Alluvioni, frane, crolli di ponti, strade che si aprono, danni inestimabili con morti, feriti e sfollati permanenti: l’Italia è una voragine in cui finiscono miliardi per “riparare”, non per “prevenire”

(«il comunista»; N° 162 ; Dicembre 2019)

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Che il capitalismo sia l’economia della sciagura in cui la coltivazione più florida è quella delle catastrofi è cosa che denunciamo e ripetiamo da sempre. E l’Italia è il paese che il capitalismo ha candidato ad essere la miglior dimostrazione di questo assunto. D’altra parte, sebbene a denti stretti, sono gli stessi borghesi ad ammetterlo. L’ultimo, in ordine di tempo, è Erasmo D’Angelis, l’ex coordinatore di Italia Sicura, una struttura creata nel 2014 dal governo Renzi, dopo l’ennesima catastrofe alluvionale in Calabria, come modesto tentativo di integrare varie competenze e di coordinare tutti i ministeri coinvolti dalle emergenze (1), ma spazzata via dal primo governo Conte (M5S+Lega) perché considerata un “ente inutile”, passando le sue “competenze” al ministero dell’Ambiente. Era scritto che né Italia Sicura, né il ministero dell’Ambiente potevano, non diciamo risolvere, ma neppure solo iniziare a risolvere il problema del vasto dissesto idrogeologico dell’Italia, che è il risultato di più di 150 anni di sviluppo capitalistico, dissesto che dal secondo dopoguerra in poi ha subito una vorticosa accelerazione.

D’Angelis, il 24 novembre scorso, dopo la settimana di acqua alta eccezionale a Venezia e le centinaia di alluvioni e frane verificatesi in mezza Italia - tra le quali quelle in Liguria e Calabria sono state le più devastanti - ricordava che «la penisola italiana è per 2/3 colline e montagne circondate dal mare, con 7646 corsi d’acqua: abbiamo il record europeo di corsi d’acqua e il record europeo di piogge ogni anno (...) ci sono alcune aree che sono più a rischio: la Liguria e la Calabria». Il territorio della penisola italiana, geologicamente formatasi per ultima in Europa (5-600 milioni di anni fa), è costituito da terreni argillosi, sabbiosi, poco rocciosi e le piogge determinano un dilavamento verso valle impressionante. Non a caso, sulle 750 mila frane censite in tutto il continente europeo, ben 620.808 riguardano l’Italia (2). L’attenzione, quindi, e la cura del territorio dovrebbero perciò essere una priorità costante per ogni governo, dato che sono coinvolti più di 60 milioni di abitanti. Ma le leggi  della natura si scontrano con le leggi del capitale il quale, rincorrendo freneticamente il profitto nel  più breve tempo possibile, non solo premia il presente e ignora il futuro, ma nel presente devasta inesorabilmente ogni ambiente pur di ricavare profitto dai propri investimenti. Il capitale muove i capitalisti, non il contrario. Perciò i capitalisti, e il vasto stuolo di politici, economisti, esperti, facilitatori, organizzatori, propagandisti, magistrati che li servono e li sostengono, quando l’inevitabile catastrofe si presenta, devono correre ai ripari, fanno la conta dei danni materiali, dei morti, dei feriti e degli sfollati, calcolano in milioni di euro ogni disastro, ricorrono alle leggi d’emergenza, calcolano quanto potranno guadagnare nella ricostruzione; ambito, quest’ultimo, in cui si scatena la concorrenza tra progettisti, costruttori, lobby finanziarie, appoggi politici e in cui non mancano mai la corruzione, il malaffare, i favoritismi. Le indagini della magistratura sulle “cause” dei disastri sono una formalità, un “atto dovuto”. Dopo ogni disastro scatta la ricerca di chi doveva avvisare ma non ha avvisato, di chi doveva intervenire nella manutenzione ma non è intervenuto, di chi ha costruito ma non ha usato materiali adeguati, di chi ha scritto o no rapporti veritieri, di chi doveva controllare e non ha controllato, di chi ha versato bustarelle per accelerare o per condizionare appalti e di chi le ha prese, insomma del colpevole o dei colpevoli. E tutti se ne tirano fuori con la solita frase: "Questo è il momento di agire, non di fare polemiche!". E le indagini comunque durano anni, se non decenni, mentre il capitale corre veloce e, grazie dell’inevitabile emergenza a catastrofe avvenuta, non si attarda a riprogettare in maniera più sicura gli interventi di urbanizzazione, sui corsi d’acqua, sulla deforestazione, sulle pendici delle colline o delle montagne ecc., ma si limita a riparare, a metterci una pezza là dove non ricava consistenti profitti e ad impostare invece “grandi opere” là dove il denaro, normalmente pubblico, fluisce a miliardi,

In realtà, la colpa, se vogliamo usare la terminologia della giustizia borghese, è del sistema economico e politico che regge questa società, è del capitalismo come modo di produzione, come organizzazione sociale e come sistema politico che ne è espressione e lo difende. Finché vige questo sistema, come scrive il Palmieri (Ismed-Cnr) nelle sue ricerche sul dissesto idrogeologico in Italia, i cosiddetti “disastri naturali” saranno sempre delle “catastrofi innaturali”(3). Ovviamente c’è differenza tra i terremoti o le eruzioni vulcaniche e le frane e le alluvioni, nel senso che i terremoti e le eruzioni vulcaniche sono difficilmente prevedibili e, soprattutto, non sono conseguenza dell’azione dell’uomo. Per quanto riguarda i danni provocati dalle frane e dalle alluvioni, questi, invece, sono direttamente collegabili all’intervento umano sul territorio. Ed ecco l’ammissione di colpa: «Certamente l’affermazione del modello economico capitalistico ha determinato – nel Mezzogiorno come altrove – nuove e più intense forme di sfruttamento delle risorse naturali, e quindi l’accelerazione esponenziale di fenomeni di dissesto e di rottura degli equilibri ambientali. (...) In Italia e nel Mezzogiorno, soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, i fenomeni di antropizzazione “selvaggia” divengono, come è noto, un dato ricorrente con drammatiche ripercussioni sugli equilibri ambientali. In questo stato di cose, frane ed alluvioni conoscono nuovi fattori di innesco, nuove cause: dalla cementificazione e alterazione degli alvei dei fiumi, all’abusivismo edilizio e fondiario; ed ancora: sbancamenti, sovraccarichi, modificazione della topografia dei versanti, della circolazione delle acque superficiali e sotterranee, irrigidimento della rete drenante, impermeabilizzazioni, realizzazioni di opere non confacenti alle caratteristiche litologiche e morfologiche dei siti, alterazioni della copertura vegetale, apertura di cave, localizzazioni di discariche, utilizzazioni improprie del suolo, aratura dei terreni di massima pendenza, incendi boschivi ecc.» (4). Questo è quanto sostiene uno dei tanti studiosi della situazione idrogeologica dell’Italia, e non fa che confermare quanto sostenuto da altrettanti studiosi nei decenni precedenti. Ma queste “denunce” non escono mai dal quadro generale dell’organizzazione sociale capitalistica, che si basa sul modo di produzione che mette al centro la produzione di capitale, e quindi di profitto capitalistico, e non la produzione volta a soddisfare i bisogni della specie umana, e che ha nell’antagonismo tra città e campagna una delle sue caratteristiche fondamentali. Non a caso, la mostruosa urbanizzazione, grazie alla quale gli essere umani sono ammassati in città sempre più grandi, è una fra le cause principali dei disastri idrogeologici. Ma a nessun supertecnico o superstudioso, a meno che sia un marxista ortodosso, e qui non se ne vede l’ombra, verrà mai in mente di proporre l’unica soluzione che invece la teoria rivoluzionaria marxista indica da più di centosettant’anni: la distribuzione della specie uomo su tutta la crosta terrestre volta al miglioramento delle condizioni di esistenza dell’uomo e del suo lavoro, distruggendo i mostruosi e insani alveari chiamati metropoli, riconquistando così spazio contro cemento e superando in questo modo l’antagonismo fra città e campagna che il capitalismo ha portato a livelli intollerabili.

E anche quando gli studiosi esperti di geologia e di dissesti idrogeologici, in base a dati ricavati da rilevamenti più che centenari e alla straordinaria frequenza di questi fenomeni, avanzano delle ipotesi di “soluzione”, ispirate ai tentativi di prevenzione, non possono che tirare in ballo la solita alternativa “italiana”: dopo averli studiati e preparati, tenendo conto degli equilibri ambientali e delle esigenze della vita sociale degli abitanti sottoposti alla fragilità storica dei territori in cui vivono, i progetti rimangono tali perché non ci sono i soldi per realizzarli; oppure, quando qualche soldo viene finalmente accantonato per gli interventi necessari ad una sistemazione meno precaria nelle situazioni più a rischio, mancano però i progetti più attuali per avviare gli interventi. Nel frattempo, come succede sempre più spesso e da decenni, i poteri politici nazionali, regionali e locali, a seconda delle proprie “competenze” territoriali e di spesa, si muovono sulla spinta delle emergenze, non riuscendo mai a fermare la frequenza, d’altra parte sempre più forte, dei fenomeni catastrofici. Gli interessi capitalistici a ricostruire, o ad avviare la ricostruzione, dopo ogni disastro, sono enormemente più forti degli interessi a prevenire i disastri, pur possedendo sufficienti elementi di conoscenza del territorio e gli strumenti tecnici per intervenire. E non è una questione di leader politici e di imprenditori onesti al posto dei disonesti: le leggi del capitale non si piegano alla morale, semmai piegano la morale agli interessi del capitale.

 

UN ELENCO INTERMINABILE DI DISASTRI INNATURALI

 

Anche in questo autunno le cronache non sono riuscite a stare al passo con le numerosissime emergenze dovute alle frane, alle valanghe, alle esondazioni. Liguria e Calabria, come previsto, sono le regioni più colpite, ma anche il Veneto, il Piemonte, l’Emilia Romagna, la Basilicata, la Campania, la Puglia, la Toscana, la Sicilia. La quantità di pioggia caduta in poche ore o in pochi giorni è stata eccezionale, confermando le previsioni dei climatologi che dichiarano da anni che questi fenomeni sono destinati a presentarsi con maggiore frequenza, con maggiore potenza e con durata sempre più lunga. A che servono le previsioni meteorologiche? A stabilire se dare l’allarme arancione, per l’arrivo di fenomeni moderatamente forti, o rosso, per fenomeni forti, oppure  viola per fenomeni estremamente forti? E’ la storia di questo paese che racconta l’impossibilità di raggiungere contemporaneamente tutte le situazioni, gravi o non ancora gravi, per salvare vite umane, animali e ridurre al minimo i danni alle cose e all’agricoltura. Mancando una seria ed accurata prevenzione – il che vorrebbe dire, tanto per fare qualche esempio, colpire in modo drastico la sempre più vasta cementificazione del territorio, eliminare l’abusivismo edilizio, ripristinare boschi e foreste, riaprire l’interramento forzato di fiumi, torrenti e rii, ridare ai corsi d’acqua il loro naturale alveo, distruggere la massiccia urbanizzazione e distribuire sul territorio in modo più equilibrato ed efficiente le abitazioni e i luoghi di lavoro degli esseri umani, ma questo il capitalismo non lo farà mai – è inevitabile che frane, smottamenti e alluvioni condizionino costantemente la vita umana, e non solo in Italia, come è certo che il capitale non aspetti altro per avere ulteriori occasioni di far profitto.

Secondo la Repubblica del 18 novembre scorso, i dati 2018 riportano un desolante quadro delle persone e degli edifici minacciati da alluvioni in Italia: comuni, 7.275 (91,1% del totale); popolazione, 6.183.364 (10,4% del totale); famiglie, 2.648.499 (10,8% del totale); edifici, 1.351.578 (9,3% del totale); industrie e servizi, 596.254 (12,4% del totale); beni culturali, 31.137 (15,3% del totale). Se si dovesse aggiungere anche il rischio frane, terremoti, eruzioni vulcaniche, e quindi le minacce a ponti, viadotti, strade, linee ferroviarie, gallerie... ben poco del territorio italiano risulterebbe esente da queste minacce, e la percentuale della popolazione minacciata salirebbe, azzardiamo, a più dell’80%, tanto più, come gli stessi borghesi sono costretti ad ammettere di fronte ad ogni catastrofe innaturale, di fronte alla progressiva cementificazione del territorio, ai disboscamenti, alle opere del tutto inutili e dannose per la salvaguardia degli equilibri ambientali che però producono profitti in quantità ai capitalisti coinvolti. Vista la quantità e la frequenza dei fenomeni disastrosi registrati puntualmente, e che caratterizzano l’Italia da più di 150 anni (l’Italia della civiltà capitalistica), le emergenze avrebbero dovuto essere molto ridotte. Infatti, sulla scorta dell’esperienza di tutto quel che è già successo per quanto riguarda danni e morti, si sarebbe dovuto provvedere a tutta la serie di misure di prevenzione e di interventi atta a ridurre i pericoli dovuti ai disastri innaturali e far fronte alle catastrofi effettivamente naturali. E invece, le emergenze aumentano continuamente; passa il momento del disastro in quel luogo, in quel comune, in quella città, si raccolgono dati, si istituiscono commissioni, si emanano bandi per progetti di risanamento, di riqualificazione, di interventi di prevenzione, si riscrivono piani regolatori... ma il tempo passa e le misure di prevenzione rimangono lettera morta. Le casse di espansione progettate per ridurre la portata dei fiumi in piena, tanto per citare una delle tante misure di prevenzione, rimangono un progetto e si realizza solo quella parte che frutta profitti immediati. Nel frattempo, da un lato si continua costruire, dall’altro si continua ad abbandonare montagne, colline e campagne, non si puliscono gli alvei dei fiumi, non si attuano gli interventi già predisposti e “coperti” dai capitali necessari, e si attendono i successivi disastri.

Gli esempi li dà lo stesso numero di Repubblica che abbiamo citato.

Nel novembre di quest’anno, l’Arno ha nuovamente messo in allarme gli abitanti del suo vasto bacino, soprattutto di Firenze e Pisa; la piena, quest’anno, è stata la peggiore dal 1992, ma a Firenze è passata rimanendo fortunosamente negli argini, mentre a Pisa si aspettavano il disastro, che però stavolta non si è verificato, e non per un miracolo, ma per alcune opere di cui iniziarono a parlare dopo la disastrosa alluvione del 1966, sebbene, ad oggi, a 53 anni di distanza, siano state realizzate solo per il 25%! Leggiamo su un sito web, che ha sempre approfondito questo tema, che Pisa, pur correndo un rischio maggiore di Firenze, è stata aiutata «oltre che dalla buona sorte che non si è girata dall’altra parte, anche da due opere: la cassa d’espansione di Roffia, nel comune di San Miniato, capace di trattenere almeno 5 milioni di metri cubi d’acqua, impedendo che potessero andare oltre le paratie sistemate dai parà della Folgore nel centro di Pisa, e lo Scolmatore di Pontedera, capace di deviare verso il Calambrone 500-600 metri cubi al secondo di acqua che, viceversa, avrebbero sommerso il centro storico pisano» (5). Il fatto è che le casse di espansione, previste anche a monte di Firenze, fanno parte di quel 75% dei lavori non ancora realizzati; anche per questa ragione, gli abitati a nord della città, come Lastra a Signa, sono stati invasi dall’esondazione dell’Arno che, in questo modo, e questa volta, ha risparmiato Firenze. Ha fatto un certo effetto vedere i parà dell’esercito sistemare sui lungarni di Firenze e Pisa le paratie e i sacchi di sabbia per alzare gli “argini” nel tentativo di impedire che l’Arno esondasse in città... Siamo nel 2019, e sono ancora nelle condizioni di intervenire contro la violenza di un fiume in piena con i sacchi di sabbia? Capaci di fare progetti ultramiliardari con l’applicazione delle tecniche più innovative, ma all'atto pratico si illudono di sconfiggere il “mostro” coi sacchi di sabbia; è come cercare di spegnere un grosso incendio coi secchi d’acqua...

Il Seveso è uno dei tre fiumi che attraversano Milano e che esonda tutti gli anni; dal 1976 ci sono state 107 esondazioni, di cui 8 soltanto nel 2014: «il Seveso – dichiara Luigi Mille, direttore dell’Agenzia interregionale per il Po – è anche un esempio di come non comportarsi accanto a un fiume. Con un’urbanizzazione al 95%, il drenaggio naturale offerto dalla campagna scompare. Tutta l’acqua che cade incontra il cemento e finisce nel fiume», e il fiume scarica le sue acque nelle città che attraversa. Ma decementificare significherebbe abbattere una gran parte delle città... cosa che la società del capitale non solo non farà mai, ma coglierà ogni occasione per aumentare il consumo del suolo, come fa da decenni, per poi mettersi a posto la coscienza piantando magari un po’ di alberi...

A Genova, dichiara il già citato Erasmo D’Angelis (ora segretario generale dell’Autorità di bacino dell’Appennino Centrale), «i fiumi che scendono dai monti, soprattutto Fereggiano e Bisagno, arrivano con una sezione di cento metri e vengono costretti in canali sotterranei di quindici metri. E’ naturale che facciano danni». Visto che nessuna istituzione cittadina o regionale, e tanto meno lo Stato centrale, se la sentiva di radere al suolo la parte della città attraversata da questi due fiumi per ridare loro i cento metri di larghezza necessari per sfociare in mare senza far danni, hanno in ogni caso deciso di fare qualcosa per tamponare le situazioni più estreme, come «alzare le coperture dei fiumi tombinati e di completare lo scolmatore del Fereggiano», fino a quando il prossimo disastro non dimosterà che queste opere di tamponamento non sono servite a risolvere la questione. Nel 1970, Genova fu colpita da una catastrofica alluvione (44 morti, 2000 sfollati), ed è in seguito a questo disastro che fu pensato lo scolmatore del Fereggiano; dopo 50 anni stanno ancora a pensare di completarlo... e una volta terminato è certo che non servirà a risolvere il problema delle alluvioni a Genova perché la città intanto ha continuato ad allargarsita fin sulle colline, sbancando, disboscando e cementando selvaggiamente. Nel frattempo, si sono avute alluvioni nel 1971, nel ‘77, nell ’84, nell ’89, nel ‘92, ’93 e ’94, nel ’97, ’98 e ‘99, nel 2002, 2006, 2007, 2010, nel 2011, nel 2014, col solito bagaglio di danni e di morti. Insomma, contando solo il periodo dal 1970 ad oggi, per le frane e le alluvioni non solo a Genova, ma in tutta la Liguria, il triste bilancio è di oltre 100 morti, una cinquantina di feriti e di 10.000 sfollati e senzatetto (6).    

Mentre Venezia finiva sott’acqua a causa dell’eccezionale alta marea, giunta a 187 cm, e di cui trattiamo in un altro articolo in questo numero, Matera, “città patrimomio dell’Unesco”, “capitale europea della cultura per il 2019”, la mattina dello stesso 12 novembre scorso, veniva colpita da un violento nubifragio, accompagnato da un vento a 150 km/h e la zona dei famosi Sassi finiva sommersa da fiumi di fango. Nessuna vittima, fortunatamente, ma i danni sono ingenti.

Basta scandagliare i diversi siti internet per rendersi conto che le alluvioni e le frane, in questo periodo di ottobre-novembre, riguardano l’80% del territorio italiano. Le cronache si rincorrono da una città all’altra, da una regione all’altra. Nel Modenese, a Massa Finalese cede un tratto dell’argine di un canale e si allaga tutta la campagna circostante; a Budrio, vicino a Bologna, il fiume Idice rompe gli argini ed esonda allagando strade, case, campagne; e così a Modena e in gran parte dell’Emilia Romagna, nel forlivese e cesenate, nel riminese, nel ferrarese ma anche nel parmense, dove si registrano frane nelle aree appenniniche. Nonostante la sua piena, quest’anno il Reno non ha provocato danni come nei decenni scorsi, e questo, secondo l’assessore regionale alla protezione civile Paola Gazzolo, lo si deve al fatto che «sul bacino del Reno, dove negli ultimi 15 giorni è sceso un terzo della pioggia che in media si registra nel corso di un anno, un ruolo fondamentale per gestire e contenere la piena è stato svolto dall’ottimo funzionamento della Cassa di espansione di Boschetto, dalle manovre idrauliche che hanno permesso di scolmare l’acqua del fiume verso il Po con l’impiego del Cavo Napoleonico e dall’invaso trattenuto dal Lago di Suviana, nella parte a monte» (7). Ossia, finalmente la cassa di espansione di Boschetto ha reso il servizio per cui è stata fatta, ma la sovrabbondante acqua ha dovuto essere deviata sul Po, che a sua volta era in piena, cosa che allarmava moltissimo le province emiliane di Reggio, Modena, Bologna, Ravenna, Ferrara e, naturalmente, il Rodigino nel Polesine. E così, soprattutto a Reggio, a Ferrara e a Rovigo, i vari sindaci hanno dovuto, per l’enensima volta, disporre lo sgombero dei locali e degli edifici più vicini al letto del fiume e l’evacuazione delle case nelle aree golenali. Eh sì, nelle aree golenali, che sono, per natura, a disposizione dei fiumi quando sono in piena, e dove non si dovrebbe mai costruire nulla, né case, né ricoveri per animali, proprio perché in caso di piena vengono sommersi dall’acqua causando danni e morti. Ma siamo in un paese in cui si costruisce perfino nel letto dei torrenti, e non solo nei paesini. E ancora in Toscana, come ad esempio a Grosseto, dove la piena del fiume Ombrone ha provocato l’evacuazione di duemila abitanti a ridosso del fiume; o in Val d’Elsa e a Cecina dove più di 500 persone sono state evacuate. Per non parlare della Sicilia o della Calabria, di cui tv nazionali e grandi quotidiani non parlano se non quando ci sono dei morti: eh già, questi sì che “fanno notizia”!

Nubifragi, esondazioni, frane, crolli e allagamenti, con molte strade trasformate in fiumi di acqua, fango e detriti e gente salita sui tetti. La Sicilia orientale è stata  travolta dall’ondata di maltempo. Particolarmente colpite le province di Catania e Siracusa. Non risparmiati neppure l’Ennese, il Ragusano e il Messinese. Strade in tilt, binari allagati, voli dirottati. La Coldiretti «lancia l’allarme per agrumi e ortaggi sommersi dall’acqua, muri di contenimento ceduti, torrenti straripati così come il fiume San Leonardo che ha devastato le colture del territorio nella provincia di Siracusa, soprattutto in alcune contrade. In alcune aziende è andato perduto il 100 per cento di agrumi, così come gli ortaggi. Il danno, sottolinea Alfio Di Giorgio, presidente della sezione Coldiretti di Carlentini (Siracusa), “è totale”. Tutti gli alberi “sono sommersi, così come le strutture e gli impianti. Il problema è causato sì dalla pioggia, ma soprattutto dalla mancata manutenzione degli argini. In 50 anni mai nessuno ha provveduto. Danni ingenti anche nel catanese a Palagonia e Ramacca” » (8).

La pioggia torrenziale caduta a Reggio Calabria nella notte del 24 novembre ha allagato la città, e in modo particolare le zone centrali e meridionali con tanto di auto sommerse da un’acqua altissima. In ogni caso non si è trattato di eventi meteorologici eccezionali: è caduto un decimo della pioggia caduta il 23 a Genova, meno della metà di quella caduta a Torino, ma la cattiva gestione del territorio e la mancanza di adeguate misure di prevenzione per il corretto deflusso delle acque, determina serie criticità  a fronte di una normale notte di pioggia! (9). 

A Napoli e in Irpinia le cose non vanno meglio. Lunedì 4 novembre a Napoli allerta gialla, parchi chiusi, disagi in circumvesuviana, terra, pezzi di alberi e sassi sui terrazzi, ma per fortuna, nessun ferito. Allagamenti e frane anche in Irpinia, dove il  fango ha invaso il centro abitato di Santo Stefano del Sole e nel Casertano. A Nocera evacuate 200 famiglie. Legambiente Campania dichiara che dal 2010 si sono avuti  «29 eventi estremi, tra cui 6 trombe d’aria, 6 allagamenti da piogge intense, 12 episodi di danni consistenti a infrastrutture o al patrimonio storico, 4 esondazioni fluviali e una frana» (10).

Le notizie di fiumi esondati, di frane e di mareggiate si sono rincorse per tutto ottobre e novembre, e non si fermano nemmeno a dicembre. I quotidiani parlano di 11 regioni italiane coinvolte. Città e regioni dichiarano lo “stato di calamità”, ma a chi si rivolgono? Allo Stato naturalmente, dopo che nessuna istituzione, Stato compreso, si è mai preoccupata di mantenere tutte le promesse fatte di fronte ad ogni catastrofe. I danni alle infrastrutture, agli edifici, alle campagne, alle attività agricole e industriali, e i relativi morti, feriti, sfollati, non sono che oggetto di articoli sui giornali, di servizi televisivi e radiofonici, di dibattiti, di talk show, di discorsi dei leader politici per le proprie campagne elettorali, ma non diventano mai esperienze da cui trarre lezioni da trasformare in azioni di reale prevenzione. Da una parte ci sono gli “esperti”, i geologi, i climatologi, gli ingegneri, gli architetti che riempiono milioni di pagine individuando le cause dei danni e dei morti, e talvolta indicano quali misure prendere per evitare tutto questo, quali interventi vanno fatti e quali no, che cosa costruire e dove e che cosa non costruire; da un’altra parte ci sono gli “esperti”, i geologi, i climatologi, gli ingegneri, gli architetti che riempiono milioni di pagine per spiegare come “riparare” i danni, come costruire in modo diverso, con altri materiali, per interventi cento volte più grandiosi che inglobano ciò che è stato fatto in precedenza. E poi ci sono i geologi, i dottori agronomi e forestali che rilevano dati, elaborano statistiche, fanno rapporti minuziosi sulla estrema fragilità del territorio italiano, mettono in evidenza i rischi e denunciano la mancanza di prevenzione... ma naturalmente sono in generale inascoltati; al massimo sono consultati per tamponare le falle più grosse. Dal Gleno al Vajont, dall’abusivismo al Mose, dall’urbanizzazione gigantesca alle deforestazioni, è una sequenza impressionante di stupri causati al suolo, ai territori, all’ambiente. E tutto in nome della crescita economica, dell’economia che deve “girare”, del capitale che deve valorizzarsi, sennò tutto si perderebbe, aumenterebbe la disoccupazione, la povertà, il declino del paese, e la civiltà verrebbe sepolta. Ma è proprio la civiltà capitalistica la causa prima di tutte le catastrofi innaturali che colpiscono l’umanità in ogni luogo in cui vive.

 


 

(1) “Italia sicura svolgeva un lavoro di integrazione di competenze e di coordinamento dei ministeri dell’Ambiente, delle Infrastrutture, dell’Agricoltura, dei Beni culturali, dell’Economia, e poi anche delle Regioni e di altri 3.600 enti sparsi sul territorio sul tema delle opere di contrasto al dissesto idrogeologico”, spiega Erasmo D’Angelis a ilfattoquotidiano.it, del 12 luglio 2018.

(2) Cfr. E’ il paese delle frane, di G. Belardelli, in www.huffingtonpos.it/entry/paese-delle-frane_it_ 5ddadc38e4b00149f71e961c??ncid =newsltihpmgnews

(3) Cfr. W. Palmieri, Le catastrofi rimosse, www.rivistameridiana.it. Palmieri è un ricercatore dell’Ismed-Cnr che studia in particolare il Mezzogiorno italiano e il dissesto idrogeologico.

(4) Ibidem.

(5) Cfr. https://www.firenzepost .it/2019/11/18/arno-cosa-fare-per-evitare-l’incubo-alluvione-a-firenze-pisa-e-due-terzi-della-toscana/

(6) Cfr. https://www.tgcom24.mediaset .it/cronaca/liguria/alluvione-genova-una-storia-che-si-ripete-uguale-da-50-anni_2073147201402a.shtml, e http://www.meteoweb.eu/2011/11/ alluvione-genova-non-centrano-i-cambiamenti-climatici-fenomeni-cosi-ci-sono-sempre-stati/96520/

(7) Cfr. https://www.ilrestodelcarlino.it/meteo/maltempo-emilia-romagna-1.4893327

(8) Cfr. https://www.agi.it/cronaca/aggiornamento_sicilia_furia_maltempo_situazione-4509856/ news/2018-10-19/

(9) Cfr. https://www.strettoweb.com/foto/2019/11/maltempo-reggio-calabria-allagata-

(10) Cfr. https ://napoli.repubblica.it /cronaca/2019/11/03/news/napoli_ maltempo- 240 12854 2/

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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