In continuità con il lavoro generale di partito, si ribadisce l’invariante impostazione teorica e programmatica che il partito si è data fin dalle sue origini

(Resoconto della Riunione Generale di Milano del 13-14 gennaio 2018)

(«il comunista»; N° 152; Gennaio - Marzo 2018)

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La riunione, tenuta a Milano  il 13-14 gennaio scorsi, ha visto l’attenta partecipazione dei compagni sui previsti tre temi trattati:

a) Corso mondiale del capitalismo; b) Guerra civile di Spagna, IIa parte; c) Storia del partito e le sue crisi.

Cominciamo da questo numero con il primo tema dedicato al corso mondiale del capitalismo, che accompagneremo con un primo sguardo alle crisi che hanno caratterizzato il corso di sviluppo capitalistico dalle sue prime incursione nel mercato mondiale.

 

Corso mondiale del capitalismo

 

Diamo qui il resoconto del tema svolto in riunione con l’estensione e le caratteristiche dei rapporti che il partito ha tenuto per tanti anni nel periodo precedente alla crisi esplosiva del 1982-84; al semilavorato prodotto per la riunione aggiungiamo altri semilavorati per svilupparne i diversi aspetti.. Si è cercato di mettere in evidenza alcuni aspetti critici della cosiddetta “ripresa economica” delle economie dei paesi capitalistici avanzati e dei rapporti interimperialisti che, in conseguenza anche dell’ultima lunga crisi economica e finanziaria del 2007-2008, fanno emergere interessi contrastanti che fino a prima di questa crisi erano sopiti.

Cominciamo col dare una scorsa ai dati del PIL (Prodotto Interno Lordo) – che sappiamo essere un dato non così preciso come sarebbe il dato della produzione industriale, ma questo abbiamo ora a disposizione – dei primi 16 paesi del mondo (in riunione è stata presentata una tabella dei primi 30 paesi del mondo): essi presentano, a dieci anni dalla crisi del 2008, una classifica di questi paesi piuttosto diversa da quella registrata dieci o vent’anni fa.

Rispetto al PIL del 2016, e secondo le stime della Banca Mondiale, considerando per il momento i primi dieci paesi, gli Stati Uniti d’America risultano essere, nel 2017 (a prezzi correnti) sempre in prima posizione (con il +4%) con un PIL di 19.377 mld $, seguito da Cina (+9%) con 12.362 mld $, Giappone (+8%) con 5.106 mld $, Germania (+4%) con 3.619 mld $, Gran Bretagna (–2%) con 2.610 mld $, Francia (+3%) con 2.570 mld $, India (+9%) con 2.458 mld $, Brasile (+10%) con 1.954 mld $, Italia (+2%) con 1.895 mld $ e Canada (+6%) con 1.627 mld $. Seguono altri 6 paesi che superano i 1.000 mld $ di PIL, e sono, in ordine, Corea del Sud  (+8%) con 1.521 mld $, Russia, Australia, Spagna, Messico, Indonesia (+8%) con 1.015 mld $.

Naturalmente va fatta subito una precisazione importante: il dato che si riferisce al PIL contiene un misto di voci scelte dall’OCSE per mettere a confronto le economie nazionali dei vari paesi, utilizzando dei parametri che permettono di misurare, per ciascun paese, il risultato finale delle attività produttive realizzate in un dato periodo (solitamente un anno) dai residenti di ciascun paese preso in esame. Per “prodotto” si intendono i beni e i servizi che hanno una valorizzazione in un processo di scambio, dunque tutto ciò che viene scambiato nel mercato (sono esclusi perciò i prodotti e i servizi di autoconsumo); per “interno” si intendono tutti i beni e i servizi prodotti nei confini nazionali di ciascun paese, non importa se realizzati da operatori nazionali o stranieri e da lavoratori autoctoni o stranieri; per “lordo” (“brut” in francese) si intende il valore dei beni e dei servizi al lordo degli ammortamenti, cioè al lordo del deprezzamento del capitale fisico intervenuto nel periodo dato [sottraendo dal PIL gli ammortamenti, si ottiene il PIN, Prodotto Interno Netto]. Va segnalato che, mentre nel PIL non vengono calcolati i beni e i servizi di autoconsumo, e nemmeno quelli in forma gratuita (la collaboratrice domestica regolarmente retribuita vi è compresa, ma non è compreso lo stesso servizio offerto da un familiare), vengono invece calcolate le stime dell’economia “in nero”, dell’economia sommersa; e sono inclusi ovviamente anche i servizi pubblici, che vengono conteggiati al valore degli stipendi dei dipendenti pubblici. Altri indicatori sono il PIL “nominale” e il PIL “reale”. Il PIL “nominale” si ottiene moltiplicando la quantità dei beni e servizi prodotta in un anno per i prezzi relativi a quello stesso anno; il PIL “reale” si ottiene moltiplicando la quantità di beni e servizi prodotta nell’anno corrente per i prezzi di un anno-base (l’anno-base viene cambiato, generalmente, ogni 5 anni). Altro dato interessante è il “PIL-pro capite”, che si ottiene ripartendo il PIL “reale” per la popolazione complessiva di ciascun paese: si ha così un valore medio della produzione di beni e servizi ottenuta nell’economia di ciascun paese in un dato anno. 

Bene, torniamo ai dati presentati in riunione.

Salta agli occhi con evidenza che lo sviluppo del capitalismo in alcuni paesi, che negli anni del secondo dopoguerra avevano un’economia estremamente arretrata, ha raggiunto, in un settantennio, un livello economico molto importante; parliamo, in particolare, di Cina, India, Brasile, Corea del Sud, Messico, Indonesia. Questo fatto non ci sorprende per nulla poiché, per il marxismo, il capitalismo nel mondo ha sì uno sviluppo ineguale, ma sempre di sviluppo si tratta; sebbene certi paesi si siano sviluppati capitalisticamente prima di tutti gli altri – il caso dell’Inghilterra è emblematico, seguito poi dalla Francia e dai paesi dell’Europa occidentale, dagli Stati Uniti e infine dal Giappone e dalla Russia –, questi stessi paesi, attraverso le guerre di conquista delle colonie e del mercato a livello mondiale, hanno “esportato” capitalismo e tutte le sue contraddizioni, comprese quelle inerenti alla forzata arretratezza in cui i paesi colonizzati sono stati costretti a rimanere. Ma il capitale, per valorizzarsi, ha bisogno non solo di sviluppare la produzione e la distribuzione all’interno del paese dato – la formazione del mercato nazionale è il primo livello di sviluppo effettivo di un paese che esce dall’economia precapitalistica, sia questa di tipo feudale o asiatico – ma ha anche bisogno di sviluppare il commercio e l’industria. Lo sviluppo dell’industria porta inevitabilmente, prima o poi, allo sviluppo della grande industria, anche se questo sviluppo – come ogni sviluppo economico e sociale sotto il capitalismo – non sarà mai gradualmente lineare e non comprenderà mai tutti i settori produttivi e tutti i possibili servizi, nemmeno nei grandi paesi imperialisti. Per confrontare le economie dei paesi del mondo, i metodi statistici borghesi si sono allineati su quanto è descritto sopra (sono sempre statistiche borghesi, perciò non sono affidabili al 100%, ma i metodi sono gli stessi in generale per tutti i paesi, quindi sono confrontabili e, in ogni caso, segnalano delle tendenze), ossia sui calcoli del PIL, del PIL per abitante, e via via della produzione industriale (e della produzione di acciaio in particolare), della produzione agraria, della popolazione attiva, della disoccupazione, del livello dei salari, del consumo di energia elettrica, della bilancia dei pagamenti, delle esportazioni ecc. ecc.  In riunione sono state illustrate alcune tabelle: oltre a quella che confronta il PIL dei paesi, sono state commentate brevemente quelle sulla produzione degli Stati Uniti, sugli indici di sviluppo di 7 paesi tra i più importanti  (Stati Uniti, Giappone, Germania, Regno Unito, Francia, Italia e Spagna) e sulla produzione d’acciaio attraverso i gruppi industriali più importanti del mondo.

Tornando sui confronti tra i diversi paesi capitalisti e considerando l’indice del “PIL-pro capite” – che è un indice di qualità in relazione alla capacità produttiva di un paese e al suo livello di sviluppo nei vari settori economici – è interessante fare un inciso. Nella classifica che abbiamo richiamato sopra dei primi dieci paesi in base al PIL di ciascuno di loro, l’elenco ci dà questa serie: 1. Stati Uniti, 2. Cina, 3. Giappone, 4. Germania, 5. Regno Unito, 6. Francia, 7. India, 8. Brasile, 9. Italia, 10. Canada. Proseguendo con i paesi al di sopra dei mille miliardi di $ di PIL, troviamo 11. Corea del Sud, 12. Russia, 13. Australia, 14. Spagna, 15. Messico, 16. Indonesia.

Ma se la stessa classifica la facciamo considerando il PIL-pro capite, troviamo questi paesi in posizioni molto diverse (cifre sempre in $): Stati Uniti 54.597, Canada 50.398, Germania 47.590, Regno Unito 45.653, Francia 44.578, Giappone 36.332, Italia 35.823, Brasile 11.604, Cina 7.589, India 1.627.

Altro dato interessante è costituito dal “PIL-pro capite” di questi stessi paesi confrontando il dato del 1995 e quello del 2015, confronto che rivela la spinta di sviluppo eccezionale in alcuni paesi di “giovane capitalismo” (cosa anch’essa non sorprendente per il marxismo), ma, nello stesso tempo, uno sviluppo straordinario anche per i paesi imperialisti più potenti. Queste le percentuali di incremento e le relative cifre; partiamo, per poi risalire, dai paesi che nel 1995 registravano un “PIL-pro capite” molto basso rispetto agli altri:

 

anno                          anno                  incremento %

1995                          2015                 o decremento

 

India:                          340 $                1.627 $         +    379  %

Cina:                           620 $                7.589 $         + 1.124 %

Brasile:                     3.640 $              11.604 $         +    223 %  

Italia:                      15.000 $               35.823 $        +    139 %

Regno Unito:           18.700 $               45.653 $        +    144 %

Canada:                   19.380 $              50.398 $        +    160 %

Francia:                   24.990 $               44.578 $        +      79 %

Stati Uniti:                26.980 $              54.597 $         +    102 %

Germania:                27.510 $              47.590 $         +      73 %

Giappone:                 39.640 $              36.332 $         –     0,9 %

 

Vale la pena fare qualche considerazione a margine su tre paesi che stanno prendendo da tempo rilevanza internazionale (India, Cina e Brasile), e che dai dati ora richiamati rivelano un incremento del PIL-procapite particolarmente forte, anche se molto lontano dal dato relativo ai paesi capitalistici più sviluppati. Il fatto che in riunione non vi sia stato fatto cenno, non ci deve meravigliare; spesso è accaduto e accade che nelle nostre riunioni non ci sia la possibilità di affrontare tutti gli aspetti del tema che viene svolto, cosa che invece può avvenire nei resoconti scritti successivi e che vengono pubblicati nella nostra stampa.

 L’India, nel 1995, con una popolazione attiva di circa 410 milioni di persone (su una popolazione complessiva di circa 968 milioni), aveva un PIL-pro capite di 340 $, esattamente come il Tagikistan, che aveva una popolazione attiva di 2 milioni e 195 mila persone (su una popolazione complessiva di poco più di 6 milioni). L’arretratezza dell’India era evidente; bastava considerare, oltre al consumo di energia elettrica per abitante (448 kWh), il fatto che il 61% della forza lavoro era occupata nell’agricoltura e che oltre il 52% della popolazione complessiva sopravviveva in condizioni di estrema povertà. In Tagikistan il consumo di energia elettrica per abitante era di 2.395 kWh; pur avendo una superficie totale piuttosto piccola (143.100 kmq), il paese possiede giacimenti di carbone, petrolio, gas naturale, piombo, zinco, uranio, ferro ed ha un notevole potenziale idroelettrico, grazie al quale si sono sviluppati impianti siderurgici e metallurgici; ciò non  toglie che l’economia del paese sia prevalentemente agricola, come l’India.

L’India, nel 2015, presenta un quadro di sviluppo ben diverso rispetto a vent’anni prima. La popolazione complessiva è aumentata di circa 360 milioni di persone, (+37%), la popolazione attiva non è aumentata della stessa percentuale ma ha raggiunto e superato i 481 milioni (+17%) e il PIL-pro capite è aumentato del 379% registrando il valore di 1.627 $ (ancora molto lontano da quello della Cina, non parliamo poi degli Stati Uniti o della Germania); il consumo di energia elettrica è passato a 760 kWh per abitante (+70%), ha sviluppato l’industria siderurgica, meccanica, metalmeccanica e chimica ed ha aggiunto alla rete ferroviaria (la più estesa al mondo) e alla rete autostradale esistenti, un’ulteriore rete autostradale di grande importanza (6.000 km, chiamata “Quadrilatero d’oro”) che collega i quattro distretti urbani economico-finanziari più importanti del paese: Delhi, Kolkata, Chennai e Mumbai. Attualmente l’India, con il suo PIL complessivo di 2.458 miliardi di dollari, è riuscita a posizionarsi tra i paesi più importanti del mondo, ma si porta appresso una fragilità economica e sociale ancora di grande rilevanza. Resta il fatto che è il secondo paese più popoloso del mondo, collocato geograficamente in una posizione dominante sull’Oceano Indiano – che, con l’andare del tempo, diventa sempre più importante grazie alla via di comunicazione marittima che collega Giappone e Cina con il Medio Oriente e il contimente africano –, e le sue ambizioni di carattere imperialistico non sono inferiori a quelle della Cina o della Russia.

La Cina (escluso il territorio speciale di Hong Kong), nel 1995, con una popolazione attiva di 731,5 milioni di persone (su una popolazione complessiva di circa 1miliardo e 200 milioni), aveva un PIL-pro capite di 620 $, meno dell’Albania (670 $, con una popolazione di 3 mln e 200 mila) , del Camerun (650 $, con una popolazione di 14 mln e 600 mila) o del Congo (680 $, con una popolazione di 2 mln e 500 mila); il consumo di energia elettrica per abitante era di 839 kWh (a Hong Kong era di 5.549 kWh), mentre i settori industriali della siderurgia, della meccanica e dell’elettromeccanica, della chimica e, ovviamente, del tessile (da sempre l’industria più sviluppata in Cina) si stavano sviluppando rapidamente. In effetti l’economia cinese ha continuato a registrare tassi di crescita molto alti, più del 10% nel periodo dal 1991 al 1995, e tra l’8 e il 10% nei due-tre anni successivi, favoriti  dall’incremento degli investimenti diretti dall’estero grazie alla costituzione di numerose “zone franche” e “zone economiche speciali”, ai bassi costi della forza lavoro e alla sua diffusa alfabetizzazione, oltre che al rilevante risparmio delle famiglie (che costituisce ben il 37% del PIL) e, naturalmente, agli scambi commerciali e al supporto economico dei cinesi all’estero.

Nel 2015, la Cina raggiunge circa 1 miliardo e 400 milioni di abitanti, con una popolazione attiva di circa 800 milioni di persone; il PIL complessivo è di 12.880 miliardi $, e il PILl-pro capite ha raggiunto i 7.589 $ (il 1.124% di incremento sul 1995), dunque più del Sudafrica e del Venezuela e poco sotto della Bulgaria e dell’Azerbaigian, ma con un incomparabile potenziale di sviluppo. La Cina è attualmente la prima produttrice al mondo di cereali, frumento, riso, patate, arachidi, tè, tabacco, frutta, agrumi, radici e tuberi, birra, cotone, carta, ovini, caprini, suini, equini, volatili, carne, uova, lana, pesca, carbone, oro, ferro, acciaio, rame, piombo, stagno, zinco, alluminio, sale, fosfati, zolfo, fertilizzanti azotati, cemento, pneumatici, autovetture, biciclette, televisori, telefoni, lavatrici, frigoriferi, energia elettrica (sia termoelettrica che idroelettrica), tessile e abbigliamento, ed è tra i primissimi produttori al mondo di chimica e farmaceutica, meccanica e trasporti, veicoli commerciali, energia nucleare, benzine, bauxite, argento, gas naturale, petrolio, caucciù, uranio, legname e pasta di legno, fibre di lino, bovini, alimentare, vino, banane, zucchero, oli vegetali, soia, mais. Negli ultimi anni la Cina, registrando un calo della crescita economica (sotto il 7% annuo), ha tentato di compensare sviluppando il mercato interno e, quindi, i consumi interni, con l’obiettivo di dipendere meno dalle esportazioni che avevano invece fatto crescere notevolmente nel ventennio precedente l’economia generale del paese. Come succede in ogni grande paese capitalista, per evitare che un’economia votata all’esportazione com’era quella cinese  piombasse in crisi, la politica monetaria adottata è stata espansiva, ossia di sostegno al credito, il che ha portato inevitabilmente ad un aumento degli investimenti azionari speculativi che, abbinati ad un forte indebitamento delle imprese, ha creato una notevole instabilità e una serie di crolli in borsa (il più grave è stato quello dell’agosto 2015, con un –8,5%).

Tra le diverse iniziative che la Cina sta mettendo in atto da qualche tempo, oltre a quelle che riguardano l’acquisto di terre rare in Africa e in America del Sud, ce n’è una di particolare importanza sia per la Cina che per i paesi dell’Europa. Si tratta della cosiddetta nuova “Via della seta” (1), cioè di una via di comunicazione che dalle coste orientali della Cina, attraversando i paesi dell’Asia centrale e la Turchia, giunge nei Balcani da cui poi ramificarsi nel diversi paesi europei. E’ un’infrastruttura di dimensioni colossali che richiede ingenti capitali (che la Cina possiede) e che, oltre a facilitare il commercio via terra tra la Cina e l’Europa occidentale, dà respiro finanziario ai molti paesi attraversati e ai paesi balcanici in particolare. Il progetto è noto come Belt and Road Initiative (BRI) ed è stato lanciato ufficialmente dal presidente cinese Xi Jinping nel 2013. In realtà il progetto si divide in due assi principali, una via terrestre una via marittima: la Silk Road Economic Belt, rete di collegamenti stradali, ferroviari ed energetici lungo l’antica Via della seta (leggi: Marco Polo) attraverso cui connettere la costa orientale cinese all’Europa; e la 21st Century Maritime Silk Road, con cui assicurare collegamenti marittimi con infrastrutture integrate tra le coste cinesi e quelle di Europa, India, Africa e Pacifico, passando per il Mar cinese meridionale e l’Oceano Indiano. E’ dal 2012 che la Cina è stata promotrice, con i paesi dell’Europa dell’Est e con i paesi balcanici, della formazione di un gruppo, chiamato dei “16+1”; ne fanno parte ben 11 paesi dell’Unione Europea (Bulgaria, Repubblica Ceca, Croazia, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania, Slovacchia, Slovenia, Ungheria) e Albania, Bosnia Erzegovina, Macedonia, Montenegro e Serbia. Tra le infrastrutture “locali” importanti, in Serbia, dove la Cina ha previsto investimenti consistenti, ci sono stati la costruzione del Ponte Mihajlo Pupin a Belgrado, la costruzione di una centrale termoelettrica a Kostolac e l’ampliamento della miniera di Drmno che la rifornirà del carbone necessario, oltre al molo e al collegamento ferroviario tra la miniera e la centrale; la costruzione dell’autostrada Belgrado-Budapest e le autostrade dei Corridoi paneuropei X e XI che collegano la Serbia centrale con il Montenegro. E’ in ogni caso evidente che nei progetti cinesi tutti questi paesi costituiscono una testa di ponte, un approdo strategico verso il continente europeo, anche se per il momento sono la Grecia (il porto del Pireo in particolare) e la Serbia i due paesi che godono dei maggiori investimenti cinesi; la Serbia, oltretutto, che non fa parte dell’Unione Europea e nemmeno della Nato, e che ha rapporti pluridecennali con la Cina, è certamente il paese con cui la Cina si sente più garantita nei propri investimenti (2).

Il Brasile, nel 2015 conta poco più di 203 milioni di abitanti, mentre nel 1995 gli abitanti erano circa 155 milioni: dunque il 31% di aumento della popolazione. Come abbiamo visto nella tabella sopra riportata, il PIL-pro capite dal 1995 al 2015 è salito del 223%, andando da 3.640 $ a 11.604 $, ma resta ancora molto lontano dai valori raggiunti dalle vecchie potenze capitalistiche (Germania, Francia, Regno Unito, non parliamo poi degli Stati Uniti); la popolazione attiva è passata – secondo i dati che abbiamo a disposizione – da 72 milioni e 287 mila (1996) a 106 milioni 170 mila (2013), salendo del 47% in neanche vent’anni, mentre ad es. in Germania è incrementata nello stesso periodo solo del 2,8% ma con un PIL-pro capite di 47.590$, in Francia del 12,9% ma con un PIL-pro capite di 44.578$, nel Regno Unito del 12,1% ma con un PIL-pro capite di 45.653$, e negli Stati Uniti del 14% con un PIL-pro capite di 54.597$: la distanza tra paesi capitalistici superindustrializzati e paesi capitalistici “emergenti” (per usare un aggettivo che piace molto ai media), nonostante il loro balzo nell’ultimo ventennio, resta una distanza siderale, il che contribuisce a comprendere che lo sviluppo ineguale del capitalismo nel mondo non tende per nulla ad assottigliarsi, nonostante il fatto che le crisi finanziarie ed economiche colpiscano duramente i paesi imperialisti più forti che però – in assenza di devastazioni provocate da una guerra mondiale e in completa assenza della lotta di classe proletaria – hanno la capacità di “recuperare”, magari in più anni rispetto a tempi precedenti, sulle crisi che li colpiscono, come è stato il caso dell’ultima crisi del 2007-2008.

Un altro dato interessante che riguarda il Brasile e la Cina ci viene fornito dal Financial Times (3) che, in un suo articolo, mette in evidenza come la Cina è particolarmente interessata ad investire in alcuni paesi dell’America Latina (Venezuela e Brasile soprattutto). Infatti, dal 2005 la Cina ha prestato più di 140 miliardi di dollari (118 miliardi di euro) all’America Latina, metà dei quali al Venezuela che, però, negli ultimi anni, a causa della crisi del petrolio, è entrato seriamente in crisi finanziaria e non dà sufficienti garanzie agli investitori esteri. Ma l’interesse della Cina ad inserirsi in America Latina per poter costituire delle solide basi strutturali e finanziarie atte a sostenere le esportazioni cinesi nelle Americhe, non è scemato. Tutt’altro; ha solo spostato la mira, e il Brasile rappresenta, almeno dal 2010, un paese dalle possibilità strategiche più ampie di qualsiasi altro. Il Financial Times riporta un’opinione non trascurabile dell’ex condirettore del ramo per gli investimenti del Credit Suisse in Brasile: “Brasile e Cina sono fatti per stare insieme. La Cina ha un eccesso di capitale e competenze nel settore delle infrastrutture, e ha bisogno di quello che abbiamo noi: materie prime e risorse alimentari”. Questo interesse della Cina per il Brasile non può non preoccupare gli Stati Uniti che sono stati superati,  nei rapporti commerciali, proprio dalla Cina: nel 1994 le importazioni dagli USA erano di 8.198 mln $ Usa, e le esportazioni verso gli USA erano di 8.926 mln $ Usa posizionando gli Stati Uniti come primo partner commerciale in assoluto del Brasile, mentre la Cina non risultava nemmeno tra i primi 15 paesi del commercio estero brasiliano. Nel 2014 le importazioni dalla Cina valgono 37.341 mln $Usa, mentre le esportazioni verso la Cina sono di 40.616 mln $ Usa; gli Stati Uniti sono ancora forti esportatori verso il Brasile, ma in seconda posizione con 35.299 mln $ Usa, mentre l’export brasiliano verso gli USA raggiunge “solo” i 27.145 mln di dollari. Non va dimenticato, naturalmente, che il capitalismo cinese è alla ricerca in tutto il mondo di materie prime e di risorse alimentari, e la sua potenza finanziaria è utilizzata per penetrare in mercati che fino a qualche anno fa erano dominati dagli imperialisti concorrenti. Il Brasile, colpito anch’esso dalla crisi del 2008, ha necessariamente aperto le porte agli investimenti esteri disponibili, e i capitali cinesi sono stati pronti ad aproffittare della situazione. Già nel 2010 le acquisizioni cinesi di aziende brasiliane valevano più di 12 miliardi di dollari, nel 2011 valevano circa 7 miliardi e mezzo, poi sono calate negli anni successivi fino a meno di 1 miliardo di dollari ma per risalire nel 2015 a 5 miliardi di dollari, nel 2016 a 11,9 miliardi di dollari e nel 2017 toccheranno i 10,8 miliardi di dollari. Questi investimenti riguardano in particolare le infrastrutture, ma non solo. Il porto di Açu, vicino a Rio de Janeiro, che attualmente è di proprietà di un fondo di investimento nordamericano (Eig Global Energy Partners), è già diventato “un’autostrada per la Cina”, visto che è utilizzato per il trasporto di metalli ferrosi verso il paese asiatico e come base logistica per i giacimenti petroliferi offshore del Brasile, a cui sono interessate due delle principali aziende petrolifere cinesi, la Sinopec e la Cnooc; e potrebbe non essere lontano il momento in cui il capitale cinese entrerà nella proprietà di questo importantissimo porto (un po’ come ha fatto con il porto greco del Pireo). Il Financial Times, inoltre, mette in evidenza come una famosa inchiesta di corruzione (detta lava jato), di cui abbiamo trattato nella nostra stampa (4), “aveva svelato l’esistenza di un sistema di tangenti in cambio di contratti che coinvolgeva politici, aziende pubbliche e appaltatori privati. Alcune imprese sono fallite o sono state costrette a svendere i loro beni. Tra queste c’è la Odebrecht, una grande azienda di costruzioni che nel luglio del 2017 ha venduto la sua quota di maggioranza del Galeão, l’aeroporto internazionale di Rio de Janeiro, alla Hna per 310 milioni di dollari”. Non c’è da stupirsi, tra l’altro, che questa inchiesta abbia aggravato la già forte recessione nella storia  del Brasile, tanto da spingere lo stesso governo centrale a mettere in vendita “porti, autostrade, aeroporti, ferrovie”: e la Cina è il falco del momento!

 

Il capitalismo non risolverà mai le proprie crisi se non acutizzandole sempre più

 

A dieci anni di distanza dalla crisi del 2007, il Fondo Monetario Internazionale sostiene che ormai c’è la ripresa economica e, quindi, che i paesi sarebbero “usciti dalla crisi”. La Banca Mondiale, da parte sua, sostiene che non si vedranno più crisi finanziarie come quella del 2007. In realtà quella crisi che ha mandato a gambe all’aria potenti organizzazioni finanziarie americane (come la Bear Stearns e, in particolare, la Leman & Brothers, la più grande banca d’affari di New York), non ha riguardato soltanto gli Stati Uniti, come sappiamo, ma tutto il mondo, in particolare la Gran Bretagna e la Germania, paesi nei quali lo Stato ha dovuto intervenire per coprire i giganteschi buchi creati nei depositi bancari zeppi di titoli che gli stessi banchieri hanno chiamato tossici, ossia del tutto irrecuperabili.

Le crisi accompagnano da sempre il corso dello sviluppo del capitalismo; ai tempi di Marx accadevano all’incirca ogni 10 anni, poi la distanza tra una crisi e l’altra, tendenzialmente, è diminuita; inoltre, più si è sviluppata quella che gli stessi borghesi chiamano globalizzazione, e più repentinamente lo scoppio di una crisi economica, valutaria o finanziaria, si trasmette da un paese all’altro. Di fatto la prossima crisi non tarderà ad arrivare.

Nel 2007, allo scoppio della crisi dei subprime americani, scrivevamo:

«Esiste una economia che gli stessi capitalisti definiscono reale, e un’economia irreale, virtuale, fittizia, fantastica per usare un termine caro a Marx. Dove per “economia reale” si intende economia produttiva, economia industriale e agricola, economia produttrice di beni materiali, economia in cui il capitale industriale e commerciale con il lavoro salariato produce merci che vengono poi scambiate nel mercato contro denaro; mentre per “economia fittizia” si intende la parte di economia rappresentata dall’accumulo di capitale di interesse, di capitale eccedente, di capitale che non torna ad investirsi del ciclo della produzione reale, di capitale da prestito, creditizio, come ricorda Marx. Lo sviluppo del capitalismo ha accresciuto enormemente la massa di capitali da prestito; ha prodotto, e produce costantemente, come per le merci, una sovrapproduzione di capitali. E questa sovrapproduzione, non assorbita nel ciclo di produzione di merci, circola in un ambito  che potremmo chiamare virtuale, nell’ambito dei titoli di credito, nel mondo delle “promesse di pagamento”, nel mondo delle “cambiali”; cioé, in un mondo in cui l’inesorabile spinta alla valorizzazione del capitale, non trovando per tutti i capitali esistenti lo sbocco nell’economia reale, si costruisce uno sbocco fittizio, dove la speculazione, dunque il rischio, cresce in proporzione geometrica rispetto al flusso di capitali che vi si trasferiscono. (...)

«Il capitale finanziario, detenuto e controllato dal sistema bancario, in genere ha di fronte a sé due possibili circolazioni: il credito volto alla produzione e alla circolazione di merci, il risparmio rivolto al rischio speculativo. Per dirla in parole semplici: quando le banche indirizzano i capitali depositati verso il rischio speculativo in quantità maggiori di quelli indirizzati verso il credito industriale e commerciale, mettono a rischio di liquidità l’intera quantità di capitali in esse depositati. Naturalmente la speculazione può riguardare qualsiasi titolo di borsa, sia di società private che di società pubbliche e di Stato. Le crisi profonde, tipo 1929, riguardano tutto il sistema borsistico, dunque tutte le società per azioni esistenti; e siccome le società per azioni sono “ per loro costituzione “ globalizzate o globalizzabili, se tutto il loro sistema cede, siamo di fronte ad una crisi generale del capitalismo. Ma questo tipo di crisi avviene solo in presenza di fattori di crisi su tutti i livelli economici, ossia quando i fattori di crisi da quello fittizio, fantastico (per dirla con Marx), essenzialmente speculativo, passano all’economia reale; allora, la volatilizzazione dei capitali, e quindi la generale mancanza di liquidità da parte delle banche, si manifesta insieme alla chiusura delle fabbriche, all’aumento vertiginoso della disoccupazione, al rapido immiserimento della stragrande maggioranza della popolazione. Non siamo più di fronte alla volatilizzazione di masse anche considerevoli di capitali fittizi, o ad una parziale distruzione di capitali reali, ma di fronte ad un blocco della produzione reale “ e quindi ad un blocco della stessa produzione e riproduzione di capitale reale. Da crisi di questo tipo il capitalismo esce soltanto attraverso una distruzione ancor più ampia di capitali e merci che si ottiene con la guerra; perché solo dalla grande distruzione il capitale può ricominciare a costruire, a macinare profitti da nuovi cicli di produzione e riproduzione capitalistica, in una rinnovata spirale di sviluppo capitalistico. Il capitalismo mondiale, prima di giungere a crisi generali di quella profondità, attraversa periodi in cui la sua espansione e il suo sviluppo incappano in crisi periodiche parziali, regionali, che toccano una parte dei capitali bancari o una parte delle economie nazionali. Crisi che riesce ancora a bilanciare attraverso il loro riassorbimento mediante l’aumento del tasso di sfruttamento del lavoro salariato, da cui estorce quantità gigantesche di plusvalore, e quindi di capitali da investire sia nell’economia “reale” che in quella “fantastica”; tasso di sfruttamento solitamente negoziato con i sindacati collaborazionisti, quando questi garantiscono un sufficiente controllo sociale delle masse lavoratrici, o assicurato dall’intervento diretto dello Stato attraverso forme dittatoriali di tipo militare o populista quando il controllo sociale delle masse sfugge, o è sfuggito, alle organizzazioni (sindacati, partiti) predisposte a quel compito per conto della classe borghese dominante. La crisi d’agosto [2007, ndr] ha scosso sì i palazzi delle borse del mondo, ma non aveva una tale forza tellurica da farli crollare» (5).

E infatti il capitalismo, a livello mondiale, ha avuto la possibilità di tamponare la crisi e recuperare il suo processo di valorizzazione del capitale; naturalmente il capitalismo si è leccato le ferite prendendosi tutto il tempo che gli era necessario – e questa crisi è durata circa 10 anni, un tempo molto lungo anche se non quanto la prima grande crisi detta della “Grande depressione” (da non confondere con quella del 1929-1932) che colpì in particolare gli Stati Uniti dal 1873 al 1896 – anche perché, non solo i paesi di giovane capitalismo, come la schiera dei paesi cosiddetti “emergenti”, hanno rappresentato almeno in parte uno sfogo di mercato per le merci e i capitali eccedenti dei paesi imperialisti maggiori, ma soprattuto perché l’assenza della lotta di classe del proletariato nei maggiori paesi imperialisti ha permesso ai poteri borghesi di schiacciare ancor più le condizioni di vita e di lavoro proletarie a livello mondiale, aumentandone lo sfruttamento, e peggiorando anche le condizioni delle stesse classi medie: sappiamo bene che il capitale è prodotto dal lavoro salariato (in cui più si allunga il tempo di lavoro giornaliero non pagato, più aumenta il valore-capitale per per ogni capitalista) e che i capitali eccedenti si instradano sempre nel settore della “economia fittizia” che è, riprendendo il nostro articolo appena citato, «la parte di economia rappresentata dall’accumulo di capitale di interesse, di capitale eccedente, di capitale che non torna ad investirsi nel ciclo della produzione reale, di capitale da prestito, creditizio, come ricorda Marx».

In riunione sono stati presentati sia una tabella relativa all’acciaio che, come sappiamo, è un importante indice di produzione per il suo diverso utilizzo (industria dell’automobile, degli armamenti, dell’edilizia, delle infrastrutture, navale, ferroviaria, spaziale ecc.) che alcuni diagrammi relativi all’andamento del PIL dei maggiori paesi europei (dal 1965 al 2015) e degli USA (dal 1950 al 2015).

Vale la pena ricordare, per confermare l’altalena della produzione capitalistica tra i periodi di crescita e i periodi di crisi, i dati essenziali della crisi 2007-2008, riprendendo quanto abbiamo scritto nel “prolétaire” n. 494, Sett/Nov. 2009, nell’articolo Le capitalisme mondial au tournant de la crise,  e tradotto ne “il comunista” n. 115, Nov. 2009/Genn. 2010,  nell’articolo Il capitalismo mondiale nelle strette della crisi:

«Per avere una visuale più ampia sull’attività economica nei vari paesi e sulla sua recente evoluzione, guardiamo le cifre che riguardano la produzione industriale (i dati di cui disponiamo sono in generale relativi al mese di agosto), la produzione di acciaio e il consumo di petrolio, e i dati che indicano le variazioni del mercato mondiale. Rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, quando la recessione economica era già cominciata, ma non aveva ancora raggiunto la massima intensità, i dati riguardanti la produzione industriale sono tutti estremamente negativi ad eccezione della Cina, che dichiara ufficialmente un aumento del 12,3% e dell’India, con un aumento del 6,8%. Abbiamo infatti: –10,7% per gli USA; –18,7%  per il Giappone; –16,7 per La Germania; –13% per la Francia; –11,2% per la Gran Bretagna; –18,2 per l’Italia; –11% per la Spagna; –12,6% per la Russia; –9,2% per la Turchia e per la Svezia un calo record del –20,9%: il famoso modello svedese ha del piombo nelle ali… Per dare un quadro un po’ più ampio, forniamo i dati riguardanti alcuni altri paesi, ad esempio dell’America Latina: Argentina –9%; Brasile –9,9%; Messico –6,5%; Venezuela (giugno) –12,4%, o il Sudafrica (che affronta la sua prima recessione da 17 anni a questa parte): –15%. (...)

«La produzione mondiale di acciaio continua a rimanere un elemento essenziale per l’industria e le costruzioni. Ha toccato il suo livello più basso (82 milioni di tonnellate) nel dicembre 2008, poi ha ripreso a salire sensibilmente a partire da maggio, fino a raggiungere, in luglio 2009, 104 milioni di tonnellate (con un calo, comunque, dell’11% rispetto al luglio del 2008). Una parte importante dell’aumento degli ultimi mesi è dovuta alla Cina che, in luglio, ha prodotto quasi la metà dell’acciaio mondiale (50,7 milioni di tonnellate), segnando un aumento di oltre il 12% su un anno. Per i grandi paesi produttori, abbiamo invece, per il mese di luglio, le seguenti variazioni annuali: Stati Uniti, –41,6%; Russia, –18,4%; Germania, –28,8%; Italia, –43,2%; Gran Bretagna, –30,6%; Francia, –37,2%; Spagna, –32%; Turchia, –8,5%; Ucraina, –28%; Brasile, –22,8%; Messico, –23%; Giappone, –24%; Corea del Sud, –13%; Taiwan, –26,6%. Anche se non si tratta di un grande paese produttore, è interessante notare che il calo record è detenuto dalla Svezia: –97%! Per quanto riguarda l’India, ha avuto invece un aumento del 4%».

 

E ora vediamo come la ripresa economica capitalistica abbia riposizionato la produzione d’acciao grezzo nel 2016 tra i vari paesi:

Cina,               con 808,4 mln di tonn. (è la prima produttrice mondiale che in soli 8 anni è passata da 50,7 mln di tonn. a 808,4!);

Giappone,       con 104,8 mln di tonn.;

India,              con 95,6 mln di tonn.

 

In sostanza questi tre paesi asiatici costituiscono insieme il 62% della produzione mondiale (1.629,6 mln di tonn.). Se aggiungiamo la Corea del Sud con 68,6 mln tonn. e Taiwan con 21,8 mln di tonn, in 5 paesi dell’Estremo Oriente si concentra il 68% della produzione di acciaio mondiale.

Gli stessi 5 paesi, nel 1996, vent’anni prima, registravano una produzione di 271,8 mln di tonn., ossia il 36,3% della produzione mondiale di quell’anno (che era di 748,1 mln di tonn.). La produzione mondiale di acciaio è più che raddoppiata dal 1996 al 2016, al di là dei cali vertiginosi nei periodi di crisi, e ciò è dovuto soprattutto a questi 5 paesi ai quali si aggiungono:

  

Turchia,      passa dai  13,5 mln di tonn. del 1996         ai 33,2 del 2016  (+138%),

Russia,        passa dai  49,2 mln di tonn. del 1996        ai 70,8 del 2016  (+44%),

Messico,     passa dai  13,2 mln di tonn. del 1996         ai 18,8 del 2016  (+42,4%).

 

Per non parlare del Vietnam che da una quota insignificante di 320 mila tonn. del 1995 passa a 7,8 mln di tonn. nel 2016 (+2330%) e dell’Iran che fa un balzo notevole passando da 4,5 a 17,9 (+298).

Anche paesi già strutturati industrialmente hanno incrementato la produzione di acciaio: l’Austria da 4,4 a 7,4 (+68%), il Brasile da 25,2 a 31,3 (+24%), l’Ucraina da 22,3 a 24,2 (+9%), la Spagna da 12,1 a 13,6 (+12%).

Mentre tra i più vecchi paesi produttori d’acciao solo  la Germania ha visto un incremento dal 1996 al 2016, passando da 39,8 a 42,1 (+6%).

Gli altri paesi invece l’hanno diminuita: tra il 1996 e il 2016 gli USA passano da 94,7 a 78,5 (–17%), il Regno Unito da 18 a 7,6 (–58%), il Belgio da 10,7 ai 7,7 (–28%), la Francia da 17,6 a 14,4 (–18%), il Canada da 14,6 a 12,6 (–16%), l’Italia che da 24,4 passa a 23,4 (–4%), la Polonia che passa da 10,4 a 9 (–13%), l’Australia che da 8,4 passa a 5,3 (–37%).

Ma se andiamo indietro di un decennio, al 1987, e confrontiamo la produzione di acciaio dei maggiori produttori di ieri con quelli di oggi, è rilevante il formidabile incremento registrato in particolare in alcuni di essi:

 

Cina,     con 56 mln di t (808,4 nel 2016);

India,     con 13 mln di t. (95,6 nel 2016);

Corea del Sud,     con 2,7 mln di t. (68,6 nel 2016);

Turchia,     con 7 mln t. (33,2 nel 2016);

Messico,     con 7,2 mln t. (18,8 nel 2016);

Iran,    con 900 mila t. (17,9 nel 2016).

 

In effetti, per la Russia e la Germania bisognerebbe avere dei dati ponderati con la nuova situazione creatasi con il crollo dell’URSS nel 1991 e la riunificazione tedesca del 1990, dati che non abbiamo; l’unica cosa che possiamo mettere in evidenza ora è che, nel 1987, l’URSS era il primo paese nella produzione mondiale di acciaio, con 162 mln di tonn., mentre la Germania occidentale registrava 36,2 mln di tonn. e la Germania orientale 8,2 mln di tonn. che, sommate, farebbero 44,2 mln di tonn., per cui nel 2016 si registrerebbe un calo come per gli altri vecchi paesi europei.

I diagrammi presentati in riunione riguardavano il PIL degli USA e l’andamento economico di 7 paesi (Spagna, USA, Regno Unito, Germania, Giappone, Francia, Italia). Entrambi i grafici evidenziano un andamento che, nelle riunioni generali di partito degli anni intorno al 1975 sul corso del capitalismo mondiale, avevamo chiamato a “imbuto”: le diverse grandi economie del mondo, passato il trentennio di espansione vorticosa dell’economia capitalistica dalla fine della seconda guerra mondiale in poi, presentavano simultaneamente non solo gli stessi fattori di crisi, ma anche un andamento delle crescite e delle recessioni molto simile tra i diversi paesi, e tutti indirizzati verso percentuali tra il 2 e il 5% di incremento, salvo presentare un andamento simile anche nei crolli (tra il 2 e il 6%) come nel 1980-81, nel 1991-1993, fino all’ultima crisi del 2007-2009. 

Quanto al tasso di crescita dell’economia si deve osservare, al di là di qualche sporadico caso singolo, che via via è stato molto più basso di un tempo, ed è una tendenza non recentissima. Da un diagrammma della Banca Mondiale che riguarda gli indicatori di sviluppo economico nel mondo, mettendo a confronto l’andamento di questi indicatori dal 1965 al 2015 per i 7 paesi industrializzati sopra citati (Stati Uniti, Regno Unito, Germania, Giappone, Francia, Italia, Spagna) si vede molto bene la tendenza ad “imbuto” che, partendo da crescite dal 2 al 12% a seconda del paese, alternandosi a recessioni, come nel 1970, 1975, 1980, 1983, 1991, 1998, 2003, 2009, stringe queste crescite sempre più verso un’oscillazione tra lo 0,9 e il 3%, mentre le cadute possono essere anche molto forti come quella del 2008-2009 che toccò quasi un “6%. L’intervento della finanza delle banche centrali ha tamponato, in effetti, crolli ancor più drastici (negli Usa, nel Regno Unito, in Germania, nella stessa Italia), determinando poi una certa ripresa economica, ma sostenendola con prestiti di denaro cosipicui a costo zero. Con l’operazione chiamata del Quantitative Easing (detta, dagli stessi banchieri, una politica monetaria “non convenzionale”), dopo una serie di operazioni di sostegno alle banche per ridurre gli effetti negativi dei famosi titoli “tossici” (provenienti dai subprime e dai derivati inseriti in tutta una serie di titoli azionari e bancari venduti al mercato) non andate a segno, la Banca Centrale Europea è passata ad acquistare titoli di stato a breve scadenza, e a creare moneta per acquistare titoli finanziari dalle banche. Il flusso di denaro liquido, a bassissimo tasso di interesse o rasente lo zero, da parte della BCE è stato di 60 miliardi di euro al mese da marzo 2015 a febbraio 2016, aumentati a 80 miliardi di euro al mese da marzo 2016 fino a tutto il 2017. Questa operazione di vero e proprio salvataggio delle banche e degli Stati affinché non finissero in bancarotta, in un primo tempo era stata prospettata di breve durata, ma la enorme quantità di titoli tossici che hanno riempito i depositi e le operazioni bancarie ha praticamente indotto le banche a non utilizzare questo flusso di denaro liquido per il sostegno dell’economia reale – dunque per facilitare il credito alle imprese e al consumo – ma ad utilizzarlo per salvare se stesse e i propri profitti. A dimostrazione ulteriore che il capitale finanziario è diventato la priorità assoluta per il capitalismo. Sta di fatto, però che la effettiva crescita economica del capitalismo si basa sull’economia reale, sull’economia produttiva, e prima o poi, se non vuole ricadere in bolle finanziarie particolarmente distruttive, deve correre in sostegno all’economia reale... naturalmente fino alla successiva crisi.

Laddove questo è avvenuto – dopo naturalmente aver temporaneamente salvato i maggiori istituti bancari e le maggiori banche d’affari (come ricordato nei nostri precedenti articoli) – un certo flusso di denaro ha iniziato a dirigersi verso il credito alle imprese... e la tanto agognata crescita ha cominciato a farsi vedere. Ma quanto durerà? Gli stessi borghesi hanno molti dubbi; negli Stati Uniti, ad esempio, la presidenza Trump, per difendere la propria ripresa economica e il proprio mercato, ha iniziato ad adottare alcune misure di protezione imponendo dei dazi per le importazioni di acciaio e di alluminio, e non è escluso che altri paesi, in particolare europei, prima o poi si sentano autorizzati a fare altrettanto, magari su altri prodotti, nei confronti degli USA.

In ogni caso, l’aspetto caratteristico dell’imperialismo è dato da una crescita dell’economia finanziaria molto più forte rispetto a quella dell’economia reale. Sappiamo che il capitale finanziario viaggia su vettori sempre più rapidi, grazie ai quali la circolazione del capitale aumenta la sua velocità di spostamento da un’azienda ad un’altra, da una borsa ad un’altra, da un mercato ad un altro. Tutte le operazioni di borsa sono condizionate da tre elementi fondamentali: le ultimissime informazioni sulle aziende quotate in borsa, sui loro movimenti di vendita e di acquisizione e sul loro gradimento da parte dei mercati finanziari; la velocità attraverso la quale si vendono o si comprano i titoli, e naturalmente la quantità di titoli che si sposta da un acquirente ad un altro. In un periodo in cui si è sviluppata considerevolmente la tecnologia informatica, il settore finanziario non poteva certo rimanere all’epoca delle “grida”. Sofisticatissimi sistemi di calcolo, di assemblaggio e di confronto di dati, di velocità di trasmissione di dati e, quindi, di velocità di acquisto e di vendita da una parte all’altra del mondo, contribuiscono sempre più a elevare l’economia finanziaria a livelli parossistici.

Da qualche anno esistono «i sistemi HTF (High Frequency Trading), ossia sistemi per la compravendita ad altissima velocità responsabile ormai della metà delle contrattazioni negli Usa e i cui sistemi sono ormai da tempo sotto i riflettori degli organi di controllo della Borsa e, in America, addirittura dell’FBI. Per operare in tempi che si misurano in millisecondi ci sono due requisiti: la bassa latenza (cioè la compressione dei tempi di invio degli ordini) e la co-location (ossia la vicinanza dei server alla borsa su cui opera)» (Cfr. Affari & Finanza, settimanale de la Repubblica, 5 maggio 2014).

I sistemi HFT sono molto diffusi nel mercato azionario, ma sono applicati in modo massiccio anche su altri mercati, come quelli delle opzioni, delle obbligazioni, degli strumenti derivati e delle materie prime. La durata delle operazioni messe in atto dagli HFT può essere brevissima. Lo scopo di questi algoritmi è quello di lucrare su margini decisamente esigui, ma per un numero elevatissimo di operazioni, e soltanto in questo modo questi sistemi possono essere remunerativi. «La tecnica più utilizzata dai software di HFT – continua Affari e Finanza – è quella dell’arbitraggio, che sfrutta le discrepanze nel prezzo di un titolo quotato su più borse. Ma molte versioni del software possono anche analizzare il grado di liquidità di un mercato o sfruttare l’effetto di una notizia macroeconomica particolare: magari associando strategie di trading a una parola chiave presente nei comunicati stampa. Ci sono poi tecniche di “smoking” che prevedono di allettare gli altri operatori con proposte poi modificate a prezzi più favorevoli, oppure di “spoofing”, che prevedono l’immissione e la cancellazione di ordini per indurre gli operatori a pensare che sia iniziata una certa fase di tendenza. O ancora di “layering”, con l’inserimento di un ordine di acquisto nascosto e uno di vendita ben visibile. Ed il “pinging”, con l’inserimento di piccole proposte di acquisto per scoprire i comportamenti di altri trader».

Insomma da queste poche righe si intuisce quanto la tecnica informatica abbia esaltato la speculazione nelle operazioni di borsa che, ovviamente, possono avere per alcuni speculatori dei risultati molto vantaggiosi in pochissimi secondi, e per altri, negli stessi pochissimi secondi, possono rappresentare un crack inaspettato. E infatti, nel settimanale ora citato, si può leggere che tutte le strategie adottate possono essere: «decisamente redditizie, ma che spesso causano perdite milionarie o crack dei mercati». Infatti il settimanale ricorda «il caso di Knight Capital, che nel 2012 perse quasi mezzo miliardo di dollari per un problema software e la flessione del Dow Jones il 6 maggio del 2010: in 5 minuti passò da 10.650 punti a 9.872 per tornare a 10.232 punti nei successivi 5 minuti...».

In riunione, il compagno relatore, a proposito delle vicende legate all’economia finanziaria e alle sue crisi, accennava rapidamente al recente fenomeno dei Bitcoin. Su questo argomento è utile tornare per spiegare in che cosa consiste questo fenomeno.

Il Bitcoin è una criptovaluta elettronica tra le più diffuse attualmente al mondo, anche se non in tutti i paesi è accettata come valore di transazione on line. In sostanza è denaro digitale, ma non è una vera e propria moneta, cioè non esiste un oggetto di metallo, di carta o di plastica in cui siano stampati un simbolo (ad es. € degli euro, oppure $ dei dollari) e la quantità numerica del valore rappresentato e non è dipendente o legata a una o più valute tradizionali forti, all’oro o a qualsiasi altro metallo prezioso che resista inalterato nel tempo. Quindi il suo controvalore in valute tradizionali non è fissato da parametri economico-finanziari, da un rapporto con una forte moneta o da un rapporto diretto con l’oro. Il valore del Bitcoin è determinato esclusivamente dalle aspettative di coloro che li scambiano, da aspettative del tutto ipotetiche che vengono recepite secondo la legge base del sistema capitalistico, della domanda e dell’offerta. Il valore del Bitcoin è assolutamente impalpabile e confrontabile solo con se stesso: la caratteristica fittizia del capitale finanziario elevata all’attuale massima potenza.

La sua brevissima storia è molto diversa da quella che ha dato origine alle monete tradizionali. Per non  andare troppo indietro nel tempo, la piena convertibilità delle monete in oro (detto sistema aureo) sussistette, per i maggiori paesi del mondo, dalla guerra franco-prussiana del 1871 fino allo scoppio della prima guerra imperialista mondiale; fu abbandonata, poi, dal 1914 e sostituita da un sistema di parziale convertibilità, per permettere agli Stati entrati in guerra di finanziare le spese militari senza incidere direttamente sul prelievo fiscale; ma con il 1944, dunque a seconda guerra mondiale in via di conclusione, il sistema aureo, con i suoi forti condizionamenti, fu sostituito dagli accordi di Bretton Woods con i quali gli Stati Uniti abolirono la piena convertibilità del dollaro in oro e imposero il dollaro (non solo a se stessi, ma, data la loro forza imperialista, a tutto il mondo) come moneta di riferimento per tutte le altre monete esistenti. Questo sistema, detto a “tasso di cambio fisso” tra tutte le monete e il dollaro, resse finché l’economia statunitense continuò ad essere indiscutibilmente la più forte economia del mondo. Ma, di fronte alla crescente potenza economica di altri paesi, come il Giappone e la Germania, e la notevole crescita del debito pubblico degli USA dovuta soprattutto alle spese militari della guerra in Vietnam e del controllo militare mondiale da parte americana, il dollaro, come unica moneta di riferimento per gli scambi internazionali e per determinare il valore di cambio con le altre monete – pur mantenendo una posizione di privilegio, ad esempio nel commercio delle materie prime – cominciò a subire la concorrenza delle altre economie forti e, quindi, la concorrenza delle loro monete (in particolare dello yen giapponese e del marco tedesco). Nello stesso tempo, a protezione della propria stabilità economica e monetaria, messa in qualche misura in pericolo dal sempre più forte indebitamento degli Stati Uniti, aumentarono le richieste di conversione dei dollari in oro. Agli Stati Uniti, di fronte ad un assottigliamento consistente delle proprie riserve auree e nel tentativo di non perdere la propria egemonia internazionale, non rimaneva che decretare la fine degli accordi di Bretton Woods, passare alla svalutazione del dollaro e dare il via alla fluttuazione dei cambi. Come dire che, se gli Stati Uniti erano destinati a non essere più padroni assoluti del mondo dettando le regole degli scambi commerciali, dei cambi delle valute e dei conflitti economico-imperialistici  – come capitò alla Gran Bretagna con la prima guerra mondiale – dovevano, però, obtorto collo, passare ad una fase in cui difendere i propri interessi in altro modo, ad esempio sul piano dei dazi rispetto alle importazioni, sul piano delle politiche monetarie indirizzate a mantenere il valore del dollaro concorrenziale rispetto alle altre monete internazionali per favorire le proprie esportazioni e, sul piano degli interventi militari, coinvolgere gli altri Stati alleati, e a loro spese, in operazioni nelle diverse “zone delle tempeste”, zone di cui anche gli altri Stati erano e sono interessati a mantenere il controllo o, comunque, a limitare l’influenza dei propri alleati/nemici.

Così, nel dicembre del 1971, il Gruppo dei Dieci (6) firmò lo Smithsonian Agreement, che mise fine agli accordi di Bretton Woods, svalutando il dollaro rispetto all’oro e dando inizio alla fluttuazione dei cambi. Nel febbraio del 1973 ogni legame tra dollaro e monete estere venne definitivamente reciso e lo standard aureo fu quindi sostituito dal sistema di cambi flessibili. Ma una politica monetaria, per quanto accorta possa essere, non ha e non avrà mai la capacità di evitare le crisi del sistema capitalistico. Infatti nel 1973 scoppia la crisi petrolifera, ossia i maggiori paesi produttori ed esportatori di petrolio, per difendere il prezzo del barile che consentisse loro di continuare ad incassare forti profitti come in precedenza, diminuiscono la fornitura internazionale di petrolio mettendo in crisi uno dopo l’altro i paesi importatori di petrolio e dei suoi derivati andando ad incidere su quella che viene detta l’economia reale, ossia l’economia produttiva. Due anni dopo, nel 1975, il capitalismo giunge alla sua prima crisi economica simultanea nei maggiori paesi capitalistici: dopo trent’anni di continua espansione, il capitalismo mondiale incoccia nella sua più pericolosa crisi dalla fine della seconda guerra mondiale. Ma, come spesso abbiamo messo in risalto nei lavori di partito, la crisi capitalistica di grande rilievo non esplode improvvisa come un fulmine a ciel sereno; essa è sempre preceduta da una serie di crisi economiche e finanziarie più limitate e parziali. Ad esempio, per quanto concerne la crisi del 1975, nell’articolo intitolato «Il corso tormentato dell’economia mondiale», a proposito dei 4 maggiori paesi capitalistici occidentali (Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania e Giappone) scrivevamo che: «la più recente fase di depressione  è culminata nel 1970 per gli Stati Uniti (con netto declino della produzione), nel 1971  per la Germania e il Giappone (non declino ma rallentamento della produzione), e alla fine del 1971 per la Gran Bretagna (lieve declino della produzione). Ora è appunto questo stesso anno 1970-1971 che era stato caratterizzato dalla recrudescenza della disoccupazione, dal rallentamento del commercio mondiale, e dai duri scontri commerciali e monetari fra “alleati occidentali”: l’apparente armonia nei rapporti tra nazioni capitalistiche, che può assumere una vaga parvenza di verosimiglianza in periodo di accumulazione rapida, aveva lasciato il posto alla dura realtà dei rapporti borghesi fin dalle prime difficoltà: “tralasciando le fase di prosperità – scriveva Marx (nel Libro I del Capitale, cap. XIII, par. 7) –infuria tra i capitalisti la lotta più violenta per la loro parte individuale di spazio sul mercato”. L’anno 1972 segna dovunque una netta ripresa che, per tutti i paesi considerati, culmina nel primo e secondo trimestre 1973; a partire dalla metà del 1973, il tasso di crescita rallenta dovunque per cadere bruscamente nel 1974: la recessione si generalizza, il che significa per la classe operaia l’inevitabilità di un nuovo aumento della disoccupazione in tutti i paesi alla fine del 1974 e nel 1975. Il rallentamento e il ristagno sono aggravati dal fatto che, per la prima volta dopo la seconda guerra mondiale, il ciclo è “in fase” nei principali paesi capitalistici; cioè, mentre prima le fasi di declino negli uni corrispondevano a fasi di ascesa negli altri – il che permetteva in qualche modo ad ogni economia nazionale, quando era in difficoltà, di “limitare i guasti” mediante il gioco delle esportazioni – il rallentamento del 1974 è nei grandi paesi simultaneo, e questo fatto, data l’interdipendenza e solidarietà delle economie nazionali nel quadro del mercato mondiale, non può non accentuare il fenomeno» (7). Di fronte ad ogni crisi importante dell’economia capitalistica, dati appunto i rapporti di interdipendenza di ogni economia nazionale con il mercato mondiale e, quindi, con le altre economie nazionali, si assite ogni volta allo smarrimento della borghesia, smarrimento che si manifesta attraverso dichiarazioni e articoli evocanti lo spettro della crisi degli anni Trenta e della catastrofe generale, ma anche, come sottolinea l’articolo citato, «in segni tangibili come l’aumento dei saggi di interesse, i crack bancari in Germania, in Svizzera e negli Stati Uniti, e quello che gli specialisti borghesi chiamano la “mancanza di liquidità”, cioè la rarità del capitale denaro disponibile per l’investimento industriale e il prestito a causa della perdita di fiducia dei prestatori». Cosa che si è rinnovata costantemente nelle successive crisi e che è risaltata in modo notevole nell’ultima crisi del 2008-2009 quando la Banca Centrale Europea ha adottato la politica del quantitative easing (di cui abbiamo parlato prima), proprio per compensare la mancanza di liquidità ora ricordata.  

Tornando agli USA, di fatto, la potenza economica e finanziaria degli Stati Uniti è ancora molto forte, tanto che anche il dollaro, come l’oro, continua ad essere considerato un “bene rifugio” per molti investitori internazionali; lo sostiene il Fondo Monetario Internazionale che, nel 2008, stimava che il 40-50% dei movimenti del prezzo dell’oro nei precedenti sei anni era guidato dall’andamento del dollaro. Quando il valore del dollaro cresce, il prezzo dell’oro scende, quando scende il dollaro, cresce il prezzo dell’oro.

Ma la bolla dei subprime e la crisi innestata da quella vicenda hanno sconvolto per l’ennesima volta il mondo finanziario, il quale è sempre alla ricerca di situazioni e metodi per far fruttare i capitali più velocemente possibile e con meno “costi” possibili. E non è un caso che proprio nel 2009 nascano i Bitcoin, una valuta digitale, come già detto, da utilizzare come “alternativa” alle monete tradizionali, per le transazioni commerciali e finanziarie esclusivamente per mezzo di internet con dei “vantaggi” inizialmente molto apprezzati dagli scommettitori di turno.

Che cosa sono e a cosa servono, dunque, i Bitcoin? (8). Il Bitcoin non è emesso né garantito da una Banca Centrale. E’ un software appositamente programmato in base a delle regole pubblicate da Satoshi Nakamoto, pseudonimo dietro al quale non si sa tuttora che ci sia, se un hacker, un’organizzazione di sviluppatori informatici, un pool di società finanziarie o che altro... Il Bitcoin si basa sulla tecnologia peer-to-peer (P2P) (9), la stessa utilizzata per lo scambio on line di file musicali, film e software. Cardine del sistema è il trasferimento di valuta tra i conti pubblici, detti wallet (portafoglio), degli utenti. Ogni transazione in bitcoin è pubblica e memorizzata in un database, che viene replicato nei computer di tutti coloro che possiedono un wallet, all’interno del quale l’utente ha una chiave pubblica e una privata; la pubblica la vedono tutti, la privata è come una firma, può essere usata solo da chi la possiede. I bitcoin all’interno di un wallet possono essere spesi solo da chi ne possiede la relativa chiave privata: se questa viene smarrita, i bitcoin associati non potranno più essere spesi e il relativo importo diverrà indisponibile. Esattamente come per il contante, una volta che una transazione è avvenuta non è più possibile annullarla. Il numero massimo di bitcoin che il sistema è in grado di sostenere e gestire è 21 milioni: in base alle attuali stime sugli scambi, questo limite verrà raggiunto nel giro di 130 anni circa. Il fatto che non possano essere effettuate iniezioni di moneta da parte di un ente esterno, per esempio una Banca Centrale, è da un certo punto di vista una specie di “garanzia di stabilità” e metterebbe il bitcoin al riparo dal rischio di inflazione. Nella rete P2P, l’indirizzo di un wallet non contiene informazioni relative al suo proprietario; l’anonimato delle transazioni ha reso le criptovalute “ come bitcoin (BTC o XBT), ethereum (ETH), monero (XMR) e altre “, la moneta preferita anche per gli scambi illegali di denaro. Per lo stesso motivo eventuali introiti sono impossibili da tassare, a meno che non vengano esplicitamente dichiarati. Il bitcoin, essendo emesso in forma solo digitale, si presenta come la valuta ideale per la gestione elettronica delle transazioni. Il suo valore tendenzialmente non può essere influenzato da fattori come il tasso di inflazione, che è determinato dall’aumento della quantità di valuta circolante: il numero di bitcoin in circolazione è infatti prevedibile e noto in anticipo a tutti i suoi utilizzatori. A differenza delle valute convenzionali, il cui valore è associato alle variabili macroeconomiche dello Stato che le emette, il valore del bitcoin dipende esclusivamente dalle aspettative di chi li scambia. Il loro valore, secondo gli inventori di questa valuta digitale, è determinato esclusivamente dalla legge della domanda e dell’offerta, un po’ come per il prezzo dell’oro, dei diamanti e delle materie prime. Il clamore attorno all’aumento del valore del bitcoin che si è generato negli ultimi mesi (il 13 gennaio 2017 un bitcoin era valutato circa 777 euro, il 13 dicembre 2017 si valutava 14.475 euro) ha innescato una corsa all’acquisto, che a sua volta ha contribuito a incrementarne il valore. Queste variazioni (nel caso ora richiamato, del 1700% in un anno scarso) hanno alimentato la febbre da bitcoin e il suo ingresso in Borsa, nel mercato dei futures (dove si scommette sul valore futuro di qualsiasi bene, materiale come le arance o il grano, o immateriale come il bitcoin). E quindi non lo esclude, alla fin fine, dal rischio di crollare improvvisamente in seguito ad un crollo della domanda... mandando in crisi tutti i possessori dei wallet e le Borse in cui il mercato dei futures hanno un certo peso.

Ma torniamo ai rapporti di forza tra i vari imperialismi. Negli ultimi vent’anni questi rapporti di forza sono cambiati notevolmente. E’ infatti interessante vedere che il primato degli USA sul mondo è stato messo in discussione in un primo tempo dall’imperialismo russo – l’epoca del condominio russo-americano sul mondo dopo la fine della seconda guerra mondiale non deve ingannare poiché la lotta tra i due imperialismi, pur non avvenendo nelle forme dello scontro diretto, avveniva però nelle diverse zone del mondo (compresi i propri “cortili”, l’America e il sud-est asiatico per gli USA, l’Europa dell’Est e in parte il Medio Oriente per l’URSS) –; in seguito dall’imperialismo giapponese, e ora dalla Cina (mentre manca all’appello la Germania che però, zitta zitta, si prepara a quell’appuntamento). Naturalmente gli USA non si lasciano impressionare oggi, come non si lasciavano impressionare ieri, dai tentativi degli imperialismi concorrenti di scalzarla dal predominio sul mondo, ma la realtà cinese che sta rafforzando anche la sua marina militare d’alto mare, mette gli Stati Uniti nelle condizioni di cambiare “strategia”: l’Oceano dal quale, nel prossimo futuro, possono giungere gli attacchi più pericolosi non è più l’Atlantico ma il Pacifico. Resta sempre il dato di base, connotato come un punto di debolezza e non di forza, che, dal punto di vista del PIL pro-capite, la Cina è molto più debole degli USA e del Giappone, ed anche della Germania.

 Come facevamo presente all’inizio, parlando dell’Asia dobbiamo considerare anche l’India, la sua crescita economica e il suo potenziamento militare, anche se il suo punto di debolezza è storico in quanto si tratta di un paese che non ha avuto una effettiva rivoluzione borghese e gli è mancato quindi un movimento unificatore borghese. Quanto all’Europa non si può non sottolineare un cambio di situazione che mette per l’ennesima volta in evidenza le sue molteplici contraddizioni. C’è stato un lungo periodo in cui i diversi paesi europei premevano per far parte dell’Unione Europea, ora invece ci sono diversi paesi, come la Gran Bretagna, che vogliono uscirne o comunque ottenere molta più autonomia da Bruxelles. Queste contraddizioni, che non verranno mai in realtà superate (a meno che un paese “ come la Germania, che tentò di farlo, non riuscendoci, nella seconda guerra mondiale “ non riesca nella prossima guerra mondiale a sottomettere militarmente tutti i paesi europei e a tener testa all’imperialismo anglo-americano, cosa ipoteticamente non impossibile se rafforzata da forti alleanze con potenze extra-europee) e, anche se ipoteticamente lo fossero, si ripresenterebbero successivamente con fattori di crisi molto più devastanti di quelli attuali; queste contraddizioni, dicevamo, pongono l’entità “Europa” in una situazione di reale impotenza sia nei confronti dell’America che nei confronti della Russia, ma anche nei confronti del Nord-Africa e del Medio Oriente, come le diverse guerre e le molteplici crisi – molte delle quali ancora in atto – dimostrano chiaramente. Negli ultimi dieci anni i rapporti interimperialistici, con i loro contrasti sempre più acuti, non hanno fatto altro che aumentare i fattori di crisi sia locali che internazionali, proiettando le maggiori potenze a prepararsi ad aggredire gli imperialismi concorrenti o a difendersi dalla loro aggressione. La tendenza verso la terza guerra mondiale non si è attenuata, al contrario, si fa sempre più pressante.

 

(1 – Segue nel prossimo numero il resoconto della RG sul tema della Guerra di Spagna)

 


 

(1) https://www.balcanicaucaso.org/aree/Balcani/La-Via-della-seta-passa-dai-Balcani-184431, del 1.12.2017.

(2) https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/La-Cina-in-Serbia-tra-infrastrutture-e-politica-185401, del 23.1.2018.

(3) Vedi l’articolo del Financial Times, intitolato “I soldi della Cina fanno paura al Brasile”, tradotto e pubblicato sul settimanale Internazionale, n. 1238, del 12 gennaio 2018.

(4) Vedi “le prolétaire” n. 525, Juillet - Septembre 2017 e “il comunista” n. 150, settembre 2017. Presente anche nel sito, come presa di posizione nella versione inglese, Brazil caught between economic crisis, political rivalries and class struggle, 9 ottobre 2017.

(5) Vedi l’articolo Globalizzazione e crack finanziari, due fattori dello stesso processo di crisi del capitalismo, in il comunista, n. 105-106, Luglio-Ottobre 2007, ed anche le prolétaire n. 486, Octobre-Novembre 2007, Mondialisation et krach financiers, deux facteurs du même processus de crises du capitalisme.

(6) Il Gruppo dei Dieci (G10) è un’organizzazione internazionale costituita nel 1962 dai 10 paesi economicamente e finanziariamente più importanti al mondo: Stati Uniti, Regno Unito, Giappone, Germania, Francia, Italia, Belgio, Canada, Paese Bassi e Svezia. Nel 1964 si unì anche la Svizzera, ma la denominazione non cambiò, rimase Gruppo dei Dieci. In realtà vi appartiene, come membro associato, anche il Lussemburgo – noto paradiso fiscale – per via della sua appartenenza all’Unione economica belga-lussemburghese.

(7) Vedi l’articolo Il corso tormentato dell’economia mondiale, parte seconda, ne “il programma comunista” n. 21 del 1974.

(8) Cfr. https://www.focus.it/comportamento/economia/bitcoin-che-cosa-sono-e-altre-cose-da-sapere.

(9) Con l’espressione peer-to-peer (da pari a pari) si intende che ogni singolo computer collegato ad un particolare software, contenente una certa quantità di dati, ha eguale accesso alle risorse comuni di qualsiasi altro computer collegato, senza un controllo specifico da parte di un server. In pratica, si tratta di un software che dà la possibilità di scambiarsi file fra tutti gli utenti collegati via internet.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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