Il capitalismo mondiale di crisi in crisi (fine)

(«il comunista»; N° 157; Gennaio 2019)

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(le puntate precedenti sono apparse nei nn. 152, 155 e 156 de “il comunista”)

 

 

Il mese di dicembre 2018 è stato contrassegnato da un notevole calo degli indici di borsa (1); si è chiuso così un lungo periodo di crescita durante il quale i mercati finanziari hanno battuto record su record. E subito, gli economisti e i media hanno iniziato ad evocare preoccupati lo spettro di un ritorno della crisi economica. Gli analisti finanziari hanno avvertito della volatilità dei prezzi delle azioni e hanno consigliato cautela nell’investire nel mercato azionario.

Non c’è dubbio, tuttavia, che un rimbalzo degli indici farà rapidamente scomparire queste preoccupazioni: non appena ci sarà una possibilità di guadagno per i capitalisti, le richieste di prudenza svaniranno.

Queste variazioni delle quotazioni azionarie sono in parte dovute al rallentamento dell’economia globale e in parte all’aumento dei tassi di interesse. Per rispondere alla crisi del 2008, e fermare la recessione economica, le grandi banche centrali che governano la politica monetaria dei principali paesi e regolano il mercato internazionale dei capitali (Fed americana, BCE europea, Bank of England, Bank of Japan ecc.), hanno abbassato i tassi di interesse ad un valore vicino allo zero.

Poiché ciò non è stato sufficiente, hanno fatto ricorso a una politica chiamata, nel gergo dei banchieri, “allentamento quantitativo” (quantitative easing*), iniettando denaro per centinaia di miliardi nell’economia; non si trattava solo di ripristinare il sistema finanziario scosso da una crisi di liquidità provocata dalla crisi, ma anche di stimolare l’economia con denaro prestato quasi gratuitamente alle banche, che poteva prestarlo a loro volta agli “agenti economici” (aziende, singoli imprenditori).

Drogate dal denaro facile, le economie nazionali e l’economia mondiale sono state in grado di recuperare economicamente, sebbene non uniformemente a seconda dei paesi e, nonostante l’enormità del rimedio, in generale debolmente rispetto alle precedenti situazioni simili.

Ma questa politica non può mai durare in eterno perché, prima o poi, rischia di portare a scoppi inflazionistici (essendo la quantità di denaro circolante maggiore della quantità di beni di cui dovrebbe essere l’equivalente, il suo valore è destinato a diminuire) e, d’altra parte, perché priva le autorità finanziarie del loro principale strumento - la caduta dei tassi di interesse - nei casi di ritorno della crisi. Si rende quindi necessario porvi fine al più presto possibile: è ciò che la Banca Centrale Americana (la “Fed”) sta facendo prudentemente da un po’ di tempo, sollevando le critiche di Trump. Abbiamo già avuto occasione di ricordare che la politica delle Banche Centrali ha comportato il gonfiarsi del debito dei singoli imprenditori, delle aziende e degli Stati. La fine della creazione monetaria e l’aumento dei tassi di interesse per riportarli a un livello normale, non possono essere imposti brutalmente perché altrimenti c’è il rischio di causare lo scoppio della bolla del credito formatasi nel corso degli anni – che, a sua volta, innescherebbe la crisi che vogliono evitare.

Il marxismo lo afferma  da sempre: i rimedi per superare una crisi sono i germi di crisi future più acute. Quali sono questi germi sul piano finanziario?

 

DEBITO SENZA PRECEDENTI

 

Secondo un rapporto dell’Institute of International Finance (associazione di grandi banche e altri istituti finanziari), pubblicato lo scorso luglio, il debito globale (contenente i dati aziendali, finanziari e non finanziari, dello Stato ecc.) delle imprese ha raggiunto un livello senza precedenti: è passato da 84 trilioni di dollari nel 2000, a 174 trilioni di dollari nel 2008 al momento della crisi e a 250 trilioni di dollari oggi (2).

Altre cifre indicano i 5 paesi che hanno il debito statale più grande del mondo: sono prima di tutto gli Stati Uniti, con 19.947 miliardi di dollari, che rappresentano quasi un terzo del “debito sovrano”, cioè degli Stati, (32%) ed è equivalente al 107% del loro prodotto interno lordo (PIL); poi il Giappone, con 11.800 miliardi (il 18,8% del debito mondiale, il 259,3% del suo PIL); segue la Cina con 4.975 miliardi (7,9% del debito mondiale, 44,3% del PIL); l’Italia con 2.445 miliardi (3,9% del debito mondiale, 132,6% del PIL); infine la Francia con 2.375 miliardi (3,8% del debito mondiale, 96,3% del PIL) (3).

Finora, gli Stati sono stati in grado di prendere in prestito a basso prezzo sui mercati finanziari le somme necessarie per finanziare i loro disavanzi grazie ai bassi tassi di interesse; ma se e quando questi tassi aumenteranno, il peso e il servizio del debito (4) diverranno presto un pesante fardello per le loro economie (un peso che naturalmente cadrà sui proletari). L’indebitamento degli Stati è dunque una bomba ad orologeria che inevitabilmente esploderà un giorno o l’altro se questi non riescono ad assorbire il loro debito in tempo – cosa che tarda ad avvenire.

Accanto a questo debito degli Stati, detto “sovrano”, che, trent’anni fa, era solo un problema per gli Stati del cosiddetto “Terzo Mondo”, esiste il debito dei singoli e delle aziende.

Va  ricordato che, nel 2007, la crisi dei subprime che ha innescato la Grande Recessione si è concentrata sull’inde-bitamento personale; oggi, il suo equivalente negli Stati Uniti è l’indebitamento dei giovani per seguire i loro studi. Ma è il debito delle aziende il più preoccupante a livello mondiale. È infatti aumentato grazie al denaro facile (era l’obiettivo cercato) per raggiungere  a livello mondiale, secondo le ultime cifre conosciute, i 75 trilioni di dollari – senza che vi siano una produzione e un flusso di merci corrispondenti.

L’I.I.F. sottolinea in un altro rapporto (5) che questo indebitamento è particolarmente pericoloso in caso di aumento dei tassi di interesse. È l’aumento dell’in-debitamento delle aziende cinesi che spiega una buona parte dell’aumento complessivo. Secondo l’I.I.F., sono le società del Canada, dell’India e del Messico che hanno un rapporto debito/PIL particolarmente elevato in relazione al loro fatturato; e una “proporzione significativa” di aziende brasiliane, americane, canadesi e messicane è già in difficoltà nel pagare i propri debiti. Tuttavia, un terzo delle società americane, francesi e cinesi è così indebitato che avrebbe difficoltà a evitare la bancarotta se i tassi di interesse salissero bruscamente...

 

IL PETROLIO, MATERIA PRIMA FONDAMENTALE PER L’ECONOMIA MONDIALE

 

Contrariamente a quanto si potrebbe credere, il petrolio rimane la più importante fonte di energia e lo sarà ancora per molto tempo: nel 2017 il petrolio rappresentava il 35% del consumo energetico globale, il gas naturale il 24%, il carbone, una fonte di energia altamente inquinante ma resiliente, il 28%, l’energia idroelettrica il 7%, l’energia nucleare il 4,5% e, infine, le cosiddette “energie rinnovabili” non rappresentavano che il solo 3,7% (6).

Nonostante le pesanti conseguenze del loro utilizzo in termini di inquinamento e danni all’ambiente, la produzione e il consumo di petrolio e gas hanno continuato ad aumentare nel 2017 e così anche per il carbone. Rispetto al 1970, si constata addirittura una grande stabilità in quasi mezzo secolo: la quota di carbone sarebbe leggermente aumentata (dal 26 al 28%) e la quota di petrolio e gas sarebbe leggermente diminuita (da 60 a 59%).

Il petrolio è in effetti una fonte di energia che rimane a buon mercato: è il fattore fondamentale per il capitalismo, sempre alla ricerca dell’energia più economica per aumentare i suoi profitti. Tanto peggio per le vittime fra la popolazione di cui parlano regolarmente i media!

Secondo un recente rapporto dell’Agenzia Europea per l’Ambiente, l’inquinamento atmosferico, in particolare delle particelle fini emesse dalla combustione di prodotti petroliferi, è responsabile di centinaia di migliaia di morti “premature” (essendo all’origine di malattie respiratorie, di tumori ecc.) (7); ma quando, come in Francia, un governo aumenta le tasse sul gasolio con il pretesto della transizione ecologica, lo fa ovviamente per riempire le casse dello Stato: al capitalismo l’ecologia e la salute della popolazione interessano solo quando non sono in conflitto con il buon funzionamento del capitalismo stesso; o quando il danno all’ambiente, come in Cina, diventa così grave da ostacolare questa economia.

Si capisce, quindi, come mai il petrolio sia una risorsa strategica sempre fonte di conflitti e guerre per l’appropriazione o il controllo: è vitale per il capitalismo, come lo era il carbone più di un secolo fa. Le sue variazioni di prezzo sul mercato mondiale hanno sempre un significato e conseguenze pesanti.

Segnale di un rallentamento della domanda economica globale, il prezzo del petrolio, in aumento da oltre un anno, è calato bruscamente nelle ultime settimane: il greggio statunitense, uno dei parametri di riferimento, che aveva raggiunto i 77 dollari al barile all’inizio di ottobre era sceso a 43 dollari al barile alla fine di dicembre, con un calo di circa il 45% (8). Segno che la domanda di petrolio è diminuita, e gli incontri tra i paesi OPEC e la Russia per ridurre la loro produzione non sono stati finora in grado di aumentare i prezzi; e non lo sono state neppure le sanzioni americane contro l’Iran e contro i paesi che avrebbero commerciato con questo grande esportatore di petrolio.

È vero, d’altra parte, che le autorità statunitensi hanno esentato dalle sanzioni la Cina, che è il principale cliente del petrolio iraniano, nonché la Turchia, l’India, il Giappone e la Corea del Sud, che rappresentano quasi l’80% delle vendite di petrolio di Teheran. Forse pensano che la caduta dei prezzi sia un colpo sufficiente per l’economia iraniana e che quindi non sia necessario aumentare le tensioni con questi altri paesi? In effetti, il nuovo crollo del prezzo del barile è una cattiva notizia per i paesi le cui esportazioni di petrolio sono la prima risorsa, dall’Algeria alla Nigeria, dai paesi del Golfo Persico alla Russia, per non parlare del Venezuela. Secondo le stime dell’FMI, il prezzo di un barile di petrolio necessario per equilibrare il bilancio statale sarebbe di 223 dollari per il Venezuela, 124 per la Nigeria, 105,7 per l’Algeria, 88 per l’Arabia Saudita, 68 per l’Iran, 54 per l’Iraq, ma solo 40 dollari per la Russia (9).

 

RECESSIONE DEI PAESI “EMERGENTI”

 

Le attuali scosse nell’economia globale, che si tratta del rischio di guerra commerciale, del flusso e riflusso di capitali in cerca della migliore valorizzazione, o delle variazioni nei prezzi delle materie prime, si ripercuotono fortemente su un certo numero di paesi detti “emergenti”, compresi alcuni che, non molto tempo fa, erano considerati campioni di crescita. Abbiamo già consacrato vari articoli alla situazione di crisi in cui sono precipitati il Venezuela, l’Argentina e il Brasile, i tre paesi più importanti dell’America Latina, e non ne parleremo qui. Analizzeremo, invece, rapidamente altri paesi che si dibattono fra le difficoltà economiche.

 

E’ il caso della Turchia.

Con oltre 80 milioni di abitanti, la Turchia è la quindicesima potenza economica del mondo, la prima del Medio Oriente. Nel 2017 aveva registrato un tasso di crescita del 7,4%, il migliore dopo 4 anni. L’economia turca è stata sostenuta dai capitali internazionali alla ricerca di investimenti redditizi e da una politica economica espansiva basata sul ricorso al credito. Lo Stato ha moltiplicato gli investimenti con prestiti a basso prezzo sui mercati finanziari internazionali e con l’allargamento del deficit di bilancio (5,5% del PIL). La Turchia ha quindi uno dei più alti deficit di bilancia dei pagamenti nel mondo.

La conseguenza di questo massiccio ricorso al prestito è stata il deprezzamento della valuta nazionale; inizialmente ha facilitato le esportazioni, ma ha anche innescato un picco dell’inflazione, che ha raggiunto il 25% lo scorso ottobre. La fuga dei capitali esteri di fronte agli squilibri finanziari del paese ha causato un abbattimento del valore della lira turca del 47% nei confronti del dollaro (facendone una delle valute più deboli del mondo), anche se il 60% del debito turco è stato sottoscritto in dollari ed è, in gran parte, a breve termine. Secondo alcune stime, la Turchia dovrebbe prendere in prestito nei prossimi mesi una somma equivalente a un quarto del suo PIL annuale (10!

Il governo turco ha attribuito i problemi economici a un attacco dall’estero; nega che il paese sia in recessione, contando per questo sui ricavi record del turismo o sulla buona performance delle esportazioni durante l’anno. Ma i fatti resistono ai discorsi. Le cifre pubblicate a dicembre per la produzione industriale indicano un calo di quasi il 6% in ottobre. Il settore automobilistico è uno dei pilastri dell’economia turca; occupa circa 500.000 persone e ha raggiunto un livello di produzione record nel 2017 (oltre un milione di veicoli). Ma, alla fine del 2018, è crollato: -21% in novembre rispetto all’anno precedente. Gli analisti prevedono che la produzione di acciaio, di cui la Turchia è l’ottava maggiore produttrice al mondo, di fronte a un crollo del mercato interno, alle imposte sulle esportazioni negli Stati Uniti e alla concorrenza cinese, quest’anno dovrebbe scendere del 30%...

Nonostante la difficile situazione dovuta alla repressione del regime, diverse dimostrazioni che hanno coinvolto migliaia di lavoratori ad Ankara e altrove hanno avuto luogo alla fine dell’anno contro il peggioramento del tenore di vita e le migliaia di persone licenziate dal colpo di stato mancato.

 

LA CRISI IN AFRICA

 

La Nigeria, la più grande potenza economica del continente secondo le cifre del suo PIL, e la più popolata (190 milioni di abitanti), è strettamente dipendente dal petrolio di cui è il decimo produttore mondiale: il petrolio rappresenta il 95% delle sue esportazioni e l’80% delle entrate fiscali dello Stato. Il calo dei prezzi nel 2016, combinato con il calo della produzione locale, ha fatto precipitare il paese nella peggiore recessione degli ultimi 25 anni, da cui ha cominciato a risalire con l’aumento dei prezzi a partire dalla metà del 2017. La crescita dell’economia, tuttavia, è stata solo dello 0,8% in quell’anno; ma questo è stato sufficiente al governo, come al FMI e alla Banca mondiale, per affermare, all’inizio del 2018, che la ripresa si sarebbe accelerata. Si è verificato esattamente il contrario, già nel primo trimestre; la Banca Centrale della Nigeria avvertiva alla fine di marzo che il paese rischiava di tornare in recessione, mentre gli economisti affermavano che “l’89% dell’economia è ancora in recessione”. Alla vigilia delle elezioni presidenziali, che si terranno nel febbraio 2019, tuttavia, il governo e le istituzioni ufficiali continuano a diffondere la leggenda della ripresa economica. Ma le cifre ufficiali indicano un forte aumento della disoccupazione: il suo tasso ha raggiunto il 23,1% nel terzo trimestre del 2018 e, se si aggiunge la “sottoccupazione”, si arriva ad un totale del 43,3% (55 % per i “giovani”), mentre l’inflazione è stata registrata al 13% (15% per i prodotti alimentari). (11).

Il crescente malcontento tra i lavoratori ha costretto il National Labour Congress e altre centrali sindacali ad annunciare uno sciopero generale indefinito del Settore Pubblico a partire dall’8 gennaio, dopo che il governo non aveva sottoposto al parlamento una legge sull’aumento del salario minimo mensile da 18.000 a 30.000 Nairas (73 euro). I governatori di alcuni Stati (la Nigeria ha una struttura federale) avevano protestato perché non potevano pagare un tale salario; i funzionari locali nello Stato di Zamfara, ad esempio, sono pagati solo 6.000 Nairas.

I sindacati hanno adottato la rivendicazione di 30.000 Nairas, anche se l’anno scorso avevano richiesto un salario minimo di 56.000 Nairas (135 euro). Le maggiori confederazioni sindacali, da brave organizzazioni collaborazioniste, cercano di evitare di mettere in atto la loro minaccia di sciopero. Nel novembre scorso avevano annullato il precedente sciopero generale con il pretesto che la “Commissione Tripartita” – organismo di collaborazione di classe che riunisce i rappresentanti dei sindacati, delle organizzazioni dei datori di lavoro e del governo – avrebbe presentato al Presidente della Repubblica le varie proposte (il governo e i datori di lavoro avevano proposto un salario minimo di 24.000 Naira). Non sorprende quindi che stiano lavorando per diffondere tra i lavoratori l’illusione che le prossime elezioni presidenziali siano il modo per ottenere un miglioramento delle loro condizioni.

 

Il Sudafrica è lo stato più industrializzato in Africa. La potenza del suo settore minerario con diverse multinazionali gli ha permesso, con il supporto cinese, di essere integrato, nel 2011, nel “BRIC”, il gruppo imperialista di paesi “emergenti” che include il Brasile, la Russia, l’India e la Cina (che fa anche parte del G20, il “club” delle 20 potenze mondiali più influenti). Il Sudafrica ha attraversato una profonda recessione durante la crisi capitalista globale del 2008, che ha causato un forte calo del prezzo delle materie prime di cui è un grande produttore; da allora non è tornato alla crescita del periodo precedente. Alla fine del 2016, per alcuni mesi, ha vissuto una recessione che ha dato luogo a una debole ripresa nel 2017.

Mentre il governo si aspettava una crescita economica, l’Ufficio di statistica annunciava ufficialmente a settembre che il paese era di nuovo entrato in recessione, attribuendola alla siccità, che ha portato a un calo della produzione agricola. Tuttavia, anche la produzione industriale è in calo; infatti, nel terzo trimestre del 2018 (ultimi dati), la produzione mineraria è diminuita di quasi il 9% su base annua: la recessione sudafricana non è quindi dovuta a cause esterne incontrollabili, ma al sistema capitalista mondiale in cui il paese è pienamente integrato.

Secondo un rapporto della Banca Mondiale che esamina 149 paesi (12), il Sudafrica è il più ineguale di tutti: l’1% più ricco possiede il 71% della ricchezza del paese, mentre il 55% dei suoi 56 milioni di abitanti vive al di sotto della soglia di povertà (reddito mensile inferiore a 60 euro), e il 25% di essi vive in “estrema povertà” – un reddito inferiore ai 28 euro che non permette di soddisfare i bisogni alimentari di base. Le disuguaglianze sono, in generale, aumentate dal 2011 e la “disuguaglianza di consumo” dal 1994 (fine dell’apartheid). Il rapporto scrive che il paese risente ancora dell’eredità dell’apartheid; infatti, il capitalismo sudafricano ha liquidato le strutture politiche dell’apartheid, ma per meglio consolidare, dietro la maschera della democrazia, l’apartheid economico caratteristico del capitalismo.

La crisi economica sta esacerbando questa situazione. La disoccupazione ha raggiunto il 27,5% nel terzo trimestre del 2018 (39% nella fascia 15-34 anni), il livello più alto degli ultimi 15 anni. L’industria ha tagliato più di 100.000 posti di lavoro dall’inizio dell’anno e i servizi, compreso il governo, ne hanno tagliati oltre 90.000.

Ma i proletari sudafricani, che hanno una ricca esperienza di lotte, hanno reagito e reagiscono al deterioramento delle loro condizioni di vita e di lavoro. Secondo il Ministero del Lavoro, il 2017 è stato un anno record per il numero di scioperi: 132 con 125.000 scioperanti (rispetto a 122 scioperi e 90.000 scioperanti nel 2016), ma più della metà degli scioperi erano “protetti”, il che significa che i loro gli organizzatori – i sindacati ufficiali – avevano rispettato il preavviso di 30 giorni e il ricorso alla “Commissione di mediazione e arbitrato”; l’anno precedente, il 60% degli scioperi era “non protetto”, cioè non rispettava queste procedure imposte per limitare il diritto di sciopero, il che rende gli scioperanti soggetti a varie sanzioni, tra cui il licenziamento.

Sembra che entro nel 2018 il numero di scioperi e di scioperanti sia stato significativamente più alto. Ad aprile la Confederazione sindacale SAFTU, dissidente del COSATU collegato all’ANC al potere dal 1994, la cui componente principale è il sindacato dei metalmeccanici NUMSA, ha organizzato uno sciopero generale che ha avuto un ampio seguito. La rivendicazione centrale è stata uno stipendio mensile minimo di 12.500 rand (785 euro); i governi, i padroni e i sindacati filocapitalisti (COSATU, FEDUSA ecc.) hanno raggiunto un accordo per un salario minimo di 3.500 rand (220 euro) per la durata legale di 45 ore di lavoro a settimana, vale a dire 20 rand all’ora (1,25 euro); questo accordo è stato tradotto in legge dal 1° gennaio. Inoltre, sono previste esenzioni fino a un anno per l’applicazione di questo salario minimo per le piccole e medie imprese. Un’altra rivendicazione della SAFTU è l’abrogazione delle nuove restrizioni al diritto di sciopero che sono incluse in questa legge.

Nel 2018 hanno avuto luogo altri scioperi, il più importante dei quali è stato senza dubbio lo sciopero nazionale dei lavoratori delle materie plastiche, organizzato dalla NUMSA a metà ottobre; più di 30.000 lavoratori hanno partecipato a questo movimento, che ha coinvolto oltre 450 aziende del settore. La rivendicazione principale era il mantenimento della vecchia tariffa minima di 40 rand all’ora mentre i capi avevano deciso di abbassare i salari a 20 rand, il mantenimento di alcuni premi, 4 settimane di ferie retribuite, il pagamento degli straordinari, la parità di retribuzione per tutti (i datori di lavoro hanno deciso di ridurre gli stipendi del 10% in società con sede al di fuori delle grandi città) ecc. In alcuni casi i capi hanno usato milizie private che hanno sparato proiettili di gomma contro i lavoratori in sciopero. Durante questo sciopero, che era ancora in corso alla fine di dicembre, uno scioperante è stato ucciso ed altri feriti, ma diversi capi sono stati picchiati dagli scioperanti e uno di loro è morto; anche una guardia è stata uccisa dagli operai.

Il proletariato sudafricano, che ha di fronte una classe dominante e uno Stato particolarmente feroci, dimostra di possedere un grande spirito combattivo. Avrà bisogno, in collegamento con il proletariato degli altri paesi africani e del mondo, di ricostituire il partito di classe internazionale, di passare dalla lotta di resistenza immediata alla lotta politica rivoluzionaria per rovesciare il capitalismo e stabilire il proprio potere dittatoriale.

 

Il Sudan in fiamme

 

Il Sudan è uno dei paesi più estesi e in gran parte desertici dell’Africa. Popolato da 43 milioni di abitanti, ha visto, con la secessione della parte meridionale (costituitasi in Stato indipendente nel 2011), scomparire la sua risorsa più importante, il petrolio, di cui il 75% della produzione si effettua nel sud. La guerra civile nel Sud Sudan gli ha anche fatto perdere i diritti  riscossi per il transito di questo petrolio, e il recente calo dei prezzi del petrolio ha peggiorato le cose. Fortemente indebitato, il paese è considerato uno dei più corrotti al mondo; secondo le informazioni rivelate da Wikileaks, l’inamovibile presidente Omar Al-Bashir, al potere dopo un colpo di stato nel 1989, ha piazzato 9 miliardi di dollari d’argento nelle banche occidentali.

Per rimanere a galla, il governo sudanese, in passato legato all’Iran, si è avvicinato al suo vecchio nemico, l’Arabia Saudita, inviando persino alcune centinaia di soldati a combattere nello Yemen. Come ricompensa, l’Arabia Saudita avrebbe promesso di prestare  5 miliardi di dollari e gli Stati Uniti hanno revocato da anni le sanzioni al Sudan. Ma soprattutto, il governo ha colpito con una drastica politica di austerità la popolazione.

Nella cosiddetta “primavera araba”, nel 2011, il Sudan aveva anche conosciuto delle manifestazioni antigovernative. La loro repressione ha determinato circa 2.000 arresti. Nel 2013, gli aumenti dei prezzi di benzina e dei beni di consumo hanno dato fuoco alle polveri, provocando un’ondata di manifestazioni di protesta. Un sanguinoso giro di vite – 200 morti, centinaia di feriti e arresti – ha soffocato il movimento.

All’inizio del 2018, in seguito all’abolizione di alcune sovvenzioni nel quadro delle misure di austerità decise con il FMI, il prezzo della farina è triplicato e quello del pane è raddoppiato. Le numerose dimostrazioni poi scoppiate sono state severamente represse; un manifestante è stato ucciso dalla polizia e molti altri arrestati.

Nel novembre 2018, si sono svolti colloqui con una delegazione del FMI: l’assistenza finanziaria sarebbe stata concessa in cambio di ulteriori tagli alle sovvenzioni per ripristinare “l’equilibrio delle finanze pubbliche”. Il 18 dicembre sono stati annunciati nuovi aumenti di prezzo del pane (da 1 a 3 sterline sudanesi) e dei prodotti alimentari di base. Oltre all’inflazione stimata a quasi il 75%, questi aumenti hanno innescato un’ondata senza precedenti di manifestazioni: fame per le fasce più povere della popolazione per risanare le finanze dello Stato, questa è la politica decisa dal regime e dai suoi consulenti internazionali! I manifestanti, che hanno bruciato alcune sedi del partito di governo, hanno risposto così per ottenere la caduta del regime. La repressione poliziesca delle proteste, che sono ancora in corso al momento in cui scriviamo, ha fatto finora decine di morti.

 

*      *      *

 

Nel 2016, il capitalismo mondiale è riuscito a superare la crisi economica che si era manifestata alla sua periferia, ma sembrava dover toccare il cuore (dove risiede la vera causa); i paesi imperialisti dominanti erano riusciti a circoscrivere la malattia attraverso la droga del credito e dell’ indebitamento. Questo non sarà sempre possibile. La crisi colpirà inevitabilmente le metropoli imperialiste, scuotendo lo status quo sociale e politico. Episodi come i gilet gialli di oggi in Francia sono anticipazioni di quanto accadrà allora.

Il proletariato dovrà riuscire a trovare la forza per riprendere il cammino della lotta di classe e, in solidarietà con i suoi fratelli di classe nei paesi già in crisi, per attaccare il capitalismo mondiale.

 


 

* Quantitative Easing: indica una politica monetaria non convenzionale adottata dalla Banca Centrale Europea al fine di finanziare l’acquisto di titoli pubblici e privati dell’area euro. L’obiettivo di tale programma è quello di iniettare liquidità nel sistema economico. Questa iniezione di liquidità ha, come scopo principale, di garantire la stabilità dei prezzi, cioè un tasso di inflazione al di sotto ma vicino ai due punti percentuali, contrastando così la contrazione della domanda con relativi impatti negativi in termini di produzione e, perciò, di valorizzazione del capitale.

(1) Dicembre è stato il mese peggiore per il mercato azionario di Wall Street dalla crisi degli anni Trenta, ma anche le Borse cinese, italiana, tedesca e giapponese sono state duramente colpite.

(2) Bloomberg Markets, 10/7/2018.

(3) World Economic Forum, 9/5/18. I paesi seguenti sono Germania e Gran Bretagna.

(4) Le cifre del carico (o, service) del debito sono particolarmente difficili da ottenere, le statistiche correnti non forniscono che delle indicazioni del debito in rapporto al PIL; ma questo è di interesse solo relativo, la cosa importante è l’ammontare delle cifre dei pagamenti che devono essere effettuati ogni anno da uno Stato per pagare questo debito. In Francia, questa è la seconda voce del bilancio (dopo l’istruzione e prima delle spese militari): 42 miliardi di euro, quasi il 10% della spesa pubblica.

(5) Reuters, Business News, 28/11/2018.

(6) Cfr. BP Statistical Review of World Energy, giugno 2018. Le stime dell’Agenzia internazionale per l’energia (World Energy Statistic, settembre 2018) sono diverse, soprattutto in termini di energia idroelettrica, ma non cambia il quadro generale.

(7) Vedi “L’inquinamento atmosferico rimane alto in tutta l’Europa”, Agenzia europea dell’ambiente, 29/10/2018.

(8) Ci sono due riferimenti ai prezzi del petrolio: il greggio del Texas (West Texas Intermediate) e il Brent del Mare del Nord, che è un po’ più costoso (è passato nello stesso periodo da 86 a 52 dollari).

Come spiegato dalla teoria marxista della rendita, il prezzo dei campi meno produttivi, vale a dire quelli in cui il petrolio è più costoso da produrre (il riferimento è storicamente rappresentato dai pozzi texani che sono in via di esaurimento e le piattaforme petrolifere nel Mare del Nord, anch’esse in via di esaurimento), determina il prezzo di mercato complessivo; in effetti questi giacimenti, la cui produzione è necessaria per soddisfare la domanda globale, sono messi in funzione solo se consentono un tasso di profitto pari al tasso medio di profitto nel resto dell’economia. Rispetto a questi, i giacimenti più produttivi – in primo piano quelli del Golfo Persico – registrano un profitto supplementare, che è la loro rendita. C’è anche, dice Marx, un costo aggiuntivo che è una diretta conseguenza dell’economia di mercato.

(9) La Tribune, 21/6/2018.

(10) Les Echos, 3/4/2018.

(11) Cfr. National Bureau of Statistic, Key Indicators 22/12/2017. “89% of Nigeria’s Economy Still in Recession”, https:// allafrica. com/stories/ 201802140004.html

(12) “Overcoming Poverty and Inequality in South Africa” (Superare la povertà e la disuguaglianza in Sud Africa), Banca Mondiale, marzo 2018. I dati utilizzati nel rapporto datano 2015, ma da allora non è cambiato nulla, se non in peggio.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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