A dieci anni dal fallimento della Lehman Brothers

Le misure delle classi dominanti borghesi per superare la crisi economica e finanziaria del 2007-2008 non possono che preparare, inesorabilmente, fattori di crisi più generali e violente

(«il comunista»; N° 155; Settembre 2018)

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Dieci anni fa, il tracollo della Lehman Brothers, quarta banca d’affari americana, confermava a livello globale la crisi finanziaria ed economica che, partita dagli Stati Uniti, nel giro di un anno investiva l’Europa e il mondo intero. Rispetto alla crisi del 2001-2002 (scatenata dalla cosiddetta “bolla informatica”, cioè la speculazione frenetica sulle imprese di nuova tecnologia) e a quelle precedenti, la crisi dei subprime del 2007, che portò poi alla crisi finanziaria generale e al fallimento di molte banche, in particolare negli Stati Uniti e in Gran Bretagna – le due piazze finanziarie più importanti al mondo – è stata considerata dai più attenti esperti borghesi, dopo che ne avevano minimizzato la portata, come l’accelerazione delle dinamiche economiche e sociali del capitalismo che portano alla “crescita delle diseguaglianze”; dunque, sono stati costretti a confessare che queste diseguaglianze non solo sono congenite al capitalismo, ma tendono a crescere. Da questa crisi gli Stati Uniti sono riusciti a riprendersi prima di tutti gli altri paesi imperialisti – «nella seconda parte del 2009 il Pil statunitense riprende a salire e, tra qualche scossone, i livelli pre-crisi vengono recuperati nel 2011. La banche riconquistano rapidamente i loro valori di Borsa e tornano a macinare utili. Oggi le azioni di Jp Morgan e Goldman Sachs valgono il triplo rispetto all’ottobre 2008, ma già nel settembre 2009 i valori precedenti al crac Lehman erano stati recuperati» (1) –  resta il fatto che «sul groppone dei contribuenti rimangono però quasi 4 mila miliardi di debito pubblico aggiuntivo su cui andranno pagati interessi che tolgono e toglieranno risorse ad altri tipi di spesa, welfare compreso» (2); l’economia statunitense è riuscita a rimettersi in carreggiata abbastanza rapidamente – sostiene lo stesso quotidiano – grazie ai colossali aiuti pubblici erogati sotto varie forme: in tutto 7 mila e 700 miliardi di dollari di cui hanno beneficiato principalmente banche, assicurazioni, industria dell’auto ed altre.

Le crisi capitalistiche, soprattutto nella fase imperialistica dello sviluppo capitalistico, come da marxisti sosteniamo da sempre, sono determinate dalla sovraproduzione di merci e di capitali: sia le merci che i capitali, ad un certo punto, non trovano più, al saggio medio di profitto dato, sbocchi sul mercato. Di base, lo sviluppo della grande industria pone oggettivamente le contraddizioni che Engels sintetizza così: «Alla rapidità di giorno in giorno crescente con cui, in tutti i settori della grande industria, si può incrementare la produzione, fa riscontro la lentezza sempre crescente con cui si allarga il mercato di questi prodotti aumentati. Ciò che questa produce in mesi, questo non può assorbire neppure in anni. Si aggiunga la politica protezionistica con cui ogni paese industriale si chiude agli altri, e specialmente all’Inghilterra, e accresce artificialmente la propria capacità produttiva. Ne conseguono sovraproduzione generale cronica, prezzi ribassati, profitti calanti o addirittura scomparsi; in breve, la tanto celebrata libertà di concorrenza tira gli ultimi, e deve annunciare essa stessa la sua evidente, scandalosa bancarotta» (3). Dunque, la lentezza con cui il mercato può assorbire merci e capitali prodotti ad ogni ciclo di produzione contrasta sempre più con la velocità con cui quei prodotti vengono rovesciati nel mercato. Qualsiasi attività di produzione, per essere tale e per poter essere incrementata, necessita di capitali; perciò si sviluppa il sistema del credito e, in contemporanea, la speculazione. E Marx precisa: «Se il sistema del credito appare come leva principale della sovraproduzione e sovraspeculazione nel commercio, ciò accade solo perché il processo di riproduzione, che è per sua natura elastico, viene qui spinto al suo limite estremo, e vi è spinto appunto perché una gran parte del capitale sociale viene impiegata da coloro che non ne sono proprietari, e che, quindi, si lanciano nell’impresa con ben altro spirito del proprietario effettivo, il quale, se e in quanto agisce in prima persona, tiene sempre d’occhio tremando di paura i limiti del suo capitale privato. Ne risulta solo con chiarezza che la valorizzazione del capitale basata sul carattere antagonistico della produzione capitalistica non permette che fino a un certo punto il vero, libero sviluppo, quindi costituisce di fatto un ceppo e una barriera immanente della produzione, che il sistema del credito spezza di continuo. Perciò il sistema creditizio accelera lo sviluppo materiale, che il modo di produzione capitalistico ha il compito storico di creare, fino a un certo livello, come fondamento materiale della nuova forma di produzione [nuova, ovviamente, rispetto alla forma di produzione feudale precedente, ndr]» (4). Ma, se il sistema del credito ha dato al modo di produzione capitalistico lo slancio per accelerare e potenziare sempre più la produzione sociale, provocando e affrettando «le violente eruzioni di questo antagonismo, le crisi, quindi gli elementi dissolventi del vecchio modo di produzione» (5), col suo stesso sviluppo provoca ed affretta le violente eruzioni dell’antagonismo tra capacità produttiva e assorbimento dei prodotti da parte del mercato, provoca ed affretta le sue crisi, e quindi gli elementi dissolventi del modo di produzione capitalistico stesso.

La crisi di sovraproduzione provoca inevitabilmente la diminuzione della produzione in molti settori industriali, nei servizi e nel commercio, con relative chiusure e licenziamenti: di conseguenza, i consumi diminuiscono drasticamente e masse sempre più ingenti di merci e di capitali rimangono invendute e incapaci di essere investite con profitto. La tendenza alla sovraproduzione e le maggiori difficoltà di valorizzare rapidamente i capitali investiti nell’industria, nell’agricoltura, nel commercio, nei servizi, spingono i capitalisti ad utilizzare capitali sempre più cospicui nella speculazione finanziaria che, a sua volta, induce ad aumentare enormemente l’indebitamento, il che fa da volano, ad un certo punto, ad una crisi più generale che né i capitalisti né gli Stati sono in grado di evitare. I capitalisti, abituati a difendere i loro profitti nel breve, di fronte alla crisi hanno in sostanza due strade da percorrere: chiamare lo Stato – perciò la finanza pubblica – ad intervenire salvando le aziende e sostenendo almeno in parte le masse senza lavoro, e gli istituti bancari e finanziari ad aprire la borsa prestando denaro, soprattutto alla classe media che vede il proprio potere d’acquisto erodersi rapidamente, affinché soprattutto i prodotti durevoli rimasti invenduti possano essere “comprati”, come ad esempio le abitazioni o le automobili. Così, nel tentativo di evitare contraccolpi troppo gravi della crisi, diventa più facile farsi prestare denaro e, in pratica, indebitare se stessi e le generazioni future oltre ogni misura. «Tra il 2000 e il 2007 l’ammontare complessivo dei debiti delle famiglie statunitensi raddoppia e raggiunge i 14 mila miliardi di dollari. Come è possibile? Grazie alle innovazioni finanziarie che sono andate accumulandosi sin dagli anni ‘80» (6). Queste “innovazioni finanziarie” sono così sintetizzate dallo stesso quotidiano: «Il teorema che sorregge tutto il sistema è che, distribuendo il rischio di un investimento tra quanti più soggetti possibili, si riesca a neutralizzarlo. La banca eroga un mutuo e lo rivende ad una società che si finanzia emettendo obbligazioni. La banca ha guadagnato sulle commissioni e sulla vendita e si libera del rischio di insolvenza del mutuatario. La società che ha acquistato il mutuo lo “impacchetta” insieme a tanti altri perché è improbabile che tutti i tipi di case, situate in zone diverse del Paese, perdano valore insieme e contemporaneamente, cosa che invece accadrà. Con le rate dei mutuatari paga gli interessi sulle obbligazioni che ha emesso. Così parte del rischio passa a chi ha comprato queste obbligazioni (spesso fondi pensione). Questi titoli possono essere assicurati con delle polizze che si chiamano credit default swap”. In questo modo un’altra quota del rischio passa agli assicuratori. Ad ogni passaggio qualcuno ci guadagna. La realtà è che rischiano tutti, ma l’illusione ottica è che non rischi nessuno. Si arriverà così ad erogare prestiti praticamente a chiunque, come nel caso dei mutui “Ninja”, acronimo di no income, no job or asset, concessi a persone senza lavoro, redditi o altre proprietà. E si arriverà a truffe vere e proprie» (7).

Da quanto scritto in questo quotidiano, come in molti altri specializzati in economia e finanza, risulta che gli stessi borghesi sono in grado di comprendere perfettamente gli effetti di determinate “politiche”, siano esse attuate dallo Stato o dalle banche. Ciò che non sono in grado di capire è la causa di fondo delle crisi capitalistiche, e non lo potranno mai capire perché vorrebbe dire rinnegare la propria appartenenza alla classe dominante e la conseguente difesa del modo di produzione capitalistico dal quale essi traggono tutti i loro privilegi di classe. La causa di fondo è il modo di produzione capitalistico che, nel suo sviluppo storico, non ha alcuna possibilità di essere riformato a tal punto da cancellare per sempre le cause delle sue crisi. Il borghese di oggi, per quanto “illuminato” – in realtà molto più ipocrita dei rappresentanti classici della borghesia come sono stati nell’Ottocento David Ricardo, James Mill ecc. – può al massimo registrare i fenomeni contraddittori dell’economia capitalistica, e quindi della società borghese, ma il suo attaccamento ai fondamenti di questa società – proprietà privata, appropriazione privata della produzione sociale, produzione, riproduzione e valorizzazione del capitale, frenetica corsa al profitto ecc. – non gli permette di giungere alle conclusioni alle quali solo il marxismo è giunto, in sintesi a questa conclusione: lo sviluppo delle forze produttive che il capitalismo stesso ha incrementato e tende ad incrementare sempre più, si scontra con i rapporti borghesi di produzione e sociali, provocando periodicamente crisi economiche e sociali sempre più profonde e potenti.

Di fronte allo scoppio e all’allargamento della crisi finanziaria ed economica del 2007-2008, che ha portato al fallimento e ad una crisi profonda molti istituti bancari, il fallimento della Lehman Brothers ha segnato l’estensione della crisi finanziaria in tutto il mondo occidentale, tanto da spingere gli Stati (Usa, Gran Bretagna, Francia, Svizzera, Germania, Italia ecc.) ad intervenire direttamente per salvare i sistemi bancari nazionali. A proposito della cosiddetta “Unione Europea” scrivevamo: «Stante la gravità della crisi, questa non può non ravvivare tutti gli antagonismi nazionali esistenti in questo cartello di Stati che costituisce l’Europa, rendendo problematica ogni azione comune di una certa ampiezza. Questa incapacità degli Europei nel decidere un’azione comune ha contribuito parecchio all’indebolimento della moneta unica, l’euro, in rapporto al dollaro e allo yen; così è dimostrata in modo eclatante la fragilità della cosiddetta “costruzione europea” e l’incapacità insormontabile dell’Europa nel presentarsi come una rivale potenziale rispetto agli Stati Uniti sulla scena mondiale. Se un rivale emergerà nel prossimo futuro non potrà che essere uno Stato, non un cartello di Stati, economicamente così forte e storicamente spinto a competere sul mercato mondiale con le più grandi potenze imperialiste esistenti, prima fra tutte gli Stati Uniti d’America, da rappresentare un vitale polo d’attrazione per altri Stati, come è successo con la Germania negli anni Trenta del secolo scorso» (8).

Il fatto che gli USA abbiano potuto riprendersi dalla crisi prima degli altri paesi non è dovuto soltanto alla sua potenza economica e finanziaria, ma anche al fatto che questa potenza economica e finanziaria è rappresentata da un unico Stato centralizzato. Quel che invece dimostra costantemente l’Europa è appunto il fatto di essere un continente i cui i paesi, in cui si è instaurato e sviluppato il capitalismo, seguendo uno sviluppo del tutto ineguale tra di loro e distanziato anche temporalmente, sono diventati potenze capitalistiche e imperialistiche estremamente concorrenti le une contro le altre. Questa concorrenza non ha impedito, come d’altra parte avviene tra aziende e trust, che fra alcune di loro – per una concomitanza più o meno temporanea di interessi – si formassero delle alleanze e dei cartelli.

Per un lungo periodo di tempo, dalla fine della seconda guerra mondiale, i veri poli d’attrazione sono stati gli Stati Uniti d’America e la Russia (gli effettivi vincitori della guerra) che si sono divisi il controllo del mondo, politicamente, militarmente ed economicamente, costruendo ognuno intorno a sé una rosa di alleati sottoposti inevitabilmente ad una dipendenza economica e militare, e quindi politica. Ciò è durato per circa un trentennio, cioè fino alla prima grande crisi capitalistica mondiale che, nel 1975, mise simultaneamente in ginocchio i paesi occidentali, crisi i cui effetti si fecero sentire, sebbene “a scoppio ritardato”, anche nel cosiddetto “campo socialista” controllato dalla Russia, tanto da sviluppare inesorabilmente, anche al di là della cosiddetta “cortina di ferro”, i fattori di crisi che lacereranno – attraverso antagonismi nazionali tipici dei paesi capitalisti (falsamente definiti per cinquant’anni “socialisti”) – il cartello di Stati dominato da Mosca, rimettendo indiscutibilmente in luce ciò che la controrivoluzione staliniana e post-staliniana aveva velato per tanti anni, e cioè che nell’URSS, come in tutti i suoi paesi satelliti, non si è mai trattato di “costruzione del socialismo” e tantomeno della sua “realizzazione”, quanto di puro, spietato, feroce e aggressivo capitalismo che nel giro di un cinquantennio cercava di bruciare le tappe di uno sviluppo finalizzato alla concorrenza con le più forti potenze imperialistiche del mondo.

Ma, se la crisi del 1975 decretava, da un lato, la fine del ciclo espansivo del capitalismo postbellico rappresentato dalle potenze imperialistiche che si erano scontrate nella seconda guerra mondiale, dall’altro, generava la contemporanea formazione di fattori di crisi certamente più profonde: più si allarga il mercato, più questo si predispone ad assorbire quantità più imponenti di merci e capitali, la cui produzione, però, in quantità, è sempre più alta e veloce di quel che il mercato sia in grado di assorbire. Per quanto la crisi distrugga quantità rilevanti di merci e capitali, e per quanto questa distruzione costituisca la rigenerazione dei cicli produttivi successivi, non ci sarà mai il momento in cui il mercato stesso diventi il regolatore, l’equilibratore delle contraddizioni congenite del capitalismo. Col superare, capitalisticamente, un periodo di crisi, la borghesia imperialista non può che ritrovarsi, da lì a pochi anni, a dover fare nuovamente i conti con gli stessi fattori di crisi che hanno portato alla precedente crisi di sovraproduzione e, quindi, a dover affrontare crisi tendenzialmente sempre più gravi fino a dover passare dalle guerre commerciali, monetarie, finanziarie alla guerra guerreggiata, imponendo con quest’ultima la distruzione sempre più grande di prodotti, mezzi di produzione e capitali che intasano i mercati bloccandoli completamente. E la guerra, come ormai vanno ripetendo anche i sassi, è la continuazione della politica, solo con altri mezzi, coi mezzi militari; essa stessa è il mezzo col quale le borghesie dominanti più potenti del mondo si spartiscono, per l’ennesima volta – attraverso i diversi reciproci rapporti di forza – il mercato mondiale.

Nel secondo periodo di espansione imperialistica postbellica, le più forti borghesie del mondo non potevano che seguire le linee di sviluppo classiche del capitalismo e delle sue crisi, e cioè l’intensificazione dello sfruttamento dei mercati già esistenti e l’apertura di nuovi mercati e di nuovi poli di concentrazione capitalistica, senza mai smettere di combattere, l’una contro l’altra, con armi finanziarie sempre più sofisticate e con eserciti sempre più potenti. Lo sviluppo ineguale del capitalismo, che è tesi accettata ormai anche dai borghesi, non significa che lo sviluppo del capitalismo in tutti i settori di attività economica, commerciale, finanziaria, riguardi essenzialmente i primi paesi capitalisti della storia. Era inevitabile che l’apertura di nuovi mercati comportasse lo sviluppo capitalistico anche nei paesi che storicamente sono giunti più tardi alla trasformazione della propria economia da sistema economico precapitalistico a sistema economico capitalistico. Il che comporta, con l’incremento dello sviluppo capitalistico a livello planetario, che nella concorrenza internazionale si inseriscano, prima o poi, più protagonisti, e in particolare quei paesi che posseggono notevoli quantità di materie prime necessarie alla produzione capitalistica: il caso del petrolio e del gas naturale lo dimostra, come lo dimostrano i paesi ricchi di minerali necessari alla produzione tecnologica più avanzata. Aumenta così la concorrenza non solo tra i grandi e più vecchi paesi imperialisti, ma anche con e tra i paesi più deboli nei loro confronti, ma che nella loro regione geografica svolgono un ruolo di predominanza e di controllo su cui, d’altra parte, i grandi paesi imperialisti – concluso il periodo del vecchio colonialismo, basato sulla presenza e sulla forte oppressione militare, e a causa delle vittoriose lotte di “liberazione nazionale” – si sono appoggiati per poter continuare a conservare un dominio ed una influenza necessari alla propria politica di potenza.

Fino a tutto l’Ottocento c’era una sola grande potenza capitalistica mondiale che dominava il mondo: il Regno Unito, ma all’ombra di questo dominio si sono formate altre potenze destinate ad emergere e a diventare concorrenti pericolose: gli Stati Uniti d’America, la Francia e in parte la Germania. Con la prima guerra mondiale, gli Stati Uniti d’America sopravanzano di gran lunga il Regno Unito, le altre potenze europee e il Giappone che, nel frattempo, si era presentato sulla scena come un pericolosissimo concorrente nell’estremo Oriente. Con la seconda guerra imperialista, gli Stati Uniti d’America prendono decisamente il posto che aveva fino all’Ottocento il Regno Unito, confermandosi prima potenza imperialistica mondiale, che ha dovuto però vedersela con concorrenti temibilissimi come la Germania e il Giappone i quali, nonostante la sconfitta militare subita, si sono ripresentati sul mercato mondiale con una forza economica di grandissima levatura. Se gli USA sono stati la prima economia del mondo durante e dopo la seconda guerra mondiale, il Giappone è stata la seconda, la Germania è stata la terza: i poli imperialisti d’attrazione da uno sono diventati due, poi tre e quattro se consideriamo anche la Russia. Quanti sono oggi?

Indiscutibilmente gli Stati Uniti rappresentanto la prima economia del mondo; tutti i dati lo confermano. Ma tale forza non li rende più, come per trent’anni nel secondo dopoguerra, una potenza imperialistica in grado di controllare e influenzare direttamente ogni mercato, ogni continente, ogni regione. Nel corso di qualche decennio dopo il 1975, l’emergere prepotente di forti economie come quella tedesca e giapponese, alle quali successivamente si aggiungevano le potenze petrolifere e i cosiddetti paesi del Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), obbligava, in un certo senso, gli Stati Uniti ad iniziare una selezione dei quadranti mondiali nei quali esercitare interventi diretti o  indiretti, oppure astenersi dall’intervenire – lasciando quindi spazio all’intervento degli altri paesi imperialisti concorrenti – in attesa di vedere gli effetti dei contrasti emersi o delle crisi regionali. Gli Stati Uniti non intendevano, e non potevano più svolgere il ruolo di guardiano del capitalismo mondiale; l’aumentata concorrenza economica, finanziaria, politica e militare a livello mondiale metteva la maggiore economia mondiale nella condizione di non poter più sostenere il crescente impegno finanziario e di controllo planetario che l’attività e le iniziative delle altre potenze imperialistiche necessariamente avrebbero richiesto. Come è normale nella società borghese, di fronte ad un cambiamento profondo degli interessi e delle situazioni, gli alleati di ieri possono diventare i nemici di oggi o di domani e, viceversa, i nemici di ieri possono diventare gli amici di oggi o gli alleati di domani. In pace e in guerra non è assolutamente detto che i paesi rimangano alleati o nemici come lo sono o lo sono stati in precedenza. E’ sempre di grande attualità quanto affermato dal Manifesto del partito comunista del 1848: «La borghesia è sempre in lotta; da principio contro l’aristocrazia, più tardi contro le parti della stessa borghesia i cui interessi vengono a contrasto col progresso dell’industria, e sempre contro la borghesia di tutti i paesi stranieri». A dimostrazione di questa tesi c’è la lotta di concorrenza tra fazioni borghesi dello stesso settore industriale, finanziario o commerciale, c’è la lotta di concorrenza fra uno Stato e gli altri Stati, c’è dunque la lotta non solo a livello politico ma anche militare. Ma più aumenta la lotta di concorrenza più si restringono gli ambiti del “libero commercio”, più si impongono politiche protezionistiche, non importa se dichiarate apertamente per quello che sono – come nelle parole di Trump – o confuse nei discorsi sulla concorrenza “leale”, sugli accordi commerciali, sulle sanzioni se gli accordi sottoscritti non vengono rispettati ecc.

All’inizio di questo secolo, nel 2002, Russia, Cina e India promossero la cooperazione tra di loro; si gettavano le basi per quel che è diventato poi il gruppo di paesi indentificato con l’acronimo BRICS: oltre a Russia, India e Cina si aggiunsero Brasile e Sudafrica. Si costituiva così un altro aggregato geoeconomico – oltre a quelli già esistenti dell’Unione Europea, del Mercosur, dei paesi del Nafta, dell’OCS e di tanti altri (9) – ma con una differenza non secondaria: i paesi del Brics, facendo parte di continenti diversi, non hanno una continuità territoriale, come invece negli altri casi citati, e questa disomogeneità territoriale non facilita la creazione di un mercato in un’area unica. Ciò non toglie che queste alleanze, e gli accordi che ne derivano, costituiscano dei dati di fatto che facilitano gli scambi commerciali e le diverse attività economiche fra i paesi membri, rappresentando delle entità di mercato che, al loro interno, attuano le stesse regole e perciò possono proporsi come ulteriori poli d’attrazione di capitali e, nello stesso tempo, come aree da difendere contro l’aggressione capitalistica da parte degli altri Stati o di altri “mercati”. Come dicevamo, per quanto i vari Stati borghesi firmino degli accordi e sottoscrivano dei vincoli ben precisi con gli alleati, nulla toglie che, in determinate situazioni di crisi, questi accordi vengano semplicemente strappati, rinnegati. Ancora una volta, le iniziative dell’amministrazione americana guidata da Trump, in particolare sui dazi, dimostrano che, nonostante la “globalizzazione”, il capitalismo ha sempre radici nazionali che vengono sempre protette dai rispettivi Stati nazionali. I rapporti di forza tra paese e paese poggiano sulla forza dell’economia nazionale di ciascun paese. Ben consci di questa realtà, i governanti delle grandi potenze imperialistiche possono anche illudersi di poter trovare delle soluzioni diplomatiche per attenuare i colpi sferrati dai paesi concorrenti, ma devono necessariamente rispondere agli interessi del capitalismo nazionale che devono difendere non solo in termini di quote di mercato mondiale e di valorizzazione dei capitali nazionali, ma anche con azioni preventive rispetto alle crisi che si presenteranno. E queste azioni preventive consistono sia nell’imporre con tutta la forza economica, politica e militare a disposizione, nuove regole e nuovi accordi, sia nel rafforzare in modo consistente gli armamenti a disposizione perché la guerra, non solo locale o regionale, ma mondiale, è sempre all’orizzonte.

Col suo sviluppo internazionale, il capitalismo, sui piani industriale, commerciale e finanziario, ha la tendenza a varcare il più velocemente e largamente possibile qualsiasi confine, qualsiasi barriera per battere la concorrenza; ogni Stato nazionale tende a penetrare economicamente e politicamente il più possibile all’interno degli altri Stati e, nello stesso tempo, a impedire che il proprio territorio nazionale diventi terreno di libera conquista da parte di altre realtà economiche, sotto forma di istituti bancari e di credito, di industrie o di Stati. A questa contraddizione la borghesia non riuscirà mai a sottrarsi ed è anche per questo che la classe dominante borghese ha bisogno di coivolgere le altre classi della società, e in particolare il proletariato, la classe dal cui lavoro salariato essa trae il plusvalore e, quindi, i profitti, oltre ad essere la più numerosa. Questo coinvolgimento le è necessario perché è solo dalla collaborazione di classe che riesce ad ottenere, all’interno del proprio paese, una compattezza sociale che le permette di organizzare l’intera vita sociale volgendola unicamente alla difesa degli interessi capitalistici e imperialistici che essa rappresenta, in tempo di pace come in tempo di guerra. Ed è esattamente sul piano della collaborazione di classe, o su quello dell’antagonismo di classe, che la borghesia e il proletariato giocano la loro sorte.

Con la collaborazione tra le classi che la borghesia persegue costantemente, e con ogni mezzo, non scompare l’antagonismo di classe che sorge dallo stesso modo di produzione capitalistico. Infatti, con la collaborazione tra le classi non scompare lo sfruttamento del lavoro salariato, non scompaiono le contraddizioni intrinseche al capitalismo stesso e che sono generate dai rapporti di produzione e di proprietà borghesi che entrano in contrasto sistematico con lo sviluppo delle forze produttive. Con la collaborazione tra le classi non scompaiono le classi, le differenze di classe o, come piace dire alla pubblicistica borghese, le diseguaglianze sociali; esse vengono nascoste, falsate, mimetizzate. Fa parte della propaganda borghese l’idea che la lotta per la libertà, l’uguaglianza, la fraternità riesca, grazie allo sviluppo economico e alla volontà politica che la democrazia metterebbe nelle mani del popolo elettore, a raggiungere un’armonia sociale nella quale ogni individuo possa soddisfare i suoi bisogni e i suoi desideri. Ma la forza oggettiva del modo di produzione capitalistico, che si basa sullo sfruttamento sempre più intenso del lavoro salariato e sulla produzione e riproduzione del capitale, rimette costantemente in discussione ogni velleità di uguaglianza e di fraternità: la società moderna è divisa in classi antagoniste, la classe borghese dominante e la classe proletaria dominata. Interessi comuni, in quanto classi sociali e non individui, non ne esistono. La lotta di classe, per quanto possa essere mitigata, soprattutto in periodi di espansione capitalistica, grazie agli ammortizzatori sociali, può anche non essere condotta dalla classe proletaria contro la classe borghese, ma è certamente condotta, costantemente, dalla classe borghese contro la classe proletaria, in termini di sfruttamento, di licenziamenti, di disoccupazione, di concorrenza tra proletari. La lotta tra le classi non ha tregua, anche perché se il proletariato non lotta con i suoi mezzi e metodi di lotta classista, la borghesia certamente non smette mai di lottare contro il proletariato. E’ questa una lotta che, storicamente, ha delle fasi di sviluppo ben precise, e che conduce ad uno sbocco inevitabile: la lotta rivoluzionaria del proletariato contro la borghesia per la conquista del potere politico, l’instaurazione della dittatura del proletariato e l’avvio alla trasformazione economica della società, a livello mondiale.

Per riprendere quanto sostenuto da Marx, nella famosa lettera a J. Weydemayer, la lotta di classe, e quindi l’antagonismo tra le classi in cui è divisa la società, non sono stati una sua scoperta. «Per quanto mi riguarda – scrive Marx – non a me compete il merito di aver scoperto l’esistenza delle classi nella società moderna e la loro lotta reciproca. Molto tempo prima di me, storiografi borghesi hanno descritto lo sviluppo storico di questa lotta delle classi ed economisti borghesi la loro anatomia economica. Ciò che io ho fatto di nuovo è stato: 1) dimostrare che l’esistenza delle classi è legata puramente a determinate fasi storiche di sviluppo della produzione; 2) che la lotta delle classi conduce necessariamente alla dittatura del proletariato; 3) che questa dittatura medesima non costituisce se non il passaggio all’abolizione di tutte le classi e a una società senza classi» (10). Determinate fasi storiche di sviluppo della produzione sono la base della formazione e dell’esistenza delle classi. Perciò, la classe borghese non poteva che formarsi ed esistere alla sola condizione di uno sviluppo storico della produzione sociale caratterizzato dall’ampliamento dei mercati e dallo sviluppo incessante della produzione industriale: l’economia di mercato, che è economia capitalistica, si basa sull’accumulazione di capitale, sulla sua produzione e riproduzione attraverso il lavoro salariato. Ma è questo stesso sviluppo economico e sociale che accentua la lotta di classe e che, generando crisi sempre più catastrofiche, pone storicamente il problema di una rivoluzione totale attraverso la quale la dittatura del capitale, la dittatura della classe borghese, viene abbattuta e sostituita dalla dittatura del proletariato, ossia dell’unica classe che, non possedendo nulla da difendere in questa società, è portatrice di un’organizzazione sociale non più divisa in classi antagoniste, di una società senza classi e, perciò, di un modo di produzione che al centro mette le esigenze degli uomini e non del capitale.

Nello sviluppo del capitalismo le crisi, invece di tendere a scemare e a scomparire, tendono a ripresentarsi e sempre più gravi e catastrofiche. Conquistando l’intero globo terracqueo, e creando nuovi mercati, il capitalismo, in realtà, non ha fatto che potenziare i fattori delle sue crisi che, in ultima analisi, sono sempre di sovraproduzione sebbene, all’inizio, come è successo con la crisi del 2007-2008, possano presentarsi come crisi finanziarie. E che si possono ripresentare a breve scadenza sono gli stessi “esperti” borghesi a paventarlo, ma con la preoccupazione che dalle crisi precedenti non si siano tirate le lezioni necessarie.

Ad esempio, Gordon Brown, premier britannico successore di Tony Blair, il cui governo venne investito e alla fine travolto dal terremoto finanziario globale innescato dal tracollo di Lehman Brothers, a 10 anni esatti da quei fatti, dichiara: «Questo è un mondo senza guida e io credo che la prossima crisi stia arrivando e che quando arriverà ci accorgeremo di non avere spazio di manovra fiscale o monetaria né la volontà di reagire. (...) Ma forse, la cosa più preoccupante è che non avremo neppure la cooperazione internazionale necessaria», necessaria per uscire dall’ipotetico nuovo buco nero finanziario. Di qui l’immagine del sonnambulismo: «Io ho la sensazione che stiamo camminando come sonnambuli verso una nuova crisi», Nel 2008, furono adottate misure di emergenza «coordinate» poiché, secondo Gordon Brown, c’era «fiducia» tra i vari governi e con le autorità di regolazione; mentre ora, insiste, «in mezzo alle discordie sul cambiamento climatico o sugli accordi nucleari, non c’è più spirito di cooperazione, ma divisione e protezionismo. E temo di vedere di fronte a una nuova crisi solo nazioni che cercheranno di scaricare le colpe le une sulle altre» (11).

L’incapacità della borghesia di risolvere le crisi capitalistiche è dimostrata dal fatto che i mezzi adottati non sono che nuove regole, nuove riforme per controllare di più l’attività bancaria e finanziaria. Come scrivevamo nel 2008, la borghesia non può vedere «che è il meccanismo fondamentale della produzione capitalista, la sua struttura economica che provoca inevitabilmente delle crisi sempre più violente fino a quando non vi è altra prospettiva che una nuova guerra mondiale per distruggere le forze produttive in sovrabbondanza e ricominciare un nuovo ciclo di accumulazione - a meno che la rivoluzione proletaria non rovesci il capitalismo» (12).

Resta il fatto che il capitalismo ultrasviluppato di questo secolo, attraverso l’intervento statale nell’economia – cosa non nuova, visto che il fascismo l’aveva già adottata a suo tempo, così come Roosevelt in America –, «è riuscito finora a frenare la crisi, ad ammortizzarla e a differire nel tempo le conseguenze» (13). Ma la borghesia non riuscirà per sempre a spostare nel tempo la crisi del capitalismo; tanto meno ci si può illudere che la decadenza del capitalismo porti gradualmente lo stesso capitalismo alla sua morte, alla sua autodistruzione.

Nessuna società di classe si è mai suicidata, e non lo farà nemmeno la società borghese. Come ammoniva Trotsky, più si avvicina il tempo della sua disfatta generale provocata dalla rivoluzione proletaria, più la borghesia decuplica le sue forze di resistenza per riconquistare il potere che la rivoluzione proletaria le ha tolto. Perciò, come Marx ribadiva, la lotta di classe del proletariato ha prospettiva storica soltanto nella effettiva conquista del potere politico e nella sua dittatura di classe. Per distruggere e seppellire il capitalismo ci vuole la rivoluzione proletaria e la sua dittatura di classe, guidata ed esercitata dal suo partito di classe. Altre strade portano solo alla restaurazione del potere borghese e al rinvigorimento del modo di produzione capitalistico.

 


 

(1) Cfr. il fatto quotidiano, 15.9.2018.

(2) Ibidem.

(3) Vedi il Libro terzo de Il Capitale di K. Marx, cap. XXVII, Ruolo del credito nella produzione capitalistica, UTET, Torino 1987, p.554, nota di F. Engels. E’ risaputo che grazie ad Engels e al riordino, alla ritrascrizione e, in diversi casi, al completamento che fece dei Quaderni scritti da Marx tra il 1864 e il 1865, vide la luce nel 1894 il terzo libro del Capitale. La citazione ora riportata è inserita nel testo, appunto come nota.

(4) Cfr. K. Marx, Il Capitale, Libro terzo, cit., p. 558.

(5) Vedi nota di F. Engels al cap. XXVII. Libro terzo de Il Capitale di K. Marx, cap. XXVII, cit. p.554.

(6) Cfr. il fatto quotidiano, 15.9.2018.

(7) Ibidem.

(8) Cfr. Malgrado le sue crisi, il capitalismo non crollerà se non sotto i colpi della lotta proletaria rivoluzionaria, “il comunista”, n. 110, novembre 2008.

(9) L’Unione Europea, nata nel 1993, sostituisce le precedenti organizzazioni comunitarie (CECA del 1951, CEE e Euratom del 1957) e, in seguito alle molteplici adesioni nel corso degli anni, ha aggregato 28 paesi, rimasti, in seguito alla decisione di Londra di staccare il Regno Unito dall’Unione Europea, in 27: oltre ai sei paesi fondatori dell’Europa occidentale – Belgio, Francia, Repubblica Federale di Germania, Italia, Lussemburgo e Pesi Bassi, via via hanno aderito, dal 1973 al 2013, Danimarca, Irlanda, Regno Unito, Grecia, Spagna, Portogallo, Austria, Finlandia, Svezia, Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Ungheria, Bulgaria, Romania e Croazia. Nell’Unione Europea si è creata poi, nel 1999, una Unione Economica e Monetaria Europea (in sintesi la Zona Euro) formata da 11 paesi (Austria, Belgio, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna) che hanno, per l’appunto, adottato l’euro come moneta unica. Il Mercosur (Mercato Comune del Sud), costituitosi nel 1991, vede invece come membri effettivi i seguenti paesi dell’America del Sud: Argentina, Bolivia, Brasile, Paraguay, Uruguay e Venezuela; e vede come paesi associati: Cile, Colombia, Ecuador, Guyana, Perù e Suriname. Il NAFTA (North American Free Trade Agreement) riunisce i tre paesi del Nord America, Stati Uniti, Canada, Messico che, nel 1992-94, hanno sottoscritto un Accordo di Libero Scambio tra di loro. L’OCS, o anche  SCO (Shanghai Cooperation Organization, Organizzazione per la Cooperaione di Shanghai) è stata costituita nel 2001 a Shanghai e comprende Cina, Russia e 4 paesi dell’Asia centrale (Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan), con l’obiettivo principale di fronteggiare il “terrorismo” nelle rispettive aree di confine – era l’epoca di al Qaeda e dell’attentato alle Torri Gemelle di New York – ma poi allargatasi alla cooperazione economica, in particolare sul piano energetico.

(10) Vedi Marx a Joseph Weydemeyer, 5 marzo 1952, in Marx-Engels, Opere complete, vol. XXXIX, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 537.

(11) Vedi Il Messaggero, 13.9.2018.

(12) Cfr. Malgrado le sue crisi, il capitalismo non crollerà se non sotto i colpi della lotta proletaria rivoluzionaria, cit.

(13) Ibidem

 

 

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