La violenza contro le donne è congenita con la società divisa in classi, e potrà essere sradicata soltanto nella società socialista

(«il comunista»; N° 157; Gennaio 2019)

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Non passa giorno che le donne non siano oggetto di violenza, da quella economica a quella fisica, a quella psicologica. In un paese come l’Italia, che si vanta di essere una culla della cultura, della civiltà, dell’armonia di ogni forma d’arte, dove la democrazia e i diritti della persona sono santificati quotidianamente,  negli ultimi 5 anni, sono state uccise, ufficialmente, secondo l’Agi, 794 donne: in pratica, una ogni 2 giorni e mezzo. E gli assassini per la maggior parte sono i loro partner, o i loro ex partner, o loro familiari. Ma dato che i maltrattamenti, le molestie, lo stalkin,g le intimidazioni o le attenzioni indesiderate verso le donne, per la maggior parte non vengono denunciate, per paura o per vergogna, non crediamo di essere lontani dal vero se diciamo che almeno una volta nella vita ogni donna ne è stata vittima.

Non sono le statistiche, comunque, che possono confortare o impensierire a seconda che la percentuale di uccisioni o di maltrattamenti e molestie aumentino o diminuiscano nell’arco di un anno rispetto a quello precedente.

La violenza sulle donne è antica e profonda, quanto l’apparizione delle società divise in classi, a partire dalla società schiavistica. Ma col progresso del modo di produzione e, quindi dell’organizzazione sociale nel suo complesso, giungendo fino alla società odierna, alla società capitalistica, la violenza sulle donne non è diminuita, né scomparsa, anzi è progressivamente aumentata. La radice della violenza non va cercata nell’animo umano, nella cattiveria personale, nella follia momentanea o perdurante: va cercata nei rapporti economici e sociali che sono alla base della società. Più i rapporti economici e sociali sono determinati dalla forza e dalla violenza con cui si sono imposti e più questa violenza si esprime nei rapporti interpersonali, sia essa di carattere direttamente economico o di gruppo sociale, di carattere psicologico o politico, religioso o giudiziario o razziale. Il progresso umano poteva avvenire senza violenza? No, la storia dell’uomo, al pari di quella della natura, è fatta di movimento, di scontro, di forze che prevalgono su altre forze; lo sviluppo di queste forze non è che una forma di violenza applicata nelle determinazioni materiali che, per quanto riguarda l’uomo e la sua organizazione sociale, si basano su fatti economici, ossia sull’organizzazione della sopravvivenza dei gruppi umani intrecciata con i modi di produzione che la assicurano. Con l’apparizione delle società divise in classi, grazie al progresso del modo di produzione che si emancipa dalla semplice raccolta dei prodotti della terra per organizzare una produzione atta a contemplare delle riserve per la sopravvivenza per gruppi umani più numerosi in periodi di scarsi prodotti spontanei della terra, si impone, ad un certo punto, la proprietà da parte di alcuni gruppi umani di quelle riserve; e questa proprietà, all’origine comunistica, si trasformerà, con lo sviluppo dei mezzi di produzione, in proprietà privata. La violenza che serviva direttamente nel rapporto fra uomo e natura per la sopravvivenza si eleva a violenza tra gruppi umani, e la divisione del lavoro atto alla produzione genera, ad un certo punto dello sviluppo sociale, la sopraffazione del genere maschile, dotato di forza muscolare e non condizionato da gravidanze e parti, su quello femminile, predisposto naturalmente alla riproduzione della specie e alla cura dei figli. Le società divise in classi, nel loro progredire, non hanno attenuato ma hanno ancor più approfondito la sopraffazione maschile nei confronti del genere femminile.

Nel capitalismo, che si è imposto con estrema violenza perché, per svilupparsi, doveva distruggere vincoli e ostacoli economici, sociali e politici che duravano da molte centinaia d’anni, si sono certamente fatti strada dei progressi su tutti i piani: nella produzione, nelle ricerche, nella tecnica, nelle scienze, nella conoscenza in generale. Tutto ciò che poteva essere utile per far funzionare la macchina produttiva capitalistica, per innovarla e renderla sempre più produttiva e competitiva, era benvenuto; come lo era tutto ciò che contribuiva ad aumentare il profitto capitalistico, dalla piccola manifattura alla grande multinazionale. Ma tutto l’enorme progresso che distingue il capitalismo dai modi di produzione precedenti non poteva imporsi se non con la più grande e cinica violenza: nelle espropriazioni delle terre, nella riduzione di masse sempre più numerose e di interi popoli in schiavi del capitale, nelle guerre di conquista, nell’aggressione della natura e dell’ambiente per strappare loro tutto quel che poteva e può servire per l’industria capitalistica e per il suo sfrenato sviluppo, tenendo conto del ritorno di profitto e non dell’equilibrio ambientale.

La violenza nel rapporto di produzione capitalistico si manifesta nel fatto che il capitalista possiede tutto (e non per dono divino) e il lavoratore salariato non possiede nulla, è un senza riserve e l’unica cosa di cui dispone  è la sua forza lavoro, cioè l’unica cosa che interessa realmente al capitalista perché dal suo sfruttamento trae il suo profitto. In termini marxisti, dallo sfruttamento della forza lavoro salariata il capitalista estorce (è un atto di violenza quotidiano, mistificato dallo scambio tra “lavoro” e “salario”) il plusvalore, ossia quella parte di tempo di lavoro che non viene sistematicamente pagata al lavoratore. Ma il capitalismo è anche sovrastruttura giuridica e politica, cioè il complesso di leggi che regolano e difendono la proprietà privata, sulla base della quale il capitalismo è definito dal marxismo come il regime dell’appropriazione privata della ricchezza sociale prodotta dal lavoro salariato. L’estorsione che si attua nel quotidiano sfruttamento della forza lavoro si estende all’estorsione sociale. Tutto questo si mantiene in piedi solo con la violenza della classe dominante borghese che, con la sua rivoluzione, ha conquistato il potere sostituendo lo Stato precedente con lo Stato moderno, organismo politico e militare al servizio esclusivamente del capitalismo.

Lo stesso sviluppo capitalistico ha ingoiato anche le donne, e i fanciulli, nella vorace macchina produttiva, sfruttando anche la forza lavoro femminile e minorile. Se al capitalista non importa il colore dei soldi – basta che siano soldi – non importa nemmeno se un determinato lavoro lo fa l’uomo o la donna, o addirittura il ragazzo: l’importante è che l’impiego della forza lavoro femminile o minorile risulti conveniente. Non solo. Dato che la posizione della donna nella società non è per niente paritetica, la donna è sfruttata allo stesso modo dell’uomo ma pagata meno. Se nelle società precapitalistiche, anch’esse maschiliste, la donna subiva in generale solo l’oppressione di genere, nella società capitalistica la donna subisce una doppia oppressione: quella domestica, di genere, e quella salariale.

La lotta perciò contro la violenza sulle donne non può tener conto soltanto della violenza di genere, perché in realtà questo tipo di violenza deriva dall’impianto sociale generale legato alla proprietà privata e alla divisione della società in classi, per cui la classe dominante borghese (costituita da uomini e donne) ha sottomesso, e tende a mantenere sempre  sottomesse, le classi dominate, proletarie e contadine povere (costituite da uomini e donne), per continuare, in una spirale senza fine, a sfruttarle al fine di accumulare profitti, vivere nel privilegio e godere delle ricchezze prodotte dal lavoro salariato.

Aumentando la forza sociale del capitale, aumenta la diffusione della violenza e quella contro le donne diventa un particolare sfogo del disagio economico e sociale di ogni individuo che, attraverso l’istituto della famiglia, chiude nel meschino recinto familiare l’esplosione della violenza generata dalle contraddizioni sociali. La donna, economicamente e, quindi, anche ideologicamente, equiparata ad un oggetto di proprietà, non solo diventa merce come qualsiasi altra cosa, ma, in forza della sua caratteristica di riproduttrice di esseri umani - quindi, capitalisticamente, di altre merci - e di sostegno economico del piccolo mondo familiare, diventa una proprietà privata del maschio che si è legato a lei per sentimento d’amore o per convenienza. Una proprietà privata che, quando non si è disposti a dividerla con altri, diventa l’oggetto del contendere e perde ogni caratteristica e ogni qualità di essere umano. Al pari del sistema capitalistico, anche nei rapporti interpersonali, si introduce il rapporto di sfruttamento: la donna, messa in stato di inferiorità dalla società, assume oggettivamente la posizione della “forza lavoro proletaria”, atta soltanto ad essere sfruttata e, quando, da essere umano, tende a sottrarsi dall’oppressione almeno nel rapporto interpersonale, viene ostacolata, vessata, messa nelle condizioni di non liberarsi dalla catena dell’oppressione personale, ed eliminata fisicamente quando nel rapporto personale si raggiunge lo stadio della violenza pura.

Il capitalismo non può che rigenerare continuamente gli stessi rapporti di produzione e sociali che provocano la violenza anche nell’ambito dei rapporti interpersonali. Soltanto una società non più basata su rapporti di produzione e sociali capitalistici, che si condensano nella proprietà privata e nell’appropriazione privata di tutta la ricchezza sociale, ma basata su un’economia e un’organizzazione sociale volte alla soddisfazione delle esigenze di vita della specie umana, potrà superare completamente ogni oppressione, ogni sopruso, ogni violenza, ogni schiavizzazione. Soltanto la società che avrà violentemente eliminato la merce, il denaro, il profitto capitalistico, potrà eliminare ogni tipo di violenza che dalla produzione e riproduzione del capitale viene generata. La società di specie è semplicemente il comunismo.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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