Coop 25: cambiamenti climatici e catastrofe capitalista

(«il comunista»; N° 163 ; Marzo 2020)

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Questo articolo, pubblicato nel nostro "el proletario", n. 19, genn. 2020, si riferisce al cosiddetto "vertice sul clima" indetto dall'Onu (i paesi partecipanti erano circa 200, compresi Usa, Brasile, Cina, India ecc., i cosiddetti "negazionisti"). Gli argomenti qui svolti non hanno alcun bisogno di essere "aggiornati" rispetto al Forum Economico Mondiale di Davos, tenutosi a gennaio di quest'anno. Il fallimento di Coop 25 si è prolungato anche  a Davos, dove erano presenti 24 banche d'importanza mondiale che, in totale, hanno investito 1.400 miliardi di dollari in combustibili fossili. Non c'è molto da aggiungere...  

 

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Durante la prima quindicina del dicembre scorso, si è tenuto in Spagna il XXV incontro dei partecipanti alla Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Coop 25). Com’è noto, questo incontro si sarebbe dovuto tenere in Cile, ma il clima di tensione sociale, con massicce manifestazioni di strada, con la polizia e l’esercito che pattugliavano le città più importanti del paese, col coprifuoco e le decine di morti... hanno consigliato alle aziende e agli Stati partecipanti di spostare l’evento in un luogo più tranquillo. Così è stata scelta Madrid come sede sostitutiva ed è stato lanciato un vero circo in cui il comune, i governi autonomo e nazionale, sostenuti da decine di società sponsor, hanno investito decine di milioni di euro per garantire un evento all’altezza degli illustri visitatori attesi nella capitale.

Oltre allo spettacolo organizzato alla fiera di Madrid, dove hanno trovato spazio personaggi come il piccolo Nicolás e gli autoproclamati “deputati del clima” del partito Más Madrid, la parte sociale del vertice era guidata dall’arrivo a Madrid di Greta Thunberg, giovanissima campionessa della lotta giovanile contro i cambiamenti climatici e, allo stesso tempo o proprio per questo motivo, un’icona mediatica di spicco. Thunberg ha partecipato all’evento attraversando l’Atlantico in un’imbarcazione non inquinante e, poi, in treno per arrivare da Lisbona a Madrid per essere accolta nella capitale dalle autorità locali e da un’enorme manifestazione, soprattutto di giovani in età scolare, che  ha superato il numero di partecipanti previsti dagli stesso organizzatori.

Tanto dal punto di vista politico istituzionale quanto da quello sociale contestatario, i quindici giorni della Coop di Madrid hanno mostrato una vasta gamma di posizioni riguardo ai cambiamenti climatici, evidenziando che si tratta di un tema sul quale tutti erano sostanzialmente d’accordo. Con “tutti”, vogliamo dire la stampa, la casta politica, il mondo degli affari, la diffusa e trasversale “società civile” ecc., ossia tutti coloro che sono disposti a gridare contro i cambiamenti climatici  chiamando a responsabilizzarsi ogni cittadino, sulle cui spalle grava la colpa di contribuire, attivamente o passivamente, ma sempre colpevolmente, al progressivo degrado del pianeta. Da parte delle istituzioni - protette dalle società sponsor che hanno colto l’occasione per lanciare una forte campagna di propaganda in cui si sono presentate come campioni della difesa della natura - i cambiamenti climatici e il problema dei rapporti dell’essere umano con la natura, in generale, sono stati presentati come uno slogan propagandistico, a metà strada tra la ripulitura dell’immagine attraverso una pratica economica, che, ovviamente, peggiora il processo di riscaldamento globale, e una visione illusoria dei rimedi al riscaldamento climatico attraverso la cooperazione. Dal punto di vista “sociale”, si è tentato di fornire una visione alternativa del problema, affermando che la stessa responsabilità collettiva di cui gli Stati e le aziende hanno insistentemente parlato per quindici giorni, potrebbe essere considerata un compito per l’attivismo ambientale.

Per entrambe le parti, il cambiamento climatico è una fantastica opportunità per lanciare un unico messaggio: il problema del degrado ambientale colpisce l’intera specie umana e, quindi, è l’umanità intera che deve rispondere... indipendentemente dalla razza, dal sesso... e dalla classe sociale. Aziende come Endesa, governi come quello spagnolo o attivisti sociali di ogni tipo hanno un unico obiettivo. Gli uni vogliono realizzarlo proprio attraverso l’attività aziendale abbellita da “responsabilità corporativa”, gli altri ponendo limiti a queste aziende... ma sempre in collaborazione con loro e con i diversi Stati a cui affidare il controllo delle loro attività. In poche parole, esiste un accordo assoluto sul fatto che “la popolazione” si mobiliti per introdurre le necessarie riforme politiche ed economiche per frenare il cambiamento climatico.

 

Capitale e risorse limitate

 

A livello economico, come a livello politico e sociale, il capitalismo è apparso sul proscenio della storia come un “raziona-lizzatore”. Rispetto allo sperpero delle classi superiori feudali, rispetto all’inefficienza dei rapporti di produzione che caratterizzavano le forme sociali precapita liste, il modo di produzione capitalistico appariva, almeno nella propaganda dei suoi grandi apologeti, come un sistema che permetteva di organizzare nel miglior modo possibile tanto l’attività produtiva, quanto le risorse – naturali e umane – necessarie ad essa. La libertà d’impresa, di movimento, di contrattazione ecc. eviterebbe all’industria produttiva di languire, mentre il lavoro improduttivo, dedicato esclusivamente a coprire i bisogni più superficiali delle classi dominanti feudali, vedrebbe soddisfatte tutte le sue esigenze. Per bocca di Adam Smith o di David Ricardo, così come per bocca di Rousseau o di Montesquieu, la nascente classe borghese sollevò aspre critiche contro i sistemi (feudale, asiatico o naturale) che venivano considerati disorganizzati e irrazionali.

Infatti, se qualcosa caratterizzava i modi di produzione precapitalisti erano la mancanza di profitto che veniva estratto dalle risorse disponibili, lo sperpero di pochi e l’incapacità di raggiungere standard di vita al di sopra della sopravvivenza per la maggior parte della popolazione. I fenomeni caratteristici del mondo feudale, ad esempio, furono le crisi agrarie che diffusero la fame in Europa e in Inghilterra o la concentrazione di grandi quantità di ricchezza e di lusso nelle mani delle classi dominanti mentre i metalli, come l’oro, che erano necessari per il commercio, scarseggiavano. Detto questo, la classe borghese commerciale delle città e i proprietari agricoli delle campagne con interessi già di tipo capitalista, apparvero davanti al resto delle classi sociali subalterne del mondo feudale come i difensori dell’ottimizzazione delle risorse, attraverso le quali i mali endemici della società classista feudale dovevano scomparire.

È evidente, a quasi trecento anni di distanza, che il trionfo della borghesia sulle classi dominanti  feudali e lo sviluppo mondiale del modo di produzione capitalistico non ha portato né equilibrio, né ordine, né razionalizzazione economica. Se nel mondo feudale grandi masse di popolazione vivevano in economie agricole con un rendimento molto basso, se gran parte di questa popolazione rimaneva necessariamente inattiva per buona parte dell’anno, affrontando la fame e le malattie come un destino stabilito dalla provvidenza, il mondo capitalista ha portato con sé il fenomeno della disoccupazione proletaria, della creazione di un esercito di riserva industriale di lavoratori disoccupati che oggi è esteso in tutto il pianeta. Mentre l’emergere della grande industria, lo sviluppo tecnico e scientifico, la mobilitazione della manodopera, prima a livello nazionale e poi mondiale, sono effettivamente le basi per un uso razionale delle risorse necessarie per garantire un’esistenza dignitosa per tutti gli esseri umani, il sistema di proprietà capitalista è invece un ostacolo insormontabile che vanifica questa possibilità.

La borghesia, che ha concluso la sua fase rivoluzionaria cent’anni fa, ora è costretta ad affrontare una situazione simile a quella affrontata dalle classi dominanti feudali: le risorse necessarie per garantire l’esistenza dell’intera popolazione diventano scarse, mentre la ricchezza si accumula sulla cuspide della piramide sociale a livelli simili a quelli di cui godeva l’antica nobiltà. E, in effetti, sia le risorse naturali che quelle umane sono sprecate ed esaurite: la forza lavoro disoccupata cresce ogni giorno, includendo non solo il classico esercito di riserva industriale euro-americano, ma anche gli immigrati provenienti da regioni del mondo meno sviluppate in termini capitalistici, che sono spinti verso le grandi metropoli centrali cercando semplicemente di non morire di fame, né loro né le loro famiglie; le stesse risorse naturali, che solo pochi decenni fa sembravano infinite, ora diventano, improvvisamente, scarse e il loro punto critico si colloca nei prossimi decenni. Se i livelli di produzione delle industrie pesanti e leggere raggiungono quote record ogni anno, alla popolazione, trasformata per la maggioranza in proletari, non può nemmeno essere garantito un salario, una paga mensile, che le permetta di raggiungere anche solo il livello di sussistenza, mentre le risorse naturali non sono più sufficienti. Si investe sempre di più, per ottenere di meno. Si sacrificano la forza lavoro e le risorse naturali per non ottenere nulla in cambio. Il mondo, sazio di ricchezza capitalista, muore di fame e di sete ed è senza aria da respirare.

Il cambiamento climatico, che oggi è sulla bocca di tutti i politici, i giornalisti, gli “attivisti sociali” ecc., è la conferma che il capitalismo può garantire solo la liquidazione dell’umanità a meno che non finisca prima lui. Non tanto perché i suoi leader sono persone malvagie e affamate di ricchezza che non hanno alcun tipo di scrupolo, ma perché la loro stessa natura di borghesi li costringe ad essere vettori di distruzione. Allo stesso modo in cui non può vivere senza vampirizzare il plusvalore che estorce dal lavoro salariato, non può garantire che la concorrenza tra imprese – sempre bisognosa di ottenere un margine di profitto che consenta loro di rimanere a galla, anche se per un breve periodo – non esiga che le risorse naturali disponibili vengano sacrificate per raggiungere questo obiettivo. Comprendiamoci bene, non è che il capitalismo distrugge allo stesso modo il lavoro salariato proletario e le risorse naturali: la fonte di ricchezza della società capitalista sta nello sfruttamento del lavoro salariato, sulle cui spalle poggia la produzione di merci, il profitto e l’utile d’impresa. La natura, l’ambiente e le risorse naturali sono fattori necessari alla produzione, che vengono consumati voracemente, ma da cui non si ottiene ricchezza se non attraverso la forza lavoro proletaria che li modifica trasformandoli in merci e capitali. Dati l’aumento della concorrenza tra le imprese, la riduzione del tasso medio di profitto che ottengono ecc., la loro reazione è quella di aumentare lo sfruttamento della forza lavoro (il lavoro vivo) per valorizzare il capitale investito ed aumentare la massa di capitale fisso (il lavoro morto) sul quale continuare a sfruttare la forza lavoro salariata, in una spirale senza fine, andando incontro ciclicamente a crisi economiche sempre più devastanti; ma tutto ciò avviene con un crescente, squilibrato e devastante consumo di risorse naturali, sotto forma di materie prime, che provoca un inevitabile degrado ambientale, come, alla stessa stregua, provoca il degrado della vita umana.

 

I cambiamenti climatici e il problema del territorio

 

 La forza lavoro viene distrutta riducendo, in generale, il suo tenore di vita al di sotto dei livelli di sussistenza sia per l’eccessivo sfruttamento di ciò che viene impiegato nel processo di produzione, sia per la sottoutilizzazione di ciò che è al margine di questo processo. L’ambiente è distrutto dall’abuso delle risorse naturali necessarie per il processo di produzione capitalistica. Ma questa distruzione delle risorse naturali ha un altro aspetto che deve essere affrontato.

Mentre lo sfruttamento del lavoro salariato ha dimostrato di poter essere intensificato al massimo per mantenere i livelli di profitto richiesti dalla riproduzione del capitale, non tanto per sfruttare masse proletarie sempre più vaste (cosa che ha un suo limite nel fatto che la popolazione umana da proletarizzare e sfruttare è necessariamente limitata), ma in forza degli sviluppi tecnici e scientifici che hanno messo il capitale nelle condizioni di aumentare sempre di più la produttività del lavoro, mentre le risorse naturali, attraverso applicazione di conoscenze scientifiche possedute o in via di scoperta, sono suscettibili di essere aumentate solo con un piccolo margine. Le foreste si esauriscono molto prima della forza lavoro, e con loro l’aria respirabile. L’atmosfera, intesa come ricettacolo per le emissioni di gas serra generatodalla grande industria, ha una capacità limitata. E così via, il che implica che, mentre le grandi società capitaliste hanno interesse ad aumentare lo sfruttamento proletario catturando una maggiore quantità di forza lavoro attraverso lo sviluppo tecnologico, cioè usando sempre meno proletari ma in un modo più intenso e a ritmi più elevati, esse devono, d’altra parte, appropriarsi della maggior quantità di risorse naturali disponibili ponendole sotto la loro proprietà. Sfruttamento intensivo a fronte di appropriazione estesa. Semplificando al massimo, si può dire che il lavoro salariato, idealmente, potrebbe essere sfruttato con un’intensità che tende all’infinito, mentre le risorse naturali avrebbero un chiaro limite.

Ciò implica che il peso del lavoro nella produzione capitalista si riflette nella produzione dei beni-merci in due modi: determinando tanto il loro prezzo, necessario per reinvestire nel lavoro dei proletari garantendo la loro sopravvivenza, quanto segnando il livello di plusvalore (base del profitto) estraibile dalla produzione. Pertanto, le aziende competono tra loro aumentando lo sfruttamento del lavoro per ridurre il prezzo delle merci prodotte e metterle sul mercato a scapito dei prodotti dei loro concorrenti. Il plusvalore estratto potrebbe persino aumentare al diminuire dei prezzi.

Ma con le risorse naturali non accade lo stesso: il loro consumo, necessario per la produzione, avviene al prezzo della merce che tende inevitabilmente ad aumentare.  Il loro utilizzo può essere ottimizzato, ma il loro rendimento non può essere aumentato in modo esponenziale, come nel caso della forza lavoro salariata e, pertanto, l’utilizzo di queste risorse nella produzione è praticamente proporzionale al prezzo. Se a ciò aggiungiamo che le risorse naturali sono limitate e non esiste un modo noto per aumentarne la quantità esistente e, secondo l'elementare legge della domanda e dell’offerta, quando queste risorse vanno in esaurimento il loro prezzo aumenta. Accade, così, che la distruzione di queste risorse naturali a causa del loro eccessivo sfruttamento ha un peso “antieconomico”, cioè aumenta i prezzi finali di merci e capitali, riduce il margine di profitto delle industrie produttive ecc., ma, per i detentori di queste risorse, la loro distruzione è redditizia: meno ce ne sono, più varranno comunque. Si sviluppa, quindi, la lotta per monopolizzare la proprietà delle risorse naturali (petrolio, terre rare, acqua, litio, cobalto, gas naturale ecc.). E la stessa cosa si ripercuote nel settore agricolo per il quale le estensioni di terra per la coltivazione della soia, della frutta, del caffè ecc., o per l’allevamento del bestiame, ha lo stesso valore delle risorse minerali o metallifere. 

Le grandi aziende che le controllano attraverso l’azione dei loro Stati non vedono diminuire i loro profitti. Per di più, ottengono vantaggi nella concorrenza perché possono evitare aumenti di prezzo per i prodotti derivati  †dalla carenza di materie prime che sono le risorse naturali. Se prendiamo in considerazione che nel capitalismo imperialista i grandi trust, il capitale finanziario ecc., hanno assemblato le diverse fasi della produzione in grandi consorzi di produzione, vediamo che l’aumento del prezzo delle materie prime, ovvero la distruzione delle risorse naturali, rappresenta una straordinaria fonte di rendita proprio per le aziende impegnate nelle produzioni che richiedono queste risorse. Una catena unisce, ininterrottamente, l’industria metallurgica americana con l’estrazione di materie prime in tutto il mondo. Con l’aumentare del prezzo di queste, il controllo da parte dell’industria americana diventa una sua straordinaria fonte di reddito, consentendole al contempo di competere a condizioni più vantaggiose rispetto ai suoi concorrenti.

Nel caso del cambiamento climatico, per osservare questa relazione, basta invertire i termini. Qui la risorsa naturale, la materia prima è l’ambiente stesso, che supporta una quantità limitata di produzione fino a quando questa la distrugge. La capacità tecnica di produrre più dei concorrenti, implica la capacità di nutrirsi della risorsa limitata, esaurendola. A ciò si aggiunge la capacità di imporre leggi nazionali e internazionali che garantiscano una quota fissa di questa risorsa, ad esempio con gli accordi di Kyoto, a seconda della potenza industriale di un paese, cioè di riservare alla sua industria nazionale una parte più grande possibile delle risorse naturali, in questo caso l’atmosfera. La capacità di utilizzare questa risorsa naturale la rende scarsa e, pertanto, costituisce una fonte di reddito. Le leggi volte a ridurre il livello di emissioni in ogni paese, cercano di evitare i monopoli e la concentrazione del reddito in poche mani, ma la forza dei fatti, il potere economico, politico e militare delle principali potenze imperialiste garantiscono che siano i grandi poteri imperialisti a controllare questa risorsa. Man mano che l’atmosfera, la capacità di inquinarla, diventa sempre più limitata, il beneficio derivante dalla possibilità di farlo è maggiore. Il senso antieconomico iniziale è stato invertito, c’è uno straordinario vantaggio derivante dal monopolizzare la scarsa risorsa (e il monopolio aumenta con la scarsità).

Questo breve riassunto, con il quale non intendiamo esaurire l’argomento, mira a focalizzare la questione: il problema del cambiamento climatico, come in generale quello di qualsiasi risorsa naturale limitata, deve essere spiegato, in termini economici, dalla teoria della rendita della terra. Non è un caso speciale e non c’è modo di distinguerlo dai termini generali in cui questo problema è stato studiato sia da David Ricardo che da Marx. Non si tratta di un problema economico extracapitalistico, pertanto può essere affrontato con gli stessi criteri di studio utilizzati per l’intero modo di produzione moderno e, quindi, porta alle stesse conseguenze, sia dal punto di vista della critica che da quello dell’azione sociale, come quello dell’analisi di qualsiasi altra sua variante. In effetti, tutte le questioni accessorie che appaiono attorno al dibattito sui cambiamenti climatici e sul riscaldamento globale, come la presunta sovrappopolazione, la distruzione delle basi agricole dell’umanità ecc., non solo possono riferirsi al problema della terra nella visione marxista in modo generale, ma sono stati esplicitamente trattati in molte occasioni dallo stesso Marx, ad esempio nella sua critica ai postulati maltusiani.

 

Riformismo climatico

 

La borghesia rivoluzionaria ha portato nel suo programma la soppressione del caos economico feudale e la liberazione delle forze produttive che dovevano condurre alla fine della schiavitù umana esistente sotto la nobiltà, la monarchia e la Chiesa. La sua incapacità di svolgere questi compiti come conseguenza del modo di produzione capitalista sul cui sviluppo ha fondato la sua stessa esistenza come classe, ha lasciato il posto non solo al movimento della classe proletaria che, sin dal suo inizio durante le stesse rivoluzioni borghesi del secolo XIX, svolse, in teoria e in pratica, le critiche all’economia politica borghese, ma anche all’emergere di alcune correnti politiche che scoprirono che la lotta tra classi, derivante dallo sfruttamento economico e dall’oppressione politica, con l’estensione del capitalismo stava peggiorando e perciò proponevano dei miglioramenti per attenuare i suoi eccessi.

Queste correnti, espressioni dell’inquietudine delle classi medie che videro le loro condizioni di esistenza tradizionali attaccate dallo sviluppo dell’industria moderna, dalla concentrazione della proprietà privata in poche mani e dallo sviluppo della classe proletaria, affermavano che, sulla base dello stesso modo della produzione capitalista, si potesse innestare una serie di riforme che garantissero il suo sviluppo armonioso.

La base del programma politico ed economico di queste correnti riformiste è sempre stata la richiesta di collaborazione tra le classi sociali: la borghesia ha dovuto condividere parte del potere conquistato, senza perdere il dominio sociale sul resto delle classi. Il proletariato, d’altra parte, ha dovuto adempiere alla sua funzione sociale aspirando ai miglioramenti che potevano essere concessi gradualmente. Questa posizione cercava di evitare la catastrofe capitalista, le conseguenze più tragiche di un modo di produzione basato sull’appropriazione privata della ricchezza sociale, dalle guerre tra Stati alle catastrofi naturali, che sono sempre state nell’orizzonte del mondo borghese.

Mentre per la classe proletaria, come afferma il marxismo dal 1848, la catastrofe capitalista è la conferma della necessità della lotta di classe fino all’abbattimento della classe borghese dominante e all’instaurazione della dittatura proletaria come l’unica soluzione per porre fine al modo di produzione capitalistico, per le correnti riformiste, che sono riuscite a diventare forti nel suo seno  dominandola ideologicamente e politicamente, questa stessa catastrofe può e deve essere evitata attraverso la collaborazione tra le classi. Senza entrare in una dettagliata esposizione di questa politica di collaborazione, che d’altra parte è svolta continuamente nella stampa di partito e nelle opere storiche della nostra corrente, è sufficiente ricordare la posizione che le correnti riformiste e opportuniste hanno storicamente assunto, ad esempio, prima della guerra imperialista in cui non vedevano la naturale conseguenza dello scontro tra potenze rivali, ma un eccesso del capitalismo che si poteva eliminare e prima del quale, se necessario, la classe proletaria doveva rimanere passiva, limitandosi a sostenere la propria borghesia e con essa il proprio paese e la sua economia nazionale Il caos generato dal modo di produzione capitalista esprime la debolezza della classe borghese dominante, la sua incapacità di governare senza ricorrere agli sforzi sovrumani delle forze produttive, che però si ribellano al quadro giuridico nazionale che le contiene. Il marxismo, la scienza che studia le condizioni di emancipazione del proletariato, ha sempre affermato che è questo caos, questa inevitabile catastrofe, che segnerà la chiamata alla guerra sociale; ed è proprio contro la dottrina marxista che il riformismo ha sempre fatto di tutto per evitare la lotta di classe rivoluzionaria nel momento in cui le condizioni sociali le sono più favorevoli ad essa.

Ecco perché le attuali correnti riformiste, di fronte a problemi come i cambiamenti climatici, sventolano la stessa bandiera della collaborazione tra le classi. Di fronte al modo di produzione capitalistico - che non può fare altro chedistruggere i mezzi naturali di sussistenza che consentono la vita umana sul pianeta - e alle conseguenze della sua natura anti-umana, alla fine delle risorse naturali e, con essa, all’aggravarsi delle difficoltà a mantenere il ciclo di riproduzione del capitale nei termini sopra ricordati, le correnti riformiste che si definiscono ambientaliste, ecosocialiste ecc. chiedono un fronte unito tra la classe proletaria, che costituisce la maggioranza della popolazione, e la borghesia, le sue aziende e i suoi Stati per evitare il “male comune”.

Si parla degli immensi flussi di “rifugiati climatici” che dovranno lasciare le regioni del mondo più colpite dal riscaldamento globale e, invece di vedere in questi flussi la formazione di un esercito di diseredati che faranno saltare la pace sociale esistente nei grandi centri del capitalismo mondiale... parlano di frenare la catastrofe umanitaria…

I borghesi si trovano di fronte ad una crescente difficoltà per le aziende di accedere alle risorse naturali che servono alla produzione di beni e capitali, vedendo diminuire il loro tasso di profitto e, invece di cogliere in questo una situazione oggettivamente favorevole alla futura ripresa della lotta di classe su larga scala, avviano piani di investimento milionari, come quelli che la Germania ha lanciato recentemente, per salvarsi dalla crisi imminente.

Programmi di ripresa economica come il Green New Deal, che ricorda anche nel suo nome il grande flusso di investimenti che la borghesia americana lanciò per uscire dalla crisi del 1929 e che è riuscito solo ad accelerare lo scoppio della seconda guerra mondiale, hanno un’unica missione: rendere lo sfruttamento della classe proletaria sostenibile per la borghesia nei termini in cui esiste actualmente, e aiutare a superare la diga naturale in cui si ritiene che si possa incagliare il modo di produzione capitalistico.

Nonostante ciò che afferma questo moderno riformismo, che conserva però l’essenza dei suoi predecessori, la classe proletaria porterà sulle sue spalle il peso maggiore del degrado dell’ambiente naturale. La cosiddetta “crisi ecologica” non sarà condivisa equamente tra borghesi e proletari. Saranno questi ultimi a soffrire con maggiore intensità dell’inquinamento dell’atmosfera, della mancanza di vita naturale, delle conseguenze del riscaldamento climatico..., come sucede sempre alle classi subalterne della società. I programmi per la crescita e il rilancio del capitalismo di fronte a questa crisi dovrebbero causare al proletariato soltando terrore: non solo deve subire le conseguenze della devastazione ambientale causata dal capitalismo, ma gli viene chiesto di farsi carico della ripresa economica sottoponendosi ad una intensificazione dello sfruttamento della sua forza lavoro.

L’incompatibilità del capitalismo non è solo con un’esistenza più o meno sopportabile, ma con la stessa vita umana, e la subisce la classe proletaria fin dalla sua comparsa nella storia.

Di fronte al capitalismo, e quindi alla classe dominante borghese, la classe del proletariato ha eretto il suo programma rivoluzionario, la sua dottrina politica ed economica, il marxismo, e in molti svolti storici si è ripetutamente sollevata. L’ha fatto ieri, lo farà domani. Di fronte alle prove future di questo sistema di morte e distruzione, la classe proletaria dovrà tornare sul terreno della lotta di classe internazionale, riconnettersi con la sua tradizione storica di lotta anti-borghese, con i mezzi e i metodi della lotta rivoluzionaria per seppellire definitivamente il capitalismo e avviare l’intera società ad un’organizzazione razionale delle forze produttive e alla trasformazione dell’economia, dalla produzione di merci e di capitali alla produzione di beni per soddisfare le esigenze di vita dell’intera umanità. Il comunismo è, in sintesi, la società di specie di domani. Solo la classe proletaria, unica classe rivoluzionaria di questa società, riorganizzandosi sul terreno di classe, lottando contro ogni tendenza borghese, riformista, collaborazionista, e sotto la guida del partito comunista rivoluzionario, in una lotta che non può essere se non internazionalista e internazionale, ha la possibilità di porre fine alla dannosità del mondo borghese, ponendo fine a questo mondo antiumano.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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