Particolarismo catalano esasperato contro unità borghese della Spagna

Il proletariato ha una sola risposta: il nemico è in casa, è la propria borghesia, unitaria o regionalista che sia!

(«il comunista»; N° 151; Dicembre 2017)

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LA BORGHESIA CON I SUOI NAZIONALISMI, INDIPENDENTISMI, UNITARISMI, CERCA DI TRASCINARE SOTTO LE PROPRIE BANDIERE I PROLETARI DI OGNI REGIONE DEL PAESE METTENDO GLI UNI CONTRO GLI ALTRI. E' SOLO NELL'UNITÀ DI CLASSE CHE I PROLETARI POSSONO TROVARE LA VIA PER AFFRANCARSI DAGLI INGANNI E DALLE MISTIFICAZINI IDEOLOGICHE DEI BORGHESI, E PER DARE ALLA PROPRIA LOTTA IL FUTURO DELL'EMANCIPAZIONE DA OGNI SFRUTTAMENTO

 

Cinque anni dopo la massiccia manifestazione (Diada) del 2012, la tensione tra il Governo centrale spagnolo e la Generalitat catalana ha raggiunto il punto di ebollizione, in particolare dal 10 al 12 ottobre. Questi anni sono stati segnati dall’esigenza, avanzata dai due presidenti della Generalitat, Artur Mas e Carles Puigdemont, di tenere un referendum sull’indipendenza della Catalogna; e, da parte dello Stato centrale, e del governo Rajoy, dalla reiterata e netta opposizione a che si tenesse, sotto qualsiasi forma, questo referendum. Di fatto, già nel 2014 si ebbe un conato di referendum, ma il suo scarso esito portò sia la Generalitat che il Governo centrale ad ignorarlo, continuando però, entrambi, a darsi battaglia per obiettivi futuri del tutto simili.

Sarebbe, in ogni caso, assurdo credere che il problema catalano si riduca ai termini di una votazione legale o illegale, vincolante o meno. Di fatto, questo problema non ha fatto che crescere, molto di più di quanto abbia fatto vedere la versione televisiva, secondo la quale quel che era in gioco era la legittimità o la illegittimità del voto in Catalogna, dunque “l’esercizio dei diritti democratici”. In realtà, se si prende il punto di uscita dell’ascesa dello scontro nel nucleo stesso della crisi capitalistica che devastò il mondo a partire dal 2007-2008: lo scontro politico deriva dalla guerra economica. Le bandiere democratiche e legalitarie rispondono a cause ben più venali; la mobilitazione “cittadina”, infine, risponde a forze materiali di maggior profondità che delle semplici urne.

Come abbiamo spiegato nelle recenti prese di posizione sugli avvenimenti in Catalogna, l’evento scatenante è stata la rivalità economica sempre più intensa tra differenti gruppi della borghesia. Da un lato, il gruppo di borgehsi raggruppati sotto l’ala del nazionalismo catalano e le sue diverse organizzazioni politiche e sociali, il Cercle de Empresaris, certi settori del Foment del Treball, gruppi di piccoli industriali durantemente colpiti dalla crisi (legati, in posizione sussidiaria, alle grandi intallazioni turistiche), organizzazioni padronali della campagna come la Unió de Pageses ecc. Dall’altro lato, la quasi totalità della borghesia nazionale spagnola, specialmente quella il cui raggio d’azione è non solo nazionale ma internazionale (vi fanno parte anche numerosi borghesi catalani legati al capitale finanziario di provenineza europea e americana), e molto più in particolare quella che possiede in Spagna, e quindi anche in Catalogna dato che è la sua principale regione economica, la fonte dei profitti coi quali finanzia il suo assalto agli altri mercati fuori del paese.

Questa borghesia si è posta timidamente dietro al governo del paese e solo negli ultimi giorni ha preso una posizione inequivocabile di appoggio a quest’ultimo tornando ad agitare la bandiera dell’unità nazionale attraverso organizzazioni paravento come Sociedad Civil Catalana e gruppi di estrema destra. Inoltre, oltre a questi due attori principali, vi sono altri secondari, come la piccola borgehsia locale legata alla struttura autonomista dello Stato, interessata al mantenimento di un sistema economico di coesione in ambito nazionale, attraverso il quale si attua la redistribuzione di redditi su cui essa stessa vive da parassita.

Su questo sfondo di guerra economica e commerciale si collocano i differenti attori politici ed è partendo da qui che si possono capire i loro comportamenti una volta respinte come stupide le consegne patriottiche, civiche e democratiche: il PSOE di Andalusia difende l’unità del paese mentre il PSC parteggia per uno Stato confederale? La risposta bisogna cercarla in un PSOE andaluso che gestisce i profitti provenienti dalla Catalogna per via fiscale e in un PSC fermamente legato ad una imprenditoria catalana che vede diminuire il fondo del canut con le “riscossioni” tributarie della Azienda spagnola e non in una identità nazionale ispano-andalusa né in una svolta nazionalista del partito tradizionalmente anti-catalanista della cintura “rossa” di Barcellona.

Dai negoziati sul Patto Fiscale tra il Governo centrale e la Generalitat di Catalogna, vero punto di partenza di questo scontro, fino alla progressiva perdita di influenza economica della borghesia catalana a causa del dinamismo commerciale dei suoi competitori peninsulari diretti (si pensi fino a che punto il corridoio mediterraneo non potrebbe sopportare l’egemonia commerciale catalana in termini di commercio intercontinentale e fino a che punto questo fatto non basterebbe ad inquadrare l’indipendenza come ricatto non contro Madrid ma contro Algeciras, Cartagena, Valencia... e Euskadi), la guerra sporca commerciale, economica e politica è stata il pane quotidiano, ogni giorno, tra borghesi di uno e dell’altro fronte dell’Ebro implicando anche quelle grandi imprese che sono le società sportive di calcio, che muovono nello stesso tempo ingenti masse di capitale e immensi contingenti di proletari ebbri ogni domenica dell’oppio calcistico quasi religioso.

Ma, chi spera di distinguere una borghesia catalana e una borghesia spagnola nettamente definite, dietro il proprio stendardo di guerra (entrambe con gli stessi solori, cosa che dovrebbe far pensare a tutti gli imbecilli difensori della sacra essenza dell’una o dell’altra) e armate contro il nemico... si sbaglia completamente. La borghesia è una classe parassitaria: parassitaria del lavoro proletario, dal quale estorce il plusvalore, e parassitaria del capitale nel quale si trasforma il plusvalore. Perciò, è una classe che appare come riflesso politico e sociale della circolazione delle merci e dei capitali: una classe nazionale che sorge da un intreccio che è internazionale per definizione.

La lotta politica fra differenti gruppi borghesi non ha, quindi, la sua origine in due capitali, in due borghesie nazionali perfettamente definite, ma dalla pressione che questi gruppi esercitano attraverso le diverse armi a disposizione, giuridiche, legali, poliziesche, militari, al fine di appropriarsi di una quantità maggiore di quote di profitto generato in termini sociali e non nazionali o locali. Il borghese di Zaragoza tiene un’intima relazione con quello di Reus, sono parte della stessa struttura reticolare, ma entrambi desiderano prendere per sé una parte maggiore di quella struttura reticolare utilizzando la propria forza contro quella del collaboratore-avversario. Parlare, quindi, di borghesia catalana e spagnola è una formula sintetica che, sebbene possa aiutare a riassumere in pche parole la natura dello scontro economico, si perde buona parte della spiegazione necessaria.

Storicamente sono state le correnti piccoloborghesi, cercando di abbellirsi con un vestito “socialista”, che hanno individualizzato la borghesia e il capitale, figurandola con frac e cilindro se non con appellativi diversi come: le trecento famiglie catalane o i signori dell’Ibex 35, sono affermazioni che non hanno senso perché contengono la negazione del capitalismo come fatto sociale e non individuale, come un insieme di relazioni economiche e non soltanto giuridiche. Di fronte a questi capi del capitalismo con volto umano e alle grandi società finanziarie, corrotte e perverse, con quegli appellativi si desidera imporre la visione idillica del piccolo commerciante, del piccolo industriale “popolare”, dell’agricoltore che coltiva con uno o due braccianti il suo pezzetto di terra. La visione è quella di un capitalismo in un contesto locale e familiare, negando che è proprio da quel contesto che, storicamente, è nato e si è sviluppato il capitalismo dando luogo al capitale finanziario, all’imperialismo e all’espansione del capitale in tutti gli angoli della terra.

Certamente la lotta sulla “questione catalana” non è stata una lotta fra borghesie nazionali differenti. Coloro che sostengono qualcosa di simile, per semplice che sia l’argomento, vanno a collocarsi all’estremità del radicalismo sociale: tutto il “problema catalano” si riduce ad una lotta fra due “legittimità democratiche”, fra due tipi di legalità. Da un lato, l’agglomerato nazionalista catalano che lancia il suo appello: “visto che la Spagna non vuole ammettere la particolarità catalana fino alle sue ultime conseguenze, provocando una situazione di aggravamento principalmente economico, ma anche culturale, sociale ecc., i catalani devono decidere, esercitando i loro diritti democratici, se desiderano continuare a rimanere nella Spagna”. Perciò il referendum. Dall’altro lato lo Stato spagnolo, seguito da vicino da tutte le sue risorse istituzionali e mediatiche, risponde: “qualsiasi ‘diritto di decidere’ risiede esclusivamente nella totalità della nazione spagnola e non può essere alienato da una parte di essa a rischio di incorrere in una pratica antidemocratica”. La consegna democratico, quindi, è sempre presente da ambo le parti: democrazia è votare, di fronte a democrazia è l’unità nazionale. Entrambe le posizioni nascondono la natura delle rispettive esigenze dietro una formula astratta, la formula democratica, allo scopodi presentarsi legittimate nelle rispettive azioni.

L’esigenza democratica implica, da subito, che tutte le correnti politiche dello Stato spagnolo prendano posizione rispetto alla questione posta, compiendo in questo modo il ruolo di agglutinante che catalizza tutte le posizioni di tutte le frazioni borghesi in lizza. Costituito come nodo della questione politica attuale in Spagna, ha significato il finis gloriae mundi di tutte le correnti che, dall’esplosione sociale del 15 maggio, avevano preteso di rappresentare la prospettiva di un cambiamento sociale (contro la casta, contro l’unione Europea ecc.). Tutte le correnti politiche hanno difeso la democrazia rivendicata da tutte le parti – e soprattutto da parte catalana – come qualcosa che obbliga a posizionarsi dietro il gruppo borghese che la brandisce. Così, Podemos, seguito da tutte le organizzazioni della sinistra politica e sindacale, si sono lanciati nella difesa senza se e senza ma della borghesia acatalana che aveva lanciato il referendum “democratico”. A difendere, quindi, la causa comune con i gruppi di pressione imprenditoriali, culturali, sociali... nazionalisti; a difendere, perciò, non soltanto la consegna del voto, ma anche la prospettiva di un “nuovo” Stato, di una polizia, di istituzioni borghesi, di una legislazione che questi gruppi di pressione richiedevano. E’ così che abbiamo visto la sindaca di Barcellona, Ada Colau, passare dalle manifestazioni per la casa – che la lanciarono come celebrità mediatica – all’abbraccio con il capo della Generalitat, responsabile dell’attuazione di misure economiche contro le quali Colau, nelle manifestazioni di strada durante la sua campagna elettorale, diceva di combattere. E abbiamo visto i Candidati di Unidad Popular, pretesi anticapitalisti, difendere i Mossos de Esquadra [la polizia catalana, NdR] e i bottegai dell’intera Catalogna. Naturalmente, grazie agli ordini del comandante Puigdemont, i Mossos non reprimono né torturano e i padroni non sfruttano... La democrazia ha, in realtà, tolto il velo di questi “anticapitalisti”, che si sono dati da fare per difenderla a fronte del suo preteso nemico dichiarato...

 

Quale nazione?

Quale indipendenza?

 

La Catalogna è stata al centro del puzle spagnolo da quando lo sviluppo del capitalismo nel paese raggiunse il livello nel quale tutti i residui feudali esrano stati liquidati. In Catalogna ci fu, dal primo momento, la maggior concentrazione industriale del paese, la rete imprenditoriale più ampia, i maggiori investimenti di capitale e, senza dubbio, il proletariato più compatto e combattivo. Al di là dei miti nazionalisti su una Catalogna feudale nella quale le libertà cittadine accompagnavano la prosperità commerciale, è un fatto che Catalogna è stata, per almeno un secolo, il centro del capitalismo in Spagna.

Questa realtà si scontrò, per decenni, con l’ostilità dell’oligarchia terriera spagnola, che aveva nelle proprie mani il potere dello Stato per tutto il secolo XIX, precisamente il secolo dello sviluppo capitalista. Questo Stato, strutturato intorno alla nobiltà agraria che conservava la sua posizione sociale grazie all’alleanza con la borghesia commerciale e bancaria, ebbe sempre una difficile relazione con la borgehsia catalana. Da un lato, le esigenze di modernizzazione che questa borghesia voleva imporre in tutto il paese, esigenze che riguardavano sia le necessarie riforme giurico-politiche che le questioni puramente economiche, si scontravano col conservatorismo innato di una classe che, pur mantenendo il potere, doveva cedere poco alla volta di fronte alle forze rivoluzionarie dello sviluppo capitalista. Sebbene la Spagna sia un paese pienamente capitalista dalla seconda metà del secolo XIX, con la vittoria della fazione isabelista sulle fazioni carliste-feudali, lo Stato diventa completamente borghese, nel suo contenuto storico come nel suo sviluppo formale; le lotte tra le diverse fazioni borgehsi sono state molto intense, al punto da escludere sistematicamente una parte della borgehsia catalana dall’esercizio del potere per molti decenni. Dall’altro lato, c’era un interesse comune tra l’oligarchia terriera e la borgehsia catalana in materia di legislazione economica (misure di protezione del prodotto industriale e dei prezzi dei cereali) e in quella della politica estera (mantenimento del possesso delle ultime colonie, specie di Cuba, dalle quali di ricavava buona parte del reddito nazionale e nelle quali si vendevano i prodotti della Catalogna). In questo, in effetti, sta l’origine della moderna “questione catalana” e, nello stesso tempo, l’origine del “nazionalismo” catalanista, ma nel senso non strettamente “indipendentista” rispetto alla Spagna, quanto nel senso di essere pienamente riconosciuti all’interno dello Stato spagnolo e, nella misura del possibile, di poterlo controllare. Si tratta non di uno scontro aperto da parte catalana, ma certamente di una tensione continua da parte di entrambi: da una parte, in sostegno delle esigenze “catalane” che, alla fine dei conti, dovevano essere prima o poi accettate dallo Stato e, dall’altra parte, per il timore delle frazioni borghesi dominanti che tali esigenze scalzassero la base del loro potere.

La classe borghese è sempre in lotta. Dalla sua apparazione, come classe industriale nella storia, ha lottato sempre: prima contro le classi feudali, strappando loro il potere; poi contro gli altri strati borghesi e le altre borghesie straniere in una guerra economica continua e, sempre, contro la classe proletaria – che ha sottomesso al proprio potere per poterla sfruttare ed estorcerle il plusvalore, base del suo profitto – l’unica che possa mettere in pericolo la sua posizione sociale privilegiata [Vedi il Manifesto 1848 di Marx-Engels, NdR]. Non ci si deve stupire, quindi, se la borghesia spagnola è stata continuamente scossa da lotte interne e se lo scontro fra le sue differenti fazioni per il cobtrollo del potere statale sia stato una costante. Ma, in nessun caso, si deve pensare che questa lotta infraborghese mettesse in gioco la natura dello Stato di classe borghese né l’ambito del suo potere; questa lotta fra industriali catalani e agrari castigliani non ruotava intorno alla difesa del moderno Stato borghese contro un supposto Stato feudale, e non metteva in discussione che il potere dello Stato dovesse esercitarsi sull’insieme della nazione spagnola. Senza dubbio, questa lotta si svolge apertamente in nome dei vili interessi materiali.

La borghesia lottò contro la nobilità feudale in nome delle libertà cittadine, poggiando su una base filosofica individualista e illumista  che si scontrava apertamente con la concezione teologica della scolastica. Quando due borghesia nazionali lottano fra di loro, come nella Iª e nella IIª Guerra mondiale per la spartizione del mercato, ciascuna issa la bandiera della libertà di fonte all’oppressione straniera. E quando la borghesia lotta in nome del popolo, e quindi anche del proletariato, lo fa sempre in nome della civilizzazione della quale pretende di essere l’unica garante. Allo stesso modo, la borghesia catalana lottò (e lotta) contro il resto dei gruppi borghesi spagnoli, alludendo alla lunga tradizione democratica di Catalogna, ma anche alle sue libertà feudali perse ad opera della monarchia borbonica. Da parte sua, il gruppo borghese contrario parla di unità della Spagna, del destino universale della patria ecc. Il mito nazionalista, spagnolo o catalano, nasconde la vera guerra che esiste sempre nel mondo capitalista: la guerra che i pirati si fanno per una parte del bottino più grande. Di fatto, la supposta lotta fra Catalogna e Spagna si è sviluppata sotto diverse forme, ma sempre con lo stesso contenuto. Lo sviluppo del capitalismo spagnolo portò ad un lento adeguamento della forma statale alle esigenze economiche che caraterizzano qualsiasi nazione moderna. La forma parlamentare, progressivamente aperta a tutte le fazioni borghesi permise di ampliare la presenza dei gruppi borghesi catalani e facilitò tanto la conformazione di un partito unico della borghesia catalana (la Lliga Regionalista, all cui testa ci fu Cambó, vero uomo di Stato durante i primi 30 anni del secolo XX), quanto il riconoscimento di una certa autonomia regionale per la Catalogna a partire dalla Mancomunitat de Cataluña che realizzò sul terreno dell’organizzazione territoriale la stessa unificazione degli interessi della borghesia catalana che la Lliga aveva realizzato sul terreno parlamentare. Con lo scoppio della I Guerra Mondiale e il forte incremento dei profitti dell’imprenditoria catalana confermò che la forma statale dovesse seguire il cammino del riconoscimento dei gruppi borghesi della regione catalana come perno del governo centrale.

Però vi è ben altro che la borghesia teme di più della guerra sporca tra i vari concorrenti commerciali e finanziari: teme il proletariato. Lo sviluppo capitalista in Spagno ha creato un proletariato industriale e agricolo che, proprio nello stesso periodo in cui la borgehsia catalana accedeva agli onori dello Stato, cominciò a mostrare una vitalità eccezionale. E’ risaputo che la principale organizzazione della classe spagnola, la CNT, non solo nacque in Catalogna ma che il suo nome originale, Solidarietà Operaia, corrispondeva alla dichiarazione di contrapposizione all’ organizzazione dei borghesi catalani, Solidaritat Catalana. Si deduce, quindi, che il proletariato si sviluppò come classe in Spagna combattendo non solo contro la borghesia in generale, ma contro la borghesia catalanista in particolare.

Negli anni tra la fine della I Guerra Mondiale e l’inizio del decennio del 1920, vi furono durissime manifestazioni sindacali che diedero luogo, prima della repressione che la borghesia catalana esercitò armi alla mano, a scontri quotidiani tra pistoleri al soldo del padronato e i gruppi di difesa della CNT. La situazione arrivò a tal punto di tensione, la minaccia all’ordine sociale era talmente forte, che la borgehsia catalana liquidò il Regime della Restaurazione che si mostrava incapace di fronteggiare il proletariato, aprendo la strada al suo dittatore, Miguel Primo de Rivera. E’ così che la dittatura liquidò tanto l’organizzazione territoriale catalana come le libertà di cui godevano i borghesi catalani, ma tutto questo era ancora poca cosa rispetto al ruolo di pacificatore che doveva svolgere riportando ordine negli affari e nell’industria. La borghesia catalana, i suoi partiti politici e le sue correnti nazionaliste tradizionali corsero dietro la “unità nazionale” alla quale apportarono tutta la loro forza reazionaria per proteggersi dal suo nemico di classe, il proletariato che non ne voleva sapere né di nazione né di patria.

Questo fu il destino, nei decenni successivi, della borghesia catalana. Il particolarismo locale, esacerbato fino al punto di essere presentato come nazionalismo per giustificare i privilegi “nazionali” che suggerivano, fu lasciato da parte molte volte e ogni volta che bisognava difendere l’ordine sociale capitalista che, questo sì, ha la sua vera base storica nella nazioone spagnola e il suo braccio esecutivo nello Stato centrale.

Resta il problema delle classi medie, della piccola borghesia, esclusa praticamente sempre dallo Stato e stretta sia dalla forza della concorrenza capitalista, dalla tendenza sempre più accentuata alla concentrazione economica all’apparizione dei frandi trust e monopoli privati e statali, sia dalla lotta del proletariato. E’ questa piccola borghesia, sottoprodotto della divisione della società in classi, nella quale si riuniscono le fantasie reazionarie e i comportamenti sociali più ripugnanti, che ha fatto del nazionalismo e dell’indipendentismo la sua fede.

Collocata in posizione marginale nel modo di produzione capitalista, e come classe senza vigore e senza forza storica, la piccola borghesia, nel difendere il suo provincialismo più abbietto, non ha ottenuto una protezione politica più ampia che quella di convertirsi a sostegno ideologico e forza d’urto della lotta intestina della classe borghese di cui è sussidiaria. Quando la borghesia catalana ha firmato una pace provvisoria per difendersi dal proletariato, in quanto nemico di classe comune con le altre fazioni borghesi, ha sacrificato, anche fisicamente, la piccola borgehsia e le sue illusioni nazionaliste finché gli tremavano le mani.

Oggi, in mezzo ad una lotta tra i gruppi borghesi di Catalogna e i gruppi borghesi del resto della Spagna, una lotta che, sostanzialmente, è più finzione che realtà, entrambi i contendenti, con tutti i loro egoismi e le loro paure, si agitano per guadagnare posizioni, mentre il partito dei commercianti, la CUP e i suoi satelliti, si sono prestati come cani da guardia dei proprietari della fattoria...

La “questione catalana” riflette le tensioni interne di cui soffre la classe borgehse spagnola. La crisi capitalista ha aumentato la concorrenza fra i diversi gruppi borghesi per ripartirsi i profitti che sono precipitati drasticamente. Con l’aumento della concorrenza, dal quale derivano tutti gli scontri politici, si sono aperte delle crepe nella corince legale che, dal 1978, riconosceva i diritti che ciascuno dei gruppi borghesi citati sfruttava. Questo è il vero senso della risorgenza nazionalista dal 2012: una borghesia e una piccola borghesia catalane che hanno visto calare i propri profitti e che hanno tentato di forzare una rinegoziazione dei termini della loro ripartizione aizzando il fantasma nazionalista. In questo modo, essi hanno ottenuto, da un lato, di fare un fronte comune per diversi anni contro il resto della borghesia rappresentato dallo Stato centrale e, dall’altro lato, vincolare differenti strati sociali al loro programma di lotta, canalizzando la tensione sociale che la crisi capitalista aveva causato, fino alla difesa della supposta nazione catalana.

Il fatto che questo scontro non ha il carattere ideale che lo Stato e la Generalitat vorrebbero dargli, non essendo in gioco valori universali di libertà e di democraiza ma altri molto più materiali come il profitto e il privilegio sociale, non significa che la tensione degli ultimi anni non sia rilevante. Se il mito della nazione come interesse comune a tutte le classi sociali è disprezzabile per la prospettiva marxista, lo è anche il mito di un capitalismo stabile e pacifico tanto sul terreno economico che politico.

Per i marxisti rivoluzionari, di fronte alla situazione che si vive attualmente, dal punto di vista proletario, con la “questione catalana” al centro di tutte le attenzioni, non c’è che confermare le nostre posizioni e previsioni.

I proletari catalani e i proletari castigliani, andalusi, baschi e di qualsiasi altra regione della Spagna, non hanno nulla da spartire con la propria borghesia “nazionale” o “regionale”, come non hanno nulla da spartire con i padroni di ogni singola azienda o di ogni gruppo di aziende: ogni borghesia ed ogni sua frazione sono egualmente nemici di classe che lottano tra di loro per strappare gli uni agli altri fette di mercato e risorse naturali e finanziarie, ma restano sempre gli sfruttatori e gli oppressori del proletariato, capaci però di unirsi contro il proletariato nel momento in cui i proletari non si fanno più concorrenza fra di loro, ma lottano uniti contro la classe dominante borghese nel suo insieme. Perciò ogni illusione democratica, ogni ideale nazionalista o autonomista o indipendentista, sbandierati da una borghesia ormai più che lontana storicamente dalla sua “liberazione” dall’oppressione feudale e aristocratica, servono esclusivamente per imbrigliare i proletari al carro della borghesia e di ogni sua frazione al fine di difenderne gli interessi come forza lavoro salariata da sfruttare al massimo e come carne da cannone nel caso di guerra. I proletari hanno i propri interessi di classe da difendere e nessun’altra classe può difenderli, né borghese né piccoloborghese; i proletari possono contare solo ed esclusivamente sui  propri fratelli di classe di ogni fabbrica, di ogni azienda, di ogni città, di ogni regione, di ogni paese ed hanno un terreno comune su cui unirsi e rafforzare la propria unione classista: lottare contro la concorrenza tra proletari, una concorrenza alimentata, organizzata e imposta dalla classe borghese dominante.

Quanto alle previsioni, queste previsioni non sono pescate dalle nostre teste ma dal più fermo materialismo militante, e affermano un continuo approfondimento dei conflitti politici derivati dalla crisi capitalistica. Questi conflitti non faranno altro che portare con sé nuove configurazioni tanto dello scenario dei contrasti imperialisti a livello internazionale che dei contrasti a livello locale. In questi, la classe proletaria di tutti i paesi, dovrà tirare le lezioni non solo sulla vera natura del sistema capitalista, ma anche da tutta la mitologia democratica e “sociale”, unica via per non cadere un’altra volta sotto l’influenza delle sirene del nazionalismo e della democrazia, per non farsi ingannare da una idillica visione di una situazione senza conflitti sociali, economici, politici o militari che ogni borghesia promette.

 


 

Omnium Cultural: Organizzazione catalana costituita nel 1961 da un importante gruppo di industriali della regione per sostenere ed alimentare la vita culturale catalana. Con la Asamblea Nacional Catalana forma il principale bastione del cosiddetto “nacionalismo catalano” che raggruppa sia imprenditori locali che intellettuali pagati da costoro allo scopo di difendere una sorta di “cultura nazionale” che corre in parallelo alle esigenze politiche della rivendicata indipendenza.

Asamblea Nacional Catalana: Organizzazione simile alla Omnium Cultural per quel che si riferisce alle origini e agli obiettivi (sebbene la sua creazione sia del 2012). Adifferenza della Omnium, la Asamblea Nacional contiene una componente sociale più direttamente piccolo borghese e, nello stesso tempo, una politica di “agitazione culturale” molto agressiva.

Cercle d’empresaris: Organizzazione padronale catalana che raccoglie soprattutto rappresentanti delle piccole e medie aziende. Costituisce una parte dell’associazione padronale “ufficiale”, cioè Foment del Treball Nacional e dell’associazione padronale spagnola (CEOE). Si è distinta per il suo appoggio al “processo indipendentista” e al governo Puigdemont, esprimendo nettamente il vincolo di questo progetto con le classi piccolo borghesi catalane.

Foment del Treball: E’ la principale organizzazione padronale di Catalogna. Di fatto, è l’organizzazione padronale più rilevante di Spagna, concorrendo regolarmente con gli altri settori della padronale spagnola (CEOE) per il suo controllo. Nel suo seno convivono le correnti legate al "nazionalismo catalano" e le correnti contrarie ad esso, ma la sua posizione ufficiale è, da sempre, di equidistanza rispetto ad entrambe.

Unió de Pagesos: Organizzazione padronale dei piccoli proprietari agricoli di Catalogna. E’ l’erede della antica Unió de Rabassaires (unione dei vignaioli) che esistette fino al 1939 e che era direttamente vincolata a Esquerra Republicana de Cataluña. Attualmente sostiene posizioni strettamente "nazionaliste".

Sociedad Civil Catalana: Organizzazione politica "antinazionalista", fondata con finanziamenti di diverse imprese del IBEX35 (specialmente Telefónica) per contrastare l’influenza di ANC e per mobilitare la piccola borghesia non "nazionalista" di Barcellona. Sebbene pretenda di essere una organizzazione “trasversale”, senza ideolgia politica, è notoria la partecipazione in essa di elementi dell’estrema destra, hooligans del calcio e skinheads, che rappresentano la sua forza d’urto negli scontri di strada.

PDeCAT (Partit Demòcrata Europeu Català): partito politico liberale che sostiene l'indipendenza della Catalogna dalla Spagna; fondato a Barcellona nel luglio 2016 come successore di Convergenza Democratica di Catalogna e fa parte dell'alleanza indipendentista Junts pel Sì, al governo della Catalogna con Puigdemont dal 2016 fino alla sua esautorazione da parte delo governo centrale di Madrid.

CUP (Candidatura d'Unitat Popular): partito politico catalano di cosiddetta estrema sinistra, indipendenstista, rappresentato al Parlamento della Catalogna con 10 seggi. Posizioni: antieuropeiste e antiatlantiste; per l'indipendenza catalana uscendo dalla UE e dalla Nato.

 PNV (Partido Nacionalista Vasco; in basco: EAJ, Euzko Alderdi Jeltzalea, letteralmente "Partito basco per Dio e le antiche leggi"). E' il principale partito politico (spagnolo e francese) dei Paesi Baschi; autonomista di ispirazione democristiana, è presente nelle 7 province storiche basche: le tre dei Paesi Baschi e la Navarra in Spagna e le tre dell'Iparralde, parte occidentale del dipartimento Pyrénées-Atlantique (Bayonne). Fondato nel 1895, con posizioni cattolico-conservatrici e fortemente autonomiste. Si schierò contro il franchismo durante la Guerra civile spagnola, aderendo al Fronte Popolare, e dopo di essa. Negli anni Cinquanta molti appartenenti al movimento giovanile Euzko Gaztedi si staccarono ed entrarono in ETA (Euskadi Ta Askatasuna), organizzazione armata terroristica basca creata nel 1959 da una scissione del PNV che, nel 2011, cessa l'attività armata; Batasuna è il suo braccio politico. Dalla caduta del franchismo e dalla transizione alla democrazia il PNV ha fatto parte di tutti i governi dei Paesi Baschi.

CiU (Convergència i Uniò) è una federazione di partiti politici liberaldemocristiani; costituita nel 1978 è stata attiva fino al 2015; era composta dalla CDC (Convergenza Democratica di Catalogna) e dalla UDC (Unione Democratica di Catalogna). Per contrasti interni, soprattutto sulla questione dell'indipendenza catalana, la federazione si spacca e si scioglie.

PSOE (Partido Socialista Obrero Espanol: fondato clandestinamente nel 1879 da un piccolo gruppo di intellettuali, operai tipografi e medici. Aderì alla II Internazionale; fu attivo anche negli scioperi, come quello dei ferrovieri del 1917, soffocato nel sangue a Vizcaya, Asturias e Madrid. Il suo percorso politico, legato alla Seconda Internazoonale non poteva che condurlo alla collaborazione di classe, sia ai tempi di Primo de Rivera che poi nel Fronte Popolare e, in seguito, nella sua "rinascita" nel periodo della transizione dal franchismo alla democrazia, e successivamente come partito di governo.

PCE (Partido Comunista de Espana): il PCE è stato preceduto dalla fondazione del Partido Comunista Espanol, nel 1920, da parte di giovani fuoriusciti dalla Federazione della Gioventù Socialista aderente al PSOE, e dal Partido Comunista Obrero Espanol (PCOE) fondato nel 1921 da altri membri fuoriusciti dal PSOE quando quest'ultimo decide di aderire all'Internazionale di Vienna, detta anche Internazionale 2 e mezzo. Entrambi questi partiti chiedono l'adesione alla Terza Internazionale che preme perché per la Spagna vi sia un solo referente. Nel novembre 1921 si costituisce, quindi, il PCE.

Attraversando contrasti, polemiche e scissioni, il PCE, infine, imboccò decisamente la strada della collaborazione di classe, al pari di tutti gli altri partiti legati a Mosca e allo stalinismo: fronte popolare, lotta per la restaurazione della democrazia attraverso l'instaurazione di una monarchia costituzionale. I suoi tentativi elettorali di giungere al governo falliscono sistematicamente nel corso dei decenni, emarginandolo all'opposizione, tanto da spingerlo a metà degli anni Ottanta a partecipare alla fondazione della Sinistra Unita (Izquierda Unida, I.U.) di cui fa parte tuttora.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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