L'imperialismo americano all'attacco...

(«il comunista»; N° 153; Maggio 2018)

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Lo sviluppo del capitalismo, nella sua fase più avanzata, (Lenin, L’imperialismo...) porta inevitabilmente, come sua continuazione diretta, all’imperialismo capitalistico. In questa trasformazione, la qualità essenziale del capitalismo, cioè la libera concorrenza, viene sostituita dai monopoli capitalistici che sono esattamente il contrario della libera concorrenza, ma non la elimina: essi coesistono con questa, generando così varie contraddizioni molto profonde e molto grandi, provocando conflitti, contrasti.

La grande industria sostituisce gran parte della piccola, ma non la elimina del tutto, e ciò genera contraddizioni e contrasti anche molto profondi non solo sul piano strettamente economico, ma sociale e politico; la concentrazione della produzione e del capitale, nella fase imperialista, raggiunge gradi elevatissimi formando cartelli, sindacati, trust, fondendo nel monopolio la potenza di decine di banche che manipolano miliardi. Il capitale finanziario prende così il sopravvento sul capitale industriale e commerciale decretando il dominio dei monopoli. Lenin, nel suo “Imperialismo, ultima fase del capitalismo”, scrive: “L’imperialismo è il capitalismo nella sua fase di sviluppo in cui si è costituita la dominazione dei monopoli e del capitale finanziario; dove l’esportazione del capitale ha acquistato grande importanza; in cui la divisione del mondo tra i grandi trust internazionali ha avuto inizio; e dove la divisione di tutti i territori del pianeta fra grandi potenze capitalistiche è stata portata a termine” (1).

Quali sono, dunque, i caratteri essenziali dell’imperialismo?

Ancora Lenin:

1. La concentrazione della produzione del capitale che crea i monopoli, la cui funzione è decisiva nella vita economica.

2. La fusione del capitale bancario col capitale industriale e la creazione, su questa base, del capitale finanziario, di una oligarchia finanziaria.

3. L’esportazione del capitale, diventata particolarmente importante, in contrapposto all’esportazione delle merci.

4. La formazione di monopoli capitalistici internazionali che si dividono il mondo.

5. La divisione territoriale del pianeta portata a termine dalle maggiori potenze capitalistiche” (2).

Da marxisti sappiamo che il vero obiettivo della produzione capitalistica è la valorizzazione del capitale, la produzione di capitale ed è questa esigenza fondamentale del modo di produzione capitalistico che fa entrare in contrasto la produzione di merci, ossia la produzione di prodotti (di valori d’uso), con la produzione di capitale per la quale i prodotti (i valori d’uso) sono importanti solo perché e quando assumono la caratteristica di valori di scambio, nel ciclo costante della produzione capitalistica per cui la merce, venduta ed esportata nei mercati, si trasforma in denaro, in capitale. Nello sviluppo dell’economia capitalistica, il capitale, nella sua accumulazione e nella sua aumentata valorizzazione, diventa sempre più l’obiettivo generale di tutto il processo economico della società e di ogni paese, determinando le priorità politiche di ogni Stato. Se, da un lato la concentrazione della produzione capitalistica crea i monopoli, e lo sviluppo del capitalismo si svolge nell’apertura e nella conquista dei mercati internazionali, dall’altro è lo stesso mercato internazionale che, in un certo senso, richiede la presenza dei monopoli, la presenza di grandi potenze economiche e finanziarie sostenute da grandi potenze statali. All’esportazione di merci si affianca l’esportazione di capitali che, nello sviluppo capitalistico, diventa l’obiettivo principale di ogni grande potenza. Il mercato mondiale subisce una divisione territoriale fra le grandi potenze capitalistiche, necessariamente spinte a lottare le une contro le altre non solo per mantenere gli sbocchi delle proprie merci e dei propri capitali, ma per conquistarne altri.

E, quanto alle manifestazioni principali del capitalismo dei monopoli, Lenin ne descrive sinteticamente quattro:

1. Il monopolio è nato dalla concentrazione della produzione a un livello molto alto di sviluppo di quest’ultima” (alla creazione del quale hanno contribuito le forti tariffe protettive, come inizialmente in Germania e America, e più tardi in Inghilterra).

2. I monopoli hanno portato alla conquista delle fonti più importanti di materie prime, soprattutto per l’industria principale, la più accentrata della società capitalistica: quella del ferro e del carbone. L’esercizio del monopolio delle fonti più importanti di materie prime ha spaventosamente aumentato il potere del grande capitale e acuito l’antagonismo tra la produzione coalizzata e quella non coalizzata”.

3. Il monopolio è il prodotto delle banche. Queste, invece di essere delle modeste intermediarie tra le imprese, sono diventate le monopolizzatrici del capitale finanziario. (...) L’oligarchia finanziaria che impone una stretta dipendenza, assicurata a un’infinità di legani, a tutte le istituzioni economiche e politiche della società borghese contemporanea senza eccezione: tale è la manifestazione più notevole di questo monopolio”.

4. Il monopolio è derivato dalla politica coloniale. Ai numerosi ‘vecchi’ arnesi della politica coloniale, il capitale finanziario ha aggiunto la lotta per le fonti di materie prime, per l’esportazione del capitale, per le sfere d’influenza, cioè per le zone d’affari, di concessioni, di utili monopolizzati, ecc., e, infine, per il territorio economico in generale” (3).

Nei cent’anni e passa di vita dell’imperialismo capitalistico, ed essendo portata a termine fin dall’inizio del secolo XX la divisione territoriale del pianeta tra le maggiori potenze capitalistiche, come dimostrato da Lenin e dagli economisti da lui citati, come è possibile che il pianeta sia ancora sottoposto ad un'ulteriore divisione territoriale, e che alle maggiori potenze imperialistiche del 1914-1918 si siano aggiunte altre potenze imperialistiche? In realtà lo sviluppo del capitalismo, proprio perché ineguale a livello mondiale, non è mai stato realmente pacifico; basta dare un’occhiata all’aggressione colonialista delle maggiori potenze del mondo nei secoli XVIII e XIX, e alle due guerre mondiali del Novecento, oltre alle guerre regionali che hanno costantemente cadenzato il passare degli anni dal 1945 in poi. La concorrenza capitalistica si è sempre svolta come concorrenza tra Stati visto che ogni Stato non è altro che il comitato d’affari della borghesia nazionale dotato della più alta concentrazione di forza militare, politica ed economica, e che ogni borghesia nazionale lotta costantemente contro tutte le altre borghesie straniere. Certo, la lotta tra borghesie è inizialmente e soprattutto lotta di concorrenza economica, ma questa concorrenza, ad un certo grado di elevata tensione e contraddizione, risolve i propri contrasti solo sul piano della forza. “Il capitale finanziario e il trust, – sottolinea Lenin – invece di attenuare, aumentano le differenze tra la rapidità di sviluppo di svariati elementi dell’economia mondiale. Quando le correlazioni delle forze si sono mutate, dove può essere, in regime capitalistico, la soluzione delle contraddittorie antinomie, se non nella forza? (4).

Come abbiamo scritto più volte, al periodo di espansione capitalistica seguito alle devastazioni della seconda guerra mondiale, si è aperto un lungo periodo di disordine mondiale, durante il quale sono pian piano emerse, a fianco delle grandi potenze imperialistiche tradizionali (Gran Bretagna, Francia, Germania, Stati Uniti, Russia, Giappone), altre potenze capitalistiche con aspirazioni imperialistiche di notevole portata, tra cui primeggia la Cina. Gli USA, che con la fine del secondo macello imperialistico si rivelarono indiscutibilmente la maggiore potenza imperialistica mondiale, hanno iniziato – in particolare sul finire del Novecento e all’inzio degli anni 2000 – a subire la concorrenza economica e politica sul piano internazionale di due forti rivali, uno vinto in guerra ma non atterrato, la Germania, e uno, emerso inaspettatamente dalle nebbie estremo-orientali di un falso comunismo ma di reale capitalismo giovane e molto aggressivo, la Cina. Ciò non significa che gli Stati Uniti d’America non abbiano la forza di intervenire, come già negli anni Cinquanta del secolo scorso, in qualsiasi punto del pianeta per difendere i propri interessi imperialistici se messi in serio pericolo, ma la presenza e l’attività forsennata di concorrenti/avversari in campo internazionale come la Germania, la Cina e lo stesso quieto e semisilenzioso Giappone, ma anche di una Russia “risorta” dopo il crollo degli anni Novanta, tesa ad accaparrarsi una zona di influenza nello strategico Medio Oriente, mettono gli Stati Uniti nelle condizioni di dover riconquistare a livello mondiale un peso politico messo relativamente in ombra da un atteggiamento molto più prudente in politica estera, assunto soprattutto dopo l’attacco del 2001 alle Torri Gemelle di New York (attacco che ha, di fatto, dimostrato che il sacro territorio patrio poteva essere violato, come mai fino allora, addirittura da un’organizzazione terroristica, oltretutto ben conosciuta dai servizi segreti).

Molte cose sono state dette, e continueranno ad essere dette, su Trump e sui suoi modi bizzarri di interpretare e svolgere la funzione di presidente degli Stati Uniti d’America, ma non va mai dimenticato che, come in qualsiasi paese capitalista, i presidenti e i governi non sono altro che l’espressione degli interessi dei grandi monopoli e dei grandi trust, contingenti e duraturi, sia nell’economia nazionale che nei territori economici di loro influenza sparsi nel pianeta. E’ d’altra parte certo che le crisi che si sono susseguite dagli anni Ottanta del secolo scorso fino ad oggi, l’ultima delle quali – quella scatenata dai subprime americani – ha colpito duro tutte le economie delle maggiori potenze imperialistiche del mondo, hanno disordinato ancor più i precedenti “equilibri” mondiali, in particolare in Europa (vedi la Brexit e le tendenze nazionalistiche sempre più accese dei membri della UE), ma non solo. Nel tormentatissimo Medio Oriente, in situazione di accumulo di contraddizioni esasperate che le cosiddette “primavere arabe” misero in evidenza, e di crollo degli equilibri assicurati per decenni dai vari clan dei Mubarak, dei Ben Alì, dei Gheddafi, una guerra regionale è seguita all’altra, dalle due Guerre del Golfo alla guerra scatenata in Siria e, più recentemente, in Yemen: guerre che vedono coinvolte direttamente e indirettamente le potenze imperialistiche, e nelle quali la posta in gioco non è solo la difesa dei pozzi petroliferi e delle grandi compagnie internazionali interessate a controllarne il flusso mondiale, ma anche il controllo contemporaneamente del Mediterraneo, del Golfo Persico e del collegamento con l’Oceano Indiano. A queste “zone delle tempeste” si aggiunge da tempo un’altra area estremamente problematica, l’Asia centrale con l’Afghanistan mai “pacificato” e, nell’Estremo Oriente, la spina nel fianco di tutte le potenze imperialistiche interessate alla zona, la Corea del Nord.

Nell’ultimo anno la Corea del Nord, con il lancio dei suoi missili a gettata sempre più lunga, ha messo in difficoltà le cancellerie di Washington, di Pechino, di Tokio e di Seul, anche perché la provocazione di Kim Jong-un stava nella minaccia di dotare i missili di testate nucleari; che Pyeongyang abbia, da almeno quindici anni, continuato a gestire la sua politica “estera” alternando gesti distensivi a provocazioni come quella ora ricordata, è cosa nota; come è nota la forte influenza della Cina su Pyeongyang, dovuta ovviamente alla “protezione” che Pechino esercita sulla Corea del Nord riguardo i paesi del mondo e, in particolare, riguardo la Corea del Sud (che ha una quarantina di basi militari americane, con la presenza di quasi 30.000 soldati americani) e il Giappone (anch’esso con diverse basi militari americane e con più di 50.000 soldati americani). I tentativi di stabilire dei rapporti diplomatici ed economici tra le due Coree sono in corso dal 2000 con alti e bassi, ma sembra che quest’anno – come dimostrato dalla partecipazione alle recenti Olimpiadi di un’unica squadra coreana che rappresentava le due parti della penisola, e dai negoziati in direzione del ristabilimento di rapporti “normali” tra i due paesi capitalistici – le tensioni si attenuino tanto da permettere addirittura al presidente Usa di incontrare il leader supremo Kim Jong-un per avviare una “distensione” tra i due paesi e i rispettivi alleati.

Non si sa come procederà questa “distensione”, voluta certamente anche dalla Corea del Sud e dalla Cina e, probabilmente, anche dal Giappone visti anche gli importanti rapporti di import-export di quest’ultimo paese con Cina, Stati Uniti e Corea del Sud, rapporti che, se non messi in difficoltà dalle tensioni militari locali, possono solo “migliorare”. Ciò però non ha impedito a Trump di lanciare una sfida, sul piano della concorrenza diretta, sia all’UE (ma leggi soprattutto Germania) che alla Cina sulla questione dei dazi. Il 9 marzo scorso, Trump firmava l’atto per introdurre i tassi sull’importazione di acciaio (al 25%) ed alluminio (al 10%), confermando l’esenzione per Canada e Messico, paesi confinanti e con i quali gli USA evidentemente non intendono rendere pesanti i rapporti di import-export; il Canada e il Messico sono il primo e il secondo paese per l’export statunitense, e sono il secondo e terzo paese per l’import statunitense; col Messico la questione degli immigrati “clandestini” è però un punto molto dolente e rischia di diventare motivo di gravi tensioni tra i due paesi. Per ammorbidire i toni, e perché la questione dei dazi non si trasformi in una dichiarazione di guerra commerciale – almeno a parole e nei fatti immediati – Trump ha annunciato che “con i paesi amici ci sarà grande flessibilità e coooperazione”, flessibilità e cooperazione con i “veri amici che ci trattano equamente sia sul piano commerciale che militare”, citando come esempio l’Australia con la quale, guarda caso, gli Stati Uniti hanno un’eccedenza commerciale (vi esportano per 21,7 mld di dollari, contro un import di 8,7 mld di dollari - dollari Usa, ovviamente - dati 2016). Cosa che non avviene né con la Cina né con la Germania, che sono i veri bersagli di questa politica dell’amministrazione Trump. A 481,7 miliardi di dollari ammontano le importazioni statunitensi dalla Cina, mentre gli USA vi esportano per 115,8 miliardi di dollari (dati 2016); quanto alla Germania, le importazioni Usa da questo paese ammontano a 116,4 miliardi di dollari, mentre le esportazioni statunitensi superano di pochissimo i 49 miliardi di dollari (dati sempre del 2016). E’ evidente il deficit commerciale degli Usa rispetto a questi due paesi, un deficit che Trump intende se non rovesciare almeno attenuare in modo consistente.

Si sa che la Cina è il primo produttore mondiale d’acciao con 808,4 mln di tonn. (dato sempre del 2016), e che l’eccesso di produzione prende la via dell’export, e che la produzione d’acciaio in Cina è sovvenzionata dallo Stato; mentre il secondo produttore mondiale d’acciaio è il Giappone con “soli” 104,8 mln di tonn., seguito dall’India (95,6 mln di tonn,.) e dagli USA (78,6 mln di tonn.). Quanto all’alluminio, è sempre la Cina il primo produttore mondiale con 31 mln di tonn., seguita a grande distanza da Russia (3,6 mln tonn.), Canada (3,2 mln tonn.) India (2,7 mln tonn.) Emirati A.U. (2,4 mln tonn.) e Stati Uniti (2,3 mln tonn.). I dazi americani sull’acciaio e l’alluminio, perciò, tendono a colpire la Cina, ma il piano “contro Pechino” prevede una serie di dazi su molti altri prodotti, dai tech alle telecomunicazioni, dalla robotica ai semiconduttori, dai veicoli elettrici al tessile e alle scarpe. La Cina ovviamente minaccia “un’adeguata risposta”.

Ma Trump, usando la sua aggressività come “strumento nazional-popolare” al fine di strappare concessioni sia agli avversari che ai partner (come sostiene Il Sole-24 Ore del 15.3.2018), aggiunge un’altra seria minaccia, che colpirebbe in particolare la Germania, e cioè di aumentare i dazi agli autoveicoli dell’industria tedesca. Indiscutibilmente le case automobilistiche tedesche hanno un peso notevole non solo “in patria” (il settore auto rappresenta il 20% dell’intera industria manifatturiera tedesca) ma anche all’estero, e negli USA in particolare dove producono direttamente i propri veicoli. Secondo i dati riportati dal Sole-24 Ore del 12.3.2018, il settore automotive tedesco nel 2017 ha esportato negli USA 494.000 veicoli (il 25% in meno rispetto al 2013) ma ne ha prodotti negli stessi USA 804.000 (+180.000 rispetto al 2013); l’industria tedesca dà lavoro negli Stati Uniti a 36.500 addetti diretti e ad oltre 80.000 lavoratori tra l’indotto e i fornitori. In realtà ¼ delle auto tedesche esportate nel mondo proviene dagli USA contro una quota dell’8% delle vendite di auto tedesche sul totale del mercato americano. In sostanza, gli USA pesano 3 volte tanto rispetto a quanto la Germania non pesi negli USA. Il 40% dei marchi tedeschi prodotti negli USA è venduto negli stessi USA, il resto è esportato. Nel 2010 era l’opposto. I marchi di auto tedesche più venduti sono ovviamente Mercedes Benz, Volkswagen e BMW, e tutte e tre le case automobilistiche hanno impianti negli Stati Uniti, ma quel che sembra aver dato recentemente più fastidio a Trump, e alle case automobilistiche americane che lo sostengono, è il fatto che la BMW ha in programma di aprire nel 2019 un nuovo impianto – in particolare per i SUV serie X che vanno per la maggiore – in Messico.

Naturalmente alle minacce dell’amministrazione Trump i paesi europei dell’UE insieme agli altri paesi dell’ex patto commerciale transpacifico (il Tpp) rispondono proponendo di istituire una nuova associazione per abbassare i dazi reciprocamente. Ad esempio, 11 paesi, compresi quelli che Trump avrebbe al momento “esentato” dall’applicazione dei dazi su acciao e alluminio, e cioè: Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore e Vietnam, hanno costituito la Cptpp (Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership). Nell’accordo che questi paesi hanno sottoscritto, l’obiettivo principale è di tagliare le tariffe commerciali tra i paesi membri. Gli USA facevano parte del Tpp, ma lo scorso anno Trump aveva ritirato il proprio paese, e così il gruppo di paesi rimasto, di fronte alla nuova politica dei dazi di Trump, ha deciso di difendersi in qualche modo dal protezionismo americano. Essi rappresentano insieme un mercato di mezzo miliardo di persone e che vale il 13,5% dell’economia globale (5); non si può certo pensare che questo gruppo di paesi formi un’unità economica e finanziaria reale, ma qualche problema agli USA lo può sicuramente creare. La “guerra commerciale”, in questo frangente lanciata dagli Stati Uniti soprattutto ai partner commerciali di prima grandezza, trova al momento delle risposte molto prudenti, e le cancellerie di Berlino, di Tokio, di Parigi e di tutte le altre capitali interessate stanno esplorando le diverse possibilità, ognuna per sé, di concordare in negoziati mirati misure di “protezione” reciproche “accettabili” senza doversi lanciare in una vera e propria guerra commerciale senza esclusione di colpi. Nessun paese imperialista, oggi, è davvero pronto a rischiare una guerra militare per difendere i propri interessi nazionali e internazionali e i propri territori economici; ma la guerra commerciale, in regime capitalistico, porta inevitabilmente prima o poi allo scontro militare. La guerra, come diceva Von Clausevitz, è la continuazione della politica, con altri mezzi, appunto con i mezzi militari. I contrasti interimperialistici che non solo le guerre regionali, in Medio Oriente, in Africa, in Asia centrale, ma anche le politiche sempre più aggressive di potenze imperialistiche di prima grandezza, come gli Stati Uniti, la Russia e la Cina – politiche applicate direttamente o per interposto paese – dimostrano che le crisi capitalistiche, che la borghesia affronta con i mezzi che la sua stessa organizzazione economica e sociale le consente, vengono temporaneamente superate «da un lato con la distruzione coatta di una massa di forze produttive; dall’altro con la conquista di nuovi mercati e con lo sfruttamento più intenso dei vecchi. Dunque, con quali mezzi? Mediante la preparazione di crisi più generali e più violente e la diminuzione dei mezzi per prevenire le crisi stesse» (6). Parole di Marx ed Engels, scritte centosettant’anni fa nel Manifesto del partito comunista, tuttora limpide e preveggenti. Con lo sviluppo della grande industria, con lo sviluppo dei monopoli e della concentrazione capitalistica, e con l’inevitabile sviluppo delle crisi del capitalismo sempre più violente, «vien tolto di sotto ai piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce e si appropria i prodotti. Essa produce anzitutto i suoi seppellitori. Il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono del pari inevitabili» (7).

La storia delle lotte di classe, della formazione e dello sviluppo delle società divise in classi antagoniste, non si è mai lasciata piegare dalla volontà dei potenti delle diverse epoche; tantomeno avverrà per opera dei borghesi, per quanti sforzi e per quante guerre facciano per mantenere il dominio di classe il più a lungo possibile. La loro sorte come classe dominante è segnata, come lo è stata quella dei poteri feudali e dell’antica società schiavista. Sarà il proletariato internazionale, la moderna classe degli schiavi salariati, a seppellire l’ultima delle società divise in classi, la società capitalistica, attraverso la più tremenda e radicale rivoluzione della storia umana.

 


 

(1) Cfr. Lenin, L'imperialismo ultima fase del capitalismo, Minuziano Editore, Milano 1946, cap. VII, p. 160.

(2) Ibidem, p. 160.

(3) Ibidem, cap. X, pp. 204-206.

(4) Ibidem, pp. 169-170.

(5) Cfr. Quotidiano.Net, 8/3/2018, "Trump firmerà i dazi su acciao e alluminio. Unidici paesi si accordano senza Usa".

(6) Cfr. Marx-Engels, Manifesto del partito comunista, Giulio Einaudi Editore, Torino 1962, p. 108.

(7)   Ibidem, pp.116-7.

 

 

Partito comunista internazionale

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