né la cosa cambiò nella tarda estate dell’altro anno maledetto, il 1939.

Tanto nell’una quanto nell’altra estate noialtri osservatori italiani non fummo folgorati ad horas dai telegrammi della mobilitazione, ma invitati a una finestra da cui si osserva l’incendio. Quale ventura! E quale insegnamento è potuto uscirne!

Il 4 agosto fu memorabile anche perché i socialisti toccarono il vertice della vergogna. A Vienna, a Berlino, a Parigi, a Londra, ossia da ambo i lati della folgorante lacerazione a cui gli stessi borghesi ancora non credevano, le unanimità dei partiti socialisti non solo nulla trovarono da dire al proletariato e ai loro aderenti dalla vantata tanto, prima e dopo, tribuna elargita dalla democrazia, ma dissero che gli ordini di guerra dei governi erano giusti, non trovarono una parola di opposizione, e votarono l’approvazione della politica di guerra e i crediti militari. I poteri degli Stati capitalistici ebbero le mani più libere che non avrebbero avuto gli antichi poteri storici assolutistici e non costituzionali, in cui il monarca aveva diritto di dichiarare guerra senza il consenso né il voto di nessuno.

I socialisti parlamentari fecero ancora di più: entrarono nei governi che prendevano il nome ignobile di unione sacra, come il Vandervelde, segretario belga dell’Internazionale, e i francesi, indifferenti all’assassinio del pur destro Jaurès, ucciso il 31 luglio dal nazionalista Villain; il solo che fece in tempo a morire degnamente.

Vi furono poche ma gloriose eccezioni. Tra i vari gruppi alla Duma, quello di sinistra del partito socialdemocratico (i bolscevichi) prese fiera attitudine di opposizione e si dette all’agitazione nel paese: fu tutto mandato in Siberia. Solo una parte peggiore dei destri (menscevichi) e dei socialrivoluzionari e populisti votò i crediti di guerra, gruppi intermedi non si macchiarono di tanto ma tennero una politica ambigua.

In Inghilterra, ove anche i partiti erano diversi, il grosso partito laburista appoggiò in pieno la guerra; meglio si comportò il Partito Socialista Britannico, e coraggiosamente contrario fu il Partito Indipendente del Lavoro (Mac Donald). Vero esempio di internazionalismo conseguente dettero i serbi (11). In quale paese poteva di più giocare il motivo della difesa nazionale? L’unico compagno deputato, Laptchevitch, il 1° agosto rifiutò il voto ai crediti. All’opposizione si tenne il partito socialista bulgaro.

Nell’accennata tutta speciale situazione dell’Italia, si può dire che tutti i partiti e i gruppi parlamentari si opposero all’intervento in guerra, che in un primo momento era diplomaticamente preteso dagli alleati della Triplice. Il 2 agosto il governo Salandra annunziò che, non ravvisandosi il casus foederis (estremo previsto nel trattato d’alleanza) (12), l’Italia sarebbe rimasta neutrale, e non vi fu alcuna opposizione da parte dei cattolici e dei giolittiani, ma solo da parte del giovane movimento nazionalista, che nei primissimi tempi fu favorevole all’intervento a fianco degli Imperi Centrali e poco dopo richiese a gran voce la guerra contro di essi: il che, sia detto per inciso, dimostra come per il grande capitalismo industriale italiano, che notoriamente finanziava la stampa dei nazionalisti, l’importante era fare la guerra a tutti i costi, non conta da che parte!

A noi interessa dire quello che avvenne nel partito socialista. E’ del tutto chiaro che al primo delinearsi del pericolo in Europa, che significava in via formale rischio di una guerra a fianco degli Imperi Centrali, sinistri e destri si levarono come un sol uomo contro la guerra, e ciò fin dai giorni della fine di luglio. Per i rivoluzionari, l’opposizione ad ogni guerra era fuori discussione, ma la guerra in Italia sarebbe stata odiosa in modo tanto particolare, che fu risolto in modo radicale anche dai riformisti e “socialisti moderati” il problema che subito si poneva: Come impedire la guerra, se il governo per fedeltà agli impegni la dichiara e ordina la mobilitazione perché nel caso, si attacchi la Francia sulle Alpi? I destri scelsero la soluzione rivoluzionaria: si sarebbe data la parola all’insurrezione armata! Turati, teorizzatore mille volte della non cruenta azione proletaria, dichiarò che, sebbene non giovane, avrebbe per primo imbracciato un fucile scendendo in piazza per invitare cittadini e soldati mobilitati all’insurrezione e all’insubordinazione. Presto si vide che di tanto, malgrado la portata e anche l’incontestabile sincerità della sua posizione, non vi sarebbe stato bisogno.

I destri di allora, come del resto quelli di oggi, hanno per divisa: Ad ogni situazione concreta una risposta concreta; il partito deve porsi il problema inutilmente astratto. Se altra fosse la situazione, quale sarebbe l’altra e diversa risposta? Simili velleità pongono i grandi capi politici in grave disagio; perché disturbarsi ad immaginare che tutte le forze in gioco si spostino sulla scacchiera, cambiando gli amici di un giorno in nemici? Questo muta e guasta tutto, e viene respinto con disdegno: dottrinarismo!

Allora sembrava una domanda a vuoto questa: Se sappiamo che fare nel caso di una guerra contro la Francia, ossia sparare sugli ufficiali italiani, si può sapere che fare nel caso di una guerra contro l’Austria? Quelli che pensano, come noi, che i due casi si equivalgono possono avere il diritto di dare una risposta sola, ma proprio quei signori che vedono tra i due casi enormi differenze pratiche hanno il dovere di aver pronte due risposte, se non vogliono truffare il proprio partito e la propria classe. Questo non è che un esempio, ed è del passato, ma del tutto concreto; e la questione eterna della tattica sta sempre in questi termini, e sempre vi starà in futuro. Conviene dunque che se ne faccia un bilancio.

Tra l’agosto 1914 e il maggio 1915 tutto infatti ebbe a cambiare nel senso diametralmente opposto, e fu messa in discussione l’altra guerra, la guerra alla rovescia, la guerra a favore dell’Intesa. Quindi chi primo pose il problema tattico, non fece sfoggio di dottrinarismo, ma mostrò solo una migliore visione storica dei fatti pratici. Se poi vedere i fatti non solo mentre accadono e dopo che sono accaduti, ma anche prima, vi garba chiamarlo dottrinarismo, fate. Tale parola ci piace e ci rallegra.

Dal 26 luglio Mussolini leva dalle colonne dell’Avanti! il grido di: Abbasso la guerra! e scrive in tutte lettere: Mobilitate, noi ricorriamo alla forza! Il 29 luglio la Direzione del partito lancia un manifesto ai lavoratori dopo un voto del 27 in unione al gruppo parlamentare: si fa cenno al recente sciopero generale e si invita il proletariato a prepararsi a nuove prove di forza.

Ma, se avesse dovuto giocare il trattato della Triplice, non solo i Mussolini e i Turati avrebbero guidato i ribelli, bensì anche altri capi politici, e tra questi i primi a rivelare tutti i loro intenti furono quelli del partito riformista, uscito dalla scissione del 1912; una corrispodenza di Bissolati con Bonomi del 2 agosto rivela che essi avevano chiesta la neutralità ma miravano alla guerra, si intende, contro l’Austria.

Altri gruppi e partiti di cui diremo andavano portandosi su tale terreno, e tra essi non solo repubblicani, radicali, massoni, molti transfughi anche del sindacalismo rivoluzionario e dell’anarchismo, ma perfino in bella combutta con questa genia gli esaltati nazionalisti, anticipatori del posteriore fascismo.

Fu evidente che la fermezza del partito socialista nella lotta contro la guerra poteva esser compromessa se tali errori non si chiarivano e se non si discutevano apertamente le due possibili prospettive, tanto più che quella filoaustriaca nei primi giorni di agosto era ormai scesa sotto l’orizzonte.

Vogliamo riportarci a un articolo della tendenza di estrema sinistra del partito, apparso col titolo Al nostro posto nell’Avanti! (13), del 16 agosto e scritto dieci giorni dopo lo scoppio della conflagrazione generale, che interessa anche per il “cappello” che vi premise il direttore Mussolini, del quale chiaramente si antivede la crisi futura. Il giornale infatti si dichiara d’accordo sul contenuto dell’articolo, ma premette una distinzione abbastanza fragile tra socialismo logico e socialismo storico. Il rivoluzionario dovrebbe essere storico anche se non è logico. Il senso di questa palinodia è che è logico dire anche per l’altra guerra la posizione socialista non dovrà mutare, ma che di fatto l’altra guerra è... un’altra cosa, che la Francia non è la Germania e la difesa non è l’aggressione. L’articolo era scritto, s’intende, proprio per sostenere il criterio opposto a quello del cappello. Alcune citazioni basteranno a chiarire l’impostazione delle tesi della Sinistra, in quanto non erano quelle di tutto il partito italiano (benché non naufragato nella rovina degli altri partiti europei) ma solo di una sua ala più chiara e più decisa (14).

Il «sentimento di viva simpatia per la Triplice Intesa» che molti compagni vanno tradendo «non risponde nel campo ideale al principio socialista, e serve nel campo pratico solo a fare il gioco del governo e della borghesia italiana che freme di intervenire nel conflitto». Dunque, la questione di principio e quella storica erano poste entrambe; ed entrambe correttamente.

E’ negata la giustificazione delle guerre di difesa con l’esempio della Germania, che, nelle infauste dichiarazioni del deputato socialista Hasse, era costretta a difendersi dal pericolo russo. Tutte le patrie sono in realtà in stato di difesa, l’aggressione è un fatto, la offensiva un altro. La violenza bellica (vedi Francia-Germania 1870) fa presto a trasformare un aggressore in un invaso che si difende. E’ fin da quei giorni lontani negata la teoria della “responsabilità” con le parole: «in realtà la borghesia di tutti i paese è ugualmente responsabile dello scoppio del conflitto, o meglio ancora ne è responsabile il sistema capitalistico, che per le sue esigenze di espansione economica ha ingenerato il sistema dei grandi armamenti e della pace armata».

E’ poi svolta la teoria del militarismo borghese contrapposto a quello feudale; è la democrazia elettiva il terreno di coltura del primo. E’ ricordato contro note tesi polemiche che la Francia aveva sempre studiato di fare con la Svizzera quello che la Germania fece col Belgio, e a proposito di tutto l’informe bagaglio retorico della civiltà contro la barbarie, la presenza della Russia zarista feroce e sanguinaria tra i paladini della libertà... Si tratta di sensibilità dottrinaria o di un pratico grido di allarme?

«La tendenza [alla guerra all’Austria] cova nell’ombra. Scoppierà nelle piazze se il governo vorrà fare la guerra contro i tedeschi, e forse assisteremo alle scene del settembre 1911 [Tripoli], specie se ci lasceremo disorientare da sentimentalismi francofili... Il governo potrebbe sentirsi le mani libere, inventare una provocazione tedesca, sventolare lo straccetto del pericolo della patria e trascinarci alla guerra sulla frontiera orientale.

«Domani, sotto il peso dello stato d’assedio, noi vedremo spargere per il mondo l’altra menzogna ufficiale che anche in Italia non ci sono più partiti, nella unanimità guerrafondaia.

«Al nostro posto dunque, per il socialismo!».

 

Dibattiti socialisti nel tempo di guerra

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Non è ovviamente possibile trattare qui della lotta tra i due schieramenti di partiti in Italia che si definirono, come sempre avviene, con etichette di moda: “neutralisti” e “interventisti”. Ben presto sparì dalla circolazione ogni interventismo triplicista e rimase in ballo quello massonico, a cui i nazionalisti subito si adeguarono, passando anzi in testa. Ma il pubblico grosso vedeva nei fautori della neutralità detta assoluta un preteso blocco dei socialisti (allora: ufficiali), cattolici e liberali giolittiani, tutti contrari alla guerra contro gli Imperi Centrali. Qual era l’esatta posizione dei rivoluzionari, come la ribadivano vari settimanali di sinistra delle federazioni (tra cui “Il Socialista” di Napoli)?

Il soggetto della proposta neutralità o del proposto intervento bellico era l’Italia, lo Stato italiano. Per i bolsi democratici, pari a quelli che oggi frodando la delega del proletariato riempiono gli scanni della Camera italiana, ogni azione e posizione politica si riduce a un’indicazione di quello che debba fare lo Stato, quasi che noi ne fossimo parte. Ma il partito di classe è la controparte, il nemico dello Stato borghese, che solo con la sua pressione e in estremi casi storici con le armi può piegare, ed anzi può distruggere. Noi dunque allora, socialisti italiani antiborghesi antibellici ed antistatali, non eravamo neutralisti dello Stato, ma interventisti della lotta di classe e domani della guerra civile, che sola avrebbe potuto impedire la guerra. Erano loro, i guerrafondai, gli interventisti, i patrioti, gli sciovinisti, a meritare il nome giusto di neutralisti della lotta di classe, di disarmatori dell’opposizione rivoluzionaria.

Dicevamo dunque allora che non avremmo tollerato un blocco politico, come lo si caldeggiava, d’accordo con Giolitti e i cattolici, solo perché andando al potere questi non avrebbero fatta la guerra. Se il nostro gruppo parlamentare avesse dato un tale appoggio lo avremmo sconfessato per gli stessi motivi per cui deploravamo francesi, tedeschi ecc. Coloro non avrebbero opposto la guerra altro che con mezzi legali (come quello in articulo mortis dei trecento biglietti da visita al portone di Giolitti nel maggio radioso che venne nel 1915), giammai con l’azione delle masse.

Ma il problema importante era quello entro il nostro partito. Ben pochi giungevano ad ammettere il disfattismo quale Lenin lo teorizzò e non solo per la Russia assolutista, bensì per ogni Stato imperialista borghese. Meno che mai la destra turatiana, che aveva a sua volta minacciato l’azione di sabotaggio della mobilitazione ove il reuccio avesse dato l’ordine di partire (mentre sfidò l’ira di Guglielmone, che gli avrebbe telegrafato: Vinto o vincitore, mi ricorderò di te).

Nel centro si ondeggiava alle ventate del tempo difficile e si andava elaborando quella tattica castrata di Costantino Lazzari, uomo dai tanti meriti e dai tantissimi errori, che venne sintetizzata nella frase: «né aderire né sabotare». Forse sarebbe meglio la divisa sicura dei carognoni di oggi 1963: «in caso di guerra o aderire o sabotare». La brutta formula di Lazzari significava che dopo avere scongiurato la borghesia in tutti i modi di non far la guerra, partite le prime colonne si doveva dire: Bene, abbiamo fatto il nostro dovere, ora non possiamo tagliare i garretti all’esercito nazionale perché faremmo il gioco (torna sempre buono questo famoso fare il gioco) delle armate nemiche pronte ad invadere e devastare – diamoci dunque ad un’opera di Crocerossa civile, di incerottamento delle ferite.

La consegna della sinistra era questa: All’ordine di mobilitazione rispodnere con lo sciopero generale nazionale.

Nessun congresso o riunione potè discutere queste gravi alternative. Il partito nel complesso difese in tutti i modi e in tutte le occasioni la sua consegna di opposizione alla guerra, ad ogni guerra. Quando vennero in Italia socialisti filobellici degli Imperi Centrali e della Intesa, furono debitamente redarguiti e invitati a tornarsene indietro con le loro proposte corruttrici (Sudekum tedesco, Lorand e Destrée belgo-francesi).

La più grave minaccia di crisi la portò Mussolini, che invano gli elementi di sinistra tentavano di trattenere da errori fatali. Esiste una sua lettera autografa (oh, non si vende!) che dice: «Dovreste essere voi al mio posto... Tutti i foruncoli sentimentali vengono a suppurazione! Ricevo ogni giorno lettere che mi dicono: lascerete sgozzare la Francia!». E aggiungeva che non avrebbe piegato. «Per me una guerra all’Austria sarebbe una catastrofe socialista e nazionale».

Giurato male, dicemmo: non sarebbe (né fu) catastrofe nazionale, ma di questo che ci frega? Noi siamo qui per arginare la catastrofe socialista. Ma non erano foruncoli: era un bubbone, e scoppiò, anche se dapprima ne fummo smarriti. Il 18 ottobre del 1914 l’Avanti! uscì con l’articolo: Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante (15). Era il preludio alla tesi della guerra.

Nemmeno una sezione del partito vacillò. Un bell’esempio, e specie per la frazione di sinistra, di nessun attaccamento personale a un capo anche brillante. La sezione di Milano espulse Mussolini per indegnità, si diceva allora, politica e morale. Morale per i soldi dell’Intesa portati da Cachin, con cui pochi giorni dopo usciva il quotidiano interventista “Il Popolo d’Italia”. La Direzione confermò, e nominò una nuova direzione del giornale (Avanti!): Lazzari, Bacci e Serrati. Infine fu il solo Serrati, uomo di indubbia energia. Non si formò nemmeno una piccola frazione. Così andrebbero liquidati i traditori sub specie aeternitatis. Vi furono compagni e compagne che si offrirono di andarlo a revolverare...

Non ci è possibile ritenere compresa nel nostro tema la storia di tutta la contesa politica in Italia tra l’agosto del 1914 e il maggio del 1915 al fine di ottenere che il governo del paese seguisse la linea della neutralità o accettasse la suggestione dell’intervento a favore dell’Intesa. Le varie correnti politiche tradizionali entrarono quasi tutte in crisi e molte di divisero in due campi opposti. Noi dobbiamo principalmente seguire la vicenda in seno al partito socialista italiano, che non ebbe una crisi interna manifesta in quel periodo, mentre abbiamo già detto del distacco di Mussolini, evento che con parola alla moda fu spettacolare, ma non profondo.

La caratteristica del movimento interventista dei famosi “Fasci di combattimento” di cui poi Mussolini conservò il nome nel suo movimento del dopoguerra, fu di uscire dal campo di una semplice pressione parlamentare e legalitaria per risolvere il punto con una pressione sul governo dello Stato e sulla monarchia, e fare deciso appello a un moto di popolo, di massa, che avrebbe, anche con metodi di violenza, forzato la mano a Roma. La guerra è violenza ma è una violenza legale e statale, i fautori della guerra ebbero facile gioco nel mimetizzare la loro conversione nella formula della “guerra rivoluzionaria” non proclamata dai poteri dello Stato o dal re, come la costituzione voleva, ma imposta dal popolo stesso sceso in un agone di tipo insurrezionale.

Fu facile a tale genia trattare i socialisti neutralisti da pacifisti di principio, e all’ingiuria di guerrafondai fu agevole opporre quella, classica allora, di “panciafichisti”. Qualcuno degli scialbi storiografi di quel periodo italiano ha rilevato, in tono di piagnisteo, che quello fu il primo esempio di violentazione della libertà del parlamento, e preparò l’estremo oltraggio che avrebbe dato apertura nel dopoguerra al ventennio della dittatura fascista.

Tuttavia non mancano negli attuali eredi confessi del movimento di liberazione nazionale ed antifascista quelli che non deprecano la violenza nazionalista del maggio radioso, e sono pronti a dirla in regola con le carte della migliore ideologia democratica, nello stesso tempo che sono giunti nel lungo cammino degenerante a condannare la violenza quando serva non ad ottenere una guerra, ma ad abbattere il potere del capitalismo, che invece dovrebbe cadere con processi costituzionali ed incruenti!

Le due idee, quella dell’apologia dell’intervento 1915 e quella della condanna della marcia su Roma 1922, stanno insieme, per dare un solo esempio, nella scatola cranica (dura per suo buon pro) di un Pietro Nenni, stanno insieme come giudizi dati dopo un corso di mezzo secolo nel quale simili soggetti hanno percorso tutta la gamma delle posizioni.

Ma già nel Partito Socialista prima del maggio 1915 vi era chi poneva nei giusti termini storici questo punto della violenza di Stato e della violenza di classe. Una breve nota del “Socialista” di Napoli che fece il giro dei settimanali del partito, svolgeva la critica del termine neutralisti. Noi non eravamo né neutralisti né pacifisti, né credevamo possibile come punto di arrivo programmatico la pace permanente fra gli Stati. Noi deploravamo il disarmo della lotta di classe, della guerra di classe, per far largo alla guerra nazionale. La nostra alternativa non era: non sospendere la lotta di classe legalitaria, ma: combattere nella direzione della guerra rivoluzionaria proletaria che sola avrebbe un giorno ucciso le radici delle guerre fra i popoli. Noi eravamo i veri interventisti di classe, interventisti della rivoluzione.

Tutt’altra era naturalmente la posizione della destra del partito, ormai minoranza. Ma a parte che questa destra controllava il Gruppo parlamentare e la Confederazione del Lavoro, e aveva solo dovuto lasciare la Direzione del partito politico, era ben altra anche la posizione della direzione stessa, che passava per espressione della frazione rivoluzionaria intransigente di Modena, Reggio Emilia e Ancona. Tuttavia la destra e quello che possiamo ormai chiamare centro erano sul terreno di escludere ogni appoggio a un governo di guerra, ogni voto di crediti militari, ogni dichiarazione che il partito in caso di guerra avrebbe “sospesa” la sua opposizione. Ma questo era poco, molto poco, era una specie di politica delle mani nette, degna sì di pacifisti e neutralisti, non certo di rivoluzionari classisti. Venuta la guerra avremmo detto: Abbiamo fatto il nostro dovere e messo al sicuro le nostre responsabilità. Si disse in quei mesi: Abbiamo salvato l’anima!

(6 - continua)

 


 

(1) Vedi Storia della Sinistra comunista, vol. I, edizioni “il programma comunista”, Milano 1964, pp. 79-97.

(2) Tregua d’armi, nell’Avanti!, 12 giugno 1914, in Storia della sinistra comunista, cit. pp.235-237.

(3) Sulla “Settimana rossa” (7-15 giugno 1914),  e il moto spontaneo delle masse proletarie e bracciantili  che la caratterizzò, vedi anche i brani ricavati da “Proletari senza rivoluzione”, di R. Del Carria, Savelli editore, Roma 1979, e pubblicati nel nostro opuscolo, appena uscito, Antimilitarismo rivoluzionario.

(4) Stiffelius: abito maschile elegante in voga tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, detto anche “redingote”, “finanziera”, “prefettizia” perché indossato prevalentemente da persone altolocate o benestanti; di taglio lungo e colore scuro, era a petto unico, con i revers slanciati. Tuba: in questo caso si tratta di un cappello a cilindro usato solitamente da persone che occupano “una posizione di prestigio”.

(5) Sulle gloriose lotte dei braccianti italiani vedi il “filo del tempo” del 1949, pubblicato su “battaglia comunista”, intitolato Le lotte di classe nella campagna italiana.

(6) Il testo che stiamo riprendendo, fa parte dei resoconti scritti delle Riunioni Generali di partito in cui si tenevano i rapporti sulla Storia della Sinistra Comunista; questi capitoli sono stati pubblicati ne “il programma comunista” n. 14 del 1962; questi resoconti poi sono stati adeguatamente elaborati per stampare il primo volume della Storia; il partito comunista “ufficiale” di cui si parla è ovviamente il Pci di Togliatti.

(7) Nel corso della XXIV legislatura del Regno, il deputato socialista di Torino Pilade Gay muore improvvisamente. Per la sua sostituzione si tiene una tornata elettorale nel collegio di Torino. Per i socialisti, al posto di Mussolini o Salvemini, viene candidato l’operaio Mario Bonetto che, nel ballottaggio, riceve 10.991 voti, contro Giuseppe Bevione, avvocato, redattore de La Stampa, che ne riceve 11.058 e che, per 67 voti, viene eletto deputato per il partito nazionalista il 28 giugno 1914 (il caso volle che fosse lo stesso giorno dell’attentato all’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria). https:// www.senato.it/ 3182? newsletter_ item= &newsletter_numero=156. 

(8)   Nella cittadina spagnola di Algeciras, da cui il nome, si tenne nel gennaio del 1906 un congresso internazionale delle maggiori potenze al quale parteciparono Spagna, Gran Bretagna, Francia, Germania, Austria-Ungheria, Belgio, Paesi Bassi, Portogallo, Italia, Russia, Svezia e Stati Uniti, per discutere la questione dell’influenza francese sul Marocco. La Francia, infatti, l’anno precedente, in accordo segreto con la Gran Bretagna, tentava di colonizzare il Marocco, ma la Germania, amica e alleata del sultano del Marocco, saputo di questo tentativo, minacciò la guerra alla Francia (crisi di Tangeri). In conclusione, dalla conferenza di Algeciras la Francia ne uscì politicamente rafforzata, sostenuta da Stati Uniti e Russia e dalla stessa Gran Bretagna, mentre la Germania ne uscì indebolita, sebbene avesse tentato di approfittare delle batoste che la Russia stava prendendo nella guerra russo-giapponese. L’Italia, da parte sua, mirando a stabilizzare il suo dominio sulla Libia (che faceva parte dell’Impero ottomano), si destreggiava come al solito tra gli impegni con la Triplice Alleanza e quelli nuovi presi con la Francia (non ostacolandone le mire sul Marocco)

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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