El comunista e le posizioni falsamente marxiste sul “problema catalano”

(«il comunista»; N° 152; Gennaio - Marzo 2018)

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Coloro che seguono la nostra stampa internazionale e conoscono un po’ la storia del nostro partito sanno che in realtà ci sono diverse correnti politiche che si richiamano tanto al nome del Partito comunista internazionale quanto alla tradizione della Sinistra comunista “italiana” (che noi preferiamo chiamare “d’Italia”, proprio per togliere un aggettivo che ha un sapore nazionalistico) e alle sue basi teoriche e politiche. Sanno anche che l’esistenza di queste diverse correnti trae origine dalle varie scissioni che si sono verificate nella nostra organizzazione fino alla crisi esplosiva del 1982. Ma sanno, soprattutto, che noi rivendichiamo, non attraverso procedure giuridiche o amministrative, il nome del Partito Comunista Internazionale e portiamo avanti la nostra rivendicazione intransigente dell’esperienza storica della lotta condotta dalla Sinistra fin dal 1912 contro ogni forma di opportunismo e di deviazione dal marxismo: per noi la difesa della vera tradizione del marxismo rivoluzionario è una lotta politica e solo in questa lotta i proletari possono constatare le differenze che esistono realmente tra le diverse scuole, correnti e organizzazioni che sostengono di essere eredi della Sinistra o suoi continuatori come organizzazione di partito.

Fin da quando, nel 1952, il nostro partito si è costituito eliminando gli elementi che in un primo momento si erano posti sotto la bandiera della rivendicazione esclusivamente formale dei principi e dei postulati della Sinistra comunista d’Italia ma che, in realtà, non cercavano di ricostituire il filo storico della sua lotta, bensì una miscela eterogenea di revisioni, reinvenzioni e contributi di nuovo conio presumibilmente più adattati ai tempi nuovi di assoluto dominio della controrivoluzione su tutti i terreni, il lavoro di affermazione di quello che distingue il nostro partito da tutte le correnti che pretendono di smerciare i loro nuovi prodotti sotto l’etichetta del marxismo rivoluzionario, è stato l’elemento principale e costante. Così si è fatto, nuovamente, di fronte alla crisi esplosiva degli anni 1982-1984 e, non appena gli elementi sani, che non hanno ceduto né alla corrente liquidatrice del partito, né alle pressioni di risolvere quella crisi politica attraverso espedienti legali (appropriazione attraverso mezzi giudiziari della testata del giornale in italiano, “il programma comunista”), hanno avviato un lavoro mirato tanto a sviluppare, per quanto possibile, il lavoro del partito su tutti i terreni sui quali deve essere portato avanti, quanto a trarre un bilancio dinamico della crisi che aveva ridotto drasticamente le sue forze numeriche e creato, rispetto ai proletari, la terribile confusione determinata dal balletto di sigle e nomi identici, ma dietro ai quali si nascondevano e si nascondono posizioni politiche completamente sbagliate.

Ecco perché il nostro partito non rivendica le parole comunista e internazionale come un diritto ereditario: non sono nostra proprietà, come non è nostra proprietà la storia della Sinistra Comunista d’Italia alla quale ricolleghiamo strettamente il nostro lavoro quotidiano. Il nome del nostro partito e i titoli della nostra stampa non derivano da una diatriba avvocatesca risolta in un tribunale borghese: sono il risultato di una lotta politica condotta apertamente all’interno e all’esterno del partito di ieri e contro ogni cedimento ai comportamenti liquidazionisti o da bottegai che hanno caratterizzato i gruppi da cui ci siamo separati per sempre. Il partito, a prescindere dalla sua ridotta forza numerica e dall’avversa situazione, non si esime mai dall’obbligo di sviluppare un lavoro politico sull’insieme dei fenomeni caratteristici della società borghese che interessano direttamente il proletariato in quanto classe chiamata storicamente a liquidare definitivamente la società divisa in classi e la sua espressione finale, il capitalismo. Così, da una parte, non ha mai smesso di svolgere il compito di difendere contro ogni difficoltà le tesi del marxismo non adulterate in ogni campo della vita sociale in quanto scienza che studia le condizioni per il superamento del capitalismo, lavorando sul piano teorico, nel senso di ripristinare il marxismo su basi corrette; dall’altra, non ha mai smesso di prestare la massima attenzione alla serie di fatti che caratterizzano il mondo capitalista e le timide tendenze del proletariato verso la sua rottura di tutti i vincoli che lo legano a questo, incoraggiandole e potenziandole a seconda delle forze disponibili.

È in questo senso che la chiara e netta differenziazione rispetto al resto delle correnti di pretesa “sinistra” e al resto dei gruppi che si richiamano al “partito comunista internazionale” è di vitale importanza, perché mostra agli elementi di avanguardia del proletariato, sebbene oggi siano pochi, che cercano nel comunismo rivoluzionario risposte politiche alle contraddizioni della società capitalistica che la confusione tra nomi, presunte uguaglianze e problemi che apparentemente possono sembrare solo dettagli, corrispondono in realtà a differenze di grande portata che hanno non solo una base teorica e dottrinale, ma una conseguenza pratica concreta. E questa implicazione pratica mostra sia le differenze che oggi sono più evidenti quanto quelle che appaiono ancora minime e poco importanti, ma che comporteranno divergenze ineluttabili domani, quando, in una situazione molto più favorevole, quelli che oggi sembrano dettagli si trasformeranno in questioni apertamente cruciali.

Il lavoro di critica sistematica delle posizioni che si discostano dal marxismo e, di conseguenza, di quelle che sono difese da coloro che rivendicano il nostro stesso  nome di partito, non è uno snobismo teorico, ma un compito che ci assumiamo per mostrare ciò che realmente distingue il nostro partito e con esso il marxismo rivoluzionario di fronte al complesso dei problemi tipici della società borghese e alle false prospettive rivoluzionarie che si pongono davanti a quel complesso di problemi. Con questa critica, quindi, si cerca di trovare un legame tra le questioni centrali che riguardano la vita dei proletari e le posizioni teoriche e politiche sulle quali i proletari dovranno collocarsi per difendere i loro interessi di classe evidenziando tutte quelle false alternative che vengono proposte loro.

Il gruppo che, in Spagna, pubblica El Comunista rappresenta una di queste correnti che pretendono di rifarsi sia alla Sinistra comunista “italiana” sia al nome di Partito comunista internazionale. Tale gruppo è composto da alcuni degli elementi che, fino al 1980, costituivano la sezione spagnola del nostro partito. Le posizioni sviluppate da questi elementi, deviate su tendenze sindacaliste e antipartito, li hanno portati a collocarsi fuori dalla nostra organizzazione, mantenendo in seguito e fino ad oggi la testata El Comunista, che era stato il titolo del giornale di partito in lingua spagnola e che, da quando lo pubblicano loro, ha cessato di difendere le posizioni del partito per deviare sempre più verso una specie di attivismo sindacalista che, pur difendendo formalmente i testi classici della nostra corrente, privilegia la creazione ex novo di piccoli sindacati e stempera la natura politica propria del partito in un intruglio pseudoculturale, eclettico e disorientante.

Questa doppia deriva, quella dell’attivismo sindacalista e quella della pseudocultura marxista, emerge a un esame anche non approfondito del giornale El Comunista. Formalmente, i suoi redattori pretendono di mantenere la continuità con il lavoro storico del Partito, ripubblicando le traduzioni dei nostri testi classici ed elaborando articoli che ricordano, da lontano e solo formalmente, alcuni dei lavori elaborati dalla nostra corrente. In realtà, questa pretesa continuità si sgretola non appena sono costretti a una presa di posizione su un problema politico che sfugga all’empirismo piatto del loro attivismo sindacale.

È questo il caso della loro recente presa di posizione sugli eventi della Catalogna “Gli operai non hanno patria. Non gli si può strappare ciò che non hanno” pubblicata nel settembre del 2017. Basta solo una lettura punto per punto, per verificare che la loro presunta” ortodossia”, apparentemente sostenuta da una buona serie di citazioni di Marx e di Lenin, cade a pezzi quando cercano di passare al lavoro di valutazione politica della realtà.

Fin dai primi paragrafi di tale presa di posizione, vediamo la sua nota dominante: una certa aria di “marxismo”, un uso di termini, concetti e idee che possono sembrare, ma non sono, tipici di questa dottrina e con i quali ottengono solo di confondere la testa di coloro che cercano orientamento e chiarimenti sulle posizioni del comunismo rivoluzionario e finiscono col trovarsi in questo tipo di guazzabuglio. Per cominciare, secondo El Comunista, il “problema catalano” è, in sintesi, uno scontro tra lo Stato spagnolo, caratterizzato dall’essere «profondamente fascista come lo sono tutti gli Stati a livello mondiale. Tutti hanno incorporato, sotto l’abito democratico, tutti i meccanismi fascisti dell’interventismo economico, del controllo ideologico, della repressione e dell’integrazione sociale», e alcune «organizzazioni ed entità che appoggiano il “proceso catalán”» caratterizzate come «un blocco profondamente sciovinista» per le sue «1) difesa della polizia catalana (mossos d’esquadra), 2) difesa delle istituzioni catalane, 3) difesa del catalano rispetto alle altre lingue parlate dalla classe operaia (che sono ben più di due), 4) difesa del pacifismo e della denuncia di chi propone l’uso della violenza, 5) esaltazione della superstizione democratica».

Come dicevamo, un’accozzaglia senza alcun criterio. Per cominciare, perché lo Stato spagnolo non è così e niente di più che “profondamente fascista”. La tesi della nostra corrente fin dalla fine della seconda Guerra mondiale è che, sconfitte militarmente le potenze nazifasciste (Germania, Italia e Giappone) dalle potenze democratiche, il fascismo risultò però vincitore sul terreno politico, nella misura in cui le tendenze centralizzatrici in campo economico e politico erano e sono l’unico modo per governare il capitalismo nella sua fase imperialista, quella in cui il capitale industriale e bancario si sono fusi dando luogo a una dittatura del capitale finanziario, e in cui la forma di Stato liberale associato al capitalismo in via di sviluppo del XIX secolo e dell’inizio del XX secolo era diventata ormai inefficiente per compiere la sua funzione di consiglio di amministrazione della borghesia. Questa è fondamentalmente una tesi antidemocratica per la lotta politica contro le correnti opportuniste che, durante e dopo la seconda Guerra mondiale, proponevano ai proletari la difesa dello Stato di tipo democratico come risultato della vittoria militare, conseguita con l’aiuto proprio di quei proletari arruolati nei blocchi partigiani e di difesa dell’indipendenza nazionale, contro Hitler e Mussolini. Coerentemente con il nostro rifiuto sia della politica anti-fascista di socialdemocratici e stalinisti sia dei blocchi nazionali, la considerazione delle democrazie del dopoguerra come qualcosa di sostanzialmente diverso dalle precedenti democrazie liberali (contro le quali la nostra parola d’ordine era stata, sempre: lotta intransigente) spiegava lo scontro bellico e il suo risultato come una lotta tra potenze imperialiste in cui non era in gioco la natura dell’oppressione del proletariato da parte dello Stato borghese. Ma questa spiegazione non ha mai dimenticato che la vittoria della borghesia e dei suoi alleati socialdemocratici e stalinisti, sotto il manto della democrazia dove si era collocato il proletariato, permetteva di presentare lo Stato di classe uscito dalla guerra come quello in cui lo sfruttamento del proletariato da parte della borghesia avrebbe potuto essere risolto attraverso vie democratiche di partecipazione politica, elettorale, giudiziaria, parlamentare ecc. È per questo che né l’Italia, né la Francia, né la Germania... né la Spagna dopo il 1975, possono essere definite Stati “profondamente fascisti”, perché, per quanto si tirino in ballo interventismo economico o controllo ideologico, questa idea non significa assolutamente nulla se non si accompagna a una spiegazione della natura democratica dell’oppressione che la borghesia esercita sul proletariato. È semplicemente la cortina di fumo più adatta per ottenere adesioni proprio dai settori “antifascisti” piuttosto che per dare un contributo chiaro e rigoroso.

D’altra parte, e come continuazione delle posizioni di El comunista, l’affermazione che le associazioni sovraniste (ANC, Omnium cultural, CUP ecc.) sono scioviniste perché difendono la polizia, le istituzioni, la lingua catalana... è di nuovo un giochetto con termini apparentemente marxisti per esprimere, in realtà, un’idea più tipica del democraticismo volgare. Senza dubbio, assolutamente tutte le organizzazioni che difendono il “procés” sono scioviniste. Ma lo sono, semplicemente, perché pongono la difesa della “patria catalana” al di sopra di ogni altra cosa. Ma, va aggiunto, e su questo non c’è alcun dubbio: né le CUP, né l’ANC, né Omnium... lo hanno mai negato. Come non l’hanno fatto, dall’altra parte, né Ciudadanos, né il Partido Popular, né il PSOE, né Podemos. Dire, quindi, che sono “sciovinisti” equivale a dire che la pioggia bagna, un’ovvietà che non definisce affatto la natura peculiare di questi gruppi. Aggiungere che sono “sciovinisti” perché difendono la polizia, le istituzioni... sono pure chiacchiere perché nessuno di questi attributi (né tutti insieme) definiscono in quanto tali lo sciovinismo. E ancor meno dire che sono “sciovinisti” perché “difendono il pacifismo”, come se lo sciovinismo non chiamasse alla guerra, quando gli fa comodo, come se non ci fosse uno sciovinismo armato...

Perché, allora, si introduce il termine sciovinista come aggettivo che differenzia queste correnti? Semplicemente per una profonda e definitiva incapacità di esprimere correttamente, e con i termini politici che realmente la definiscono, la situazione presentata come il “problema catalano”. Fascismo contro sciovinismo, sintesi della loro tesi, è una contrapposizione totalmente ridicola, estranea a qualsiasi chiarezza teorica, politica e storica. Perché non fascismo contro fascismo? O lo “sciovinismo” catalano è estraneo alla profondità fascista di cui parla El Comunista?

In realtà, questa confusione terminologica risponde all’assoluta deviazione dalle posizioni del marxismo rivoluzionario che è caratteristica di El Comunista. E ciò che nelle frasi introduttive della sua presa di posizione può passare come una mancanza di precisione, si rivela come un’assoluta incomprensione della realtà man mano che si prosegue la lettura.

In primo luogo perché inserire, come fa El Comunista, una citazione di Lenin dopo l’altra, riempiendo con queste lo spazio che dovrebbe occuparsi di difendere la vera continuità del Partito con le posizioni di Marx, di Engels e di Lenin attraverso la difesa concreta della loro validità per tutti gli aspetti della lotta di classe del proletariato, è esattamente il contrario di assumersi i compiti obbligatori per i comunisti proprio oggi, quando questa lotta è completamente assente dalla scena sociale e quando è più necessario affermare che il posto che questa assenza ha lasciato apparentemente vuoto non sarà mai occupato da soluzioni nazionaliste e opportunistiche di alcun tipo. Non abbiamo nulla da obiettare alla rivendicazione, anche semplicemente formale, delle tesi di Lenin e dell’Internazionale comunista sulla questione nazionale, tesi che abbiamo rivendicato sin dal primo momento e che abbiamo sempre difeso contro ogni indifferentismo sul problema nazionale e coloniale. Ma, da un lato, questa lotta per collocare qualunque conflitto che possa sembrare posto in termini nazionali alla lente d’ingrandimento della critica marxista (critica teorica che è, prima di tutto, una preparazione di critica pratica che un giorno dovrà sostenere la lotta proletaria) implica la presa in carico dei termini esatti del conflitto in questione, in questo caso chiamato “problema catalano”. Ciò implica di esporre sistematicamente i termini del conflitto nelle loro dimensioni storiche e politiche in modo preciso e partendo dalle posizioni invarianti del marxismo sulla natura della questione nazionale lungo il corso del movimento di classe del proletariato. Pertanto, non è sufficiente ripetere, come una litania, citazioni e citazioni di Marx o di Lenin sperando, in questo modo, di sostituire l’obbligo di ratificare queste citazioni e le loro necessarie conseguenze con la realtà del conflitto studiato. Per El Comunista, evidentemente, basta sovrapporre una dopo l’altra citazioni da Il socialismo e la guerra di Lenin, evitando di dire una sola parola circa la nascita e lo sviluppo delle correnti nazionaliste catalane alla luce delle posizioni che Lenin difese nel 1916 e la cui validità resta quindi ignorata.

D’altra parte, direttamente legata al problema posto sopra, appare la necessità che i testi e le prese di posizione di una corrente che pretende di essere marxista diano una risposta non solo sul terreno della critica generale, ma sui terreni che coprono le esigenze politiche, tattiche e organizzative alle quali il Partito deve rispondere ad ogni passo necessario per lo sviluppo del proprio lavoro quotidiano. Perché solo da questa risposta dipende la sua capacità, in un domani più ricco di mobilitazioni proletarie, ma anche oggi, quando solo una piccola minoranza di proletari lottano per emergere dal marasma opportunista che piega la classe alle esigenze della borghesia, di orientare, inquadrare e dirigere le forze della classe proletaria sia contro il suo dichiarato nemico borghese sia contro i suoi alleati all’interno della classe stessa. Se un partito, qualunque esso sia, pretende di abbattere la Gerico borghese e opportunista semplicemente girandole intorno mentre canta le citazioni dei classici, non saranno le mura della fortezza capitalista a crollare, ma l’esistenza stessa di questo partito... e le macerie colpiranno tanto forte la testa dei proletari che lo hanno seguito che torneranno a perdere i sensi per anni. Si potrebbe pensare che una presa di posizione come quella di El Comunista non sia quella adatta per un’esposizione che deve superare, necessariamente, i limiti di questa. Però, chi pensa questo, cerchi nella stampa di questo gruppo il luogo in cui il “problema catalano” viene trattato con l’estensione e la profondità dovute...

 

La borghesia catalana e la sua bandiera nazionale secondo El Comunista
 

Dopo la sua spiegazione, povera ed errata nella sostanza, del motivo per cui le organizzazioni nazionaliste catalane sono “scioviniste”, El Comunista vuole fare un passo avanti e considerare il “problema catalano” in termini di una mobilitazione promossa dalla borghesia catalana. Apparentemente questo modo di affrontare il problema, cioè quello da cui si dovrebbe sempre iniziare, è qualcosa di più “marxista”, ma solo apparentemente.

Per El Comunista, la borghesia catalana non sono le “300 famiglie” tanto care ai demagoghi della via nazional-catalana al socialismo, ma “un intero tessuto sociale di piccole e medie imprese, piccoli e medi proprietari immobiliari, piccoli e medi rentiers, azionisti e speculatori, che costituiscono – insieme ai più grandi imprenditori – la classe borghese”. Segue poi una “radiografia delle aziende catalane” a cui aggiungono la considerazione che “ogni sindaco è un imprenditore e ogni Comune è un’azienda”. Questa sarebbe la classe borghese che, secondo El Comunista, porta avanti le richieste nazionaliste. Ma, in realtà, la “borghesia catalana”, se con questo termine si intende la borghesia di origine catalana e che trae i suoi profitti dal capitale investito dalla Catalogna, sede della sua proprietà legale, in Catalogna, in Spagna e nel resto del mondo, è un’altra cosa. La borghesia catalana è quella proprietaria di Caixa Cataluña e di tutta la sua rete commerciale, di Catalana Occidente, di Gas Natural ecc. È come dire che la borghesia catalana, con lievi particolarità che la contraddistinguono, fa parte del nucleo centrale della borghesia spagnola. È assurdo assimilare Isidre Fainé (1) al proprietario di una qualsiasi attività commerciale a Girona. Non è solo una differenza di dimensioni, è una differenza qualitativa che li separa e che fa assumere loro posizioni completamente diverse rispetto al “problema catalano”. Perché, nel mondo capitalista, non ci sono solo le due classi principali, il proletariato e la borghesia, ma il terreno intermedio fra le due è popolato da una moltitudine di semiclassi e strati legati in un modo o nell’altro alle due principali, che svolgono però un ruolo specifico nella lotta sociale che attraversa questo mondo. Queste semiclassi, fra le quali la più importante è quella mescolanza senza peso politico, ma molto numerosa in un paese di piccoli proprietari come è la Spagna, che chiamiamo piccola borghesia, sono esattamente quelle che trasmettono i postulati più reazionari e antistorici, e tutti gli approcci utopici e tutte le fantasie sul superamento senza lotta rivoluzionaria dei problemi del mondo capitalista. Proprio per questo, se non si riconosce il peso di questi strati sociali intermedi, è impossibile comprendere il ritorno, quasi 150 anni dopo la fine del periodo rivoluzionario della borghesia e delle sue rivendicazioni nazionali, delle più retrograde posizioni nazionaliste.

Non è questa la sede per fare un bilancio dettagliato della ruolo che la classe borghese catalana ha svolto nello sviluppo, nell’ascesa, nella caduta e nel successivo ritorno sulla scena politica del tema del “nazionalismo” catalano, tema che sviluppiamo in altri articoli contenuti nello speciale del nostro El Proletario. È sufficiente dire che il ruolo volutamente ambiguo di questa borghesia è il risultato del suo ruolo particolare nella formazione e costituzione dello Stato spagnolo fin dal 1975: la borghesia catalana ha incoraggiato e sviluppato la mobilitazione nazionalista attraverso la parola d’ordine autonomista sotto la guida dal suo partito regionale (storicamente CiU, ora PDCAT o simili); questo autonomismo, difeso davanti allo Stato centrale come una delle prerogative che necessariamente dovevano essere concesse con il cambiamento di regime dopo la morte di Franco, ha avuto e ha l’obiettivo di tessere una fitta rete di istituzioni statali con cui legare la classe proletaria alla politica di collaborazione con la borghesia. Il governo autonomo è la risposta, insufficiente e con risultati instabili, che le borghesie catalana e spagnola hanno dato alla difficoltà storica di raggiungere uno Stato centralizzato e, quindi, alle tensioni a cui questa difficoltà dava origine. L’obiettivo era, evidentemente, di garantire la centralizzazione e il funzionamento normale dello Stato, ma attraverso un sistema autonomo che permettesse di coinvolgere sia i rappresentanti della piccola borghesia sia gli opportunisti provenienti dagli strati proletari più alti che, per il resto, erano stati  relativamente esclusi dall’apparato centrale dello Stato durante tutti questi decenni.

La grande borghesia catalana non ha giocato la carta del “nazionalismo catalano” come atout contro il governo centrale; non è, non è stata, né sarà “nazionalista” o “indipendentista” nel senso di “catalanista”. Mediante l’inasprimento autonomista delle peculiarità locali della Catalogna, la borghesia catalana ha dato il suo apporto alla governabilità dello Stato e al tempo stesso ha costruito la sua forza nella concorrenza con le altre fazioni borghesi spagnole. Ma dall’ambiguità che deriva da questa posizione non uscirà mai, per quanto, ogni tanto, faccia la voce grossa.

La piccola borghesia, che si è vista includere in alcuni compiti di governo attraverso il regime autonomo, è quella che si mobilita in termini indipendentisti. Ma questa piccola borghesia, proprio perché svolge il ruolo di guardaspalle della grande borghesia, non ha una politica sua, agisce per riflesso di una situazione che si è creata a causa delle contraddizioni tra forze sociali incommensurabilmente più forti di lei. Piccoli rentiers, proprietari, speculatori... in una parola, sono i piccolo borghesi quelli che si mobilitano dietro la estelada (2). Non lo fanno, però, nello stesso senso della “borghesia catalana”. Ma El Comunista, per il quale la borghesia è una relazione statistica, questo non è in grado di capirlo; esso vede nel “problema catalano” uno scontro tra borghesi nazionalisti e indipendentisti catalani e borghesi spagnoli, come se in gioco fosse, realmente, l’indipendenza della Catalogna. E, al culmine dell’assurdo politico, El Comunista giunge a paragonare il tipo di mobilitazione promossa da questa piccola borghesia con la mobilitazione social-sciovinista della prima Guerra mondiale, in un esercizio di totale e assoluta incomprensione della realtà cercando di mascherala ricorrendo alla magniloquenza della retorica.

 

Le cause materiali del “problema catalano” per El Comunista

 

Partendo da una generica attribuzione delle responsabilità alla “crisi di sovrapproduzione capitalista in tutto il mondo”, El Comunista passa in rassegna gli effetti di questa crisi sulle diverse classi sociali e si concentra in particolare sugli effetti sulla piccola e media borghesia. Dopo alcune assurde considerazioni morali sul fatto che i proletari debbano o meno sentirsi dispiaciuti per i piccoli proprietari, data la loro funzione sociale e la natura dei loro affari, El Comunista mostra quale sia la sua pietra di paragone quando si tratta di spiegare le cause dirette del “procés”:

«Questa crisi impone una concentrazione bancaria che ha lasciato orfana tutta una serie di sanguisughe di professione eliminando il clientelismo politico delle casse locali. Ha anche abbassato i budget dei comuni, riducendo un’altra fonte di nepotismo e clientelismo politico. Tutto questo strato sociale di scrocconi a carico dello sfruttamento dei lavoratori [...] Infine, l’indebitamento della Generalitat è tale che, se si dovessero applicare le misure necessarie a ridurlo, si troverebbe a scontrarsi con una risposta sociale che non può affrontare».

Un altro esempio di ciò che marxismo non è, e questa volta sulla base della critica economica. Perché, secondo El Comunista, sono il clientelismo politico delle casse locali, il nepotismo nei consigli comunali e il debito della Generalitat gli elementi politico-sociali la cui scomparsa avrebbe spinto i beneficiari a mobilitarsi per l’indipendenza. Manca, per iniziare, che El Comunista spieghi perché ha saltato, nel passare in rassegna i vari punti, la considerazione secondo cui la borghesia catalana, che si mobilita per l’indipendenza, affermi invece che sono queste caste parassitarie a farlo. Ma la cosa essenziale in questa affermazione è vedere come per El Comunista si amalgamino i fenomeni caratteristici della crisi capitalista con il moralismo e una buona dose di ignoranza. Né le “sanguisughe”, né i “clienti” politici, né il debito istituzionale sono i motori di alcun tipo di reazione sociale. Possono esserlo nelle argomentazioni democratiche riguardo la corruzione e l’efficienza economica, ma per il marxismo tali affermazioni non hanno senso. Confrontiamole con la spiegazione corretta:

La crisi capitalista produce un calo del saggio medio di profitto e una riduzione dei profitti aziendali; questo fatto si ripercuote immediatamente sul capitale finanziario investito in progetti industriali e immobiliari; si determina una contrazione del credito che si traduce in un calo ancora maggiore di questi progetti imprenditoriali, specialmente di quelli promossi dallo Stato, mentre si genera una cascata di fusioni nel settore finanziario per mantenere un minimo di guadagno; vengono espulse dal mercato le imprese con un basso investimento di capitale, incapace di produrre al tasso minimo necessario per generare profitto; e si assiste ad una caduta delle entrate fiscali e tributarie e alla minaccia di bancarotta dello Stato. Conseguenza a breve termine: difficoltà per la sopravvivenza di ampi strati della piccola borghesia. Conseguenza a lungo termine: concentrazione finanziaria (bancaria e industriale) che consente il recupero del tasso di profitto.

Clientelismo, furti, corruzione... sono epifenomeni di questa sequenza, non ne sono l’origine, né vi svolgono un ruolo primario, né, ovviamente, sono in grado di alterarla dando luogo a un movimento politico.

Di nuovo El Comunista, quando si tratta di passare dai giuramenti sui testi classici a un’approssimazione anche sintetica della realtà non ha altri mezzi che ricorrere a concetti, termini e spiegazioni del tutto estranei al marxismo, prendendo gli aneddoti come categoria e non è in grado di dire una parola sull’essenziale.

 

Il “contesto dell’imperialismo mondiale” e il “problema catalano” secondo El Comunista

 

El Comunista sa che il marxismo è una scienza che studia le condizioni di sviluppo del capitalismo su scala mondiale. Considerando le nazioni come prodotto storico e limitato pertanto a una determinata epoca, il marxismo ha affermato il carattere internazionale del capitale fin dal suo inizio, indicando proprio l’appropriazione privata – in ultima analisi nazionale – del prodotto del lavoro associato come la barriera che si interpone tra lo sviluppo delle forze produttive a cui il capitalismo stesso ha dato luogo e il superamento dialettico dell’ultima società divisa in classi della storia proprio grazie a questo sviluppo. Ma tutto questo El Comunista lo sa solo per sentito dire e, per giustificare la sua analisi miope, ridotta a una valutazione della congiuntura senza prospettiva che ha fatto riguardo alle classi sociali e al nazionalismo, inserisce un breve paragrafo sul contesto internazionale:

«Come è ovvio, entrambe le parti [separatista e costituzionalista] ricevono l’appoggio dei gruppi di paesi imperialisti interessati all’uno o all’altro risultato. [...] La crisi di relativa sovrapproduzione di capitali determina un profondo aggravamento delle contraddizioni tra paesi imperialisti che portano dalla guerra commerciale allo scontro militare [sic]. Agli Stati Uniti occorre tempo per cercare di scatenare la terza guerra mondiale, e la Russia e la Cina prendono posizioni militarmente ogni volta più aggressive. L’Unione europea non è meno imperialista ed è anch’essa immersa nella corsa poliziesca e militare».

Come si vede, si tratta di affermazioni lanciate a caso, in cui si mescola una presunta terza guerra mondiale in gestazione che gli Stati Uniti vorrebbero dichiarare (contro chi? in che modo? come ciò influenza la Catalogna? perché non spiegarlo?) con l’incremento dello sviluppo militare cinese e russo... Usare, in tal modo, questo tipo di argomenti è poco meno che una parodia del lavoro svolto dai marxisti sul corso degli scontri interimperialistici, sia che siano espliciti o in via di maturazione. Nella sua esposizione riguardo alle cause e ai protagonisti nazionali del “problema catalano”, El Comunista sbaglia sempre, ma quando arriva sul terreno internazionale spara più o meno la prima cosa che gli passa per la testa, cercando di dare una specie di prospettiva millenarista in base alla quale qualsiasi giustificazione sarebbe inutile e che gli consente di agitare gli spettri del massimo grado di sviluppo delle ostilità internazionali come se fossero presenti, qui e ora, a condizionare direttamente lo sviluppo del “procés”. Questo tipo di affermazioni sono semplicemente delle boutades pseudoteoriche con cui si tenta di dare luce a un testo.

 

Prospettive e posizione di El Comunista riguardo al “problema catalano”

 

Fin qui El Comunista ha detto la sua sulla genesi economica e sociale del problema, sugli attori coinvolti e sulla scena internazionale. Ha cercato di dare alla sua posizione una patina marxista usando termini, concetti e idee propri della nostra corrente... non essendo però in grado di spiegare cosa significano né cosa implicano. Ora El Comunista cerca di dare una prospettiva dello sviluppo che avrà il “problema catalano” e della posizione che adotterà in esso.

Alla domanda «Questa situazione potrebbe svilupparsi in senso favorevole alla classe operaia?», che El Comunista pone a se stesso, risponde con una fantastica ambiguità. In primo luogo, scrive: «Prima di tutto, va detto che alla situazione attuale e a tutte le false promesse di oggi seguirà inevitabilmente una serie di disillusioni, delusioni e frustrazioni per tutti coloro che si sono bevuti che la democrazia sia qualcosa di più che un inganno organizzativo attraverso il quale la borghesia domina».

Resta inteso che si riferisce ai proletari che “se la sono bevuta”. Ma la verità è che i proletari sono rimasti del tutto passivi di fronte alla mobilitazione provocata in difesa del “procés”. Non si sono viste manifestazioni nella cintura rossa di Barcellona,   non ci sono stati scioperi – ad eccezione della serrata padronale – in cui la classe operaia abbia partecipato seguendo la bandiera indipendentista...  Il proletariato, da decenni, è completamente assente dal terreno della lotta di classe, tanto che la sua “neutralità” in questo tipo di conflitto si dà quasi per scontata da parte di coloro che realmente ne sono protagonisti e non cercano qualcosa di diverso: non c’è un settore proletario mobilitato sotto la estelada da “recuperare” per la causa classista, la borghesia non è riuscita a mobilitare la classe operaia per i suoi scopi attraverso il lavoro dei suoi agenti tra il proletariato. Affermare quel che El Comunista dà a intendere, significa paragonare in modo meccanico e antidialettico una situazione propria di un’altra epoca, con una grande effervescenza classista, a quella attuale. Così facendo, si eliminano le possibilità di dare una chiara visione della realtà ai pochi elementi proletari che potrebbero sentirsi inclini ad assumere una posizione di classe da difendere di fronte alla pressione nazionalista, portandoli in realtà su un terreno immaginario tanto lontano dalla realtà che, questa volta sì, finirebbe per deluderli una volta per tutte.

Ma è certo che El Comunista non considera questa possibilità, perché l’oggetto della sua “disillusione” è un altro. Due paragrafi sotto, scrive:

«Ma si deve notare che la prima disillusione riguarderà la massa piccoloborghese che ha creduto misticamente nella propria illusione, e da questa massa piccoloborghese non può emergere alcun movimento di classe o rivoluzionario. In ogni caso, affinché i rivoluzionari possano trarre vantaggio in futuro delle disillusioni che si presentano nell’immediato e da tutte quelle che verranno, la condizione indispensabile è che si siano tenuti fuori e contro ogni tipo di sciovinismo e che abbiano denunciato il contenuto borghese di entrambe le parti, che si siano opposti alla fagocitazione dei gruppi combattivi di lavoratori da parte della borghesia nazionale, spagnola o catalana».

Se la disillusione colpisce in primo luogo la piccola borghesia e i rivoluzionari devono poter trarre vantaggio “dalle disillusioni che si presentano nell’immediato...”, i rivoluzionari, secondo El Comunista, devono trarre profitto dalla disillusione della piccola borghesia e quindi devono cercare di mobilitare la piccola borghesia che, in assenza del proletariato, potrà essere una valida alternativa, anche se da essa “non può nascere alcun movimento di classe o rivoluzionario”!!! Come si vede, si tratta di un’assurdità dopo l’altra. Ma all’origine di queste assurdità sta il desiderio di El Comunista di dare una visione pratica, gradevole e accettabile da chiunque sui margini di manovra che, secondo loro, i marxisti hanno in una situazione come quella descritta. Queste assurdità lo portano a voler dare, in un senso nettamente attivista, una risposta concreta che implichi una prospettiva immediata. Invece di constatare che il movimento “nazionalista” in Catalogna mostra quanto è lontana la classe operaia dal ricollegarsi a qualsiasi tipo di lotta di classe su larga scala, cerca un rimedio “pratico” e “concreto” parlando di settori recuperabili dopo la loro delusione. Settori che, come essi stessi ammettono, sono interamente piccoloborghesi e quindi impossibili da influenzare nel loro complesso da parte di una politica comunista, o semplicemente non esistono, se non nell’illusione di chi vorrebbe trovarsi in tempi migliori e sta già cominciando ad agire come se questo stesse accadendo... a dispetto della realtà e di qualsiasi possibilità di risalita.

Lo vediamo più chiaramente alla fine della loro presa di posizione, dove danno «la posizione del marxismo e dell’internazionalismo proletario in Catalogna e nel resto della Spagna», una miscela di rivendicazioni che vanno dal rispetto delle lingue fino all’abolizione del lavoro salariato. Ancora una volta, invece di spiegare le condizioni che consentiranno al proletariato di uscire dalla sua crisi politica e organizzativa, cioè la necessità di rompere con la politica di collaborazione tra le classi, della lotta per superare le barriere locali, nazionali, di sesso, razza e religione imposte dalla classe borghese e, soprattutto, di rompere con la pratica democratica con cui questa borghesia rende partecipe il proprio proletariato del suo sfruttamento, soggiogandolo con il mito dello Stato che si pone al di sopra delle classi sociali, El Comunista pensa che sia sufficiente lanciare una serie di parole d’ordine scelte a caso. In questo modo, sembra che il problema dei rivoluzionari comunisti non sia quello di farsi carico di un lento ma inevitabile compito di propaganda dei termini fondamentali del marxismo attraverso la realtà quotidiana dello sfruttamento e della miseria sofferta dal proletariato mentre si interviene in qualsiasi crepa, per quanto minima, presente nella società borghese allo scopo di mostrarne le contraddizioni, ma, come fa appunto El Comunista, di fantasticare su un mondo irreale in cui la lotta di classe del proletariato sarebbe già un dato di fatto e che si tratterebbe semplicemente di dirigere con alcune parole d’ordine pescate tra le tante disponibili ma che diano un certo impatto.

Il marxismo rivoluzionario, la dottrina della Sinistra comunista d’Italia e del Partito comunista internazionale, non è una questione di proprietà esclusiva di questo o quel gruppo politico. Non ci interessa avere l’etichetta di “veri e unici” marxisti. Noi lavoriamo in difesa del marxismo, lavoriamo per ricostituzione del partito marxista rivoluzionario perché il proletariato, quando le contraddizioni sempre più acute della società borghese lo spingeranno a rompere finalmente con tutti i lacci e lacciuoli democratci e opportunistici che le legano al carro della borghesia in ogni paese, e a scendere sul terreno dell’aperta lotta di classe, avrà bisogno di una guida salda teoricamente, capace di indirizzarlo verso gli obiettivi di classe e rivoluzionari utilizzando al meglio l’enorme forza sociale che rappresenta, e questa guida non potrà essere che il partito di classe; un partito che non piega i concetti marxisti alle situazioni che si modificano continuamente, non spreca termini e parole d’ordine per riempire un vuoto teorico e politico, ma che conosce la forza storica del marxismo e ne difende intransigentemente l’integrità, unico modo per poterne applicare correttamente – come Lenin dimostrò negli anni gloriosi della Rivoluzione d’Ottobre – le lezioni e le direttive.

Il marxismo ha la sua forza nel fatto che contiene in sé la valutazione precisa dell’intero corso della lotta di classe del proletariato contro la borghesia, non solo nei paesi capitalisticamente sviluppati ma a livello mondiale, e che è in grado di esprimere i termini in cui, inevitabilmente, sarà il proletariato stesso a trovare nel corso di questa lotta la validità di questa valutazione, la farà sua e la trasformerà nella sua arma più preziosa. È per questo che la critica di questo tipo di correnti pseudomarxiste, che svolgono oggettivamente la funzione di deviare agli occhi dei proletari la traiettoria della loro lotta di classe confondendone i termini e, di conseguenza, rendendo difficile la rottura con la politica di collaborazione tra le classi, è un compito essenziale. Non per purismo o per esercizio scolastico, ma per il bisogno vitale di mettere a disposizione della classe proletaria la critica di ogni tipo di opportunismo, di qualunque  colore esso sia.

 


 

(1) Isidre Fainé Casas è un grosso banchiere spagnolo, presidente delle società Gas Natural Fenosa, Criteria Caixa e della Fundación Bancaria La Caixa. Fu presidente de La Caixa fino al 30 giugno 2016. E’ anche presidente della Confederación Española de Cajas de Ahorros (CECA), la Confederazione spagnola delle Casse di risparmio; è vicepresidente di Telefónica, di European Savings Banks Group (ESBG) e membro titolare della Comisión Gestora del Fondo de Garantía de Depósitos en Cajas de Ahorros. Nello stesso tempo è Consigliere del Bank of East Asia e di Suez Environnement Company; ma non basta, è anche presidente della Confederación Española de Directivos y Ejecutivos (CEDE), del Capítulo Español del Club di Roma e del Círculo Financiero.

(2) La Estelada è la bandiera indipendentista della Catalogna. Si hanno testimonianze di una prima versione della estelada con la stella inserita in un quadrato posto al centro della Senyera catalana (quattro strisce rosse su fondo dorato) già nel 1908, tuttavia essa inizia a diffondersi nel 1918 con la nascita dei primi movimenti catalani. La Senyera è stata adottata da moltissime amministrazioni pubbliche spagnole e non solo, perfino italiane e francesi, che affondano radici storiche nell’antica Corona d’Aragona. Soprattutto le comunità autonome spagnole soggette un tempo alla Corona mantengono questo vessillo, al massimo alterato in qualche dettaglio.

 

 

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