Il capitalismo mondiale di crisi in crisi (2)

(«il comunista»; N° 155; Settembre 2018)

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(La prima parte di questo articolo è stata pubblicata ne “il comunista” n. 152, genn-marzo 2018)

 

 

GUERRA COMMERCIALE?

 

Negli ultimi mesi, la minaccia di una guerra commerciale innescata dal governo degli Stati Uniti è sulle prime pagine di tutti i media, preoccupa le cancellerie e scuote gli specultaori di Borsa. Durante la sua campagna elettorale, Trump ha ripetutamente attaccato la Cina, accusata di concorrenza sleale, così come vari trattati commerciali internazionali denunciati come svantaggiosi per il suo paese. Nei primi mesi dopo il suo insediamento alla presidenza, sembrava che queste dichiarazioni non avrebbero avuto una traduzione pratica reale. 

Ma lo scorso marzo Trump ha annunciato solennemente che avrebbe tassato del 25% le importazioni negli Stati Uniti di acciaio e del 10% quelle di alluminio, in nome della “sicurezza nazionale”; le regole dell’OMC (Organizzazione Mondiale del Commercio, istituzione che dovrebbe governare il commercio internazionale proprio per evitare le guerre commerciali che avevano avuto effetti devastanti negli anni Trenta del secolo scorso) autorizzano, in effetti, in questi casi, l’imposizione di tasse. I paesi occidentali, tra cui il Canada e l’Unione Europea, che sono i primi esportatori di acciaio negli Stati Uniti, hanno vivacemente protestato (Merkel, Macron e altri hanno viaggiato a Washington per cercare di ammorbidire Trump), ma non hanno ottenuto nulla: al contrario, Trump ha minacciato di tassare, sempre del 25%, anche le importazioni tedesche di auto, cosa che avrebbe praticamente chiuso il lucroso mercato americano ai veicoli made in Germany, facendo perdere alla Germania fino a 5 miliardi di euro (secondo la stima di un istituto economico di Monaco).

Va ricordato che l’imposizione di tasse di questo genere da parte dei governi americani, che si suppone siano i campioni del libero scambio, è tutt’altro che nuova; più volte negli ultimi decenni misure di questo tipo sono state prese da Washington per sostenere la siderurgia americana. Ma a volte, come al tempo del governo di Bush padre, nel 2002, la reazione unitaria degli Stati europei ha permesso loro di ottenere delle esenzioni. Nulla di simile oggi: al momento della stesura di questo articolo, solo la Corea del Sud è stata finalmente esentata da tali imposte, dopo aver concordato alla fine di marzo di aprire molto di più il proprio mercato interno ai prodotti statunitensi.

Le velleità tedesche di negoziare un compromesso (la Germania è un paese, come abbiamo visto, che avrebbe molto da perdere in una guerra commerciale con gli Stati Uniti) non sono state sufficienti, e non lo sono state neppure le “minacce” europee di presentare una denuncia all’OMC o di tassare, per rappresaglia, i jeans americani, il bourbon e le motociclette Harley Davidson; queste minacce hanno, in realtà, dimostrato l’impotenza europea contro il colosso americano.

Ma se gli europei, e poi i canadesi e i messicani, sono stati i primi a essere colpiti, in realtà, nel mirino degli americani c’è la Cina.

Durante i negoziati commerciali a Pechino all’inizio di maggio, i rappresentanti degli Stati Uniti hanno presentato un progetto che chiedeva alla Cina  “azioni concrete e verificabili”.

Secondo questo documento, Pechino dovrebbe ridurre il suo surplus commerciale con gli Stati Uniti di 100 mld di dollari in 12 mesi a partire da giugno 2018 e di altri 100 mld l’anno successivo, dovrebbe eliminare immediatamente le “sovvenzioni che deformano il mercato” conducendo ad eccessi di produzione; e rafforzare la protezione della proprietà intellettuale e sopprimere i requisiti tecnologici per la creazione di “joint ventures”; “La Cina si impegna inoltre a ... cessare di prendere di mira la tecnologia e la proprietà intellettuale degli Stati Uniti attraverso lo spionaggio, la pirateria e la contraffazione (!)” E dovrà “accettare di conformarsi alle leggi statunitensi sul controllo delle esportazioni”.

La Cina dovrà anche ritirare tutte le sue richieste all’OMC per quel che riguarda le misure tariffarie e la protezione della proprietà intellettuale; “Inoltre, la Cina non intraprenderà alcuna azione di ritorsione ... in risposta alle azioni intraprese o adottate dagli Stati Uniti, comprese nuove restrizioni (...). La Cina deve interrompere immediatamente tutte le sue attuali azioni di rappresaglia”. Inoltre, non “si opporrà, vendicherà o reagirà (...) all’imposizione da parte degli Stati Uniti di restrizioni sugli investimenti cinesi nei settori tecnologici statunitensi sensibili o critici per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti”; ma dall’altra parte, “gli investitori statunitensi in Cina devono godere di un accesso libero, efficace e non discriminatorio al mercato [cinese], (...) inclusa la revoca delle restrizioni agli investimenti stranieri e alla proprietà [delle imprese cinesi]”

Entro il 2020 la Cina dovrà ridurre le tasse “nei settori non critici a livelli che non devono essere più alti” di quelli negli Stati Uniti. Dovrà aprire il proprio mercato ai servizi e ai prodotti agricoli statunitensi come definiti dagli Stati Uniti. L’attuazione degli accordi dovrà essere verificata trimestralmente e, se gli Stati Uniti ritengono che la Cina non li rispetti, essi potranno imporre tasse o restrizioni alle importazioni alle quali la Cina “non dovrà opporsi, non dovrà contestare e contro le quali non dovrà intraprendere alcuna azione”; la Cina dovrà inoltre ritirare la sua richiesta all’OMC di non essere considerata un’economia di mercato (1).

Abbiamo brevemente citato questo documento perché getta una luce cruda su come i grandi Stati imperialisti intendono i rapporti con gli altri Stati considerati più deboli. In pratica, questo documento è servito per l’apertura di negoziati – ma sotto minaccia – tra gli Stati Uniti e la Cina. Quest’ultima ha dapprima risposto in modo conciliante, facendo concessioni agli Stati Uniti, che hanno a loro favore il rapporto di forze economiche; anche il governo degli Stati Uniti ha fatto qualche gesto conciliante, ma l’escalation è comunque proseguita nei confronti della Cina ed anche nei confronti dei paesi europei: in un’intervista trasmessa da un canale televisivo americano il 17 luglio, Trump ha citato l’Unione europea come il primo “nemico” degli Stati Uniti a causa di quel che “fanno in campo commerciale” con il suo paese.

I media accusano Trump di fare tali dichiarazioni e di decidere queste misure su colpi di testa, o per ragioni elettorali. Niente di più sbagliato! È vero che queste misure non hanno l’unanimità dei capitalisti e dei leader politici americani (compresi, e forse specialmente, quelli del Partito Repubblicano, che, tradizionalmente è libero-scambista); ciò non toglie che siano l’espressione di potenti gruppi industriali e finanziari allarmati dalla concorrenza sempre più pressante di molti partner economici degli Stati Uniti (2).

 

DEFICIT COMMERCIALE AMERICANO

 

Gli Stati Uniti sono ancora la principale potenza economica del mondo; secondo le stime del FMI per il 2018 (3), il PIL degli Stati Uniti ammonterà a 20.413 mld di dollari (un aumento del 4%), che rappresenta quasi un quarto del PIL mondiale (23%) contro i 14.000 mld della Cina (un aumento del 10%) cioè del 16% di questo stesso PIL mondiale. Questi due paesi sono seguiti a distanza dal Giappone, dalla Germania, dal Regno Unito, dalla Francia ecc.

Le imprese capitaliste e le economie nazionali che queste imprese compongono sono in costante concorrenza l’una con l’altra.

Questa competizione si riflette in un ampio deficit commerciale degli Stati Uniti. Fino al 1975 il commercio statunitense era ampiamente bilanciato; poi, dagli anni ’80 e soprattutto ‘90 del secolo scorso, gli USA hanno registrato un deficit che ha continuato a crescere fino a raggiungere un massimo di 760 miliardi di dollari nel 2006 (equivalente al 5% del PIL). La crisi economica del 2007-2008, rallentando le importazioni statunitensi, ha migliorato meccanicamente la bilancia commerciale: le importazioni statunitensi sono scese da 2.550 mld di dollari nel 2008 a 1.960 mld nel 2009, mentre le esportazioni sono diminuite: da 1.800 mld nel 2008 a 1.500 mld nel 2009. Il deficit commerciale è stato ridotto per un po’, ma ha ricominciato a crescere con la ripresa economica, raggiungendo nel 2017 quasi 500 mld di dollari (pari a circa il 2,7% del PIL) (4).

Ma per avere una migliore idea dello stato dell’economia statunitense rispetto al resto del mondo, bisogna ricordare che gli Stati Uniti hanno un’eccedenza negli scambi di servizi (5) che riducono il deficit negli scambi di beni che nel 2017 era di 795 mld di dollari. 

I principali importatori negli Stati Uniti sono la Cina (il 22% delle importazioni totali), il Canada e il Messico (13% ciascuno), il Giappone (5,9%) e la Germania (5,1%). Seguono Corea del Sud (3,1%), Gran Bretagna (2,3%), Italia (2,2%), India e Francia (2,1% ciascuno).

I primi 10 mercati di esportazione statunitensi sono: Canada (19% delle esportazioni statunitensi), Messico (16%), Cina (8,6%), Giappone (4,4%), Gran Bretagna (3,7%), Germania (3,5%), Corea del Sud (3,2%), Paesi Bassi (2,8%), Hong Kong (2,6%) e Brasile (2,4%).

(2 - continua)

 


 

(1) Cfr. Financial Times, 9/5/18. L’editorialista di questo organo ufficiale dell’ambiente finanziario londinese scrive in un commento che nessun grande paese sovrano potrebbe accettare tale umiliazione: “Per la Cina sarebbe una versione moderna dei “trattati ineguali” del diciannovesimo secolo”. Il giornalista sa di cosa sta parlando poiché la Gran Bretagna è stata la prima potenza occidentale ad imporre questi trattati sul decadente impero cinese.

(2) La potente Camera di Commercio degli Stati Uniti, in una dichiarazione del 31 maggio, ha espresso la sua opposizione all’imposizione delle tariffe, mentre i capi dell’industria siderurgica si sono congratulati calorosamente con Trump.

(3) Cfr. International Monetary Fund (IMF) World Economic Outlook, aprile 2018. Le cifre sono dette “nominali” e sono in dollari correnti.

(4) Ibidem.

(5) Ai primi posti dei servizi commerciali vi sono, in ordine di importanza, la “proprietà intellettuale” (diritti d’autore, canoni e altri diritti di licenza), il turismo, i servizi informatici, le assicurazioni e i servizi finanziari.

 


 

PIL delle 20 più grandi economie

e % del PIL mondiale (in mld dollari correnti)

 

PIL Mondo

% PIL

Stati Uniti

20.412, 87 

(23,3%) 

Cina

14.092,51

(16,1%)

Giappone

5.167,05 

(5,9%)

Germania

4.211,64 

(4,8%)

Regno Unito

2.936,29 

(3,36%)

Francia

2.925,10 

(3,34%)

India

2.848,23 

(3,25%)

Italia

2.181,97 

(3,25%)

Brasile

env. 2.135

(2,44%) 

Canada

1.798,51 

(2,06%)

Russia

1.719,90 

(1,97%)

Corea del Sud

1.693,25 

(1,94%)

Spagna

1.506,44 

(1,72%)

Australia

1.500,26 

(1,71%)

Messico 

1.212,83 

(1,39%)

Indonesia

1.074,97 

(1,23%)

Paesi Bassi

945,33 

(1,08%)

Turchia

909,89 

(1,04%)

Arabia Saudita

748.00 

(0,85%)

Svizzera

741,69 

(0,84%)

 

 

Classifica secondo il PIL

/per abitante

 

Stati Uniti

9e

Cina

72e

Giappone

25e

Germania

17e

Regno Unito

23e

Francia

21e

India

142e

Italia

27e

Brasile

n.d.

Canada

20e

Russia

65e

Corea del Sud

29e

Spagna

31e

Australia

11e

Messico

74e

Indonesia

116e

Paesi Bassi

n.d.

Turchia

65e

Arabia Saudita

22e

Svizzera

2e

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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