Ma quali pensioni ?

(«il comunista»; N° 151; Dicembre 2017)

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Dal 2019 aumenterà l’età pensionabile di altri 5 mesi, sia per quella di vecchiaia (che passa da 66 anni e 7 mesi a 67 anni), sia per quella anticipata con la quale, se si avevano 42 anni e 10 mesi di contributi versati, si poteva andare comunque in pensione a prescindere dall’età (anche quest’ultima scattatterà con 43 anni e 3 mesi di contributi versati).

Non è una novità. Tutto questo era già previsto dalla cosiddetta legge “Fornero” che, con il decreto “salva-Italia” del 2011 (emesso dal governo Monti), aveva reso completamente flessibile ormai anche l’età pensionabile: l’istituto della pensione dipende ormai dalle statistiche degli istituti borghesi che decidono di quanto è aumentata in media, sull’intera popolazione, la “speranza di vita”. Naturalmente il meccanismo non funziona in senso inverso: se la “speranza di vita” della sola popolazione proletaria diminuisce – il che è sicuramente vero per la stragrande maggioranza dei proletari a causa dell’usura da lavoro (o da mancanza di lavoro) sempre più elevata a causa di ritmi e carichi di lavoro, infortuni, nocività, malattie professionali e morti in continuo aumento date le esigenze del capitale, per contrastare le sue crisi di sovrapproduzione, di diminuire i costi e aumentare lo sfruttamento di ogni energia umana fino all’esaurimento – l’età pensionabile che viene fissata insieme al numero di anni di contributi necessari rimane invariata e può subire delle variazioni solo verso l’alto; cosa che è stata fatta in maniera “automatica” da tutti i governi successivi. Resta il fatto che più anni di lavoro e di contributi versati non significano affatto aumento dell’importo della pensione. Anzi, la difficoltà costante del capitalismo è di assicurare, da un lato, e già da anni, ai lavoratori assunti a tempo indeterminato il posto di lavoro fino all’età pensionabile e, dall’altro, di dare uno sbocco di lavoro alle giovani generazioni di proletari (la disoccupazione è una costante del capitalismo, anche in periodi di espansione). Inoltre, con la diffusione sempre più estesa del precariato e delle mille forme di “somministrazione di lavoro” che borghesi e collaborazionisti politici e sindacali hanno concordato per rendere il lavoro sempre più flessibile allo scopo di rispondere più efficacemente alle diverse e alterne esigenze del profitto capitalistico, il sistema generale degli ammortizzatori sociali (tra cui appunto la pensione) viene sempre più svuotato, a tal punto che i proletari che oggi sono in età lavorativa la pensione non la vedranno proprio! Il complesso sistema degli ammortizzatori sociali per tutto il lungo periodo di espansione capitalistica e di sostanziale pace sociale seguito alla seconda guerra mondiale ha assicurato una serie di automatismi normativi e salariali contribuendo in questo modo a far sì che, nei paesi a capitalismo avanzato, le masse proletarie si facessero convincere a rifiutare l’uso dei mezzi e dei metodi della lotta di classe in difesa delle loro condizioni immediate di esistenza. Questo sistema di ammortizzatori sociali oggi viene via via ridotto, tagliato, cancellato e sostituito con un complicato sistema di “somministrazione di lavoro” atto fondamentalmente a togliere non solo la gran parte degli automatismi che caratterizzavano in precedenza gli ammortizzatori sociali, ma anche la tendenziale “certezza” del posto di lavoro, e quindi del salario, attuale o differito che sia.

Tornando alla questione delle pensioni, va ricordato che, di fronte ad un colpo tanto duro nei confronti delle condizioni di vita e di lavoro dei proletari occupati, e tenendo conto anche della serie di misure varate dall’ex governo “Monti” che andavano a colpire in particolar modo sopratutto i lavoratori salariati, i sindacati tricolore indissero allora ben... 4 ore di sciopero generale… senza ottenere assolutamente nulla!

Adesso, i più importanti sindacati collaborazionisti, Cgil, Cisl e Uil, si presentano a un governo non più di tecnici, ma di “centro-sinistra” e in un periodo che sembra essere più favorevole alle richieste operaie per una certa ripresa del PIL, chiedendo di evitare l’ulteriore innalzamento di 5 mesi per l’età pensionabile a partire dal 2019. Essi vogliono discutere col governo una serie di misure per impedire che le future pensioni dei giovani proletari vengano di fatto ridotte a zero o che l’età lavorativa per poter “andare in pensione” sia portata a 70 anni o più.

Ma sono proprio le misure adottate e concordate in passato con i sindacati collaborazionisti che hanno facilitato, ieri, la conciliazione degli interessi operai sulle esigenze del capitale nel rispetto di Sua Maestà la Democrazia e della onorevolissima Collaborazione di classe e, oggi, l’asservimento più tragico degli interessi di vita proletari a qualsiasi interesse di mercato delle aziende e dell’economia nazionale; ieri il capitale offriva ai proletari, contro lo sfruttamento richiesto, lavoro e salario con qualche assicurazione in più, oggi il capitale offre ai proletari la certezza di uno sfruttamento più bestiale, la certezza di un peggioramento delle condizioni  lavorative e salariali e l’incertezza sempre più sistematica di avere un lavoro e un salario. Il pretesto?  Gli effetti di lunga durata della crisi economica e un enorme debito pubblico mettono a rischio i conti dello Stato e, quindi, la sua possibilità di... intervenire per combattere la disoccupazione e per migliorare le condizioni di vita e di lavoro delle grandi masse.

Ma c’è un altro aspetto del problema che va messo in evidenza. I sindacati tricolore, da anni, si sono adoperati, da perfetti bottegai, per convincere i proletari a investire, prima volontariamente attraverso i contratti e dopo obbligatoriamente attraverso delle leggi che lo incentivavano, il TFR (la vecchia liquidazione maturata, che spettava al lavoratore una volta licenziato e che corrispondeva ad una mensilità circa all’anno) ed eventuali quote di salario nei Fondi Pensione, promossi, in primis dalle loro organizzazioni.

In questo modo, ai proletari veniva sottratto, oltre al salario differito al momento del pensionamento a causa dell’innalzamento dell’età pensionabile, anche la liquidazione che poteva compensare in qualche modo il salario non percepito nei mesi successivi al licenziamento o la contemporanea diminuzione dell’importo della pensione, il che comunque non garantiva e non garantisce di ricevere in prospettiva una pensione che non sia da fame.

Il governo “Gentiloni” si presenta alla trattativa con i sindacati tricolore proponendo di esentare dall’aumento fino a 67 anni compiuti, per la messa in pensione dal 2019, alcune categorie di lavoratori, per le quali va dimostrata la continuità di un lavoro più “usurante” di altri… E’ una pelosa generosità quella dei borghesi che, per alcune categorie di proletari, concederebbero di non applicare, per avere diritto ad andare in pensione, l’aumento di 5 mesi dell’età, già molto alta, dei 66 anni e 7 mesi! Si ribadisce il solito metodo adottato sistematicamente da sempre per dividere i proletari, prevedendo anche tempi diversi e più lunghi per lo stesso tipo di intervento. Nulla impedisce alla classe dominante borghese che queste “eccezioni” di oggi lo siano ancora domani o che, non avendo la copertura finanziaria sufficiente, ne venga ridotto in modo consistente il peso. Questo è il metodo del collaborazionismo sindacale e politico con cui i proletari sono stati sistematicamente aggirati e bastonati.

Infatti, l’impianto generale della legge prevede che il meccanismo di fondo adottato non sia messo in discussione: l’innalzamento automatico, e teoricamente infinito, dell’età pensionabile non si tocca; molti sono i miliardi così risparmiati ad oggi e molti già preventivati per il futuro dallo Stato borghese. Miliardi che saranno utilizzati a favore delle imprese capitalistiche per ridurre i loro costi di produzione e incrementare la competitività e il profitto padronale.

Andando indietro nel tempo vediamo, in sintesi, quali sono state le principali manovre dei governi dello Stato borghese per tagliare quello che è di fatto il salario differito al momento dell’invecchiamento dei proletari.

Prima del 1992 si poteva andare in pensione di vecchiaia a 55 anni per le donne – in qualche misura veniva riconosciuto il lavoro di cura dei figli e la maggiore fragilità dell’organismo femminile – e 60 anni per gli uomini, con almeno 15 anni di contributi versati; poi con il governo di centro-sinistra “Amato” si cambia e, attraverso un sistema graduale, si porta la pensione di vecchiaia a 65 anni per tutti (uomini e donne), mentre i contributi minimi necessari per averne diritto passano da 15 a 20 anni.

Restava ancora la pensione di anzianità che dopo 35 anni di contributi versati, a prescindere dall’età, permetteva di andare in pensione con il 70% del salario, grazie anche al calcolo dell’importo della pensione sulla media degli ultimi 5 anni di stipendi percepiti (successivamente portati a 10).

 Nel 1995 (sotto il governo tecnico “Dini”, sostenuto anch’esso dal centro-sinistra) si interviene anche sulle pensioni di anzianità e questa volta con il sostegno dei sindacati tricolore (dopo la caduta del primo governo “Berlusconi” che prevedeva le stesse misure solo con tempi e modi differenti), se pur in maniera graduale.

Di fatto ci vorranno ormai 40 anni di contributi per andare in pensione, ma, inoltre, viene cambiato, per il futuro, il metodo di calcolo dell’importo della pensione: si passa ora al metodo contributivo e non più retributivo; ciò significa che si tiene conto solo dei contributi effettivamente versati, e quindi delle ore lavorate nell’arco di tutta la vita lavorativa (scompaiono o vengono ridotti quelli figurativi) e, tenendo conto degli stipendi percepiti in tutto quell’arco di tempo, la media generale per ogni proletario si abbassa notevolmente.

Si parla di una percentuale del 50% del salario e quindi diventa obbligatorio, per incrementare la pensione, lavorare fino a 65 anni.

Infine, con il governo “Monti”, la pensione diventa sempre più un miraggio perché si introduce definitivamente un meccanismo di determinazione dell’età pensionabile o del numero degli anni di contributi da accumulare che varia automaticamente con il variare della “speranza di vita”, stabilita di volta in volta dagli istituti di indagine dello Stato borghese sull’intera popolazione del paese; “speranza di vita” che, d’altra parte, pur aumentando, non corrisponde per nulla a vita in buona salute.

La pensione, come salario differito, è elemento non secondario delle rivendicazioni operaie e la lotta per l’aumento del salario attuale comprende la lotta per l’aumento del salario differito. Ma, come per qualsiasi grande rivendicazione proletaria (aumento del salario, diminuzione della giornata lavorativa, diminuzione dei ritmi e dei carichi di lavoro, salario di disoccupazione ecc.), anche in questo caso la lotta riguarda tutti i proletari, è una lotta di carattere generale perché, in generale, la classe borghese sta colpendo le condizioni di vita e di lavoro di tutti gli operai.

Grazie ai metodi del collaborazionismo sindacale e politico, con i quali il proletariato non è riuscito ancora a rompere, la classe dominante borghese prospetta per i proletari, in futuro, la scomparsa di una pensione sia pur misera; nel frattempo, aumentano la disoccupazione e il lavoro precario, i salari si abbassano sempre più, gli ammortizzatori sociali vengono ridotti o drasticamente tagliati, l’assistenza sanitaria dovrà essere pagata sempre più con il proprio salario: in sostanza, non resterà più via d’uscita per le masse proletarie: o lottano per non morire di fame, di infortuni, di malattie, di guerra o moriranno senza lottare!

La lotta operaia, la lotta di classe è una cosa seria; finora i sindacati tricolore hanno ridotto la lotta operaia a una puntura di spillo se non a una presa in giro colossale. La lotta operaia, per poter incidere sulle decisioni politiche ed economiche dei capitalisti, deve poggiare sull’unità di classe dei proletari, deve combattere la concorrenza tra proletari che i borghesi alimentano costantemente mettendo giovani contro anziani, donne contro uomini, ragazzi contro adulti, stranieri contro autoctoni, istruiti contro non scolarizzati.

La lotta operaia deve svolgersi con mezzi e metodi di classe, a difesa esclusiva degli interessi proletari opponendosi anche con la forza agli interessi borghesi; i suoi obiettivi più ampi non possono essere gli stessi dei capitalisti, non possono coincidere con la difesa dell’economia aziendale o nazionale perché a favore dell’economia aziendale e nazionale i capitalisti usano già il dominio economico, sociale e politico sull’intera società, dominio che viene difeso dalla forza militare di polizia ed esercito, dalla magistratura, da tutte le istituzioni dello Stato.

Tutti coloro che deformano le rivendicazioni operaie con la preventiva conciliazione con gli interessi “del paese”, della “patria”, dell’azienda non fanno che svuotare la lotta di classe del suo contenuto unificante.

La lotta è necessaria e vitale alla difesa della classe operaia, pena la sua precipitazione nella fame e nella disperazione, e deve far rinascere la solidarietà di classe fuori da tutte le divisioni create appositamente per indebolirne il potenziale, deve combattere la concorrenza tra proletari sempre più stimolata dal capitale in crisi. La lotta deve creare un’organizzazione indipendente ed autonoma dal collaborazionismo sindacale e dalla borghesia per poter riprendere i metodi più efficaci che nel passato hanno permesso al proletariato di difendersi con successo.

La lotta contro il capitale, quindi contro la società borghese, è non solo necessaria ma indispensabile al proletariato, altrimenti il proletariato vedrà accorciare la sua vita a favore dell’allungamento di quella della classe borghese e del modo di produzione capitalistico.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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