La gran lotteria nazionale dell’intrallazzo italiano

(«il comunista»; N° 153; Maggio 2018)

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Lo scorso 26 febbraio, in vista delle elezioni politiche italiane del 4 marzo, nella nostra presa di posizione, rivolgendoci ai proletari, scrivevamo: «che vinca la coalizione di centro-destra o di centro-sinistra, che vinca il movimento 5 stelle o che non vinca nessuno e vi chiamino prima o poi a votare nuovamente, nulla sostanzialmente cambierà per voi! I poteri politici, economici, finanziari e militari nazionali, pur lottando gli uni contro gli altri per accaparrarsi una fetta di potere più grande e intascare quote di profitto più consistenti, sono in realtà legati tra di loro da un unico grande interesse di classe che li spinge a difendere il modo di produzione capitalistico grazie al quale traggono i loro privilegi e i loro profitti; che li spinge a difendere, tutti insieme, uno Stato e una società costruiti sullo sfruttamento del lavoro salariato, sullo sfruttamento sempre più intensivo del proletariato. Le differenze che separano un partito dall’altro riguardano soltanto i metodi e i programmi con i quali ognuno vuole garantire al capitalismo italiano le stesse cose: una più alta produttività, una più forte capacità concorrenziale rispetto ai capitalismi delle altre nazioni, un maggior peso a livello europeo e internazionale del capitalismo italiano, una più efficace governabilità e una più controllata e ordinata vita sociale».

L’inganno congenito del metodo democratico si basa su un concetto secondo il quale ogni persona, chiamata in quel determinato momento a diventare elettore, sia “libera di scegliere”, “libera di pensare” come se la sua “libertà personale” potesse astrarla dalla realtà materiale e sociale in cui è immersa non per sua “scelta”, non per sua “volontà”, ma semplicemente perché le condizioni materiali e sociali in cui ognuno nasce e cresce determinano la sua collocazione nella società, subendone direttamente e indirettamente gli effetti concreti e l’influenza ideologica. Secondo il mito della democrazia, quest’ultima dovrebbe consentire al popolo elettore di esprimere, attraverso la scheda elettorale, le sue convinzioni e le sue aspettative indipendentemente dai partiti che si sono messi in gara per governare il paese, e dare quindi al partito più eletto l’ufficialità di un sedicente “mandato popolare” a governare. Naturalmente, la democrazia prevede anche la possibilità di “cambiare opinione”, di cambiare “cavallo su cui puntare”, si tratti di un singolo “rappresentante” o di un partito, o semplicemente di astenersi dall’esprimere la famosa “scelta”, possibilità che dovrebbe contribuire a mantenere la situazione già in essere o a cambiarla. Ogni elettore, perciò, è convinto che col suo voto possa favorire colui o coloro che appaiono come i migliori “difensori” dei “suoi” interessi, interessi che possono esser condivisi da molti o da pochi, ma che non escono mai  dall’ambito di un vero e proprio mercato dei voti al quale l’elettore-consumatore può accedere, ogni volta che viene chiamato alle urne dal potere politico e statale, per consegnare all’organizzazione elettorale del momento il suo placet. Dopodiché egli perde del tutto le tracce della sua “scheda” che viene ingurgitata dalla complessa macchina mangia-voti per finire in una statistica di cui l’elettore non avrà mai modo di verificare fino a che punto essa risponda esattamente alla votazione avvenuta e se tale votazione sia stata o meno inficiata da corruzioni di vario tipo o da brogli. Certo, ci sono luoghi e paesi in cui la borghesia si può permettere, data la bassa tensione sociale  e la presenza di conflitti sociali a bassissima intensità, come l’Italia di oggi, elezioni sostanzialmente corrette, legalmente a posto, anche se non mancano mai casi di voto di scambio; in altri luoghi e paesi, invece, pur sempre democratici, in cui i conflitti sociali si presentano violenti, le elezioni sono condizionate più o meno pesantemente da governi oppressivi, da fazioni economico-finanziarie spietate, da fazioni militari o da fazioni mafiose estremamente minacciose, dimostrando così che la democrazia, rivendicata e propagandata da tutte le borghesie del mondo, ha un grado di flessibilità straordinario, fino a piegarsi totalmente agli interessi dei gruppi economico-finanziari-militari più forti, rimanendo salva la formalità legale e la retorica dell’appoggio del voto popolare.

In realtà la democrazia liberale, la Democrazia con la D maiuscola, nella fase storica del monopolio economico e dell’imperialismo, non è più indispensabile alla classe dominante per difendere i suoi privilegi di classe: lo sviluppo economico del capitalismo lo porta inevitabilmente a passare dalla fase della “libera concorrenza” e delle forme liberali del suo dominio politico alla fase monopolistica, centralistica, in cui grandi holding economiche e finanziarie condizionano i mercati e lo Stato funziona sempre più come il comitato d’affari della classe borghese, facendo in questo modo oggettivamente decadere le forme liberali del suo dominio politico per sostituirle con forme totalitarie di cui il fascismo è stato il modello più moderno.

Questa tendenza storica dell’economia capitalistica non cancella, però, la necessità da parte della classe dominante borghese di vestire il suo potere politico con le vecchie vestigia della democrazia parlamentare poiché questa si è dimostrata molto efficace nell’imbrigliare la classe dei lavoratori salariati che le contraddizioni sempre più virulente del capitalismo spingono a lottare contro le forme dei rapporti di produzione e dei rapporti sociali in cui è costretta a vivere. Il regime dello sfruttamento capitalistico del proletariato trova molto più conveniente avere a disposizione una massa di schiavi salariati che crede di poter migliorare le sue condizioni di esistenza e di lavoro organizzandosi e utilizzando i mezzi e i metodi che la stessa classe dominante le fornisce – come appunto i mezzi e i metodi della democrazia – piuttosto che doverla affrontare in campo aperto come un esercito antagonista, organizzato in modo indipendente su piattaforme politiche di difesa dei suoi interessi di classe completamente opposti a quelli della borghesia. E non è un caso, infatti, che una parte considerevole delle risorse finanziarie nazionali venga investita regolarmente nel sostenere apparati, gerarchie, burocrazie, organizzazioni, enti e istituzioni – dal parlamento agli enti di beneficienza, dai partiti parlamentari alla chiesa, dalle organizzazioni di volontariato alle istituzioni culturali ecc. – perché attraverso di essi si diffonda capillarmente la funzione concreta della “partecipazione” del popolo alla “vita democratica”, e l’idea che attraverso l’attività di questi apparati la democrazia sia davvero uno strumento potenzialmente in mano a tutti i cittadini.

Che tutto questo avvenga a vantaggio della classe dominante borghese è quasi inutile dirlo; ogni proletario che non si sia completamente rimbecillito sa perfettamente che i padroni non concedono niente per niente. Solo che in più di settant’anni di democrazia “post-fascista”, in cui questa democrazia non ha fatto altro che ereditare il metodo e l’organizzazione della collaborazione fra le classi che il fascismo ha istituzionalizzato per primo, i proletari si ritrovano del tutto sguarnititi sia sul piano dell’organizzazione economica di classe, gestita da sindacati che sono stati sempre più integrati nello Stato borghese diventando delle appendici tricolori dell’apparato di dominio borghese, sia sul piano del partito politico di classe che, con la sconfitta subita a metà degli anni Venti del primo dopoguerra per mano dello stalinismo, è stato distrutto.

 

Partiti ed elettori, come fornitori e consumatori

 

Agli occhi del proletariato, data la sua attuale debolezza come forza sociale e la sua impotenza come forza di classe, sembra che non ci siano altre vie se non quelle concesse dalla classe dominante, ieri nelle forme del totalitarismo nazifascista, oggi nelle forme di una democrazia sempre più logora e corrotta, ma blindata, sempre pronta ad usare le forze di polizia per reprimere tutte le manifestazioni proletarie che infastidiscono il “regolare procedere degli affari”, davanti ai cancelli di una fabbrica, durante uno sciopero o una manifestazione di piazza. E’ in questo clima sociale che i partiti tradizionali, per decenni, hanno costituito uno stabile punto di riferimento politico (come la DC, il PCI, il PSI, il MSI, il PLI, il PSDI, il PRI ecc.), sono stati travolti dalla corruzione del loro stesso sistema obbligando la classe borghese a riorganizzare le sue fazioni politiche con altri partiti, con altri raggruppamenti politici, ovviamente mantenendo il parlamentarismo e l’elettoralismo al centro della vita politica su cui si dovevano ricostituire.

Oggi, i vecchi arnesi della conservazione borghese e dell’opportunismo che si sono riciclati nei nuovi partiti e nella miriade di organizzazioni politiche che assiepano l’orizzonte politico nazionale e locale, si accompagnano a nuovi concorrenti in modo tale che nel grande mercato dei voti – come nel mercato dei prodotti – si assiste ad una sovrapproduzione di movimenti, liste, coalizioni, partiti, gruppi, ognuno dei quali si propone di rappresentare anche una sola piccola fetta di interessi parziali e locali, tentando di “contare” finalmente qualcosa almeno nella cerchia di persone conosciute e dare così una finalità vicina, visibile, alla difesa dei propri interessi immediati e, al proprio individualismo, la notorietà che la democrazia istiga a ricercare. E’ oramai assodato che, al pari del gigantesco centro commerciale e del piccolo mercato rionale, il partito politico con più risorse e più legami con i grandi interessi economico-finanziari e il raggruppamento più piccolo e locale sono accomunati dalla legge del mercato: l’elettore è un consumatore, il partito politico un fornitore; l’elettore compra da questo o da quel fornitore (dandogli il suo voto) a seconda della convenienza che percepisce nell’offerta ricevuta. Sta di fatto che i nuovi fornitori (i nuovi raggruppamenti politici) non si sono potuti far conoscere ancora nella loro funzione concreta, se non in minima parte; mentre i vecchi fornitori si sono fatti conoscere fin troppo bene ed è per questo che i loro vecchi partiti sono spariti, mentre non sono scomparse le vecchie abitudini e attitudini a turlupinare gli elettori e ad approfittare delle posizioni di potere raggiunte per fare i propri affari. D’altra parte, quanti sono gli elettori che conoscono approfonditamente i programmi politici dei diversi partiti che si presentano alle elezioni, sulla base dei quali dovrebbero poter “scegliere” a chi dare il voto, quindi la propria fiducia? Una minimissima parte anche degli stessi addetti ai lavori. Così gli elettori, chiamati a “scegliere” tra i partiti che si presentano per “rappresentarli” e per concorrere potenzialmente alla formazione del nuovo governo, si trovano di fronte ad una lotteria: puntano su questo o su quello, per una parola detta, per un atteggiamento visto in una determinata occasione, per simpatia o antipatia, ma senza sapere per che cosa davvero si batterà e che cosa davvero farà una volta eletto, e con la misera speranza che, in cambio del voto, gli venga di ritorno qualche vantaggio... All’intrallazzo più che sicuro nel quale si tufferanno i politici eletti, non corrisponderà un altrettanto sicuro vantaggio per la massa dei loro elettori...  

In ogni caso, i programmi, per i quali i diversi partiti partecipano alle elezioni, sia in ambito pacifico e legalitario, sia in ambito autoritario, sostanzialmente sono molto simili: tutti declamano l’intenzione di sostenere l’economia nazionale e il suo sviluppo, la sicurezza del paese, la legalità, il controllo dell’immigrazione, la difesa degli interessi nazionali di fronte agli altri paesi, interessi nazionali che, per i paesi imperialisti, hanno limiti determinati soltanto dai rapporti di forza fra Stati e che stabiliscono la tenuta di certe alleanze o la necessità di cambiare alleanze.

 

Vecchi e nuovi arnesi del politicantismo elettoralesco

 

E’ ovvio che, nei paesi capitalistici avanzati, come l’Italia, nei quali il proletariato costituisce la grande maggioranza della popolazione, ogni partito che si presenta alle elezioni non può non rivolgere la propria attenzione anche ad esso: per ottenere i suoi voti deve promettere di affrontare il problema della disoccupazione, del lavoro in generale, della sicurezza non solo sociale ma anche sui luoghi di lavoro, dei “diritti dei lavoratori”, del futuro delle giovani generazioni, delle pensioni e, ovviamente, delle tasse visto che queste pesano soprattutto sulle spalle dei lavoratori. Ma il proletariato, in più di settant’anni di pratiche democratiche e di collaborazione con la classe dominante borghese, per la quale deve ringraziare la costante azione opportunista dei partiti e dei sindacati operai “tricolori”, arriva alle elezioni ormai sfiduciato, sfiancato, demoralizzato, oppresso dai problemi quotidiani di sopravvivenza, impotente a reagire con altri mezzi e metodi che non siano quelli offerti dalla borghesia dominante, appunto i mezzi e i metodi di una democrazia che però nel tempo, pur logorata, riesce ancora ad attirarlo nelle sue trappole.  

Che cosa è successo nelle elezioni del 4 marzo? Non ha vinto nessun partito, nessuna coalizione. Il dato generale indica che l’affluenza alle urne è stata la più bassa dal 1948 (ha votato il 72,9% degli “aventi diritto”), dunque il disgusto per la gestione politica dei governi e dei partiti parlamentari è in realtà aumentato, ma è aumentato, secondo le statistiche Ipsos, anche lo spostamento degli elettori, soprattutto del PD, verso il M5S e la Lega. Andiamo allora a vedere un po’ di dati.

Il metodo previsto dalla nuova legge elettorale chiede, al fine di garantire una maggioranza parlamentare atta a formare un governo, che il partito “vincitore” raggiunga e superi il 40% dei voti, quota che non è stata raggiunta da nessuno. Il Movimento 5 Stelle, pur risultando il partito singolo più votato (col 32,7%), è ancora lontano da quel traguardo, ed è seguito a grande distanza dal PD e dalle sue liste (18,7%), dalla Lega (17,6%), da Forza Italia- Berlusconi (ex PdL) (14,4%), da Fratelli d’Italia (ex AN, ex MSI) (4,3%), da Liberi e Uguali (3,4%) e da altre formazioni politiche più piccole che, insieme, rappresentano il restante 8,9%. Dal punto di vista del risultato per le coalizioni, il “vincitore” sarebbe il centro destra, ossia Lega + Forza Italia + Fratelli d’Italia, col 37% dei voti, ma anche questo risultato non è sufficiente da solo per formare un governo. D’altra parte il centro destra che, fino alle scorse elezioni, faceva perno su Forza Italia, e quindi su Berlusconi, ora si ritrova col perno spostato sulla Lega di Salvini che ha surclassato il partito di Berlusconi, ed è perciò che Salvini è stato investito della funzione di “portavoce” del centro destra come candidato-premier.

Tutti i media hanno sottolineato che i “veri vincitori” di queste elezioni sono stati il M5S e la Lega, cioè i due partiti, cosiddetti “populisti”, che hanno raccolto un numero di voti molto più alto rispetto alle elezioni del 2013, mentre i “veri perdenti” sono stati il PD e Forza Italia. Secondo i dati dell’Ipsos, rispetto al 2013, la Lega ha guadagnato ben 4.271.333 voti, e il M5S ne ha guadagnati 1.925.679; invece Forza Italia ne ha persi 2.768.475 e il PD 2.557.572, mentre gli astenuti sono aumentati di 1.180.151. In queste elezioni si rileva anche un altro dato curioso, che in parte ribadisce una tendenza già evidenziata nelle elezioni precedenti: tra gli astenuti è forte la presenza dei giovani e si è alzata la percentuale degli ex elettori del PD, partito che, considerato “di sinistra”, votato per anni dalla classe operaia e da una parte della classe media, oggi si è decisamente configurato come un partito che concorre a rappresentare gli interessi della classe medio-alta, come fosse l’altra faccia di Forza Italia. E non è un caso che Renzi e Berlusconi amoreggino da tempo più o meno in chiaro, più o meno di nascosto; amore che, in verità, ha radici lontane visto che fin dai tempi di D’Alema e poi di Bersani il PDS, poi PD, ha facilitato notevolmente Berlusconi, e il suo partito-azienda, nella difesa dei suoi interessi privati nel campo dei media televisivi, radiofonici e cartacei. E tutti sanno quanto siano importanti, e spesso decisivi, i media per diffondere o nascondere, esaltare o sminuire se non stravolgere e falsare, fatti e notizie. Avere dalla propria parte, o perlomeno non contro, tv, giornali e radio fa certamente la differenza e questo è interesse sia per il PD che per la Lega che, di fatto, per un verso o per l’altro, sono interessati a mantenere con il regno televisivo di Berlusconi rapporti ben stretti, anche se negli ultimi anni, e soprattutto nei confronti delle giovani generazioni, sono i socialnetwork a prendere piano piano il sopravvento sui mezzi d’informazione tradizionali.

Il M5S, ad esempio, nato come movimento “anti-casta”, “anti-sistema”, sulle piazze e nei teatri, non potendo approfittare dei tradizionali canali televisivi per raggiungere “le masse”, ha trovato nel web, e in particolare nei socialnetwork, i canali di propaganda e diffusione delle proprie posizioni, utilizzando il web per qualsiasi tipo di rapporto tra aderenti e movimento come il mezzo che più di ogni altro esalta l’individuo, la sua “personalità”, la sua “opinione”, decretandolo come la massima espressione della democrazia diretta, cioè di una democrazia che si autorappresenta senza bisogno di specialisti della mediazione come i partiti tradizionali; ed è anche per questo che il M5S non si definisce “partito”, ingannando in realtà se stesso e i suoi aderenti poiché è un’organizzazione politica con una gerarchia, con delle regole ben precise per accogliere le adesioni, per rifiutarle o per espellere chi non le rispetta, e con ambizioni di governo sia locale che nazionale: dunque è, in realtà, un partito che però si è travestito da movimento solo perché il “prodotto-movimento”, in tempi in cui i partiti, in quanto organizzazioni politiche istituzionali, avevano perso in parte la loro “credibilità” a causa dei numerosi scandali e tangentopoli in  cui erano tutti coinvolti,  poteva essere venduto con più probabilità di successo in un mercato intasato dal “prodotto-partito”.

Dunque, il grande timore, ventilato dai vecchi arnesi della politica borghese, secondo cui bisognava fare di tutto per impedire che i cosiddetti “populisti” vincessero le elezioni (cosa che avrebbe portato il paese sull’orlo del disastro economico e sociale), non è passato. Il M5S ha in effetti raccolto una notevole somma di voti che, insieme a quelli della Lega, rappresentano più del 50% dei voti; entrambi hanno, fin dalle primissime ore dopo la fine dello spoglio delle schede elettorali, deciso di parlarsi per verificare la possibilità di formare rapidamente un governo. Molti sono i punti in comune, sull’euro, sull’UE, sulla sicurezza, sull’immigrazione, sul debito pubblico, sugli incentivi alle piccole e medie imprese (che rappresentano una parte decisiva del loro elettorato), sul debito pubblico. Ma la Lega ha un patto di alleanza molto stretto con Berlusconi, e Berlusconi non è gradito al M5S: questo rappresenta il vero scoglio che l’intesa fra “populisti” non riesce a superare. Dopo due mesi di meline, di confronti, di promesse sotto banco, di controfferte e di discussioni pubbliche e segrete, i due sedicenti “vincitori” delle elezioni non sono giunti a nessun risultato. Sembrava che l’accordo trovato per le elezioni del presidente del Senato e della Camera (il primo è andato ad una berlusconiana di ferro, il secondo è andato ad un pentastellato movimentista della prima ora) fosse il primo passo per un accordo successivo sul governo. Niente da fare.

In Italia non si ripete la situazione che si era presentata in Germania, dove ci vollero 4 mesi di trattative tra il partito della CDU della Merkel e la SPD per giungere ad un accordo di governo tra i due, ma era chiaro fin dai primi passi che quella trattativa sarebbe andata in porto perché la grande borghesia tedesca, dato il suo peso in Europa, data la situazione creatasi con la Brexit, data la sua ambizione di carattere internazionale, non poteva restare senza governo per troppo tempo. L’Italia pesa certamente molto meno non solo della Germania, ma anche della Francia; teoricamente, si potrebbe anche permettere di tirare in lungo le trattative per trovare un accordo di governo, ma le sue ambizioni di carattere internazionale e il fatto di essere il paese europeo più importante, sia dal punto di vista economico che per posizione geostrategica centrale, del bacino del Mediterraneo, spinge la borghesia italiana a cercare in ogni modo un compromesso per “dare al paese” un governo “nel pieno delle sue funzioni” – come ripete continuamente il presidente della repubblica. Saltato, almeno finora, un possibile accordo tra M5S e Lega, o M5S e Centro-destra, il M5S ha aperto un’altra trattativa, questa volta con il PD che, invece, fin dal dopo elezioni, subita la disfatta, si è dato il ruolo del principale partito “di opposizione” – naturalmente “costruttiva” perché il “bene del paese” viene sempre prima di tutto!

Da questa trattativa non ne verrà fuori niente di governabile: i due partiti sono in conflitto astioso da sempre, per storia e per taratura politica e istituzionale. Un effetto però questa trattativa potrebbe averlo abbastanza rapidamente: quello di spaccare il PD, di provocare una rottura che è nell’aria da tempo, cosa che lo porterebbe a ridursi a partito relativamente marginale che si lancerebbe, per tornare a “contare” qualcosa e raccogliere voti, in qualche alleanza o fronte più o meno organici con altri piccoli partiti, come è già successo ai suoi simili in Francia, in Spagna, in Grecia. E il risultato di spaccare il PD, facendo finta di proporlo come socio di governo, potrebbe essere addirittura un obiettivo del M5S che, se non riesce a costruire una maggioranza di governo in questa tornata, si prepara, in posizione molto più vantaggiosa, ad un ritorno alle urne. Lo stesso obiettivo, quello di far fuori il vecchio nemico PD, ce l’ha anche la Lega che, infatti, continua a mantenere i contatti con il M5S, nonostante le dichiarazioni di quest’ultimo sulla sua chiusura delle “trattative” per un eventuale governo.

 

La classe borghese dominante italiana, e i suoi politicanti, restano sempre dei voltagabbana

 

Tutto questo gran da fare, da veri e propri mercanti di voti, non è che l’ulteriore dimostrazione delle tradizionali attitudini della borghesia italiana all’intrallazzo e a tradire non solo i propri elettori e i propri adepti, ma anche gli alleati del momento. E la storia italiana è lì a confermarlo: basta rifarsi alla prima e alla seconda guerra mondiale, quando la classe borghese dominante da alleata, per pura convenienza, con la parte al momento più forte e che, in cambio, offriva protezione agli interessi “nazionali”, si trasformò in sua nemica giurata appena le vicende mondiali davano gli alleati di ieri, potenzialmente vincitori, come certamente perdenti. E così la sua caratteristica piccolo borghese, da imperialismo straccione, la presentava al mondo per quello che era: un paese di camaleonti e voltagabbana.

Di questa storia nazionale  fa parte, volente o nolente, anche il proletariato italiano che ha subìto in generale, fin dall’inizio, l’influenza dell’anarchismo e del socialismo riformista e piccoloborghese; ma con una caratteristica in più: quella di saper estrarre dalle proprie condizioni di lavoratori salariati e di produttori di ricchezza a vantaggio esclusivo di una classe borghese bottegaia, infingarda e meschina, la forza di opporvisi con i mezzi e i metodi della lotta di classe dal respiro europeo, continentale che, in particolare dalla Francia e dalla Germania, soffiava verso la Russia e l’Italia. In Italia il Partito socialista nacque tardi, ma, sull’onda delle dure lotte dei braccianti agricoli e degli operai delle prime grandi industrie del Nord, in esso si formarono posizioni che si differenziavano più nettamente dal riformismo pacifista, dall’anticlericalismo intellettuale e dall’influenza massonica. Non per caso, in Italia, il comunismo marxista nacque adulto e la corrente di sinistra comunista fu quella che resistette di più all’aggressione non solo anarco-sindacalista, riformista e massimalista, ma anche a quella staliniana, permettendo alle generazioni successive di ricollegarsi ad una tradizione sì vinta, ma mai cancellata del tutto.

Resta il fatto che la sconfitta del proletariato nella sua lotta rivoluzionaria degli anni Venti del secolo scorso – sconfitta di carattere europeo e mondiale, non “nazionale” – ha ricacciato nella palude del riformismo e del collaborazionismo interclassista non solo i proletariati che si batterono per la rivoluzione in Russia, dove nel 1917 vinse, e in Germania, in Ungheria, in Polonia, in Italia dove si erano create le condizioni meno sfavorevoli alla vittoria di classe, ma i proletariati di tutto il mondo. E non è stato uno scherzo della storia il fatto che proprio in Italia – dove il capitalismo più centralizzato si formò più tardi che in altri paesi d’Europa, ma con forme e aspirazioni molto più aggressive e voraci, e dove la lotta di classe del proletariato, guidata da un fermo e coerente partito comunista rivoluzionario (alla Lenin), aveva fatto tremare i polsi alla classe borghese dominante – si formò e si sviluppò il movimento fascista, un movimento che non ebbe bisogno di nascere sulla base di un corpo dottrinale “nuovo” perché il suo compito immediato era «la controffensiva all’azione di classe proletaria, avente scopo non puramete difensivo, secondo il compito tradizionale della poliitca di Stato, ma distruttivo di tutte le forme autonome di organizzazione del proletariato» (La classe dominante italiana ed il suo Stato nazionale, “Prometeo”, serie I, n. 2, agosto 1946). La borghesia italiana trovò nel movimento fascista la sua risposta alla minaccia rivoluzionaria: passò dalla fase della tolleranza riformista alla fase “fascista”, ossia alla fase in cui la soppressione degli organismi proletari di classe non conveniva fosse attuata dai reparti armati statali, ma da squadre armate d’azione e dalle camicie nere, dunque da forze create dalla borghesia, ma “illegali”. Non è inutile ricordare a che cosa furono dovute la vittoria fascista e la sconfitta proletaria; esse furono possibili per l’azione concomitante di tre fattori:

«Il primo fattore, il più evidente, il più impressionante nelle manifestazioni esteriori, nelle cronache e nei commenti politici, nelle valutazioni in base a criteri convenzionali e tradizionali, fu appunto l’organizzazione fascista mussoliniana, con le sue squadre, i gagliardetti neri, i teschi, i pugnali, i manganelli, i bidoni di benzina, l’olio di ricino e tutto questo truce armamentario.

«Il secondo fattore, quello veramente decisivo, fu l’intiera forza organizzata dell’impalcatura statale borghese, costituita dai suoi organismi. La polizia, quando la vigorosa reazione proletaria (così come da principio avveniva molto spesso) respingeva e pestava i neri, ovunque interveniva, attaccando e annientando i rossi vincitori, mentre assisteva indifferente e soddisfatta alle gesta fasciste quando erano coronate da successo. La magistratura, che nei casi di delitti sovversivi e “agguati comunisti” distribuiva trentine di anni di galera ed ergastolo in pieno regime liberale, assolveva quei bravi ragazzi degli squadristi di Mussolini, pescati in pieno esercizio di rivoluzione e di assassinio. L’esercito, in base ad una famosa circolare agli ufficiali del ministro della guerra Bonomi, era impegnato ad appoggiare le azioni di combattimento fascista; e da tutte le altre istituzioni e caste (dinastia, chiesa, nobiltà, alta burocrazia, parlamento) l’avvento dell’unica forza venuta ad arginare l’incombente pericolo bolscevico era accolta con plauso e con gioia.

«Il terzo fattore fu il gioco politico infame e disfattista dell’opportunismo socialdemocratico e legalitario. Quando si doveva dare la parola d’ordine che all’illegalismo borghese dovesse rispondere (non avendo potuto o saputo precederlo e stroncarlo sotto le sporche vesti democratiche) l’illegalismo proletario, alla violenza fascista la violenza rivoluzionaria, al terrore contro i lavoratori il terrore contro i borghesi e i profittatori di guerra fin nello loro case e nei luoghi di godimento, al tentativo di affermare la dittatura capitalista quello di uccidere la libertà legale borghese sotto i colpi di classe della dittatura proletaria, si inscenò invece la imbelle campagna del vittimismo pecorile, si dette la parola della legalità contro la violenza, del disarmo contro il terrore, si diffuse in tutti i modi tra le masse la propaganda insensata che non si dovesse correre alle armi, ma si dovesse attendere l’immancabile intervento dell’Autorità costituita dallo Stato, la quale avrebbe ad un certo momento, con le forze della legge e in ossequio alle varie sue carte, garanzie e statuti, provveduto a strappare i denti e le unghie all’illegale movimento fascista» (Ibidem). Dunque, senza il gioco concomitante di questi tre fattori il fascismo non avrebbe vinto. Ma la vittoria del fascismo fu la vittoria della borghesia capitalista contro il pericolo che vincesse il proletariato rivoluzionario, cioè se non avesse vinto il fascismo sarebbe proseguita la lotta proletaria nella «marcia rivoluzionaria rossa e la fine del regime della classe dominante italiana». Questo, la borghesia dominante in tutte le sue sfaccettature, lo comprese molto bene ed è perciò che plaudì freneticamente al suo salvatore. Svoltasi l’intera fase della sconfitta proletaria a livello mondiale, a partire dalla degenerazione dell’Internazionale Comunista e del partito bolscevico in Russia e dalla successiva distruzione della vecchia guardia bolscevica per mano staliniana, le borghesie di tutti gli Stati completarono il compito di difesa della conservazione sociale a livello mondiale col secondo macello imperialistico, coinvolgendo i propri proletariati nazionali a scannarsi sui fronti di guerra in difesa di patrie che non erano e non sarebbero mai state “loro”.

Come a suo tempo la borghesia italiana plaudì alla vittoria fascista, così, cambiata la situazione mondiale e allontanato il pericolo della rivoluzione proletaria per decenni, una volta deciso di cambiare alleato e montare sul cavallo vincente – quello della democrazia – non ebbe alcun ritegno a buttare a mare il Duce e a plaudire alla democrazia post-fascista. I fascisti di ieri diventarono tutti democratici, parlamentari, pacifisti, giurarono sulla nuova costituzione repubblicana che, naturalmente, al primo articolo, proclama di fondarsi sul lavoro. Appunto, sul lavoro, non sui lavoratori, dunque sullo sfruttamento del lavoro salariato, esattamente come nella fase fascista dalla quale, d’altronde, eredita una buona parte di leggi antioperaie (tenute in vita, anche se non applicate sistematicamente, per i tempi in cui potrebbero nuovamente servire...) e, soprattutto, il metodo grazie al quale il fascismo aveva ottenuto l’appoggio da parte delle grandi masse lavoratrici: la collaborazione fra le classi, basata sugli ammortizzatori sociali. La fase della democrazia post-fascista non ha inventato nulla, non ha innovato nulla: ha solo cambiato nome, mascherandone l’origine, alle cose che il fascismo aveva fatto apertamente. Quel che è cambiato, in peggio, è l’intrallazzo, è la diffusione della corruzione a tutti i livelli, è il politicantismo personale e vigliacco caratteristico di una classe borghese ancorata alla retorica del popolo di navigatori, poeti e santi, e alla vuotaggine del tradizionale parlamentarisno italiano.

La digressione sulla fase fascista della borghesia italiana ci è servita per dimostrare – anche nell’uso delle stesse parole di “unità nazionale”, “economia nazionale”, “collaborazione tra le parti sociali” – una sua continuità, una sua tradizione nel mercanteggiare la carne e il sangue dei lavoratori salariati italiani al solo scopo di salvare una posizione di privilegio e di dominio, sebbene vassalla di forze statali molto più forti e potenti, alle quali offrire la vita, gli sforzi, il lavoro della classe operaia italiana: prima a favore della guerra, poi a favore della ricostruzione postbellica,  e poi a favore della ripresa economica dopo le diverse crisi che hanno peggiorato sempre più le condizioni di esistenza delle classi proletarie mentre i profitti capitalistici hanno continuato ad essere salvati.

 

Al di sopra dei politicanti, è la grande borghesia che tira i fili

 

I vari interlocutori dei partiti, usciti vincenti o bastonati dalle elezioni, continueranno a far finta di “trattare” per “il bene del paese” fino a quando troveranno un compromesso, e poco importa che il compromesso lo trovi direttamente il capo dello Stato per un governo cosiddetto “istituzionale” o “tecnico” o con i giochi sottobanco fra i partiti. Si faccia o meno il governo con i partiti usciti dalle elezioni di marzo, o si indicano nuove elezioni, alla fine il gioco cambia poco, è sempre una lotteria. I proletari, che si sono fatti illudere a rivotare i soliti politicanti o a votare i nuovi politicanti, come contropartita avranno esattamente quello che la classe borghese dominante ha già deciso da tempo – e che la chiusura delle fabbriche, il loro ridimensionamento, le sentenze proborghesi nei processi contro i morti per l’amianto o l’uranio impoverito, le sentenze  a favore delle aziende, come Ikea, Foodora ed altre, che stritolano i propri dipendenti, o i propri falsi lavoratori autonomi, ed altre migliaia di casi simili di cui i grandi media non danno mai notizia – e cioè: lacrime e sangue! Il profitto capitalista è fatto di denaro, di capitale, e i soldi non hanno odore e non hanno cuore: il capitalista è servo del suo capitale, anche se crede di essere lui a comandare, e in quanto servo del capitale o sta alla legge di mercato che la vince su ogni singolo capitalista, o ne viene triturato. E’ la paura di essere triturato dal mercato che spinge il capitalista a sfruttare al massimo possibile la forza lavoro alle sue dipendenze; è questa paura che lo spinge a risparmiare il più possibile per battere la concorrenza e non importa se questo risparmio il lavoratore lo paga con la vita; è questa paura che lo spinge a cercare una soluzione vantaggiosa per la sua azienda nella collaborazione interclassista premendo sui sindacati, sui partiti e sullo Stato affinché questa collaborazione sia efficace e ben oliata. Ma l’interesse del singolo capitalista è in realtà interesse di tutti i capitalisti, della classe dei capitalisti, sebbene si facciano concorrenza costantemente; a quell’interesse collettivo, di classe, ci pensa lo Stato borghese e lo difende in generale anche se questa “difesa” può nuocere ad alcuni capitalisti, perché difende il sistema economico e sociale dal quale dipendono tutti i capitalisti e l’intera società. Questo Stato, il suo potere, il suo governo, può mai difendere contemporaneamente gli interessi di classe dei borghesi, dei capitalisti e quelli degli operai? La democrazia borghese dice di sì, perché si basa sulla collaborazione generale di tutti i “cittadini” e perché afferma che lo Stato è “al di sopra delle classi”, è lo Stato “di tutti”. La realtà dice una cosa del tutto diversa: lo Stato borghese è il difensore massimo, e armato, degli interessi capitalistici e in loro difesa interviene contro tutti coloro che li possono danneggiare; è al servizo del capitale, e bastano i colossali interventi a sostegno delle banche che hanno imbrogliato milioni di “correntisti” con i titoli che loro stesse hanno definito tossici, o gli interventi della polizia a difesa della proprietà privata e delle aziende sottoposte ad azioni di sciopero, per dimostrare che lo Stato non è per nulla “al di sopra delle classi”! Il fatto che lo Stato sia democratico, e non fascista, non toglie che la sua attività costante sia quella di difendere gli interessi borghesi e se deve pestare, pesta sulla testa degli operai. Ma questo gli operai lo sanno molto bene, soprattutto quelli che lottano e che si trovano di fronte non solo la polizia, la legge, la magistratura ma anche i sindacati e i partiti opportunisti i quali non sono che portatori stipendiati della collaborazione interclassista che si è dimostrata e si dimostra in ogni frangente elemento ad alta tossicità.

L’inganno dell’elettoralismo, del parlamentarismo, di una democrazia che scende “dall’alto” o che sale “al basso”, è sicuramente percepito da una gran parte della massa proletaria. La percentuale non indifferente di astensionismo è certamente un segnale, ma ciò non toglie che la speranza che “qualcuno” faccia il miracolo e, grazie al voto, vada a governare per migliorare, anche se di poco, la situazione sempre più drammatica di milioni di persone (se diamo retta alle statistiche, in Italia i poveri sono più di 6 milioni, quindi più del 10% della popolazione intera). La democrazia resiste e ci vorranno scossoni economico-sociali ben più gravi di quelli che ci sono stati finora perché una parte non indifferente di proletari cominci a prendere in mano direttamente le proprie sorti e rompa con i metodi che finora hanno soltanto peggiorato la loro situazione. Allora i proletari si accorgeranno che ci possono essere altre vie e altri modi per difendere i propri interessi in modo efficace, ad esempio quelli delle antiche lotte operaie, quelli che i partiti e i sindacati collaborazionisti hanno cercato di cancellare dalla memoria e dalla storia del movimento operaio, e in gran parte, finora, ci sono riusciti.

La tradizione di classe delle lotte operaie si basava sul riconoscimento dell’antagonismo fra interessi proletari e interessi borghesi, su organizzazioni di difesa di soli proletari, indipendenti dalle istituzioni statali e dalle associazioni padronali o religiose, e su mezzi e metodi di lotta che rispondevano esclusivamente a rivendicazioni unificanti degli operai, alla difesa della lotta stessa e combattevano contro una delle armi più  micidiali dei capitalisti: la concorrenza fra proletari. I sindacati opportunisti hanno sostituito la lotta contro la concorrenza fra proletari con un movimento di sostegno alla collaborazione di classe; hanno sostituito gli obiettivi classici della lotta operaia (riduzione drastica della giornata di lavoro, aumento salariale per tutte le categorie e maggiore per quelle peggio pagate, salario pieno ai licenziati e ai disoccuppati, stessa mansione e stesso salario, uguale per uomini e donne, autoctoni e immigrati, no al cottimo, agli straordinari, al lavoro a chiamata ecc.) con gli obiettivi di difesa della produttività aziendale, della competitività della produzione, dei profitti dell’azienda; hanno sostituito i mezzi di lotta classici, cioè quelli che tendono a danneggiare gli interessi delle aziende (sciopero senza preavviso e ad oltranza, trattative con lo sciopero in piedi, lotte il più allargate possibile al settore e per categorie, lotta contro il crumiraggio e l’asportazione dei macchinari dalle fabbriche ecc.) con gli accordi di vertice, i negoziati a tavolino, scioperi superannunciati o solo minacciati e di durata la minima possibile e, soprattutto, che non danneggino gli interessi delle aziende. Per non parlare dei partiti cosiddetti “operai” che hanno gettato alle ortiche ogni pur pallida rivendicazione di classe antiborghese per trasformarsi nei migliori difensori dello Stato, della costituzione repubblicana, dell’economia nazionale, della patria e, naturalmente, degli interessi capitalistici non solo nazionali ma anche internazionali.  D’altronde, chiamati al governo, che politica hanno adottato se non questa?

Per quanto la via della rinascita della lotta di classe e di un movimento di classe proletario sia ardua, tortuosa, difficile e non vicina nel tempo, è inevitabile che le contraddizioni capitalistiche della società borghese ad un certo punto rompano gli equilibri mantenuti dalle forze di conservazione sociale e dagli apparati del collaborazionismo tricolore. Allora, il proletariato avrà l’occasione per uscire dalla condizione di asservimento in cui da decenni è stato costretto, e riprendere in mano il proprio destino. Allora, anche la democrazia borghese avrà mostrato il suo sporco gioco ingannatore, costringendo la classe dominante borghese a mostrare più chiaramente il suo vero volto, quello dittatoriale, totalitario, come già in passato. Allora, alle tornate elettorali, con cui la borghesia tenterà sempre di imbrigliare, confondere e deviare i proletari dalla lotta di classe, il proletariato dovrà rispondere con la sua guerra di classe e affidarsi non ai partiti parlamentari e opportunisti, ma al partito di classe che non avrà timore di dichiarare apertamente gli obiettivi proletari, immediati e storici, che si riassumono nella lotta di classe generalizzata contro il potere borghese per la conquista del potere da parte della classe proletaria che lo eserciterà, attraverso il suo partito di classe, contro la classe borghese e contro il capitalismo, quindi per rivoluzionare da cima a fondo l’intera società.

Il cambiamento, di cui si riempiono la bocca i partiti che agognano di andare oggi al governo, è il tipo di cambiamento gattopardesco: cambiare tutto per non cambiare nulla. La rivoluzione, di cui parlano i comunisti rivoluzionari, non è mai un cambio della guardia: è la distruzione del potere borghese per sostituirlo con il potere proletario, l’unico che può effettivamente trasformare la società del capitale, la società divisa in classi, in una società senza classi, in una società di specie.

 

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Mentre stiamo per andare in stampa, quando il presidente Mattarella, visto che i diversi partiti (in particolare MS5, Lega e la colazione di centrodestra, e il PD) non  hanno trovato alcun accordo per la formazione del nuovo governo, stava per decidere di istituire un governo "di tregua" (o "istituzionale") per permettere al "paese" di non tornare alle urne con la stessa legge elettorale che ha dato il risultato che è sotto gli occhi di tutti, ecco che M5S e Lega tornano a promettere di accordarsi - col beneplacito di Berlusconi - per dar vita in un modo o nell'altro al  governo. Il tira e molla infinito, che per 70 giorni ha continuato a dimostrare che i partiti borghesi nell'Italia dell'intrallazzo congenito hanno a cuore esclusivamente privilegi di parte mescolati con gli  interessi delle fazioni di cui sono portavoce, non ha terminato il suo gioco. Parlano di "contratto di governo", e tutti sanno che un contratto del genere è carta straccia, come lo è stato il "contratto con gli italiani" di berlusconiana memoria. Gli elettori-consumatori vengono presi in giro per l'ennesima volta sia che abbiano votato per i partiti che hanno "£vinto" le elezioni, sia per i partiti che le hanno "perse"... ma che promettono la solita trita e ritrita "opposizione leale" in parlamento. Prima o poi uscirà dal cappello del prestigiatore il nuovo governo col suo programma di lacrime e sangue, anche se lo camufferanno per quel che "i cittadini chiedono"! Per i proletari non sarà mai troppo tardi rimetteresi a lottare sull'unico terreno sul quale possono finalmente ritrovarsi uniti negli interessi comuni, di classe, dunque negli interessi esattamente opposti a quelli di tutti i borghesi e dei loro tirapiedi.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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