Populisti al governo?

La piccola e media borghesia italiana alla ricerca di un ruolo “storico” nel pantano di una democrazia fonte di malaffare e di corruzione

(«il comunista»; N° 154; Luglio 2018)

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Nell’articolo dello scorso numero di questo giornale, La gran lotteria nazionale dell’intrallazzo italiano, avevamo fatto in tempo a riferire che dopo una serie interminabile di balletti tra “destra” e “sinistra”, tra “vincitori” e “vinti” emersi dai risultati delle elezioni politiche del 4 marzo, il M5S e la Lega, tornati ad accoppiarsi per dar vita ad un presunto “governo del cambiamento”, stavano per giungere ad un accordo, tirando in questo modo fuori d’impaccio la classe borghese dominante che, grazie al loro accordo, poteva ricominciare a fare i suoi giochi in un quadro politico meno traballante.

I rappresentanti delle istituzioni tradizionali della democrazia parlamentare tacciano di “populismo” tutti i partiti e i movimenti politici che proclamano la “sovranità del popolo”, come d’altra parte fanno anche loro, ma al di fuori della rappresentanza cristallizzata da decenni nelle istituzioni in cui si sono radicati vecchi privilegi e rapporti di favori e contropartite considerati colpevoli del malaffare, della corruzione e della deviata politica degli interessi di casta. In realtà, il populismo di oggi assomiglia molto ad un misto tra l’ideologia dell’uomo qualunque (in voga negli anni del secondo dopoguerra e rappresentata da leader non provenienti dalle scuole di partito e dalla formazione politica strutturata, ma emersi dal “popolo” in situazioni in cui i vecchi partiti borghesi non erano più seguiti dalle masse come in precedenza), e l’ideologia definita “antisistema”, che si basa, cioè, su una sorta di piattaforma di rivendicazioni politiche e sociali che ha l’ambizione di rispondere più direttamente ai “bisogni della gente” perché è la stessa “gente” che li definisce di volta in volta, utilizzando il meccanismo grossolanamente definito di “democrazia diretta” (che oggi appare molto più “vicina” alla “gente” grazie ad internet e ai socialnetwork). E’ evidente che tali ideologie hanno radici piccoloborghesi, perché esprimono, nello stesso tempo, il malessere degli strati piccoloborghesi rovinati dalle crisi capitalistiche e l’illusione di poter raddrizzare le proprie sorti individuali ricorrendo ai meccanismi politici ed economici che la grande borghesia capitalistica è disposta, o è in qualche modo costretta – data la sua difficoltà di rinnovare la fiducia a partiti ormai logorati nell’esercizio del potere e incapaci di “rinnovarsi” rispetto alle nuove esigenze di dominio capitalistico – a lasciare nelle loro mani. Le mezze classi, perché questo sono i ceti medi e piccoloborghesi, non hanno fondamenta storiche proprie; oscillano in continuazione tra la classe borghese, rappresentata dalla grande borghesia che ha in mano, in realtà, le leve economiche del potere con le quali domina sulla società e sullo Stato, e la classe del proletariato, che ha dimostrato nel corso del suo sviluppo storico di avere un ruolo e un compito storico fondamentale, sia nell’ambito della stessa società capitalistica (perché senza lavoro salariato non ci sarebbe profitto capitalistico), che nella prospettiva della rivoluzione anticapitalistica, dimostrandosi l’unica classe sociale in possesso di una teoria e un programma rivoluzionari coerenti ed organici in grado di cambiare la società da cima a fondo. Ciò non toglie che, periodicamente, e soprattutto in situazioni in cui le conseguenze delle crisi capitalistiche si prolungano nel tempo e producono fattori sociali e politici di grande contrasto tra le diverse potenze imperialistiche, la grande borghesia abbia interesse di ricorrere a movimenti politici che intercettino il malesse sociale indirizzandolo non solo verso il collaborazionismo interclassista praticato nei diversi ambiti sociali, ma anche verso obiettivi di per sé fumosi e illusori ma di grande attrazione perché appaiono come quelli che più direttamente rispondono ai bisogni individuali della maggior parte della popolazione. L’obiettivo reale, per la classe dominante borghese, nel rapporto con la classe del proletariato, è sempre lo stesso: impedire che la classe proletaria ritrovi il suo terreno di lotta nell’aperto scontro di classe, e che ritrovi non solo la sua storica tradizione di lotta classista e rivoluzionaria, ma anche il partito di classe che la diriga nella ripresa della lotta classista e nella rivoluzione anticapitalistica. Se le forze socialdemocratiche e opportuniste – veri luogotenenti della borghesia nelle file proletarie – perdono consensi e séguito, allora va bene provarci con le forze del populismo, di destra o di sinistra, poco importa, basta che riescano ad irreggimentare le masse dietro il vessillo della “riscossa democratica” e della “giustizia sociale” vera. Le elezioni sono servite anche a questo, a identificare quali forze e quali partiti sarebbero stati in grado di prendersi il compito gattopardesco di cambiare tutto per non cambiare niente.         

A quasi tre mesi di distanza, i due partiti che hanno “vinto” le elezioni e che, dopo una serie infinita di tentativi e di ritocchi al famoso “contratto di governo”, hanno solennemente costituito il nuovo governo, stanno dimostrando che al tradizionale intrallazzo italiano si aggiunge il perverso disegno di individuare il nemico numero 1 della pace sociale, della sicurezza nazionale, della salvaguardia dell’identità nazionale e della sovranità popolare, nelle masse di migranti che fuggono dalle guerre, dalla miseria, dalla fame, dalle torture e dai tormenti quotidiani. Queste masse, da qualche anno, dopo che la cosiddetta “rotta dei Balcani” è stata militarmente chiusa, attraversano il Mediterraneo su barconi, gommoni e qualsiasi altra imbarcazione che stia a mala pena a galla, per sfuggire a situazioni disastrose le cui cause principali vanno cercate nella vorace, cinica e sanguinosa pressione economica, politica e militare esercitata da più di centocinquant’anni dalle potenze imperialistiche europee che fanno capo a Londra, Parigi, Roma, Berlino, Madrid, Lisbona, Bruxelles, Amsterdam alle quali si sono poi aggiunti gli Stati Uniti d’America e la Russia e, nei decenni più recenti, anche la Cina. Gli artigli dell’imperialismo mondiale affondano nelle carni delle popolazioni della maggior parte dei paesi del mondo, spezzando vite, affamando milioni di esseri umani, ma non riescono a tenerle lontane dalle proprie belle e civilissime metropoli verso cui quelle masse in fuga sono oggettivamente attratte.   

La tendenza che si sta diffondendo da tempo in Europa, dopo una lunga stagione di governi socialdemocratici, di governi “di destra” o di “centrodestra”, capeggiati in ogni caso dai partiti tradizionali, è una tendenza politica in un certo senso inevitabile. Il logoramento a cui sono stati sottoposti i grandi partiti tradizionali – i democristiani, i “socialisti”, i “comunisti”, i socialdemocratici –, logoramento provocato dalla prolungata responsabilità di governo del paese e dai risvolti di corruzione e malversazione che hanno caratterizzato tutti quei partiti, doveva necessariamente lasciare spazio a nuove forze politiche che andassero a riempire i vuoti di fiducia degli elettori, o perlomeno andassero a recuperare le masse di elettori che, disgustati dal politicantismo dei partiti tradizionali, si astenevano regolarmente dal partecipare alle elezioni. Il sistema democratico borghese, per poter funzionare al meglio nel suo compito di rincitrullimento delle masse proletarie e tenerle avvinte alle illusioni che la democrazia genera, non può avere un’influenza determinante se si basa su una bassissima percentuale di partecipanti al voto; perciò le diverse fazioni borghesi, mosse sempre da interessi immediati ben precisi e per lo più contrastanti fra di loro, sono però interessate a mantenere in piedi e funzionante il sistema democratico e parlamentare, anche perché questo sistema distribuisce a quella che gli stessi borghesi hanno chiamato “casta”, cioè i privilegiati del parlamento e di tutte le istituzioni che gli girano attorno, una serie non indifferente di privilegi e di garanzie ed una posizione dalla quale i membri di questa casta possono essere spinti e interessati a favorire questo o quel gruppo di interessi.

In Italia, il governo giallo-verde (chiamato così per via dei colori dei 5 Stelle e della Lega, anche se ultimamente la Lega ha scelto il colore blu), dopo essere stato paragonato da Berlusconi all’icocervo (animale mitologico metà caprone e metà cervo, inteso come rappresentante dell’ibrido assurdo) e tacciato dal presidente della Repubblica di lavorare per un “colpo di Stato” – dato che nel programma politico dei due partiti c’era l’uscita dell’Italia dall’euro, cosa che appariva realistica vista la presenza nella squadra di governo, come ministro del Tesoro, di un economista, banchiere e grand commis della prima Repubblica, il professor Paolo Savona, grande sostenitore e teorico dell’uscita dell’Italia dall’euro, ma poi deviato su altri ministeri – ha avuto all’inizio di giugno il benestare dallo stesso presidente della Repubblica che, per aver rifiutato la presenza di Savona al tesoro, era stato minacciato da Lega e M5S di impeachment (1); e il parlamento ha approvato con le solite astensioni ed opposizioni. I diversi colpi di teatro che hanno caratterizzato gli 80 giorni in cui tutti i partiti politici hanno messo in campo le proprie misere identità, sia quelli usciti gagliardi per aver “vinto” sia quelli stritolati nelle votazioni del 4 marzo, si sono conclusi con l’andata al governo del “populismo” che, per i media nazionali e internazionali, rappresenta una rivendicazione politica già di per sé ibrida, di “sistema” e “antisistema” insieme, di riverenza verso i capitalisti e gli imprenditori che si sono fatti “da soli” e di rifiuto dei meccanismi politici e burocratici utilizzati finora dai partiti tradizionali, di democrazia “diretta” e “anticasta” e di liberalismo vecchia maniera che si basa su organizzazioni partitiche solide e ben strutturate. Un populismo che, vista la disastrata situazione in cui sopravvivono le masse proletarie, profondamente deluse dai partiti e dalle organizzazioni sindacali che si vantavano di rappresentarne gli interessi e le esigenze, è diventato il nuovo polo d’attrazione anche per alcuni strati operai.

Lega e Movimento 5 Stelle, sono due forze politiche che, in vista di queste ultime elezioni e nella prospettiva di uscirne singolarmente rafforzate – il M5S si è presentato da solo, senza alcuna coalizione, mentre la Lega si è presentata nella coalizione di centro-destra insieme a Forza Italia (sempre capeggiata da Berlusconi) e Fratelli d’Italia (ex Alleanza nazionale, ex Msi) –, hanno modificato le proprie caratteristiche di ieri.

La Lega ha tolto la denominazione “Nord” per facilitare la ricerca dei voti in tutta Italia, ma mantiene ben salda la posizione anti-immigrati e anti-rom (che va a sostituire la posizione anti-meridionali, o più ruspantemente anti-terroni) e sostituisce il motto: “prima il Nord”, con il motto: “prima gli italiani!”; esprime quindi una posizione identitaria e nazionalista nella quale comprendere tutto il popolo italiano che deve difendersi dallo straniero; stessa cosa per la posizione cosiddetta “sovranista”, con cui ha sostituito i propositi federalisti per accedere, in sostanza, ad una posizione anti-europea, dato che l’Europa viene intesa come un’etichetta dietro la quale si celano gli interessi e il volere della Germania, e anti-euro (moneta con cui ritiene che abbia guadagnato soprattutto la Germania) per tornare a battere moneta nazionale considerata come la rappresentante di una sovranità nazionale strappata dallo “straniero”. Inutile dire che la nuova Lega, messi in soffitta i vecchi simboli cari al precedente leader Bossi (la Padania, il “ce l’ho duro”, “Roma ladrona”, la boccetta dell’acqua del Po raccolta alle sorgenti del Monviso ecc.), si è messa in concorrenza prima di tutto con l’alleato principale, Forza Italia, per strappargli una parte almeno dell’elettorato cosiddetto “moderato” di destra, e poi con l’avversario di sempre, il Partito Democratico, per strappargli una parte dell’elettorato operaio e piccoloborghese. In effetti, elezione dopo elezione, la Lega ha realmente raccolto consensi proprio da questi due elettorati, cosa che l’ha portata ad essere, all’appuntamento del 4 marzo scorso, il partito della coalizione di centro-destra più votato, sorpassando significativamente la ormai ex-corazzata Forza Italia, mettendo di fatto Berlusconi in seconda fila.   

Il M5S, annusato il clima elettorale favorevole, si è sviluppato non solo numericamente ma anche ideologicamente; nato su temi molto specifici, come la lotta contro la corruzione, la “casta” e l’ambientalismo, in cui primeggiava Beppe Grillo, si è sviluppato come forza politica che ha l’ambizione di rappresentare l’intero popolo italiano, l’intera società nazionale, mettendo insieme gli interessi delle imprese e dei lavoratori, i diritti economici e sociali legati alla proprietà privata e i diritti civili e morali delle persone, fuori dai privilegi che marchiano il ceto politico parlamentare come “casta” e nella prospettiva di combattere la disoccupazione e la povertà raccogliendo i soldi necessari dai risparmi sui costi della burocrazia, della casta e combattendo la corruzione e gli sprechi. M5S e Lega si trovano accomunati dal motto “prima gli italiani”, dalla lotta contro l’immigrazione clandestina e dal rafforzamento delle misure di sicurezza (visto che la proprietà privata è sacra). Il loro “accordo” politico ha anch’esso, come tutti gli accordi politici tra forze borghesi, le caratteristiche di un contratto commerciale che, nella sua applicazione concreta, non farà che seguire i rapporti reali di forza tra i due e tra gli interessi economico-politico-militari di cui sono espressione. Sono stati accomunati, inoltre, dalla forte volontà di andare al governo, approfittando entrambi della reciproca “vittoria” elettorale e mossi entrambi dal clima politico e sociale favorevole che ha visto precipitare vistosamente sia il PD che Forza Italia. Nuove elezioni, gestite da un inevitabile governo “tecnico”, avrebbero in realtà cambiato poco rispetto ai risultati già ottenuti, perciò entrambi erano spinti uno verso l’altro per approfittare insieme della sitazione.

 

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Dunque, il tanto sospirato “governo nel pieno delle sue funzioni” che doveva allontanare il pericolo di tornare in breve tempo a nuove elezioni, è stato fatto ed è in piena attività. Ma il cosiddetto “contratto di governo” di cui questi due partiti si sono beati per tutto il periodo delle loro trattative, pubbliche e nascoste, rivela che una serie di misure che facevano parte della loro campagna elettorale sono evaporate e molte di quelle che sono rimaste sulla carta si stanno rapidamente sbiadendo, dimostrando in questo modo che tutto ciò che viene detto in campagna elettorale serve soltanto per raccogliere più voti possibile, ma poi, alla resa dei conti, le cose che saranno fatte sono altre e spesso andranno in tutt’altra direzione. I temi che un tempo venivano classificati come caratteristici delle rivendicazioni “di sinistra” o “di destra” – come il lavoro, la scuola, i diritti, da un lato, e il fisco, la sicurezza e l’immigrazione, dall’altro lato – sono stati in pratica schakerati in un unico intruglio politico dal quale emergono comunque priorità distinte, fra cui il grande problema dell’immigrazione clandestina la fa da padrone.

E, in effetti, le prime decisioni forti del nuovo governo, guarda caso, riguardano proprio il problema degli immigrati, la cui “soluzione” trova nella Lega l’impavida paladina. L’attacco da parte di alcuni pm alle Organizzazioni non governative, che salvano i migranti dai naufragi e dalla morte in mare, con l’accusa di essere colluse con i trafficanti di esseri umani e di facilitare l’arrivo sulle nostre coste di centinaia di migliaia di clandestini; la chiusura dei porti alle navi delle ong che trasportano i migranti salvati in mare; la voce grossa con gli alleati dell’Unione Europea sulla questione dei centri di detenzione dei migranti clandestini e sulla fantasiosa “equa distribuzione” dei migranti sbarcati sulle coste italiane; la messa in discussione del trattato di Dublino che obbliga il paese di primo sbarco (chiamato, mielosamente, di “prima accoglienza”) a tenersi i migranti, a classificarli e a rispedirli nel paese da cui sono partiti; i maggiori contributi economici da parte europea per svolgere queste mansioni; il fatto di considerare i confini d’Italia come “confini d’Europa”. Insomma, questa serie di posizioni e di interventi hanno caratterizzato fin dal principio il nuovo governo giallo-verde a “trazione leghista” (come dicono i media, visto che il ministro leghista dell’interno Salvini ha dettato l’agenda del governo oltre i limiti delle sue competenze ministeriali, e spinto il presidente del consiglio Conte a dire e sostenere soltanto quel che approvano i due vice-presidenti, il leghista Salvini, salito sul piedistallo più alto, e il pentastellato Di Maio, preso più volte in contropiede dal socio leghista). Che poi il pentastellato Di Maio – che rappresenta il partito più forte in termini di voti ricevuti – sia succube delle iniziative forti e rapide del leghista Salvini è facilmente dimostrato dagli scontri verbali con il presidente francese Macron e con il governo di Malta.

Di fronte alla vicenda della nave Acquarius, della ong Sos Mediterranée, che aveva accolto in mare il 9 giugno scorso 629 naufraghi, a loro volta soccorsi da tre navi mercantili e 3 motovedette partite da Lampedusa, e di fronte al rifiuto da parte del governo italiano di accoglierla in un proprio porto, Macron aveva denunciato il governo italiano di “una forma di cinismo e di irresponsabilità”, mentre il portavoce del partito En Marche, il partito di Macron, aveva aggiunto che la posizione in questo caso del governo italiano sui migranti “è da vomitare” (“il Messaggero”, 13/6/2018). Inevitabile, ovviamente, l’alzata di scudi da parte di Salvini, Conte e Di Maio, che snocciolavano dati sui migranti “accolti” rispettivamente: 170.000 l’Italia, 16.000 la Spagna, mentre la Francia, secondo le dichiarazioni, non smentite, del ministro dell’interno italiano Salvini, dei 9.816 migranti che dovevano essere ricollocati in tre anni ne ha accolti “solo 340”, mentre nei primi cinque mesi di quest’anno “ha respinto alle frontiere 10.249 persone, compresi donne e bambini disabili” (“il Messaggero”, 13/6/2018). E’ evidente da tempo che l’ immigrazione tocca i nervi scoperti di ogni governo europeo, e non solo, vista la guerra che Trump sta facendo contro gli immigrati messicani.

Non solo le centinaia di migliaia di migranti africani, mediorientali e asiatici che fuggono dalla miseria e dalle guerre devono attraversare foreste, deserti e paesi in un esodo biblico, pagare con soldi e con la propria vita ogni km della propria fuga, subire ogni genere di maltrattamenti e di torture, essere schiavizzati per tutto il tempo in cui vengono ammassati in veri e propri campi di concentramento – come dimostrato più volte dai reportage giornalistici sulla Libia – ma vengono, nello stesso tempo, usati, quando va bene, come merce di scambio, se non come rifiuti da smaltire. Tutta la demagogia contenuta nella frase tipica di ogni governo borghese, e Salvini l’ha pronunciata più volte, “aiutiamoli a casa loro!”, nasconde in realtà il classico cinismo che i paesi capitalisti sviluppati applicano in ogni loro manifestazione “umanitaria”: quando non può più tenere lontano dalle proprie frontiere le masse di disperati che cercano di fuggire da condizioni di esistenza intollerabili, le minaccia, le incarcera, le torura, le uccide o le abbandona a morte sicura; naturalmente devono in qualche modo far vedere che le loro stesse leggi valgono qualcosa, allora emergono i cavilli che le stesse leggi borghesi contengono, come nel caso del “diritto d’asilo”, del “diritto di soccorso in mare”, del “diritto alla vita” soprattutto dei minori. E’ normale, per ogni governo borghese, difendere i propri confini da ogni possibile invasione “non autorizzata” o “illegale”: così per le merci, così per i capitali, così per gli esseri umani. Ma, come è dimostrato da sempre nella storia quotidiana del capitalismo, l’illegalità borghese si accompagna normalmente con la legalità borghese perché entrambe sono prodotte dall’unico regime economico e politico capitalistico che si fonda sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sulla violenza economica e sociale, sulla sopraffazione della minoranza più ricca e forte rispetto alla maggioranza di dominati e sottoposti; la differenza fra ciò che è legale e ciò che è illegale, è sempre in un cavillo e quel che è illegale oggi può essere legale domani, o viceversa, a seconda degli interessi generali della società borghese. Le parole di Macron potevano essere dette da qualsiasi altro Salvini o Merkel, May o Orbàn, a seconda degli interessi immediati e generali in ballo. Quel che i proletari devono comprendere è il fatto che sulla pelle degli immigrati, oggi, ogni potere borghese, più o meno cinico che sia, gioca una partita che sta già giocando sulla pelle dei proletari autoctoni disoccupati e più emarginati e, domani, sull’intero proletariato perché avrà bisogno di irreggimentarlo in una guerra per la quale, anche se non è immediatamente nell’orizzonte visibile, ogni potenza imperialistica si sta preparando.

 

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Il mondo capitalistico basa il suo sviluppo economico imperialistico e la sua espansione territoriale, inglobando inevitabilmente ogni chilometro quadrato di terra ed ogni miglio quadrato di mare del pianeta, sulla politica imperialistica che è congenitamente una politica di rapina e di sopraffazione. In un paese capitalistico sviluppato esiste una piccola minoranza di capitalisti che domina sulla grande maggioranza di proletari e di quel che resta della classe contadina di un tempo; così, a livello planetario, esiste un limitato numero di paesi capitalisti supersviluppati che domina sulla grande maggioranza dei paesi del mondo. Lo sfruttamento sempre più bestiale del lavoro salariato – dunque delle masse proletarie esistenti – da parte del capitale – dunque delle classi borghesi dominanti – si accompagna inesorabilmente con lo sfruttamento sempre più insistente delle risorse naturali utili, se non addirittura indispensabili, alla produzione delle merci e al loro commercio. Risorse naturali che, nella realtà del capitalismo, rappresentano anche un patrimonio strategico: i trust dei paesi che le posseggono, o che le controllano strettamente, hanno un’arma in più nella concorrenza internazionale; attraverso il loro controllo non solo la potenza imperialista domina in parte o in toto sul paese meno sviluppato economicamente, ma ricco di materie prime indispensabili per la produzione capitalistica, ma rafforza in modo notevole la propria capacità di concorrenza nei confronti degli altri paesi imperialisti. E’ risaputo che molte materie prime di cui è avido il capitalismo si trovano spesso nei paesi economicamente più deboli, basti pensare all’Africa e all’Asia; anche se, ad esempio nel caso del petrolio, certi paesi – come nel Medio Oriente e nel Nord Africa – grazie alle enormi riserve presenti nel proprio territorio, alla sua estrazione e alla sua vendita, hanno costruito una propria “potenza”, senza per questo essere costretti a sviluppare in tutti i settori produttivi le forme di produzione capitalistiche che caratterizzano i grandi paesi imperialisti. Ma, aldilà di alcuni casi particolari, in gran parte dei paesi della periferia dell’imperialismo una delle risorse naturali più abbondanti è costituita dal capitale-umano, da milioni e milioni di braccia da sfruttare a costi infinitamente più bassi dei proletari dei grandi paesi imperialisti; da sfruttare sul posto o da sfruttare nella loro forzata emigrazione.   

Le masse umane che hanno la “sfortuna” di nascere e abitare nel paesi del cosiddetto sud del mondo – soprattutto in Africa e in Asia, ma anche in America Latina – sono quelle che hanno subito e subiscono le peggiori condizioni di sopravvivenza che si possano immaginare: rese schiave per centinaia d’anni sotto il dominio di caste e classi feudali e autocratiche, con l’arrivo del capitalismo e la sua politica colonialista, con le sue “libertà di commercio”, “libertà di produzione” e “libertà di movimento”, hanno sì conosciuto uno sviluppo economico, sociale e politico in precedenza impensabile, ma, nello stesso tempo, hanno conosciuto nuove e più bestiali forme di schiavitù generate dallo stesso modo di produzione capitalistico che ha fatto saltare i vecchi vincoli sociali e i vecchi modi e mezzi di produzione. Se un tempo quelle masse umane, pur sottoposte al vecchio dominio schiavistico, sopravvivevano potendo contare sul poco ricavato dalla terra coltivata, ma sicura, oggi, spossessate di qualsiasi anche minimo mezzo di spravvivenza, non possono contare su nulla: dipendono completamente dal mercato globale, dall’andamento delle maggiori borse mondiali, dalle politiche delle potenze imperialistiche e dalle conseguenze della concorrenza e dei contrasti fra di esse; sono in balia di fenomeni di cui percepiscono la pericolosità solo quando subiscono sulla propria pelle le conseguenze più negative e micidiali. Le condizioni del lavoro salariato si sono estese a tutto il mondo, solo che il mondo è diviso in paesi più ricchi, meno ricchi e poveri e più poveri; d’altra parte lo sviluppo ineguale del capitalismo non può che generare situazioni di questo genere. La migrazione delle masse contadine verso le città – e quindi verso l’industria, dopo che il capitalismo non solo ha strappato ai contadini la loro terra, ma ha reso le condizioni di produzione in agricoltura più precarie e molto meno redditizie di quanto non fossero in precedenza – è stato un fenomeno presente in tutti i paesi capitalisti che si è poi esteso a tutti i paesi in generale man mano che le condizioni economiche e finanziarie capitalistiche vi si radicavano determinando le condizioni di sopravvivenza e di morte di tutti gli abitanti. E quando la migrazione interna allo stesso paese non dava soluzioni tollerabili alla sopravvivenza di tutti, questa migrazione usciva dal paese e si dirigeva verso i paesi più vicini o più lontani a seconda delle possibilità reali che si presentavano. E’ un dato di fatto che il grosso dei migranti sia costituito da emigranti economici (come i gazzettieri borghesi si divertono a classificarli), mentre una parte molto più piccola è rappresentata da emigranti che fuggono dall’oppressione razziale, etnica o politica cercando rifugio in paesi che accettino di accoglierli, emigranti che vengono chiamati “richiedenti asilo” e per i quali il diritto di stabilirsi nel paese in cui hanno fatto la richiesta è concesso solo dopo molte e capillari indagini che possono durare anni. Ma la divisione tra migranti economici e richiedenti asilo risponde anch’essa al disprezzo congenito che la borghesia dominante ha verso tutti coloro che la distraggono dall’impegnare tutte le sue energie nei propri affari, o che le impediscono di portare a termine i suoi progetti legali o illegali che siano, a meno che la gestione dei migranti – che vengono comunque messi in concorrenza gli uni contro gli altri – non faccia parte del suo business, come molti “scandali” hanno rilevato. Morire sotto le bombe, falciati dalle mitragliatrici, nei villaggi incendiati o essere imprigionati per le proprie idee politiche o repressi per differenza di razza, oppure morire di fame e di stenti, sotto le torture o di fatica nei campi, che differenza fa? Si cerca di fuggire da qualsiasi causa di morte o da qualsiasi causa di repressione violenta. Ma il borghese distingue, perché può un giorno essere aguzzino e guerrafondaio e un altro giorno essere pacifista e tollerante, a seconda della convenienza del momento; l’importante, nelle diverse situazioni, è che la massa, il popolo – e in particolare il proletariato – riconosca, e con la forza tutte le volte che si rende necessario, che il potere di vita o di morte ce l’ha in mano solo la classe dominante borghese: lo esercita normalmente nei confronti del lavoro salariato – senza salario non si vive, senza lavorare alle condizioni dettate dai padroni non si prende il salario – e non sottopone certo il suo modo di gestire il potere a criteri di “umanità” e di “fraternità”. Se proprio non può farne a meno, in certe situazioni si concede il lusso di distribuire qualche briciola di umanità a pochi mentre riserva ai molti il tormento di una vita da schiavi. Ma questa "distinzione" ha anche un altro scopo: quello di diminuire drasticamente il numero di migranti che, in un modo o nell'altro, arrivano a bucare i sacri confini. Li si ricaccia indietro “legalmente” ... affinché vadano a sopravvivere o a morire da qualche altra parte!    

Come è dimostrato ormai da decenni, e in particolare dalle conseguenze delle grandi crisi economiche e finanziarie che hanno punteggiato costantemente il corso dell’imperialismo mondiale, l’impossibilità di sopravvivere nei paesi del sud del mondo, soprattutto per quanto riguarda l’Africa e l’Asia, spinge masse sempre più numerose, che fuggono non solo dalla miseria e dalla fame ma anche dalle guerre, verso i paesi più ricchi del cosiddetto nord del mondo; dunque verso l’Europa e l’America del Nord. C’è stato un tempo che alcune borghesie erano ben felici di aprire le porte alle masse migranti dai paesi più poveri: avevano bisogno di notevoli quantità di braccia a costi bassissimi da sfruttare, e quindi apparivano più “generose” e più “civili” di altre; basti pensare agli Stati Uniti, al Canada, all’Australia tra l’Ottocento e il Novecento, e nel Novecento alla Francia, al Belgio, alla Germania e alla Svizzera, dove l’interesse era indirizzato non solo verso le masse di manovali ma anche a professioni più specializzate. Ma, come succede spesso, ai cicli di espansione economica del capitalismo succedono cicli di restrizione e di crisi; la pressione della disoccupazione interna ad ogni paese perciò aumenta e si va a scontrare con la pressione di masse immigrate in cerca di lavoro. Resta il fatto che, in questo modo, il capitalismo aveva ed ha oggettivamente a disposizione un’aumentata massa di potenziali lavoratori salariati a basso costo, e ciò gli rende più agevole il ricatto salariale; nello stesso tempo, però, la massa proletaria disoccupata autoctona – che è quella che vota – può risultare maggiormente utile alla pressione politica che ogni frazione borghese esercita all’interno del suo paese, e che può essere manovrata contro i proletari stranieri. L’abbondanza di braccia da sfruttare permette ai grandi borghesi di lasciar spazio, soprattutto in situazioni di forti contrasti politici ed economici interni ed esterni, ai ceti di media e piccola borghesia perché si prendano in carico direttamente il compito di aumentare la concorrenza e i contrasti fra i proletari, mettendo gli uni contro gli altri, gli autoctoni contro gli stranieri, gli specializzati contro i non specializzati, cosa che ha un sicuro risvolto economico in quanto è un ulteriore mezzo per abbattere i salari in generale e per rendere la vita dei lavoratori molto più precaria di quanto già non sia. Se poi, come sta succedendo nella gran parte dei paesi imperialisti, le forze del tradizionale opportunismo socialdemocratico e “comunista” non sono più in grado di trascinare dietro di sé e influenzare in modo solido le grandi masse proletarie, alla grande borghesia può risultare molto utile che le redini del governo nazionale, quindi non solo dei municipi e delle regioni, vengano messe nelle mani di forze che si presentano come del tutto nuove o comunque più vicine agli interessi della piccola e media borghesia, se non addirittura formalmente “antisistema” e che, in qualche modo, rompono con la  tradizionale sicumera dei grandi partiti di ieri, quelli che i gazzettieri di ogni risma accusavano di essere legati ai “poteri forti”.

E così, come è già accaduto nella storia passata, l’Italia, rispetto ad altri paesi imperialisti,  fa da “apripista” anche sul versante politico delle forze “antisistema”, spinte a vestire contemporaneamente l’abito del ribelle di strada e la giacca e cravatta, a lanciare accuse di corruzione e di arricchimento personale ai vecchi arnesi della politica passata e a doversi difendere, a loro volta, dalle quelle stesse accuse che il sistema, tanto combattuto in precedenza, ripresenta sistematicamente a tutti coloro che ne entrano a far parte. Il politicantismo personale ed elettoralesco fa parte del sistema politico borghese che, più si dichiara democratico, più lo rafforza permeando inevitabilmente ogni azione ed ogni decisione di qualsiasi partito, di qualsiasi leader che voglia “cambiarlo” ma con gli stessi mezzi e gli stessi presupposti economico-sociali che stanno alla sua base. E’ questo il motivo per il quale, da comunisti rivoluzionari, da coloro che non hanno mai ceduto alle lusinghe della democrazia, né formalmente né sostanzialmente, abbiamo scritto nel nostro programma politico che  per cambiare la società è necessario distruggere il potere borghese, spezzare lo Stato borghese coi mezzi della rivoluzione proletaria e della dittatura proletaria: o dittatura del proletariato o dittatura della borghesia, imperialista o meno che essa sia. Non ci sono vie di mezzo. Ed è in questa prospettiva che i proletari, oggi ancora completamente schiacciati dalla violenza economica e sociale capitalistica e ottenebrati dalle ideologie democratiche, sovraniste, nazionaliste, individualiste che la società borghese sforna e alimenta in continuazione, sulla base delle loro oggettive condizioni di schiavi salariati e sulla base dei contrasti di classe che inesorabilmente, prima o poi, esplodono come in una caldaia sottoposta ad una pressione incontenibile, ritroveranno la spinta oggettiva a riconoscere i caratteri della propria classe sociale in antagonismo frontale con gli interessi della classe borghese e delle mezze classi che agiscono a sua difesa e a difesa della conservazione di questo regime, di questa società, di questo modo di produzione.

Il passo decisivo per riconquistare la propria dignità di classe, il proletariato lo dovrà e lo potrà fare sul terreno della lotta contro la concorrenza che i borghesi alimentano per dividerli in proletari autoctoni e stranieri, in bianchi e neri o gialli, in proletari del nord e proletari del sud, in ribelli e pacifisti, in organizzati e disorganizzati. Su questa strada i proletari troveranno sempre i comunisti rivoluzionari che, nel loro compito di importare nella classe la teoria rivoluzionaria, non dimenticano di agire a loro stretto contatto per elevarne le spinte elementari ed immediate al livello politico e rivoluzionario. 

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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