A cent’anni dalla prima guerra mondiale

Le posizioni fondamentali del comunismo rivoluzionario non sono cambiate, semmai sono ancor più intransigenti nella lotta contro la democrazia borghese, contro il nazionalismo e contro ogni forma di opportunismo, vera intossicazione letale del proletariato (7)

(«il comunista»; N° 150; Settembre 2017)

 Ritorne indice

 

 

La serie di queste puntate, in cui vogliamo dimostrare la perfetta sintonia di posizioni e di atteggiamenti pratici della corrente di quella che si chiamerà per molto tempo “sinistra italiana” (1) con le posizioni sostenute da Lenin e dai bolscevichi più coerenti di fronte alla guerra imperialistica mondiale, nella lotta contro lo sciovinismo e il socialpatriottismo, è iniziata dal n. 142, febbraio 2016, de “il comunista”, sulla traccia dei capitoli della nostra Storia della Sinistra comunista (vol. I, dal cap. 15 Verso la guerra in Europa, al cap. 22 I giovani socialisti in tempo di guerra), per  proseguire nei nn. 143 (Congresso di Ancona del PSI del 1914), 145 (posizioni di Lenin richiamate negli articoli sull’Antimilitarismo rivoluzionario), 147 (Lenin, sul disarmo e sulla Junius brochure), 148 (ancora Lenin e la Junius brochure), 149 (posizioni di Mussolini e della Sinistra 1914-1915).

Continuiamo, quindi, con la documentazione degli scritti della Sinistra comunista d’Italia, riprendendo l’articolo di Amadeo Bordiga, pubblicato ne “L’Avanguardia”, il giornale della Federazione giovanile del PSI, nei numeri 359, 360 e 362 del 25/10, 1/11 e 16/11/1914, subito dopo l’inaspettato voltafaccia del direttore dell’Avanti!, Benito Mussolini.

 

IL SOCIALISMO DI IERI DINANZI ALLA GUERRA DI OGGI

 

Si tratta di un articolo in tre parti, uscito, subito dopo il clamoroso voltafaccia di Benito Mussolini, nel giornale dei giovani, che fu minacciato dalla defezione del suo direttore, peraltro subito estromesso. La lunghezza del testo ci ha fatto un poco esitare, ma lo diamo tutto perché espone con ordine i termini della grave questione, ed è prova del contributo dei giovani al partito in ogni difficile momento.

La prima parte è notevole perché ribatte la tesi ostinata che un capitalismo avviato a democrazia possa mettere fine alle guerre. Non solo era stata un’utopia che la guerra fosse divenuta impossibile («La grande illusione»), ma per il marxismo essa era INEVITABILE (questione viva ancor oggi). E più democrazia non vuol dire meno guerra, ma più militarismo: tesi elevata da noi da sempre..

La seconda parte ribatte i sofismi per i quali il socialismo 1914 avrebbe dovuto ammettere la guerra. Vi si tratta delle guerre di difesa, di quelle di nazionalità e indipendenza, di quelle democratiche, e per ognuno dei casi è rimessa in piedi senza esitazioni la valutazione storica marxista. Si dimostra che i gravi tradimenti dell’agosto non avevano ucciso il socialismo internazionale.

La terza parte prende di fronte la proposta di seguire anche in Italia la via dei traditori, propugnando l’intervento statale contro l’Austria; si contesta nella viva realtà del tempo il travisamento dell’interpretazione della guerra nell’abusato senso antitedesco; infine si inveisce contro i fautori della guerra che la chiedono non a moti di popolo, ma alle mosse sinistre dello Stato borghese e della monarchia italiana, con una violenta invettiva contro questa offerta da rinnegati fatta col sangue migliore del giovane proletariato. Quest’invettiva è sul sano punto teorico, perché non si tratta di orrore della violenza o del sangue, né di timore del sacrificio della vita, ma si afferma in quale senso rivoluzionario la gioventù la offrirebbe senza esitazioni.

Così il movimento rosso dei giovani adempie al suo compito di controbattere il militarismo e di sorreggere il partito contro ogni pericolo di corruzione opportunista e socialpatriottica.

 

I.

 

E’ nel momento in cui il militarismo è scatenato sulla miglior parte del mondo che i valori della propaganda antimilitarista subiscono violenti tentativi di demolizione proprio da parte di coloro che ne erano gli assertori più decisi. Emerge dunque dagli avvenimenti che si vanno svolgendo una condanna così evidente della concezione e della tattica socialista fin qui accettate? Sono dunque infranti i «quadri» teorici del nostro modo di pensare il divenire sociale e il processo della storia, in modo tale che la nostra azione pratica debba precipitosamente ripiegare verso altri indirizzi? Non pochi compagni mostrano di ritenerlo e gettano via come inutile bagaglio dottrinale quello che era ieri il contenuto del loro pensiero e la guida della loro azione. Naturalmente essi ritengono di essere con ciò non meno socialisti di prima e di avere soltanto apportata - con quanta mirabile sollecitudine! - alle loro convinzioni la rettifica imposta dalla eloquente lezione dei fatti. Così noi vediamo in nome del socialismo rivoluzionario, del sindacalismo, dell’anarchismo, inneggiare alla guerra come fase ed episodio del processo storico da cui scaturirà la società nuova, e che potrà secondo la vittoria di questi o di quelli accelerarne il ritmo od infliggergli una remora di imprevedibile durata. Manca però l’accordo nel valutare l’indirizzo di questa colossale crisi storica, che alcuni ripongono ogni salute della democrazia, dell’Internazionale e di non so che altro nella vittoria della triplice intesa, altri in quella dei tedeschi, e gli uni e gli altri, da ogni lembo di Europa incendiato o prossimo all’incendio, irridono alla fossilizzazione dei pochi che osano restarsene sulla vecchia piattaforma del socialismo antimilitarista e pensano ed agiscono in conseguenza. Sudekum ed Hervé bastino come esempi.

Ebbene, a costo di essere tacciati di forcaioli, noi domandiamo la parola in difesa dell’antimilitarismo «vecchio stile». S’intende che non esponiamo casi personali di coscienza, né discutiamo quelli altrui. Analizziamo soltanto, in modo necessariamente sommario, gli avvenimenti; e ci permettiamo di mostrare perché essi non hanno sorpreso né sconvolto il nostro pensiero socialista. Ostinazione cieca! Ma ostinazione che ha da prospettare, modestamente, degli argomenti.

 

LA GUERRA ERA «IMPOSSIBILE»?

 

A quanto pare noi tutti si faceva una gran propaganda antimilitarista appunto perché... eravamo sicuri che non ci sarebbero più state guerre tra le grandi potenze di Europa. Scoppiata la guerra, sarebbe andata lo­gicamente all’aria la base di questo tipico antimilitarismo, ed ogni socia­lista avrebbe dovuto di diritto dire: la guerra c’è, non resta che scegliere il minor male e parteggiare per questi o per quelli. Ragionamento che dai socialisti degli Stati impegnati fin dall’inizio si estendeva a quelli degli Stati neutrali. Ma quando e come aveva il socialismo profetizzato che di guerre non ne sarebbero più avvenute? Ed in tal caso, quale ragione restava di lavorare alla propaganda antimilitarista con la stampa, nei comizi, col «Soldo al soldato», e con l’organizzazione dei giovani socialisti?

In verità la tesi dell’impossibilità della guerra aveva la sua maggiore formulazione nel famoso libro di Normann Angell “ un borghese “ nella mostruosa concezione borghese della pace armata, e nel concetto specifi­camente antisocialista che la civiltà procedesse in modo evolutivo e educa­tivo aprendo gli occhi a governati e governanti sull’enorme errore e la evidente follia di una conflagrazione europea, dati i «moderni mezzi di di­struzione».

Poiché la borghesia dei diversi Stati non poteva non essere cosciente dell’enorme danno che dalla guerra le sarebbe derivato, senza eccezione di vincitori, si pensava che le classi dominanti e i governi che ne sono la espressione avrebbero ad ogni costo evitato lo scontro immane. Si era anche prospettata, nel grande meccanismo della moderna economia, la complicazione del vastissimo intreccio degli scambi e dei rapporti internazionali, giunto ad uno sviluppo che la storia mai aveva registrato e costituito da fili delicatissimi che la guerra avrebbe spezzati, causando la rovina economica di tutte le classi sociali. Si confidava quindi che le diverse borghesie non sarebbero corse al suicidio. Ma la chiave del concetto socialista è invece che la classe dominante in regime capitalistico non può governare e reggere le forze che si sprigionano dagli attuali rapporti delle forme di produzione, e resta a sua volta vittima di certe contraddizioni inevitabili del regime economico, il quale non risponde alle esigenze della grande maggioranza degli uomini. Il grande quadro marxista della produzione capitalistica mette in luce questi contrasti e la impotenza della borghesia a do­minarli. Poiché gli strumenti di produzione e di scambio non sono ancora socializzati, non ne è possibile un impiego razionale, non vi è giusto rapporto fra i bisogni e la produzione, che è basata soltanto sull’interesse del capitalista; e da tutto ciò conseguono le colossali e dannosissime crisi economiche che sconvolgono i mercati, le assurde sovrapproduzioni per cui dalla abbondanza si genera la disoccupazione dei salariati e la miseria; e come ultima conseguenza la rovina di alcuni degli stessi capitalisti, nell’interesse dei quali è montata la macchina mostruosa della economia pre­sente. Da ciò consegue - seguitiamo a ricapitolare - che la vita moderna non è l’evoluzione continua verso una maggiore civiltà, ma è il percorso della fatale parabola che, attraverso un inasprimento delle lotte di classe e un aumento di malessere nei lavoratori, si risolverà nel crollo finale del regime borghese.

Ebbene, parallelamente a questo processo, per il quale la classe dominante prepara senza poterlo evitare il suo suicidio storico, noi assistiamo ad un altro assurdo. Lo sviluppo dei mezzi di produzione nel campo economico, la diffusione della cultura in quello intellettuale, la democratizzazio­ne degli Stati in quello politico, invece di preparare la cessazione delle guerre e il disarmo degli eserciti fratricidi, conducono ad una intensificazione dei preparativi militari. È questa una sopravvivenza di altri tempi - ad esempio dell’epoca feudale -, è un ritorno ai secoli della barbarie, o non è piuttosto una caratteristica essenziale del regime sociale moderno, borghese, e democratico? Notiamo, intanto, che quelle borghesie statali le quali non possono in tempo di pace reggere le file della produzione, e scongiurare le catastrofi finanziarie, così, anche volendo, sono impotenti ad impedire lo scoppio delle guerre, che si presentano come la via di uscita unica e fatale da situazioni economico-politiche in cui gli Stati si trovano cacciati.

È, d’altra parte, così immenso il danno che le borghesie risentono dal­la guerra? Questa è certo una distruzione di capitali, ma alla borghesia intesa come classe, più che il possesso materiale dei capitali, interessa la conservazione dei rapporti giuridici che le consentono di vivere sul lavoro della grande maggioranza. Questi rapporti, interni alle nazioni, consistono nel diritto di monopolizzare gli strumenti di lavoro, che a loro volta sono frutto di altro lavoro della classe proletaria. Purché, ad essere più chiari, resti intatto il diritto di proprietà privata sulle terre, sulle case, sulle miniere, dopo la devastazione della guerra il proletariato ricostruirà macchine, stabilimenti, ecc. e li riconsegnerà ai suoi sfruttatori, risentendo tutte le conseguenze del difetto di generi di consumo, ma ricostituendo i capi­tali necessari alla vita di tutti per farne nuovamente monopolio di pochi. Naturalmente, non pochi borghesi, come individui, saranno travolti, ma altri li sostituiranno. Si osserva che nella guerra resta schiantato il comples­so organismo dei rapporti finanziari e bancari, della circolazione del de­naro; ma a ciò i governi borghesi in parte suppliscono con speciali sospen­sive dell’ordinaria vita economica, in parte contano rimediare con l’indennità spettante al vincitore. In conclusione la guerra, disastrosa sotto ogni rapporto per il proletariato, è oggi purtroppo possibile; e la borghesia ne vede intaccata la sua ricchezza materiale, ma conservati e forse rafforzati i rapporti potenziali per ricostituirla, poiché la lotta di classe si assopisce e si spegne nell’esaltazione nazionale. Vi sono imprevedibili complicazioni dovute ad una ondata di rivolta per tante sofferenze; rivolta che avrebbe però poche possibilità di successo, condotta da un popolo stremato, dissanguato ed ottenebrato da odii sanguinosi verso i proletariati di oltre confine.

 

GUERRA E DEMOCRAZIA

 

Dati i progressi della tecnica, i cannoni, gli esplosivi, le navi che si co­struiscono oggidì sono senza paragone più potenti degli antichi mezzi di offesa. Lo sviluppo dell’economia borghese, e la enorme importanza assun­ta dagli organismi statali, accentratori di tante vitali funzioni, permettono a questi di investire nella preparazione bellica risorse finanziarie ignorate dagli antichi monarchi e condottieri di tutte le epoche. Inoltre, i vincoli con cui gli Stati moderni legano, sotto la vernice della civiltà democratica, i singoli individui, vanno diventando così stretti che lo Stato può disporre di masse enormi di armati, succhiando fin l’ultimo uomo valido alle popolazioni. Lo Stato militare dispone di gran numero di soldati addestrati alle armi e veterani grazie alla coscrizione obbligatoria, sistematicamente intro­dotta dopo la rivoluzione francese (fu deliberata proprio dalla Convenzione in Francia). La immensa rete di ferrovie, che è alla portata degli Stati moderni, permette di dislocare e mobilitare in poche ore masse enormi di uomi­ni, che vengono reclutati, armati e portati al confine con celerità impressionante a milioni e milioni. Soffermatevi col pensiero su questo spettacolo delle mobilitazioni moderne! Quale maggiore insulto alla libertà individuale di questo, reso possibile dalle ultimissime risorse della cosiddetta civiltà e della costituzione degli Stati in regime borghese e sulle direttive democratiche?

Le guerre antiche non presentavano nulla di simile. Gli eserciti erano molto meno numerosi, erano formati in gran parte per necessità tecnica di veterani, tutti volontari o mercenari, ed i reclutamenti forzati erano limi­tati, episodici e molto più difficili di oggi. Gran parte dei lavoratori erano lasciati ai campi ed ai loro mestieri; fare il soldato era una professione o una libera decisione “ si ignoravano le enormi masse di oggi e le carne­ficine delle battaglie combattute con le armi moderne. Le stesse invasioni barbariche erano migrazioni di popoli che muovevano, con le famiglie, gli armenti e gli strumenti del lavoro, a predare terre ridenti e fertili per il maggior benessere di tutti “ sia pure assicurato con la forza bruta “ mentre il soldato moderno, se anche sopravvive alla guerra vittoriosa, torna alla consueta vita di sfruttamento e di miseria, probabilmente aggravata, dopo aver lasciato a casa la famiglia che lo Stato sostiene... con pochi centesimi.

Le guerre dell’epoca feudale erano anche diverse. I baroni personalmente vestivano il ferro e mettevano a rischio la vita, seguiti da poche migliaia di uomini d’armi, per cui la guerra era un mestiere coi rischi inerenti ad ogni mestiere. La guerra cui assistiamo non è dunque un ritorno all’epoca barbara o feudale, ma è un fenomeno storico proprio del nostro tempo, che avviene non malgrado la civiltà attuale, ma appunto a causa del regime capitalistico che cela sotto l’aspetto della civiltà una profonda barbarie.

La possibilità e la fatalità della guerra sono inerenti alla costituzione degli Stati moderni, che in regime di democrazia politica mantengono la schiavitù economica ed estendono la propria strapotenza, apparentemente basata sul consenso di tutti, fino al punto che un pugno di ministri, esponenti della classe dominante, può portare in 24 ore sulla linea del fuoco e della morte milioni di uomini che non sanno dove e perché e contro chi saranno mandati: fatto impressionante che raggiunge il massimo dell’arbitrio tiranno che nel corso dei secoli ha oppresso moltitudini umane.tc "La possibilità e la fatalità della guerra sono inerenti alla costituzione degli Stati moderni, che in regime di democrazia politica mantengono la schiavitù economica ed estendono la propria strapotenza, apparentemente basata sul consenso di tutti, fino al punto che un pugno di ministri, esponenti della classe dominante, può portare in 24 ore sulla linea del fuoco e della morte milioni di uomini che non sanno dove e perché e contro chi saranno mandati\: fatto impressionante che raggiunge il massimo dell’arbitrio tiranno che nel corso dei secoli ha oppresso moltitudini umane."

 

 

II.

 

IL «FALLIMENTO DEL SOCIALISMO»

 

L’unica forza seriamente contrastante al militarismo di tutti i grandi Stati europei, erano le tendenze socialiste del proletariato. Lo scoppio della guerra costituirebbe, quindi, secondo taluni, la bancarotta teorica e pratica del Socialismo.

Ora, mai questo si è assunto il compito di migliorare radicalmente il mondo presente, restando nell’ambito delle istituzioni borghesi; bensì quello di trasformarlo nelle sue basi, ritenendo tale trasformazione unico termine delle sofferenze della classe sfruttata (s’intende che trattiamo tutta la questione dal punto di vista del socialismo rivoluzionario). Solo nel regime socialista, col comunismo dei mezzi di produzione e scambio, l’umanità potrà dominare le forze della produzione, eliminando l’oppressione sociale e la miseria (Marx) e solo nella società senza classi saranno impossibili le guerre. Noi ripudiamo l’antimilitarismo riformista che sogna la nazione armata e non si accorge che l’evoluzione degli Stati borghesi, soprattutto dei più democratici, si svolge precisamente in senso opposto.

Alla guerra porrà fine la rivoluzione sociale. Senza accettare del tutto il noto dilemma mussoliniano sullo sciopero generale in caso di mobilitazione, notiamo che un tentativo rivoluzionario avrebbe sempre maggiore possibilità di successo in tempo di pace che alla vigilia della guerra.

Il proletariato ha fatto già alcuni tentativi rivoluzionari comunisti, e sono falliti; altri, certo, ne falliranno ancora, senza che da ciò sorga la con­danna del socialismo. Ciò che è crollato negli avvenimenti attuali è il sogno di una Europa borghese, democratica e pacifista.

Ma un insuccesso indiscutibile del Socialismo si è avuto nel senso che, oltre alla mancanza di ogni tentativo serio di opposizione, c’è stata quasi universalmente l’adesione dei partiti socialisti nazionali alla guerra. Ciò è certamente molto grave. Ma noi socialisti italiani nella posizione - comoda se si vuole - di spettatori, possiamo discuterne le cause, forse anche cercarne i rimedi, e forse tentare di applicare i rimedi alla nostra attuale situazione, facendo sboccare la teoria nella pratica. La convinzione socialista, rivestimento ideale degli interessi proletari, è il risultato delle condizioni economiche di ambiente sulle grandi masse operaie; e nel caso degli intellettuali è l’effetto di uno speciale processo psicologico e mentale, su cui e più difficile l’indagine. Come, sotto la pressione delle correnti militariste e patriottiche, hanno vacillato le direttive dei vari partiti socialisti?

Non è difficile spiegarcelo.

Il militarismo è l’avversario più temibile della nostra propaganda appunto perché non si avvale della persuasione, ma si basa sulla costituzione­ di un ambiente forzato ed artificiale, nel quale i rapporti di vita sono completamente diversi da quelli dell’ambiente ordinario.

Il lavoratore, fatto soldato, sottratto alla vicinanza di amici, parenti, conoscenti, tolto alla vita dell’officina, vede soppresso il suo diritto a discutere, mozzato il proprio individuo, annullata la sua libertà, e si trasforma fatalmente in un automa, in un balocco nelle mani della disciplina.

Il richiamato che veste la casacca ritorna automaticamente sotto l’in­flusso dell’ambiente militare. Il più piccolo gesto di ribellione è pagato con ­la morte. La diserzione é praticamente impossibile. La rivolta collettiva esigerebbe un concerto ed una intesa irraggiungibili.

D’altra parte, in poche ore il militare è trasportato altrove, in paesi che non conosce, fra commilitoni che in gran parte vede per la prima volta, manca di ogni notizia che non provenga dai suoi capi: una sola alternativa di salvezza gli resta: ubbidire ciecamente e battersi contro il nemico nella speranza della vittoria... Ad ogni modo la sua mentalità è così violentemente forzata ed alterata, che non è meraviglia se egli finisce col tradire le sue convinzioni socialiste, le quali nel maggior numero dei casi si riducono all’avere dato il voto a un candidato socialista. Per i capi, i dirigenti del partito, la cosa è diversa. Ma anche essi sono vittime di una suggestione di ambiente. La loro maggior cultura ne fa molto spesso dei socialisti imperfetti. Hanno troppi legami intellettuali con le ideologie borghesi. Pochi di essi hanno ripudiato ogni sentimentalità patriottica e quasi tutti si sen­tono più che esponenti della classe proletarIa rappresentanti della Nazione.

Il loro programma di demolitori lascia troppo posto alle responsabilità di chi partecipa alla tutela di uno Stato. Quindi, allorché i governi borghesi, qualunque sia stata la loro opera precedente alla guerra, assicurano di esservi trascinati loro malgrado, per la difesa dei supremi interessi nazionali, e domandano la fiducia unanime del Paese, primo coefficiente di successo..., allora il deputato socialista tentenna e si lascia travolgere dalla corrente dell’entusiasmo. In questo critico momento della storia, i parlamenti, orgoglio della democrazia, non hanno fatto che ratificare senza discutere la politica bestiale ed assassina dei governi. Quando si ammette in nome del Socialismo una categoria di guerre, sarà sempre agevolissimo alla classe dominante, che sola ha gli elementi della situazione, prospettare la sua guerra come rientrante in quella categoria e strapparle l’adesione socia­lista, chiamandone magari i leader a partecipare al ministero per la difesa nazionale. Così sono stati raggirati i socialisti francesi, austriaci, tedeschi, ecc. Occorre dimostrarlo?

Il Socialismo dovrà trarre da queste gravi sconfitte vitali insegnamenti: rimettere su più salde basi l’azione antimilitarista, rivedere in senso più rivoluzionario la sua azione parlamentare, così ricca finora di amare delusioni. Anziché - vi ritorneremo in appresso - adattarsi ad un socialismo nazionale, il proletariato dovrà essere domani più apertamente antimilitarista e definire il suo atteggiamento di fronte al patriottismo, vecchia insi­dia dei suoi peggiori nemici. Noi socialisti italiani - traendo di passaggio una prima conclusione - dovremo negare allo Stato anche la nostra soli­darietà nella difesa nazionale, senza di che saremmo vittime di un altro colossale inganno pari a quello dell’impresa tripolina.

 

LA GUERRA CHE IL SOCIALISMO «DOVREBBE AMMETTERE»

 

Contro la pregiudiziale antiguerresca, si assume da non pochi socialisti:

1) che i socialisti devono partecipare ad ogni guerra di difesa nazionale da una aggressione straniera; 2) che i socialisti non possono disinteressarsi delle guerre di nazionalità, poiché sarebbe un presupposto necessario dell’avvento del socialismo la sistemazione di tutte le nazionalità entro i loro naturali confini; 3) che i socialisti dovrebbero, in una guerra di nazioni rette con ordinamento più democratico contro altre meno socialmente evolute, parteggiare per le prime contro le seconde. La tesi guerrafondaia, nei due ultimi casi, andrebbe dalla semplice simpatia all’intervento personale e fino alla pressione sul proprio Stato per l’intervento militare nel conflitto nel senso desiderato.

Ebbene, queste tre finestre aperte nell’antimilitarismo si basano su degenerazioni sentimentali che sono del socialismo la negazione assoluta. Anzitutto, esse si contraddicono fra loro in modo evidente. Se la Francia avesse aggredita la Germania, per riprendere l’Alsazia-Lorena (siamo nel campo degli esempi), i socialisti tedeschi avrebbero dovuto difendere la patria o... marciare contro di essa in nome del principio di nazionalità e della democrazia? E nelle guerre coloniali che sono di aggressione e di oppressione, ma di... estensione della civiltà democratica, che cosa devono fare i socialisti? Questi sofismi derivano da un errore fondamentale, dal voler dirimere il torto dalla ragione in competizioni che si risolvono non con elementi di giustizia, ma con la violenza bruta. Inoltre, sono distinzioni che potrebbe fare solo chi disponesse di una forza risolutiva e definitiva dei conflitti, non chi col suo intervento potrebbe solo spostare le probabilità dei risultati della guerra, aumentandone intanto sicuramente l’esten­sione e le conseguenze di odio e di revanche.

 

LA GUERRA DI DIFESA

 

Non richiameremo estesamente i concetti secondo cui i proletari non hanno alcun interesse da difendere con la patria e sulle frontiere nazionali. Diremo solo che in tutte le guerre l’offesa e la difesa sono reciproche e spesso simultanee. L’aggressione è una parola elastica. S’intende per essa la violazione dei confini? Ma - militarmente - potrebbe essere imprudente attendere tale fatto; è necessario prevenirla rompendo con una controinvasione i tentativi nemici. S’intende per aggressione la rottura dei rapporti diplomatici? Ma, in base ai libri di vario colore, nessun governo manca di argomenti per riversarne sull’altro la responsabilità. S’intende per aggressione il preparare la guerra? Allora tutti gli stati moderni sono aggressori, poiché costruiscono senza posa navi e cannoni e continuamente accrescono gli effettivi degli eserciti. Senza andare oltre, ne risulta che l’adesione alla eventuale difesa nazionale è una cambiale in bianco firmata dai socialisti nelle mani dei governi borghesi, che potranno farne l’uso che credono. Per giustificare l’andata in Libia si disse che i turchi avevano disonorata una ragazza italiana. È il vecchissimo caso del lupo e dell’agnello.

 

LE GUERRE DI NAZIONALITÀ' E D’INDIPENDENZA

 

Veniamo al problema delle nazionalità.

È vero che, prima di parlare di un’azione socialista internazionale, occorre risolvere tutti gli irredentismi e dare a tutti i popoli la sistemazione politica secondo le nazionalità?

La cosa va guardata un po’ più a fondo. Quando il regime feudale cedette il posto alla moderna borghesia, questa nel suo programma idealistico di classe rivoluzionaria scrisse a grandi caratteri il postulato delle rivendicazioni nazionali. La rivoluzione borghese appariva fatta nell’interesse dei popoli, anziché in quello di una nuova oligarchia, appunto perché ne risaltava il carattere politico anziché quello economico. Si credeva dai filosofi borghesi, che ogni schiavitù sarebbe scomparsa con l’eliminazione del dominio di un popolo sull’altro e con l’eguaglianza politica dei citta­dini dinanzi alla legge. Il socialismo ha poi dimostrato che vi è un altro motivo più sostanziale e profondo nel malessere delle masse, ed è l’oppressione di classe, anche nell’interno dei gruppi nazionali. Ma senza togliere al problema delle nazionalità la sua grande importanza storica, notiamo che una soluzione parziale, ma abbastanza estesa, si è già avuta, e si ebbe a mezzo di guerre-rivoluzioni, nell’epoca eroica della borghesia; quando il militarismo non era sviluppato come oggi e con poche migliaia di uomini raccogliticci si abbattevano le bastiglie come si liberavano le nazioni. Quell’epoca storica si è risolta nella formazione e nell’assestamento dei grandi Stati moderni, nell’ambito dei quali la borghesia, meno idealistica di al­lora, sfrutta largamente il proletariato e fa opera di conservazione.

Oggi le guerre le fanno gli Stati e non le «Nazioni». Esse si risolvono col predominio dell’una o dell’altra potenza, che ben poco preoccupata di pregiudiziali romantiche allarga la sua influenza economica e politica sui popoli di ogni razza e colore. Senza andare più oltre, la sistemazione delle nazionalità è ormai divenuta irraggiungibile. I moventi delle guerre sono ben altri. I loro risultati dipendono da coefficienti economico-militari, e siccome la ricchezza e la forza armata sono in mano degli Stati più solidamente costituiti, le soluzioni dei problemi guerreschi sono statali e non nazionali. Il famoso principio di nazionalità è poi qualche cosa di inafferrabile. Meno pochi casi classici, le questioni di indipendenza nazionale sono controverse. Le ragioni storiche, geografiche, etnografiche, autorizzano alle più contraddittorie soluzioni. Anche ammesse la concordia e la buona volontà di tutti gli stati europei, neppure sarebbe possibile la famosa sistemazione che ci permetterebbe poi di adoperarci a buttar giù la borghesia. Ed un problema così difficile da risolvere pacificamente lo si vorrebbe affidare all’aleatoria della guerra, alla sorte ancipite delle armi! Ma ogni guerra creerà o risusciterà almeno tanti problemi di irredentismo, quanti ne avrà distrutti. E le rivalità, le alleanze s’intrecceranno sempre più assurde e complicate. Dovrebbe il proletariato socialista aderire a questo gioco san­guinoso, anziché consacrarsi fin da ora e senza pregiudiziali di sorta a pre­parare lo sforzo rivoluzionario?

Dopo la classica guerra nazionale balcanica contro la Turchia, le nazionalità redente si massacrarono fra loro. Il Giappone è oggi alleato della Russia. I boeri si battono sotto la bandiera inglese. Tutte le guerre degli ultimi anni s’inquadrano malissimo nel vecchio cliché delle nazionalità. Ed è più logico il nazionalista che si pone anche il problema del riscatto, del trionfo, e dell’egemonia di una nazionalità, che il socialistoide che vuole redimerle e conciliarle tutte, ma attraverso una serie di guerre sanguinose le quali per condurre a quello scopo dovrebbero essere singolarmente ammaestrate.

 

LE GUERRE DEMOCRATICHE

 

Resta l’altra pretesa ragione di partecipazione socialista alla guerra: la necessità di favorire il trionfo delle nazioni più civili, più evolute, più demo­cratiche, su quelle arretrate nel processo storico e sociale. Si invoca perciò la solita necessità di accelerare il completamento dell’evoluzione borghese, che è l’argomento principe per ogni genere di transigenze; ciò porterebbe ad approvare senz’altro le guerre coloniali come guerre di civilizzazione, contro la concorde opinione di tutti i socialisti e contro l’altro principio delle guerre di aggressione, che ci trova tutti dello stesso parere. Nella guerra italo-turca noi socialisti italiani non avremmo dovuto essere oppositori, perché l’Italia più o meno democratica era di fronte alla meno che feudale Turchia.

Ma il concetto fondamentalmente erroneo è quello che tendenze politico-sociali dei vari Stati prevalgano le une sulle altre nelle guerre e si diffondano per l’universo a seconda della sorte delle armi. Quelle tendenze dipendono da condizioni economiche e sociali di ordine interno e dai rap­porti delle classi sociali nell’ambito di ciascuno Stato, si modificano a seconda dello svolgersi delle lotte di classe e di partito ed i loro momenti risolutivi sono le rivoluzioni, le guerre civili.

Nelle guerre esterne gli Stati non si prendono il lusso di combattere per far prevalere sul mondo un principio più o meno accademico o filosofico di democrazia o di assolutismo... Nei loro rapporti internazionali gli Stati vivono in ambiente affatto amorale e si ispirano al massimo dell’egoismo. Gli Stati che impongono ai loro sudditi di uniformarsi a certe norme per rendere possibile la convivenza sociale, nelle relazioni internazionali non riconoscono alcuna legge, ed anche in tempo di pace usano verso gli altri Stati le armi dell’inganno, dell’astuzia, della corruzione, dello spionaggio; per ricorrere in tempo di guerra all’ultima ratio della violenza che non conosce legge. Il cosiddetto diritto internazionale vige finché ad una nazione non conviene violarlo; applicato ai grandi Stati moderni è una utopia, poiché non v’è diritto ove manchi un’autorità dotata di forze su­periori per imporne l’osservanza. Ogni governo non vede e non può vedere che i cinici interessi del proprio Stato (è a ragion veduta che diciamo sempre Stato e non «nazione») e tende a conservarli e difenderli contro i nemici interni ed esterni. A qualunque partito o scuola filosofica appartenga, l’uomo di governo agisce sempre come un feroce conservatore. La libertà che esso concede ai sudditi è in relazione alla necessità di conservare l’equilibrio interno tra le forze economiche e politiche delle classi e dei partiti.

Vi sono diverse scuole di governo, ma sono metodi diversi per assicurare la massima potenza allo Stato, ed in ultima analisi alla oligarchia econo­mica che è da esso impersonata. Quindi i governi non tendono a far trion­fare un principio nell’interno di una nazione - e tanto meno a diffonderlo all’estero colle armi - ma solo a rassodare lo Stato e a curarne nel modo più acconcio gli interessi. Si capisce che questa tendenza è celata sotto le belle frasi della civiltà, della democrazia, del progresso - o magari dell’ordine, della religione, del lealismo monarchico ecc. Lo scopo è però unico. Le crociate, le guerre napoleoniche, quelle della restaurazione, tutte le Sante Alleanze, erano ispirate da ben altri moventi, che mistiche e filosofiche ragioni di propaganda universale...

Le nazioni moderne, rette a democrazia, nelle colonie opprimono e tiranneggiano in ragione della minor forza dei loro sudditi. L’Inghilterra, la Germania, la Francia, l’Italia, hanno tutte una vergognosa storia coloniale. E perciò non può attendersi la diffusione di certi principi moderni dal trionfo militare dei paesi in cui già sono diffusi, specialmente nell’epoca attuale che non è più una epoca eroica come quella in cui la borghesia si formava e poteva ancora avere certe generosità.

D’altra parte il trionfo di un regime democratico è sempre un passo verso il socialismo? Se noi ci rifiutiamo di aiutare la democrazia borghese sia nei suoi conflitti interni colle classi feudali e i partiti clericali sia sul campo logico del suo ulteriore sviluppo - in base alle ragioni della nostra intransigenza - perché dovremmo favorirne poi i successi militari, che sono un modo tanto discutibile di fare propaganda di principio, e assai poco suscettibile di fornire coefficienti di progresso?

Anzitutto dunque la «democrazia» non si diffonde nel mondo con le baionette, secondariamente da tempo essa non merita più né le nostre simpatie né il nostro appoggio.

Il fenomeno “ tanto citato in questi giorni come verità indiscussa “ avviene forse nel senso precisamente inverso. Le vittorie militari sono un coefficiente di ritorni politici. Dopo l’epopea napoleonica la Francia subisce la restaurazione. Dopo Sedan, abbiamo invece la repubblica ed un tenta­tivo socialista: la Comune. Ogni guerra, determinando la famosa unanimità nazionale dei partiti e delle classi, rialzando il prestigio delle istituzioni e dell’esercito, qualunque ne sia la causa e l’esito, non è un passo indietro nelle nostre aspirazioni rivoluzionarie, il cui mezzo naturale è la lotta di classe?

 

 

III.

 

Le considerazioni precedenti sono di indole molto generale, si dirà, e gli avvenimenti le avrebbero intaccate. Vediamo come e perché. Quei socialisti che sono per l’intervento dell’Italia a favore della Triplice Intesa dicono che questa rappresenta la democrazia contro l’assolutismo e il militarismo (?) e che la vittoria di essa assicurerà la risoluzione dei famosi problemi nazionali. Di fronte ad un momento così decisivo della storia il Partito Socialista Italiano dovrebbe lasciare le dissertazioni astratte e propugnare l’intervento armato dello Stato italiano.

Il caso della guerra di difesa dunque non c’e, poiché ci si propone di intervenire, ossia di aggredire. Restano le altre due motivazioni: guerra di nazionalità e di democrazia.

Secondo questa corrente valutazione, la Germania, Stato ancora semi-feudale, dominato dalle cricche militariste e da un imperatore che sogna l’egemonia del mondo, avrebbe assalita la Francia e la Russia recando un piano da lungo tempo preparato, trascinando seco l’Austria e trovando il pretesto nell’attentato di Sarajevo per fare scoppiare il dissidio slavo-tedesco. L’Inghilterra sarebbe intervenuta commossa per l’avvenuta violazione della neutralità belga, e lo scopo attuale delle potenze della Triplice Intesa sarebbe di fiaccare la prepotenza germanica allo scopo di risolvere i problemi di nazionalità, assicurare il trionfo della democrazia contro il militarismo, e “ secondo un certo comitato sovversivo romano “ ammannire persino ai popoli un anticipo di socialismo sotto forma di un sistema di lavoro e di giustizia sociale (?!). Ora questa esposizione del momento attuale, che dovrebbe renderci fautori della guerra, e vorrebbe essere l’espressione ultima della più illuminata obiettività, è quanto mai parziale; è la derivazione di una infinità di pregiudizi e di sentimentalismi, sforza la realtà entro un quadro convenzionale, mentre pretende di irridere alla posizione di quei socialisti che non vacillano sotto il dilagare della marea retorica, accusandoli di voler chiudere il ritmo immenso della storia in poche formule preconcette...

Bisognerebbe almeno, prima di esprimere un giudizio, sentire l’altra campana. Secondo i tedeschi, e secondo l’opinione comune dei neutri che per essi simpatizzano, la cosa è puramente capovolta. La Germania moderna, industriale, ricca di forze di espansione commerciale non seconda a nessuno nel campo della scienza e della cultura, reagisce contro il pericolo dell’assolutismo russo che vuole soffocarla sotto la pressione della massa slava, incitata sotto mano dall’Inghilterra che vede ingigantire sui mari una nuova rivale. La Germania si difende e fa barriera al dilagare dello zarismo... Eresie? Si, eresie le une quanto le altre, poiché ogni Stato si disinteressa totalmente che la democrazia si diffonda e il socialismo si affretti... Ma ogni Stato ha interesse e necessita, per scongiurare i torbidi interni, di ingannare il popolo presentando la guerra come unica via per salvare la patria dal pericolo, e sostenendo di esservi tratto per i capelli.

Sulle cause della guerra non discuteremo a lungo. Tutti la preparavano da decenni. Alle smanie dell’Imperatore Guglielmo fan riscontro la mostruosa alleanza franco-russa, i brindisi guerrafondai del sig. Poin­carè, e la lotta della borghesia francese per ottenere la ferma triennale.

La politica filantropica dell’Inghilterra venne accusata di ipocrisia da Keir Hardie in piena Camera dei Comuni dopo lo scoppio della guerra. I socialisti russi abbandonarono la Duma in segno di protesta contro le dichiarazioni guerrafondaie dello zar. I tedeschi, austriaci e francesi sono stati unanimi per la guerra. Ognuno è convinto di lottare per una causa di giustizia. Tutti sono vittime del daltonismo nazionale.

Dire che la Germania d’oggi è feudale è una enorme esagerazione. Se alcune forme politiche non si sono evolute, ciò non autorizza a disconoscere lo stupefacente sviluppo economico-sociale della Germania nell’ultima generazione.

Vi è, attorno all’Imperatore, una aristocrazia agraria. Vi sono forme cortigiane, avanzi d’altri tempi. Vi è alto il prestigio dell’esercito. Ma allora, di grazia, che dire dell’aristocrazia agraria inglese che circonda il suo re facendo sopravvivere il medioevo nel turbine della vita moderna inglese? Che dire del fanatismo francese per l’armée?

E come cancellare dal quadro a tinte rosee la gran macchia nera del dispotismo russo?

In Prussia vi è il suffragio ristretto: ma il voto plurimo che vige nel Belgio non toglie che oggi lo si classifichi all’apice della democrazia solo perché è stato invaso. Ma, per sciocca convenzione, se si parla della Ger­mania, si allude alla Germania del Kaiser; se della Francia, si dice «La Francia dell’89 e della Comune»; se della Russia, «la Russia Rivoluzionaria del 1905». Eh via, è un po’ troppo! Non si ricordano per avventura la Germania della riforma e del marxismo, la Russia autocratica e liberticida, l’Inghilterra e la Francia plutocratiche i cui forzieri grondano sangue umano...?

Ma a parte questo labirinto di osservazioni e reminiscenze accessibili ad ogni scolaretto di ginnasio, resta, dal punto di vista socialista, il fatto innegabile che non c’è antitesi tra militarismo e democrazia, e che la preparazione militare della Germania è in relazione al suo sviluppo moderno industriale e non a tradizioni di altri tempi. Il militarismo è internazionale.

D’altra parte solo gli ingenui possono credere che gli Stati della Triplice Intesa combattano per gli... «Stati Uniti d’Europa» e per ristabilire le nazionalità nei loro confini. Già le alte classi di Francia e d’Inghilterra sognano la spartizione della Germania  - non parliamo dell’Austria! - e, come il Kaiser anelava alla marcia su Parigi, così lo zar è ansioso di riversare su Berlino il suo esercito sterminato. Non vi è posto che per la violenza e non vi è altro desiderio che l’annientamento del nemico. I popoli ne sono lo strumento come la polvere o il piombo dei proiettili. I gabinetti e gli Stati maggiori studiano l’offesa senza risparmio di materiale umano. Si risparmiano bensì le unità delle flotte che costano milioni e non si ricostruirebbero che dopo anni ed anni... In margine alla mostruosa tragedia, i Sudekum e gli Hervé conciliano il bestiale egoismo statale di monarchie e repubbliche con i sommi principi della democrazia e dell’Internazionale. Essi sono solo prigionieri di situazioni più forti di loro. La parola è al cannone e l’autorità è alla spada; il diritto delle genti figura nelle pagine della Guerre Sociale o dell’Arbeiterzeitung, complici più o meno in malafede dell’inganno proletario, ma sui campi di battaglia regge il diritto senza canoni, il diritto del più forte; si lotta senza esclusione di colpi.

È, come dice taluno, la vecchia rivalità delle razze che sopravvive e ritorna a costringerci a rettificare i piani e le vie dell’Internazionale? La storia demolisce il vecchio Manifesto marxiano? No. Quelle pagine dettate nel 1848, quando fervevano le rivendicazioni etniche e nazionali, sono oggi ancora più vere. Dove sono le razze e le nazionalità? In molti eserciti esse lottano sempre sotto la stessa finale unità dei militarismi statali. Pochi socialisti si sono rifiutati di combattere. È vero. Ma quanti uomini appartenenti a razze e a nazionalità oppresse hanno rifiutato il fucile che doveva difendere l’oppressore? Quale terra irredenta è insorta?

Ogni coscienza ed ogni senso di libertà e di fierezza umana hanno dovuto piegare sotto il giogo di questa modernissima tirannide. Non vi sono più che soldati. I soldati non sanno perché combattono: devono combattere. Sapranno, dopo, l’infame inutilità del sacrificio. Sono oggi poco mutabili le condizioni del conflitto immane. Ma nessun vantaggio saprebbe compensare l’enorme sperpero di vite umane e di ricchezze. Noi stessi, rivoluzionari convinti, non sapremmo augurare una redenzione proletaria che costasse la vita alla metà degli oppressi insorti in armi. La vita è il bene supremo. Eppure, molti rivoluzionari che oggi sono per la guerra si armano di pacifismo!

E molti sono oggi per la guerra, riformisti e democratici, che negavano alla causa santa del Socialismo la vita di pochi proletari caduti sul campo della lotta di classe e vorrebbero oggi sacrificarne migliaia in una azione che, se anche ci avviasse ad una maggior libertà sarebbe sempre la via più stranamente indiretta per raggiungerla.

Dalla guerra però noi attendiamo solo l’esaltazione del militarismo. Dopo tale esempio, democratici, repubblicani, riformisti varcheranno il Rubicone e saranno gli alleati della preparazione guerresca delle nazioni. Le grandi unità statali militari saranno difficilmente sfasciate e noi dovremo riattivare la lotta di classe più difficile - ma forse più aspra e risolutiva.

 

INTERVENTO?

 

Ma veniamo ai socialisti fautori dell’intervento italiano. La loro tesi della necessità di assicurare la vittoria della Triplice Intesa non ha nulla a che fare col socialismo. Il possibile minor male che scaturirebbe da una tale soluzione del conflitto non ha riscontro col vantaggio socialista di tener testa almeno in un grande Stato, e sia pure profittando di circostanze speciali, alla marea guerrafondaia. E, concessa loro questa inguaribile francofilia, ammessa la loro strana concezione della guerra (domandando soltanto a questi socialisti quale guerra essi avverseranno se sono favorevoli ad un intervento italiano senza necessità e senza provocazioni) guardiamo un poco quale è la portata della loro folle propaganda guerrafondaia. Che partano dei volontari noi lo comprendiamo. E’ gente ancora convinta che i destini del mondo si decidano massacrando i lavoratori sotto la divisa dell’ulano.

Ma, dopo tutto, mettono la loro pelle come posta nel gioco. E vanno rispettati nonostante l’evidente accertata inutilità pratica del loro gesto. Osserviamo però come è difficile ottenere per diretta azione socialista un sacrificio anche molto minore di quello della propria vita, e ci domandiamo se anziché dinanzi a casi di cosciente eroismo non assistiamo all’inebriante ipnotismo del sangue. Non abbiamo però parole contro i criminali fautori dell’intervento statale. Desiderare che chi vuole o non vuole sia trascinato alla frontiera ed esposto alla mitraglia, che la gioventù austrofoba o austrofila, e magari indifferente, perché troppo occupata nel tormento quotidiano della patria miseria, vada al macello senza discutere, ecco ciò che é folle, antisocialista e inumano. Scatenare i turpi valori del militarismo statale, rinunziare all’autonomia di partito o di classe per affidare ogni direttiva a quella autorità militare che abbiamo sempre sognato di fiaccare e di distruggere, da liberi pionieri della Rivoluzione diventare i pretoriani di Sua Maestà, ah no, anche se giusta e santa fosse la causa per cui muoverebbe in guerra l’Italia; il che non è.

Pacifismo? No. Noi siamo fautori della violenza. Siamo ammiratori della violenza cosciente di chi insorge contro l’oppressione del più forte, o della violenza anonima della massa che si rivolta per la libertà. Vogliamo lo sforzo che rompe le catene. Ma la violenza legale, ufficiale, disciplinata all’arbitrio di un’autorità, l’assassinio collettivo irragionevole che compiono le file di soldatini automaticamente all’echeggiare di un breve comando, quando dalla parte opposta non meno automaticamente vengono incontro le altre masse di vittime e di assassini vestiti di un’ altra casacca, questa violenza che i lupi e le iene non hanno, ci fa schifo e ribrezzo. L’applicazione di questa violenza militare alle masse di milioni di uomini tolti agli angoli più remoti degli Stati, nelle tremende alternative di questa guerra, non può avere altro effetto che di livragare e soffocare quello spirito di sacrificio e di eroismo a cui potremo domani chiamare i campioni dell’insurrezione proletaria - e che è ben diverso dalla bestiale tendenza a distruggere, ad uccidere finché è possibile, con gli occhi velati dal fumo e dal sangue.

Noi pacifisti? Noi sappiamo che in tempo di pace non cessano dal cadere frequentissime le vittime dell’ingiusto regime attuale. Noi sappiamo che i bimbi degli operai sono falciati dalla morte per mancanza di pane e di luce, che il lavoro ha la sua percentuale di morti violente come la batta­glia, e che la miseria fa, come la guerra, le sue stragi.

E di fronte a ciò non è la supina rassegnazione cristiana che noi proponiamo, ma la risposta con la violenza aperta a quella violenza ipocrita e celata che è il fondamento della società attuale. Ma la violenza sacra della ribellione per non essere colpevole sacrificio deve colpire giusto e dare al tronco. Furono ben morti le migliaia di comunardi caduti sotto il piombo dei versagliesi. Ma il mandare al massacro in nome della rivoluzione un milione di uomini, consegnandoli ai dominatori di oggi perché siano impegnati in un’impresa di successo incerto, che trova le sue ragioni in una discutibile e bolsa retorica incosciente e contraddittoria, non si giustifica col dirsi immuni da tenerezze pacifiste, no, perdio, ma è opera insana da macellai impazziti.

E contro essa noi restiamo al nostro posto, per il socialismo, antimilitaristi domani come ieri e come oggi, perché desideriamo al sacrificio delle nostre vite, quando fosse necessario, una DIREZIONE molto diversa.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

Top

Ritorne indice