La strage alla Manchester Arena: …e poi più niente, all’improvviso… come a Falluja, Homs, Mosul, Raqqa?

(«il comunista»; N° 149;  Giugno 2017)

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Riprendiamo da un articolo di un cronista del Corriere della Sera del 24.5.2017:

«Nel vicolo accanto all’Holiday Inn Express i cinque bidoni verdi che servono a tenere libero il posto dove parcheggiano i fornitori dell’hotel sono pieni di tovaglioli e fazzoletti di carta intrisi di sangue. Dal fondo di quello più lontano dall’ingresso, l’unico chiuso da un coperchio, spuntano una camicetta rosa e un paio di leggins lacerati, una scarpa sinistra Adidas Stan Smith decorata con brillantini, due telefonini Samsung spenti, alcuni poster accartocciati con la firma riprodotta di Ariana Grande, “World tour 2017”. (…)

 

«L’orrore non è in quegli indumenti macchiati di rosso nascosti in tutta fretta, nei palloncini rosa ormai sgonfi seminati ovunque a ricordare che era una festa. E neppure nel racconto di una nostra connazionale, alla quale bisogna garantire l’anonimato per preservarle il posto di lavoro e farla sfuggire alla draconiana politica di riservatezza dell’Holiday Inn Express, diventato per la sua vicinanza alla Manchester Arena avamposto della tragedia, rifugio per bambini che nella calca erano stati persi dai genitori, luogo di cure provvisorio e smistamento dei feriti più gravi. L’orrore è salire in macchina con un cronista del giornale cittadino, uscire di qualche chilometro, verso la “suburbia”, periferia povera e disagiata. Fermarsi davanti a un cancello di legno usurato dal tempo, entrare in una modesta casa prefabbricata, dal pavimento in linoleum, con teli di nylon stesi sul divano, e sopra la signora Charlotte Campbell che piange e chiede notizie di Olivia, la sua unica figlia, “ha solo 15 anni, scrivete il mio numero di telefono, fatemi sapere”. Confrontare la dignitosa miseria di questa madre sola, la ricrescita dei capelli alta due dita, avvolta in una felpa sformata di una marca da discount, che si aggrappa alle braccia di sconosciuti per cercare conforto, con le immagini di Olivia sui social network, un gioiello di ragazza, vestita bene, elegante in abito da ballo. E pensare agli sforzi, alla fatica che ci vuole, crescere un figlio, farlo diventare l’unica ragione di vita, condannarsi a una inconfessabile apprensione che dalla sua nascita riempirà ogni istante di ogni giorno. Come per paura che si rompa, come fosse di cristallo.

«E poi più niente, all’improvviso. Perché c’è un matto, una carogna con la mente annebbiata da una ideologia delirante, che alle 22.20 di un lunedì sera, una volta aperti i cancelli per far defluire il pubblico, si mette a due metri dall’uscita centrale e si fa saltare in aria, uccidendo 22 persone e mutilando decine di ragazze e ragazzi che non conosce, che non ha mai visto. (…)

«Adesso dove la mettiamo questa ennesima strage, qual è il suo posto nel martirologio europeo degli ultimi due anni. Il confine dell’indicibile era già stato oltrepassato undici mesi fa a Nizza, con un camion che aveva puntato dritto sulle giostre e i fuochi d’artificio del 14 luglio» (…).

Il cronista ha cercato di comunicare, dal punto di vista di una madre che subiva l’orrore della strage che, in una serata che doveva essere di festa, di divertimento, di gioia, le aveva con grande probabilità portato via l’unica figlia, in una serata che doveva essere di festa, di divertimento, di gioia e per la quale desiderava, come tutte le mamme, un futuro sereno, senza la miseria della disoccupazione o i guai di una società che stritola facilmente le vite di intere generazioni. Una figlia che è andata al concerto e che non è tornata: e poi più niente, all’improvviso!

Proviamo a cambiare città, e paese; proviamo a pensare a Falluja, a Mosul, a Damasco, a Homs, alle mille città e ai mille villaggi dell’Iraq, della Siria, dell’Afghanistan, colpiti sistematicamente dalle bombe e dai razzi, presi in mezzo dagli scontri militari tra milizie armate ed eserciti “regolari”, entrambi sostenuti, armati, foraggiati dalle potenze imperialiste più grandi del mondo e dalle potenze locali in cerca di un’influenza territoriale più diretta; presi in mezzo da azioni di terrorismo di ogni tipo, dal più crudo e spettacolare al più raffinato e invisibile. Quante Sabra e Chatila e quante Falluja ci sono state nel tormentatissimo Medio Oriente, quanti campi di concentramento, quanti massacri, quante violenze e quante vite spezzate di bambini, di ragazze e ragazzi, di uomini e donne e di vecchi. Un singolo terrorista, sebbene appoggiato da una rete organizzata più o meno grande ed efficiente, può fare certamente decine di morti e centinaia di feriti, ma mai tanti quanti ne può fare un singolo Stato. E ogni Stato al mondo, finora, risponde ad interessi di carattere finanziario, economico, politico e di potenza che non conoscono la pace, la convivenza civile, il benessere generale per tutti gli esseri umani.

Che cosa possono aver provato e che cosa provano tuttora, quelle madri, quei padri, quei parenti che hanno perso e continuano a perdere i propri cari nei bombardamenti, negli scontri fra milizie contrapposte e desiderose soltanto di conquistare e mantenere una fetta di potere, alla stregua di una qualsiasi cosca malavitosa ma anche di un qualsiasi potentato economico e finanziario. In tutte le guerre che stanno devastando interi paesi c’è un consumo mastodontico di armi e di sistemi d’arma, dai più moderni ai più tradizionali. E da dove arrivano queste armi? Arrivano soprattutto dai grandi paesi imperialisti che non si limitano a vendere le armi al tal Paese o al tal Signore, sia l’Arabia Saudita o Israele, l’Egitto o la Corea del Sud, ma le usano in ogni teatro di guerra in cui risulti conveniente e necessario anche l’intervento diretto, come in Iraq, in Libia, in Afghanistan o in Siria.

Ai massacri sistematici tra le popolazioni colpite ci sono molti modi di reagire: ci si nasconde come si può, si fugge il più lontano possibile, si cerca di resistere sperando di evitarli, ci si arma per difendersi in qualche modo, si aderisce ad organizzazioni che dimostrano di reagire alla violenza con la violenza, si cerca di sfogare la propria rabbia e la propria disperazione non solo nelle grida e nella preghiera ma anche in quella specie di ritorsione che  sono gli attentati contro quelle istituzioni, quei personaggi, quegli eserciti, quelle popolazioni che appaiono i responsabili immediati o nascosti dei massacri. Gli atti di terrorismo, un terrorismo che negli anni si è vestito di giustificazioni religiose e che è stato catalogato, per lo più,  come fondamentalismo islamico – ma al quale si è accompagnato, nel tempo, un fondamentalismo ebraico, un fondamentalismo cattolico, protestante, induista ecc. – sono espressioni violente della reazione tipica delle classi piccolo-borghesi; tipica in quanto queste classi, che non hanno mai avuto nella storia una identità di classe ben definita e tanto meno una capacità di esprimere un programma politico e storico di grande caratura, e che oscillano da sempre tra la grande borghesia e il proletariato, a seconda della situazione generale e dei rapporti di forza esistenti tra le due classi principali della società, la classe borghese dominante e il proletariato per l’appunto; dicevamo tipica in quanto questi strati sociali, quando vengono colpiti in modo sistematico nei loro interessi di piccoli proprietari, piccoli produttori, piccoli capitalisti, reagiscono con violenza contro tutti gli altri, soprattutto contro i componenti della massa popolare che è loro vicina e nella quale si confondono più facilmente.

Ed è proprio perché queste mezze classi non sono e non saranno mai in grado di esprimere un programma storico, politico e sociale diverso da quello borghese, che hanno bisogno di giustificare le loro azioni e le loro posizioni con ragioni ideologiche che hanno una radice sociale reazionaria, come appunto l’estremismo religioso, l’estremismo nazionalista, il razzismo o il loro contrario, il pacifismo, il legalitarismo, tutte radici che fanno germogliare la pianta dell’interclassismo.

Che il terrorismo di questo tipo sia un “danno collaterale” della politica di austerità, di stretta finanziaria, di dispotismo e controllo sociale della borghesia dominante è un fatto ormai assodato da tempo; e le polizie e le organizzazioni dell’intelligence di ogni Stato sono perfettamente a conoscenza di questo effetto e adeguano volta per volta gli strumenti e i mezzi per controllarlo e prevenirlo, quando ce la fanno. Esso è un’arma non solo contro le misure che soffocano gli interessi della piccola borghesia, e contro i potentati stranieri che colpiscono indifferentemente i combattenti e la popolazione civile, ma anche a sostegno della conservazione sociale capitalistica nei due versanti: nel versante del paese in cui si attuano i bombardamenti e si combattono gli interessi delle frazioni borghesi e piccoloborghesi legate a parti di territorio e di popolo (da sfruttare), in cui si chiama all’unità contro le potenze straniere e i borghesi locali legati ad esse; e nel versante del paese imperialista colpito dagli attentati terroristici, in cui il potere chiama all’unione sacra tutto il suo popolo contro il terrorismo, “internazionale” o meno che lo si voglia chiamare.

Il proletariato, in quanto classe produttrice per eccellenza e il cui sfruttamento come forza lavoro salariata è condizione fondamentale per la sopravvivenza della società capitalistica, sia per il suo sviluppo che per la sua conservazione, non ha alcun interesse di classe in nessun versante della conservazione capitalistica: né nei paesi colpiti dai bombardamenti e dalla guerra borghese di rapina, né nei paesi imperialisti. Anzi, nei paesi imperialisti il proletariato ha un dovere politico e morale di classe ancora più importante: quello di lottare contro la borghesia del proprio paese affinché non si lanci nelle avventure militari che non hanno altro scopo che di opprimere e tener sotto il tallone di ferro paesi e popolazioni più deboli.

Si è dimostrato nella lunga storia delle guerre borghesi di rapina e di conquista dei territori economici che rispondono a interi paesi e continenti, che queste guerre alle quali la borghesia di ogni paese – pur facendosi la guerra una con l’altra – chiama a raccolta in una unità per la patria tutto il “popolo” e soprattutto il proletariato, che questa unità per la patria porta beneficio esclusivamente alla classe borghese dominante, anzi un doppio beneficio: ha a disposizione le masse proletarie che combattono, si sacrificano e muoiono per la causa borghese, ed ha i più grandi vantaggi economici e finanziari sia dalla guerra stessa che dalla sua fine. Prima, durante e dopo, il proletariato, se si sottomette alla politica di collaborazione di classe con la borghesia, è solo certo di dare il proprio sudore e il proprio sangue perché si gonfino le tasche dei capitalisti e dei loro lacchè, ed è solo certo che, “finita la guerra”, le sue condizioni di vita non miglioreranno se non, forse, per una sua piccolissima parte che si è venduta completamente al nemico di classe.

La risposta che il proletariato, dal punto di vista dei suoi interessi di classe immediati e futuri, rispetto agli atti del terrorismo piccoloborghese, come rispetto agli atti del terrorismo della grande borghesia, non è quella della “pacificazione sociale”, della “sospensione di ogni conflitto sociale”, della tregua nella lotta che sta conducendo in difesa dei suoi interessi immediati di classe; non è dunque quella di unirsi agli sfruttatori capitalisti, ai padroni senza scrupoli, ai dirigenti politici e amministrativi corrotti e corruttori, ai corpi di polizia e dell’esercito che non si limitano a diventare aguzzini dei proletari tutte le volte che il potere borghese impone misure di sicurezza (per sé stesso) al massimo livello, ad uno Stato che altro non fa se non difendere in ogni occasione e a tutti i livelli, e con tutti gli strumenti di cui è dotato, violenza compresa, gli interessi della classe borghese!

La risposta proletaria deve essere quella di negare l’unione sacra, di rifiutare di diventare uno strumento di oppressione della propria borghesia su altri popoli, di rigettare qualsiasi mano tesa rivestita di patriottismo, legalitarismo, pacifismo, collaborazionismo interclassista: l'interesse della classe proletaria, in tutti i paesi, non si concilierà mai con l'interesse borghese, perciò, riconoscendo l'antagonismo di classe congenito nella società capitalistica, il proletariato non ha altra via per la sua emancipazione che quella della lotta di classe e della rivoluzione anticapitalistica e, perciò, antiborghese.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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