Democrazia, dall’antico elitarismo, al rivoluzionarismo borghese e all’inganno sistematico

(«il comunista»; N° 158; Marzo 2019)

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Nel numero scorso iniziavamo così la prima parte di un articolo intitolato “L’Italia è una nazione... fatta da tanti staterelli?”: «Sono due i miti dei quali la borghesia italiana andava e va fiera: quello del Risorgimento e quello della Democrazia. Due miti nati e cresciuti sotto una stessa cupola che conteneva la monarchia e il suo contrario, la repubblica; nell’uno e nell’altro caso l’unificazione dell’Italia corrispondeva più ad una espansione del Regno di Sardegna che al suo superamento e ad un’unificazione in una sola nazione che le vicende storiche avevano diviso tra molte potenze straniere». Nel precedente articolo ci siamo occupati della prima parte, del Risorgimento. Ora ci occupiamo della Democrazia, che dividiamo un due parti, una diciamo così di carattere generale e una che riguarda l’Italia.

 

Chi ha anche soltanto un’infarinatura di marxismo dovrebbe sapere che il marxismo è, in sintesi, la teoria del socialismo scientifico che si basa sul materialismo storico e dialettico. Non è un’ideale, non è un’utopia, è la teoria del comunismo, cioè del movimento reale che abolisce lo stato di cose presente. Lo stato di cose presente è costituito dal capitalismo, cioè da una società divisa in classi che storicamente è giunta alla sua ultima espressione; dopo di essa, il progresso storico non potrà che portare rivoluzionariamente ad una società non più divisa in classi, una società senza classi, una società di specie, il comunismo appunto. Al comunismo si arriverà grazie al movimento storico (movimento reale) della classe rivoluzionaria (il proletariato) generata dallo sviluppo delle forze di produzione espresso dal capitalismo, come al capitalismo si è giunti grazie al movimento storico della classe rivoluzionaria (la borghesia) generata dallo sviluppo delle forze di produzione all’interno del feudalesimo, e così a ritroso nelle società precedenti, schiavistica e antica. Il movimento reale, dunque, non è costituito dal movimento delle idee, ma delle forze di produzione e dal loro sviluppo che, giunto ad un certo punto, urta prepotentemente contro le forme di produzione che ostacolano il loro sviluppo; e questo andamento storico riguarda tutti i modi di produzione delle società divise in classi, quindi anche il capitalismo.

 La struttura economica della società – in sintesi, il modo di produzione – è la base della sua esistenza e del suo sviluppo; sulla struttura economica della società divisa in classi si sovrappone l’organizzazione politica imposta dalla classe dominante che, a sua volta, veste il suo dominio economico e sociale con un’ideologia corrispondente alla difesa dei suoi interessi. La politica, la filosofia, la religione fanno parte dell’ideologia della classe dominante, in tutte le epoche in cui è esistita ed esiste la divisione della società in classi; esse rispondono, pur nelle loro varie e contrastanti espressioni, agli interessi generali della classe dominante per cui l’ideologia dominante, nelle differenti società divise in classi, è l’ideologia della relativa classe dominante.

Ogni società divisa in classi è il risultato di uno sviluppo delle forze produttive e di un’organizzazione sociale che definisce le forme di produzione secondo il peso e gli interessi delle classi possidenti. Nell’antica Grecia, l’organizzazione sociale che si definiva democrazia, suddivideva gli abitanti delle città-stato in cittadini (i possidenti di terre, immobili e schiavi, che godevano di tutti i diritti, meno le donne che, anche se “cittadine”, non avevano diritti politici), meteci (stranieri greci residenti nelle città-stato greche, obbligati a trovarsi tra i cittadini un “protettore” e a pagare un’imposta; non potevano possedere beni immobili, ma potevano avere un’attività commerciale o artigianale; di questa classe facevano parte anche filosofi, medici, storici ecc. come Ippocrate, Anassagora, Aristotele, Erodoto ecc.) e schiavi (i non liberi, definiti anche oggetti animati – da Aristotele, Politica, Libro III – che non godevano di alcun diritto, tranne quello di non poter essere uccisi impunemente). Il termine democrazia, nella Grecia antica, significava “potere del popolo”, ma all’epoca il popolo era rappresentato dai cittadini che costituivano la classe dominante e, in parte, dalla classe “media” (i meteci) che, a seconda dei rapporti di forza tra le diverse famiglie, in determinati periodi venivano più o meno coinvolti nella vita pubblica. Nel tempo le società divise in classi si sono sviluppate e rivoluzionate, organizzandosi con forme politiche e istituzionali diverse, ma, sostanzialmente, rispondendo sempre ad alcuni elementi di fondo che le caratterizza tutte: la proprietà privata, la famiglia, lo Stato, come ricorda la nota opera di Engels. Questo non impedì che i concetti con cui nell’antichità si definivano le corrispondenti forme sociali e organizzative, strada facendo, cambiassero senso. Mentre monarchia, aristocrazia, tirannia, dittatura, come forme dello Stato, nello sviluppo delle società divise in classi hanno avuto una loro evoluzione senza perdere la loro caratteristica di fondo (monarchia assoluta, monarchia elettiva, monarchia costituzionale; aristocrazia come casta dei nobili, come patriziato; tirannia come degenerazione della monarchia – Aristotele –, come esercizio violento del potere di una persona, di una famiglia, di un clan; dittatura di una persona, di una corporazione, di una classe ecc.), ma il loro senso non è cambiato totalmente da quello che avevano nell’antichità; la democrazia, invece, ha subito una sua evoluzione specifica, dovuta, non a caso, all’apparire sulla scena storica della classe borghese.

    Come ogni nuova classe dominante che si è imposta sulle classi dominanti precedenti, anche la classe borghese ha percorso storicamente fasi diverse. Sotto il feudalesimo, nel cui grembo le forze produttive si sono sviluppate grandemente grazie alle scoperte geografiche e scientifiche e alle innovazioni tecniche applicate al lavoro umano e alla produzione industriale (nelle costruzioni dei palazzi e delle navi, negli opifici e nelle manifatture), la borghesia era la nuova classe rivoluzionaria perché rappresentava la spinta materiale dello sviluppo nella produzione in ogni ambito, per il quale sviluppo necessitavano masse lavoratrici sempre più numerose che andavano organizzate nel lavoro associato, e una sempre più ampia libertà di movimento delle merci e delle persone. La violenza di classe ha caratterizzato l’imposizione dello sviluppo produttivo capitalistico, contro il quale sviluppo nulla poté né la monarchia, né la nobiltà, né il clero, e tanto meno il contadiname, gli artigiani, il proletariato; i nuovi padroni borghesi imponevano nel mercato manufatti in quantità e di tale qualità a cui nessuna famiglia contadina o artigiana poteva giungere, si impossessavano progressivamente della terra delle città e, soprattutto, della campagna, obbligando i contadini, strozzati dai debiti, ad abbandonare la terra e trasformarsi in proletari, in lavoratori salariati, cioè in quella forza lavoro da sfruttare nelle fabbriche di cui il capitalismo aveva estremo bisogno; la stessa cosa, ma più lentamente, avveniva nell’artigianato cittadino che man mano veniva soppiantato, almeno in determinati settori economici, dall’industria. E’ lo sviluppo del capitalismo che, ad un certo punto, ha spinto la borghesia sulla via della rivoluzione per la conquista del potere politico, perché il capitalismo, aumentando la capacità produttiva attraverso l’industria, aveva l’esigenza imprescindibile sia di abbattere tutti i vincoli economici, politici, amministrativi che il feudalesimo, ormai decrepito, difendeva con ogni mezzo, sia di creare un mercato nazionale nel quale intervenire come protagonista indiscusso, sia di proiettarsi alla conquista di mercati esteri grazie alla forza armata dello Stato.

La democrazia diventò inevitabilmente la parola d’ordine di ogni borghesia: il potere del popolo, quindi l’obiettivo della conquista del potere da parte della maggioranza di tutti gli abitanti di una nazione (borghesi, proletari e contadini), spezzò la vecchia ripartizione della società e consentì alla borghesia, che guidava la sua rivoluzione con le armate formate da proletari e contadini, di vincere la resistenza delle classi nobiliari e del clero, e di aprire la vita sociale pubblica alle classi lavoratrici delle città e delle campagne. La forza economica, e quindi commerciale e politica, della borghesia industriale si esprimeva necessariamente anche come forza ideologica: la conquista del potere da parte della classe borghese diventò la conquista della democrazia per tutto il “popolo”. Ideologicamente, democrazia diventò sinonimo non più di potere di una élite – come ai tempi della Grecia antica, quando ad Atene, contro 90 mila “cittadini” c’erano 365 mila schiavi –, ma sinonimo di potere del popolo, popolo che si poteva esprimere attraverso le elezioni dei suoi rappresentanti in un parlamento in cui tutte le classi potevano essere rappresentate.  Per la borghesia, democrazia e libertà, erano, e sono ancor oggi, due concetti appaiati: non c’è democrazia se non c’è libertà; non c’è libertà se non c’è democrazia. Ma la realtà materiale è ben diversa da quella idealizzata dalla classe borghese. La borghesia, nella sua fase storica rivoluzionaria, ha lottato sì per liberare i contadini e i proletari dall’oppressione feudale e dalla loro esclusione dalla vita politica, ma l’obiettivo non era ottenere la loro libertà in generale, ma liberarli dai vincoli feudali per imprigionarli nelle condizioni salariali: togliendo loro qualsiasi possibilità di sopravvivenza con mezzi propri, trasformandoli quindi in senza riserve e “proprietari” soltanto della loro forza lavoro, li ha condotti da un’oppressione di classe ad un’altra, ad una oppressione di classe certamente più moderna, più aperta ed anche più internazionale, ma sempre oppressione di classe. Lo sviluppo del capitalismo non è stato per niente pacifico, non ha distribuito il tanto decantato “benessere per tutti”, non ha fatto conquistare al “popolo”, cioè alla maggioranza della popolazione nazionale, una reale libertà e una reale uguaglianza; la “libertà” è servita per togliere determinati antichi vincoli, ma per fissarne degli altri, “l’uguaglianza” è servita soltanto ideologicamente, come bandiera da sventolare nei tribunali con la scritta “la legge è uguale per tutti” o nelle costituzioni repubblicane dove si recita che i diritti in esse contenuti sono uguali per tutti, quando nella realtà sociale sono i rapporti di forza tra le classi che definiscono i limiti entro i quali possono muoversi i componenti delle diverse classi, ed è un fatto inoppugnabile che la classe dominante borghese pieghi a proprio vantaggio immediato e futuro ogni legge, ogni atto dello Stato anche se formalmente hanno l’imprimatur delle elezioni parlamentari.

La democrazia borghese può essere declinata in molti modi diversi; facendo parte dell’ideologia borghese, non poteva che subire lo stesso percorso degenerativo che ha subito l’ideologia borghese che, da rivoluzionaria al tempo del feudalesimo, è diventata, al tempo dell’espansione del capitalismo nel mondo, riformatrice e, al tempo dell’imperialismo, conservatrice e reazionaria.

Ogni classe sociale, nei rapporti di forza sociali, è spinta a muoversi dagli interessi materiali e generali che la definiscono classe; cosa che non impedisce ai componenti di ogni classe di dividersi in fazioni e gruppi più o meno ampi, più o meno forti, più o meno organizzati per difendere interessi materiali specifici, parziali, si potrebbe dire, riprendendo un’espressione preborghese, “di casta”. Ebbene, con il termine democrazia, la classe borghese può definire nello stesso tempo qualsiasi espressione di interesse sociale, interessi sia parziali che generali, sia nazionali che internazionali, sia individuali che di gruppo. Questo non deve sorprendere perché l’ideologia borghese si basa fondamentalmente sulla struttura economica della sua società che basa la sua funzione sociale e politica nella produzione di capitale, non importa da dove il capitale originariamente provenga, se ereditato da generazioni precedenti, se prestato, se accumulato attraverso il malaffare e il crimine: l’importante è che l’intero meccanismo economico e sociale sia organizzato in funzione della produzione e della riproduzione di capitale. Se a questo obiettivo, sia parziale che generale, ci si arrivi per “via democratica” o per “via autoritaria” o “dittatoriale”, dipende dai fattori sociali e politici generali, dal contrasto degli interessi che ogni azienda capitalistica esprime nella sua specifica attività, dai rapporti di forza economici, politici e militari di ogni classe dominante borghese all’interno del suo paese e all’esterno. E’ però dimostrato, dalla storia dello sviluppo delle forme politiche con le quali la classe dominante borghese si è organizzata nei suoi duecento anni di vita, che l’opzione democratica, rispetto a quella apertamente autoritaria o dittatoriale, risulta ancora la più vantaggiosa poiché attraverso di essa la borghesia riesce a trascinare le classi sottomesse (proletariato, contadiname, piccola borghesia) a difendere i suoi interessi di classe contrabbandandoli per interessi comuni, di tutto il popolo, dell’intera nazione, dalla difesa dei quali, secondo la propaganda borghese, ogni classe sociale può trarre dei vantaggi a livello economico e sociale. Nella realtà, la gran parte dei vantaggi economici e sociali vanno a beneficio della classe dominante borghese, e in particolare delle frazioni borghesi più forti poiché sono quelle che possiedono la massa di capitale più grande e concentrata, cosa che di per sé dà loro maggior forza. Ciò non significa che le altre classi non abbiano avuto o non abbiano dei vantaggi. La borghesia ha sempre interesse a trascinare dietro di sé, se non tutti i componenti delle classi medie e proletarie, almeno una loro parte. Il compito di legare al proprio carro le classi medie, la piccola borghesia in generale, non è difficile: hanno lo stesso interesse generale visto che anch’esse vivono dello sfruttamento del lavoro salariato; sono anch’esse interessate a difendere la proprietà privata, e possono sempre ambire a ingrossare il proprio patrimonio, a vivere più agiatamente, a contare su privilegi sociali negati alle classi inferiori. Nella storia, la piccola borghesia ha mostrato di essere sempre dalla parte della grande borghesia, di mettersi al servizio di quest’ultima politicamente, socialmente e militarmente, sia in regime democratico che in regime totalitario.

Più complicato per la classe dominante borghese è invece il compito di legare a sé il proletariato. Se nel periodo storico della rivoluzione antifeudale l’alleanza tra borghesi e proletari era nei fatti molto forte, interessati entrambi a togliere di mezzo re, aristocratici e clero e tutto ciò che rappresentavano, nei periodi storici successivi tale alleanza risultava sempre vantaggiosa per la classe borghese, ma non per la classe proletaria. A metà Ottocento, con il Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels, si tracciava in modo definitivo l’antagonismo di classe tra gli interessi della borghesia e gli interessi, non solo immediati, ma anche storici, del proletariato. La borghesia, nei paesi capitalistici in Europa e in America, aveva già dimostrato storicamente di aver concluso la sua opera innovatrice e rivoluzionaria; con la grande industria era non solo nato, ma si diffondeva sempre più nel mondo civile il proletariato, la classe dei senza riserve, la classe che, con il suo indispensabile apporto nella lotta contro le vecchie classi dominanti feudali, aveva contribuito in modo determinante alla conquista del potere da parte della borghesia ed aveva, nello stesso tempo, dimostrato di rappresentare, da quel momento in poi, l’unica e vera classe rivoluzionaria, capace di esprimere – grazie alle sue condizioni sociali di lavoratrice salariata, di produttrice dell’intera ricchezza sociale – un interesse generale nel superare i nuovi vincoli che la società capitalistica borghese aveva imposto; capace di esprimere un programma politico, il programma del comunismo rivoluzionario, che storicamente superava ogni antagonismo sociale, ogni oppressione di classe, ogni sfruttamento dell’uomo sull’uomo, perché basava questo salto di qualità nell’organizzazione sociale della vita umana, su un semplice dato di fatto: non aveva, non ha e non avrà nulla da difendere nella società capitalistica, nella società della proprietà privata, del denaro, dellla merce, dello Stato come forza di oppressione di classe, ma avrà, invece, tutto un mondo da guadagnare.

Come ogni classe dominante della storia umana, anche la borghesia non lascia, e non lascerà, il proprio potere senza combattere con tutte le forze che ha a disposizione. Lo si è visto nel 1848, nel 1871, nel 1917. Lo si è visto in tutte le lotte anticoloniali che hanno caratterizzato gli anni dalla fine della prima e, soprattutto, della seconda guerra imperialistica mondiale; lo si è visto in tutte le situazioni di crisi del sistema capitalistico di produzione, in cui reparti più o meno ampi del proletariato hanno ingaggiato lotte durissime contro lo strapotere economico e politico delle rispettive borghesie. Il sistema capitalistico di produzione non è sostanzialmente cambiato da quello studiato da Marx: il capitale ha sempre lo stesso obiettivo, la propria valorizzazione attraverso lo sfruttamento del lavoro salariato, sotto ogni cielo. Quel che è cambiato non è il modo di produzione, ma la forma di oppressione che lo sviluppo del capitalismo a livello mondiale ha generato: l’imperialismo, il potere del capitalismo finanziario sul capitalismo industriale e commerciale.

 

LO STATO, DEMOCRATICO O DITTATORIALE: È SOLO E SEMPRE POTERE DEL CAPITALE SUL LAVORO

 

In regime democratico continua ad esistere l’oppressione di una classe sulle altre? Continua ad esistere lo sfruttamento del lavoro salariato, quindi della classe proletaria da parte della classe borghese? Continua ad esistere lo Stato come concentrazione della forza armata del potere, come strumento di potere della classe dominante borghese, perciò come strumento dell’oppressione delle classi sottomesse e, in particolare, della classe proletaria? Continua ad esistere la divisione del lavoro e, quindi, la divisione della società in classi antagoniste?

La risposta a queste domande è semplice: il regime democratico e parlamentare non è che la forma politica più nascosta e mimetizzata della dittatura di classe della classe borghese dominante.

Lo Stato non è che il prodotto dell’antagonismo inconciliabile tra le classi (sintetizza Lenin riferendosi all’opera più nota di Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato), è «un prodotto della società a un determinato livello di sviluppo; esso è la prova che tale società si è invischiata in una contraddizione insolubile con se stessa, che è spaccata da contrasti insanabili che è incapace di eliminare. Affinché queste contraddizioni, queste classi con interessi economici antagonisti non logorino se stesse e la società in sterili lotte, è divenuto necessario un potere, posto apparentemente al di sopra della società, che smorzi il conflitto e lo mantenga entro gli argini dell’”ordine”; questo potere sorto dalla società, ma che si pone al di sopra di essa, estraniandosene sempre più, è lo Stato». E ancora: «Essendo lo Stato nato dall’esigenza di tenere a freno gli antagonismi di classe, ma essendone nello stesso tempo il prodotto, esso è di regola lo Stato della classe più potente, quella economicamente dominante che, per suo tramite, viene a dominare anche politicamente e ottiene così nuovi strumenti di dominio e di sfruttamento della classe oppressa. Così lo Stato antico fu innanzitutto Stato dei proprietari di schiavi per tenere soggiogati gli schiavi stessi, quello feudale fu strumento della nobiltà per tenere sottomessi i contadini asserviti e legati alla gleba, e lo Stato rappresentativo moderno è lo strumento per lo sfruttamento del lavoro salariato da parte del capitale» (1).

Sulla questione dello Stato, Engels non faceva che riprendere quanto la teoria marxista aveva già definito. Basta andare a rileggere La guerra civile in Francia di Marx, scritto tra il maggio e il giugno del 1871 – come «Indirizzo del Consiglio generale dell’Associazione internazionale dei lavoratori» – sulla base degli insegnamenti internazionali che trasse dalla lotta dei comunardi parigini e dall’esperienza viva della Comune di Parigi, prima dittatura di classe che il proletariato aveva attuato nella storia della sua lotta rivoluzionaria. La citazione non è breve, ma è fondamentale per comprendere la posizione teorica e politica del marxismo su questa questione fondamentale. Marx, nella parte III dello scritto ora citato, risponde alla domanda: che cos’è la Comune?, in questo modo:

«”I proletari di Parigi – diceva il Comitato centrale nel suo manifesto del 18 marzo – in mezzo alle disfatte ed ai tradimenti delle classi dominanti, hanno capito che per loro è suonata l’ora di salvare la situazione prendendo in mano la direzione degli affari pubblici... Hanno capito che è loro dovere improrogabile e loro assoluto diritto farsi padroni del proprio destino prendendo il potere di governo”. Ma la classe operaia non può semplicemente impadronirsi della macchina statale così com’è, e manovrarla per i propri fini». Non è irrilevante ricordare che Marx, scrivendo a Kugelmann nell’aprile dello stesso anno, sottolineava che questa concezione dello Stato e dell’impossibilità di utilizzarlo, così com’era, ai fini della lotta del proletariato per la sua emancipazione di classe, era già presente nel suo opuscolo del 1852, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte (2).

Continuiamo con la citazione da La guerra civile in Francia: «Il potere centralizzato dello Stato, con i suoi organi onnipresenti: esercito permanente, polizia, burocrazia, clero e magistratura – organi prodotti secondo un piano di divisione sistematica e gerarchica del lavoro – ha origine nell’epoca della monarchia assoluta, quando servì alla nascente società borghese come un’arma poderosa nelle sue lotte contro il feudalesimo. Tuttavia il suo sviluppo restò ostruito da ogni sorta di ciarpame medievale: diritti signorili, privilegi locali, monopoli municipali e corporativi, e costituzioni provinciali. La scopa gigantesca della Rivoluzione francese del XVIII secolo spazzò via tutte queste reliquie dei tempi passati, sgomberando così simultaneamente il suolo sociale dagli ultimi intralci alla sovrastruttura dell’edificio dello Stato moderno, edificato sotto il Primo Impero, a sua volta scaturito dalle guerre di coalizione della vecchia Europa semifeudale contro la Francia moderna. Durante i successivi régimes, il governo, posto sotto il controllo parlamentare – cioè sotto il diretto controllo delle classi possidenti – non diventò solamente il focolaio di enormi debiti nazionali e di tasse opprimenti; con le sue irresistibili attrattive di posti, guadagni, clientele, non solo divenne il pomo della discordia tra le fazioni rivali e gli avventurieri delle classi dirigenti, ma anche il suo carattere politico cambiò insieme ai cambiamenti economici della società. Nella misura in cui il progresso dell’industria moderna sviluppava, ampliava, intensificava l’antagonismo di classe tra capitale e lavoro, il potere dello Stato assumeva sempre più il carattere del potere nazionale del capitale sul lavoro, di una forza pubblica organizzata di asservimemto sociale, di uno strumento del dispotismo di classe. Dopo ogni rivoluzione che segnava una fase progressiva nella lotta di classe, il carattere puramente repressivo del potere dello Stato si stagliava in un rilievo sempre più marcato» (3).

E’ significativo che, in questo brano, Marx precisi che, nei regimi borghesi, i governi sottoposti al controllo parlamentare sono in realtà sottoposti al controllo delle classi possidenti; che i governi sono il luogo in cui si decide di indebitare il paese sempre più e di tassare in modo sempre più opprimente il famoso “popolo”, e sono, nel contempo, la ghiotta occasione perché le fazioni borghesi rivali e gli avventurieri delle classi dirigenti entrino in lotta fra di loro per spartirsi posti, guadagni, clientele. Nessuna nuova, sostanzialmente, a centocinquant’anni di distanza: il parlamento è sempre più controllato dalle classi possidenti, le fazioni borghesi e gli avventurieri delle classi dirigenti (faccendieri, politicanti, “facilitatori”, tangentisti, corruttori e corrotti) sono aumentati di numero, l’indebitamento dello Stato non ha fatto che aumentare sempre più e le tasse sono diventate sempre più opprimenti. Negli ultimi centocinquant’anni, lo sviluppo del capitalismo a livello mondiale ha comportato, nei paesi capitalisticamente arretrati, lo scoppio di rivoluzioni borghesi che avevano l’obiettivo di superare i vecchi ordinamenti di tipo feudale e asiatico e, soprattutto negli ultimi 75 anni, quello di scrollarsi di dosso l’oppressione coloniale dei paesi capitalisticamente avanzati e imperialisti; in questo straordinario e contraddittorio movimento di lotta delle classi moderne (borghesia e proletariato) vi sono state due occasioni storiche che confermano la prospettiva storica delineata dal marxismo fin da metà Ottocento, e cioè che la lotta fra le classi moderne e le classi delle vecchie società non sbocca soltanto nella rivoluzione borghese e nel conseguente sviluppo del capitalismo in ogni paese del mondo, ma, a condizioni generali favorevoli, sia dal punto di vista oggettivo che soggettivo, la lotta di classe del proletariato, nel suo contrastato e contraddittorio sviluppo, porta allo sbocco della rivoluzione proletaria, alla rivoluzione antiborghese e anticapitalistica. La Comune di Parigi del 1871 e la Rivoluzione d’Ottobre del 1917, nonostante le loro sconfitte, segnano un tracciato storicamente incancellabile: il proletariato è l’unica classe rivoluzionaria della società moderna, l’unica che può farsi carico, oltre che dei compiti specifi della rivoluzione proletaria, anche dei compiti della rivoluzione borghese nei paesi capitalisticamente meno sviluppati come avvenne nella Russia del 1917 e come avrebbe potuto avvenire nella Cina del 1926-27 se il movimento proletario rivoluzionario non fosse stato deviato e, infine, massacrato dalla controrivoluzione stalinana. Resta comunque il fatto che in tutti questi avvenimenti il potere dello Stato borghese ha effettivamente cambiato il suo carattere politico, ma soltanto per diventare ancora più repressivo nei confronti delle classi produttrici, per aumentare il peso della sua forza economica e militare al fine di un sempre più marcato dispotismo di classe. Lo Stato borghese moderno assume sembianze democratiche, elezioniste, parlamentari, ma al solo scopo di mascherare alla gran massa delle classi sottomesse la sua reale funzione: difendere esclusivamente gli interessi della classe borghese dominante contro la classe del proletariato, l’unica che può battersi per cancellarli definitivamente.   

Lo Stato rappresentativo moderno ha nella repubblica democratica la sua forma più alta, poiché in esso la classe possidente, la classe borghese che si appropria l’intera ricchezza sociale prodotta, esercita il proprio potere indirettamente, ma in modo tanto più efficace, appunto attraverso uno strumento, lo Stato, che appare al di sopra delle classi; in realtà, «la classe possidente domina direttamente attraverso il suffragio universale, perché, finché la classe oppressa, nel nostro caso il proletariato, non avrà raggiunto il livello di maturità che le permetta di autoemanciparsi, la sua maggioranza considererà l’ordinamento sociale esistente come l’unico possibile e, politicamente, si accoderà alla classe capitalistica, formandone l’estrema ala sinistra» (4). Engels ha letto perfettamente, nel 1894, non solo dove era già arrivato lo Stato moderno, ma anche come la classe proletaria, fino a quando non avesse raggiunto con la sua lotta di classe la maturità rivoluzionaria, non avrebbe conquistato la sua emancipazione dal lavoro salariato e, quindi, dal capitale. Per la classe dominante borghese, la democrazia, con l’inganno contenuto nella sua stessa formulazione ideologica (ogni individuo è libero di pensare, di scegliere, di votare), si conferma, a 115 anni di distanza delle parole scritte da Engels, come il modo di governare più efficace per la borghesia, proprio perché influenza in modo diretto – e con il contributo non marginale delle forze opportuniste – la classe proletaria, la classe che storicamente ha interessi del tutto contrapposti a quelli borghesi ma che, politicamente, non li riconosce e non ne fa, quindi, il perno della sua organizzazione e della sua lotta indipendenti. La fiducia che il proletariato ha nella democrazia, come governo della cosa pubblica, quindi nello Stato borghese, mostra la sua immaturità classista; la sua forza sociale – che si basa sull’essere la forza lavoro dal cui sfruttamento dipende l’esistenza stessa del capitale e della società capitalistica –, nelle condizioni di completa sudditanza dal potere borghese, è volta esclusivamente a vantaggio del dominio della classe possidente moderna, della classe capitalistica: da schiavo salariato, forgia le proprie catene, ribadisce la divisione della società in classi, annulla o attenua l’antagonismo sociale che lo oppone alla borghesia, agisce e lotta in funzione della conservazione del regime capitalistico di sfruttamento, mantiene e rafforza il potere politico e sociale della borghesia.

Quali sono le forze politiche che, nella società moderna, sostengono la democrazia? Ovviamente la classe borghese in primis e, al seguito, gli strati sociali che formano la piccola e media borghesia, essi stessi affascinati da un metodo di governo grazie al quale i loro rappresentanti possono inserirsi nei vari livelli della burocrazia e della gerarchia politica per assicurarsi individualmente, e assicurare ai propri “elettori”, vantaggi e privilegi altrimenti irraggiungibili. Lo sviluppo economico e sociale del capitalismo ha ampliato e rafforzato la divisione del lavoro, suddividendo lo stesso proletariato in strati diversi differenziati per tipologia tecnica di lavoro, per settore economico, per livello di specializzazione e di istruzione. Tali differenze hanno prodotto una rete sempre più intricata di categorie e di livelli nella quale imbrigliare il proletariato creando, nel tempo, uno strato di operai istruiti e specializzati, gli operai qualificati, pagati molto meglio della gran massa di operai “non qualificati”. Già Engels, nel 1845, nel suo La situazione della classe operaia in Inghilterra, parlava di una aristocrazia operaia creata appositamente dalla borghesia industriale e della quale si è servita non solo per dividere il proletariato che tendeva ad organizzarsi come classe indipendente, unificando obiettivi, metodi e mezzi di lotta, ma anche per usarla come vettore della propria influenza ideologica in quanto alleata con la borghesia, con la quale condivideva l’interesse al buon andamento economico delle aziende in cui era occupata perché da quel buon andamento dipendevano i suoi privilegi e la paga più alta.

Il proletariato è indebolito nella propria capacità di resistere e di combattere contro la pressione borghese dalla concorrenza fra proletari, sul piano salariale come su quello delle condizioni di lavoro; conquista invece più forza e maggiore capacità di resistere e di contrattaccare le forze borghesi se combatte la concorrenza nelle sue file, che il sistema borghese alimenta costantemente, unendosi non solo organizzativamente ma anche negli obiettivi, nei metodi e nei mezzi della lotta di classe, creando in questo modo i presupposti di una solidarietà di classe grazie alla quale resistere nel tempo e superare le sconfitte in attesa di riscatenare la lotta anticapitalistica.

Perciò il proletariato, come la storia delle sue lotte, della sua rivoluzione e delle sue sconfitte ha dimostrato, essendo stato ingannato e deviato sistematicamente dalla democrazia borghese, non solo come principio ideologico e politico, ma anche come metodo politico-organizzativo, esprimerà la sua maturità di classe lottando contro la democrazia (i suoi principi, i suoi programmi, i suoi metodi, i suoi obiettivi) su tutti i piani, riconquistando il terreno della lotta di classe che significa, in sintesi, il terreno su cui utilizzare, riconosciuto l’antagonismo di classe esistente fin dalle origini della società borghese, soltanto i mezzi e i metodi di classe in difesa esclusiva dei propri interessi immediati e futuri. Lanciato nella riconquista della sua indipendenza di classe, dovrà necessariamente riorganizzarsi a livello immediato nelle associazioni di difesa economica che utilizzeranno inevitabilmente il mezzo organizzativo democratico, nel senso che le decisioni di lotta verranno prese a maggioranza, ma nella consapevolezza che tale mezzo organizzativo sarà necessariamente un passaggio accidentale poiché il punto decisivo nei rapporti tra proletari e capitalisti sarà sempre il rapporto di forza tra le due classi antagoniste, rapporto di forza che inesorabilmente sarà determinato dalla violenza dello scontro di classe, dalla sua migliore e più accorta organizzazione, perché alla violenza sistematica e sempre più brutale della classe dominante borghese non c’è risposta pacifica e legale che tenga.

Sul piano economico, il proletariato non potrà contare, come contava a suo tempo la borghesia, su un nuovo modo di produzione (quello socialista) che si sviluppa già all’interno del capitalismo; il proletariato è e rimane il corpo sociale senza riserve, dei lavoratori salariati che posseggono soltanto la propria forza lavoro, ma questa sua specifica caratteristica lo pone nella condizione di essere nello stesso tempo classe per il capitale e classe per sé, cioè contro il capitale, dunque l’unica classe della società moderna che esprime storicamente la possibilità, e la necessità, di superare tutti i limiti del capitalismo pur restando, finché non fa la rivoluzione e conquista il potere politico, una classe schiava del capitale.

Il proletariato non ha una base economica di classe su cui erigere la sua forza di classe, un suo potere economico da contrapporre già nella società capitalistica al potere economico delle classi antagoniste. Ma, attraverso le sue lotte, generate dall’antagonismo di classe che lo oppone oggettivamente alla classe borghese dominante, il proletariato constata che la borghesia, per continuare a mantenerlo nelle condizioni di schiavitù salariale e per reprimere la sua spinta a lottare contro questa schiavitù, utilizza tutti i suoi poteri – economici, ideologici, politici, militari, ed è quindi contro tutti questi poteri che deve lottare. E’ la stessa borghesia che eleva lo scontro sociale dal livello economico immediato al livello politico più generale. E su questo piano, il movimento proletario, dai primi scontri, dalle prime lotte, dalle prime esperienze a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento, e poi, in parallelo con lo sviluppo industriale, nel pieno Ottocento, contribuendo in modo sostanziale alla rivoluzione borghese e alla distruzione del feudalesimo, ha avuto contro l’intero potere borghese, e soprattutto lo Stato borghese con tutta la sua forza militare organizzata. La lotta economica si confondeva con la lotta politica, diventava, nello scontro di classe, lotta politica; una lotta che si doveva dotare di uno “stato maggiore”, di un “partito”, di un’organizzazione politica che non fosse condizionata dai limiti delle lotte economiche immediate, ma che esprimesse in termini teorici e politici la forza sociale contenuta nella forza produttiva dei lavoratori salariati, e che la guidasse, organizzandola in modo indipendente – cioè di classe – per raggiungere obiettivi che non potevano essere più contenuti nei programmi della lotta economica, anche se generalizzata, ma che li superavano ponendosi al livello del potere politico generale, l’unico potere che il proletariato,  grazie alla sua forza sociale organizzata e ad una guida politica inflessibile e lungimirante, doveva storicamente conquistare prima di procedere ai necessari interventi dispotici in economia e nell'organizzazione sociale. La rivoluzione – anche per la borghesia – significa prendere il potere, conquistarlo togliendolo dalle mani delle classi dominanti contro cui si lotta; ogni classe, nel suo sviluppo storico, ha espresso necessariamente il suo partito politico con il compito, se rivoluzionario, di guidare la lotta rivoluzionaria e di gestire poi il potere conquistato, e se conservatore e reazionario, di stroncare la lotta rivoluzionaria e di mantenere il potere nelle mani delle vecchie classi dominanti. 

Il proletariato, nelle sue lotte e negli scontri con il potere borghese, ha potuto esprimere la sua teoria di classe e il suo programma politico di classe, solo strappando all’esperienza e alla cultura della classe borghese – e, attraverso di essa, anche delle classi dominanti precedenti – il metodo che stava alla base della conoscenza della struttura economica, sociale e politica delle società. Col materialismo storico e dialettico, il marxismo trasforma la limitata e confusa conoscenza delle società umane e del loro divenire, ereditata dalle classi dominanti precedenti e dalla borghesia rivoluzionaria, in conoscenza scientifica delle società umane, applicando alla storia della società umana il metodo che la borghesia aveva applicato alle scienze naturali. Dalla filosofia che interpreta il mondo, si passa così alla conoscenza del mondo reale e dello sviluppo delle forze produttive che stanno alla base di tutte le società umane; dall’idealismo si passa al socialismo scientifico, e quindi alla previsione del divenire del movimento reale, previsione che consiste nel decretare la necessaria fine dello sviluppo capitalistico e del suo modo di produzione per lasciare il passo ad una nuova società che si baserà su un modo di produzione che soddisfi le esigenze della vita sociale umana e non le esigenze del capitale, del mercato, del profitto capitalistico che sono tutte esigenze che soffocano e distruggono le esigenze di vita umana.

Il potere politico della borghesia, per quanto si ammanti di forme democratiche e di principi democratici, non è altro che il potere dittatoriale del capitale e delle sue esigenze di sopravvivenza.

 


 

(1) Cfr. F. Engels, “Scritti maggio 1883 – dicembre 1889”, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, cap. IX. Barbarie e civiltà, edizioni Lotta Comunista 2014, p. 152 e p. 154.

(2) Vedi K. Marx, Lettere a Kugelmann, Londra, 12 aprile 1871: “Se tu rileggi l’ultimo capitolo del mio 18 brumaio, troverai che io affermo che il prossimo tentativo della rivoluzione francese non consisterà nel trasferire da una mano ad un’altra la macchina militare e burocratica, come è avvenuto fino ad ora, ma nello spezzarla, e che tale è la condizione preliminare di ogni reale rivoluzione popolare sul Continente. In questo consiste pure il tentativo dei nostri eroici compagni parigini”, Edizioni Rinascita, Roma 1950, p. 139.

(3) Vedi K. Marx, La guerra civile in Francia, Marx-Engels, “Opere complete”, vol. XXII, La Città del Sole-Editori Riuniti, Napoli 2004, pp. 293-294.

(4) Cfr. F. Engels, “Scritti maggio 1883 – dicembre 1889”, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, cit., pp. 154-155.

 

 

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